Il governo riparta dalla Costituzione Il Fatto Quotidiano, 27 agosto 2019 Il momento è serio: è il momento di essere seri. Non possiamo dire che c’è un pericolo fascista, e subito dopo annegare in quelle incomprensibili miserie di partito che hanno così tanto contribuito al discredito della politica e alla diffusa voglia del ritorno di un capo con “pieni poteri”. I limiti del Movimento 5 Stelle e del Partito Democratico sono tanti, gravi ed evidenti. Ma se, per entrambi, può esistere il momento del riscatto: ebbene, è questo. Da cittadini, da donne e uomini fuori dalla politica dei partiti ma profondamente preoccupati dell’interesse generale, proponiamo di partire dall’adozione di questi dieci punti fondamentali, interamente ispirati al progetto della Costituzione antifascista della Repubblica. E in particolare al suo cuore, l’articolo 3 che tutela le differenze (di genere, di cultura, di razza, di religione) e impegna tassativamente a rimuovere le disuguaglianze sostanziali. È del tutto evidente che ognuno di questi punti comporta un impegno pressante dell’Italia nella ricostruzione di una Unione Europea che provi ad assomigliare a quella immaginata a Ventotene, e cioè in armonia e non in opposizione al progetto della nostra Costituzione. 1. Legge elettorale proporzionale pura: l’unica che faccia scattare tutte le garanzie previste dalla Costituzione. Per mettere in sicurezza la Costituzione stessa: cioè la democrazia. 2. L’ambiente al primo posto: la decarbonizzazione per combattere il cambiamento climatico, l’impegno per una giustizia ambientale, locale e globale, come unica strada per la salvezza della Terra. Dunque: difesa dei beni pubblici: a partire dall’acqua e dalla città. Unica Grande Opera: messa in sicurezza di territorio e patrimonio culturale, nel più stretto rispetto delle regole, e attuata attraverso un piano straordinario di assunzione pubblica. Moratoria di tutte le grandi opere (Tav incluso), e consumo di suolo zero. Un piano per le aree interne e un piano per la mobilità che parta dai territori, dalle esigenze delle persone e dei pendolari. Piano pubblico di riconversione ecologica della produzione e del consumo incentrato sull’efficienza energetica e sul recupero dei materiali di scarto. 3. Lotta alle mafie e alla corruzione. Costruire una giustizia più efficiente investendo risorse, mezzi e personale necessari. Garantire l’autonomia della magistratura e la sua rappresentatività nell’organo di autogoverno. 4. Ricostruzione della progressività fiscale e imposte sulla ricchezza (imposta di successione e patrimoniale) e revisione costituzionalmente orientata della spesa pubblica, a partire dalla drastica riduzione della spesa militare. L’autonomia differenziata, che è di fatto la secessione delle regioni più ricche, va fermata: restituendo invece centralità alle politiche per il Mezzogiorno. 5. La libertà delle donne come metro di un’intera politica di governo: lotta senza quartiere alla violenza sulle donne; perseguire l’obiettivo della parità nella occupazione e salariale; congedo di paternità obbligatoria, asili nido pubblici e gratuiti, assistenza agli anziani e alle persone disabili, campagne per la condivisione dei compiti di cura, etc. 6. Lotta alla povertà: reddito di base vero (diretto a tutti coloro che percepiscono meno del 60 % del reddito mediano del Paese, accompagnato da politiche attive del lavoro e interventi formativi volti alla promozione sociale e civile della persona), e attuazione del diritto all’abitare. 7. Parità di diritti per tutti i lavoratori e le lavoratrici (ovunque e comunque lavorino), a partire dal diritto soggettivo alla formazione per tutto l’arco della vita. Lotta alla precarietà, salario minimo e ripristino dell’articolo 18. 8. Progressivo rifinanziamento del Fondo sanitario nazionale e programma di assunzioni di operatori e professionisti del Servizio sanitario nazionale, i cui standard devono essere omogenei e non differenziati per regione. 9. Abolizione del reato di immigrazione clandestina, abrogazione dei decreti sicurezza e politica di accoglienza verso i migranti orientata sulla Costituzione e sull’assoluto rispetto dei diritti umani. 10. Restituire scuola e università alla missione costituzionale, negata dalla stratificazione di pessime riforme: formazione dei cittadini e sviluppo del pensiero critico. Sottoscrivono: Velio Abati, Angela Barbanente, Piero Bevilacqua, Anna Maria Bianchi, Ginevra Bompiani, Adrian Bravi, Carlo Cellamare, Luigi Ciotti, Francesca Danese, Vezio De Lucia, Gianni Dessì, Donatella Di Cesare, Paolo Favilli, Giulio Ferroni, Goffredo Fofi, Nadia Fusini, Luca Guadagnino, Maria Pia Guermandi, Francesca Koch, Ernesto Longobardi, Maria Pace Lupoli, Laura Marchetti, Franco Marcoaldi, Lorenzo Marsili, Alfio Mastropaolo, Ignazio Masulli, Tomaso Montanari, Rosanna Oliva, Francesco Pallante, Enzo Paolini, Pancho Pardi, Rita Paris, Valentina Pazè, Livio Pepino, Tonino Perna, Anna Petrignani, Antonio Prete, Mimmo Rafele, Andrea Ranieri, Lidia Ravera, Marco Revelli, Pino Salmè, Battista Sangineto, Loretta Santini, Giuseppe Saponaro, Enzo Scandurra, Beppe Sebaste, Toni Servillo, Paola Splendore, Corrado Stajano, Sarantis Thanapoulis, Alessandro Trulzi, Nicla Vassallo, Guido Viale, Vincenzo Vita. Revenge porn, perimetro esteso. Fino a nove anni anche a chi diffonde contenuti altrui di Nicola Pietrantoni Italia Oggi, 27 agosto 2019 La legge Codice rosso (69.2019) accelera i tempi di intervento del pubblico ministero. Realizzare e diffondere immagini o video sessualmente espliciti, senza il consenso delle persone che vi sono rappresentate, fenomeno conosciuto anche con l’espressione revenge porn, è ora un delitto punito con la pena della reclusione che può arrivare fino a nove anni nel caso la vittima sia una persona in condizioni di inferiorità fisica o psichica, oppure una donna in stato di gravidanza. Il medesimo trattamento punitivo è riservato anche a coloro che non hanno realizzato quei contenuti ma che, dopo averli ricevuti o acquisiti, hanno proceduto al loro invio, consegna, cessione, pubblicazione o diffusione al fi ne di recare nocumento alle persone raffigurate o riprese. Questa e altre novità sono contenute nel c.d. Codice rosso (legge 19 luglio 2019, n. 69), entrato in vigore lo scorso 9 agosto, con cui il legislatore è intervenuto sul codice penale e di procedura penale con l’obiettivo di offrire maggiori tutele alle vittime di violenza domestica e di genere. Sul versante del diritto sostanziale, infatti, si registrano l’inasprimento del regime sanzionatorio di alcune fattispecie di reato già previste e punite dal codice penale (violenza sessuale, atti persecutori e maltrattamenti) e l’introduzione dei seguenti nuovi reati: diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti (art. 612-ter, cp), costrizione o induzione al matrimonio (art. 558-bis, cp), violazione dei provvedimenti di allontanamento dalla casa familiare e del divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa (art. 387-bis, cp) e deformazione dell’aspetto mediante lesioni permanenti al viso (art. 583-quinquies, cp). Per quanto riguarda il tema procedurale, invece, sono state modificate alcune disposizioni del codice di procedura penale con la finalità - si legge nella relazione illustrativa al disegno di legge - di “evitare che eventuali stasi, nell’acquisizione e nell’iscrizione delle notizie di reato o nello svolgimento delle indagini preliminari, possano pregiudicare la tempestività di interventi, cautelari o di prevenzione, a tutela della vittima…”. Qualora si proceda per i reati sopra richiamati, infatti, è stata specificamente prevista l’immediata comunicazione, anche in forma orale, da parte degli organi di polizia al pubblico ministero per consentire le più opportune e immediate determinazioni da parte degli organi inquirenti (art. 347, III comma, cpp). La norma richiamata prevedeva, in via generale, l’inoltro immediato da parte della polizia giudiziaria alla competente procura della repubblica di qualsiasi notitia criminis solo nel caso in cui venissero riscontrate ragioni di urgenza. Un’altra novità è l’indicazione normativa che il pubblico ministero, “entro il termine di tre giorni dall’iscrizione della notizia di reato” nei procedimenti originati da denunce per determinati reati (maltrattamenti in famiglia, violenza sessuale, atti sessuali con minorenne, corruzione di minorenne, violenza sessuale di gruppo, atti persecutori, lesioni personali aggravate e permanenti al viso), assuma informazioni dalla persona offesa e da chi ha presentato denuncia, querela o istanza (art. 362, comma 1-ter, cpp). Sul punto, si evidenzia che il delitto di revenge porn (art. 612-ter, cp) non è stato inserito tra i reati che dovrebbero attivare, in tempi molto rapidi, le prime iniziative del pubblico ministero, tra le quali assume un ruolo centrale proprio la circostanziata e aggiornata deposizione testimoniale della vittima che può fornire ulteriori elementi rispetto a quanto già rappresentato nell’atto di denuncia-querela. Il pubblico ministero, infatti, solamente dopo aver acquisito i necessari elementi d’ordine fattuale, può disporre tutte le opportune attività di indagine anche di natura cautelare. Nel caso si proceda per diffusione illecita di video o immagini sessualmente espliciti attraverso strumenti informatici o telematici (ad esempio, web o Whatsapp), la vittima di revenge porn rischierebbe, dunque, di trasmettere al magistrato inquirente una serie di circostanze con tempistiche che potrebbero non favorire una pronta ed efficace risposta investigativa anche solo per contenere la rapidissima diffusione (si pensi alla trasmissione online) di quei contenuti con le devastanti ricadute sul piano reputazionale della persona offesa. Infatti, l’immediata attivazione della procura potrebbe portare sia al sequestro degli spazi web per mezzo dei quali sono stati diffusi i contenuti video o fotografici, sia all’assunzione degli opportuni provvedimenti a carico degli indagati. Sempre più lunga la lista dei reati-presupposto 231 di Riccardo Borsari Il Sole 24 Ore, 27 agosto 2019 La responsabilità da reato dell’ente presuppone la commissione, da parte di un soggetto apicale o sottoposto facente parte dell’organizzazione dell’ente stesso, di uno o più reati fra quelli espressamente contemplati nel catalogo del Dlgs 231.2001 (cosiddetti “reati-presupposto”). Nel corso del tempo, alle originarie fattispecie contenute negli articoli 24 e 25 del decreto, il legislatore ne ha aggiunte molte altre, con l’effetto di estendere considerevolmente l’ambito di applicazione della disciplina; la medesima tendenza ha caratterizzato anche l’anno corrente. La legge 3.2019 (enfaticamente denominata “spazza-corrotti”), in vigore dallo scorso 31 gennaio, nell’ambito di un più ampio intervento in chiave di contrasto alla corruzione, ha introdotto, fra i delitti-presupposto contro la Pubblica amministrazione annoverati dall’articolo 25 del Dlgs 231.2001, l’articolo 346 bis del Codice penale, rubricato “Traffico di influenze illecite”. Si tratta di una fattispecie sussidiaria, volta a perseguire condotte prodromiche alla consumazione dei delitti di corruzione. Essa punisce, infatti, chiunque, fuori dei casi di concorso nei reati di corruzione, sfruttando o vantando relazioni esistenti o asserite con un pubblico ufficiale o un incaricato di pubblico servizio (oppure con uno dei pubblici agenti stranieri, comunitari e internazionali di cui all’articolo 322 bis del Codice penale), indebitamente fa dare o promettere, a sé o ad altri, denaro o altra utilità come prezzo della propria mediazione illecita, ovvero per remunerare il soggetto per l’esercizio delle sue funzioni o dei suoi poteri. Il nuovo articolo 346 bis del Codice penale sussume al proprio interno anche le condotte prima qualificabili come millantato credito (e in precedenza non rilevanti ai fini del Decreto 231): non viene punito, infatti, soltanto lo sfruttamento di relazioni esistenti, ma pure la vanteria di relazioni asserite con uno dei pubblici agenti citati. Il reato si consuma con la dazione o anche solo con la mera promessa di denaro o di un’altra utilità che può prescindere da un valore patrimoniale (ad esempio, la prestazione sessuale). Viene punito sia l’intermediario, sia il soggetto che dà o promette il denaro o l’utilità. Per esempio, il delitto è integrato nell’ipotesi in cui il professionista incaricato della gestione di una pratica edilizia si faccia dare o promettere da un dipendente della società committente del denaro come prezzo della propria mediazione illecita, per ottenere un trattamento di favore da parte del funzionario dell’ufficio tecnico comunale. La sanzione pecuniaria prevista per l’ente ammonta sino a 200 quote. Il catalogo dei reati-presupposto è stato ampliato ulteriormente dalla legge 39.2019, entrata in vigore il 17 maggio, che ha aggiunto le fattispecie contenute nel nuovo articolo 25 quaterdecies del Dlgs 231.2001. L’intervento ha recepito la Convenzione del Consiglio d’Europa sulla manipolazione delle competizioni sportive, firmata a Magglingen il 18 settembre 2014, ed esteso la responsabilità da reato degli enti ai reati di frode in competizioni sportive (articolo 1, legge 401.1989) e di esercizio abusivo di gioco o scommessa (articolo 4, legge 401.1989). Il nuovo articolo 25 quaterdecies delinea un micro-sistema incentrato sulla distinzione fra responsabilità per fatti di matrice delittuosa e responsabilità per fatti di matrice contravvenzionale. Al primo gruppo appartengono la promessa, l’offerta (e la relativa accettazione) o la frode al fine di manipolare i risultati delle gare lecite (articolo 1,legge 401.1989); l’organizzazione e l’esercizio abusivo del gioco del lotto o di altri giochi riservati allo Stato e ai suoi concessionari; l’organizzazione di concorsi e pronostici (scommesse) su attività sportive autorizzate dal Coni; infine, l’organizzazione a distanza di scommesse e giochi (articolo 4, comma 1, legge 401.1989). In tali ipotesi, all’ente viene comminata la sanzione pecuniaria fino a 500 quote e, sussistendone i presupposti, le sanzioni interdittive stabilite dall’articolo 9, comma 2, del Dlgs 231.0101. Al secondo gruppo appartengono, invece, l’organizzazione abusiva delle scommesse su competizioni non autorizzate e l’organizzazione di giochi autorizzati con modalità differenti da quelle legali da parte del concessionario (articolo 4, comma 1); la pubblicità di giochi illegali anche esteri (articolo 4, comma 2); la partecipazione a giochi illegali (articolo 4, comma 3). A queste condotte viene applicata la sanzione pecuniaria fino a 260 quote. È da ricordare, infine, che il 6 luglio è scaduto il termine per l’attuazione della direttiva 2017.1371 sulla protezione degli interessi finanziari della Ue (cosiddetta “direttiva Pif”). Tra i comportamenti considerati lesivi degli interessi finanziari dell’Unione (“reati Pif”) si segnalano, in particolare, le frodi in materia di Iva, la cui rilevanza è però limitata ai casi di reati gravi contro il sistema comune dell’Iva, ovvero alle condotte illecite di carattere intenzionale che comportino un danno complessivo pari ad almeno 10 milioni di euro e siano connesse al territorio di due o più Stati membri. La normativa (articolo 6) obbliga il legislatore a introdurre, tra l’altro, la responsabilità per gli enti che abbiano tratto vantaggio dalla consumazione dalle condotte delittuose ivi descritte, con sanzioni (articolo 9) che, invero, per molta parte coincidono con quelle (pecuniarie e interdittive) già previste dal Dlgs 231.2001. L’attuazione della direttiva è affidata al disegno di legge recante la “Legge di delegazione europea 2018” (Ddl n. 944), approvato dal Senato e trasmesso alla Cameralo scorso 30 luglio. È inammissibile l’impugnazione presentata tramite Posta Elettronica Certificata di Tullio D’Elisiis Antonio diritto.it, 27 agosto 2019 Corte di Cassazione - I sez. pen. - sentenza n. 26874 del 18.06.2019. Il Magistrato di sorveglianza aveva parzialmente accolto il reclamo ex art. 35-ter Ord. pen. proposto nell’interesse di C. P. relativamente a taluni periodi di detenzione trascorsi presso la Casa circondariale di Roma Rebibbia N.C. in relazione ai quali era stata riscontrata una rilevante compromissione dello “spazio vitale” al di sotto dei 3 metri quadri per complessivi 862 giorni così da non potersi ammettere, a causa della lunghezza del periodo in cui la lesione si era protratta, che le complessive condizioni di detenzione potessero compensare il danno patito. Avverso tale provvedimento il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria proponeva reclamo davanti al Tribunale di sorveglianza di Roma il quale lo accoglieva. Una volta respinta, preliminarmente, l’eccezione di inammissibilità del reclamo formulata dalla difesa di P. per avere l’Amministrazione penitenziaria proposto impugnazione tramite posta elettronica certificata (cd. Pec), il Tribunale romano riteneva di non dover computare, ai fini della determinazione dello spazio detentivo minimo, la “superficie calpestabile”, calcolata al netto di muri perimetrali o di eventuali muri divisori ma non della mobilia fissa e mobile, ivi inclusi i letti a castello e, sulla base di tale criterio, il Collegio capitolino stimava accertato che durante la detenzione sia nella Casa circondariale di Roma Rebibbia N.C., sia nella Casa di reclusione di Roma, P. non aveva mai avuto a sua disposizione meno di 3 metri quadri di spazio c.d. “vivibile” trattandosi di un limite che era stato superato, scorporando l’ingombro costituito da “ipotetici letti a castello”, soltanto nei periodi in cui P. era stato ristretto con non meno di 6 detenuti all’interno della Casa circondariale di Roma Rebibbia N.C.; pur tuttavia, valorizzando adeguatamente l’ampia offerta trattamentale e i lunghi periodi giornalieri nei quali P. era autorizzato a uscire dalla stanza di pernottamento, il Tribunale riteneva come le eventuali violazioni del criterio dello spazio minimo pro capite fossero state ampiamente compensate dall’attenta valutazione del complesso delle condizioni detentive. I motivi addotti nel ricorso per Cassazione - Avverso il predetto provvedimento proponeva ricorso per cassazione lo stesso P. per mezzo del difensore di fiducia, avv. G. D. G., deducendo due distinti motivi di impugnazione così formulati: 1) inosservanza o erronea applicazione degli artt. 582 e 583 cod. proc. pen. nonché mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione in relazione al mancato accoglimento dell’eccezione di inammissibilità del reclamo concernente l’irritualità delle modalità di presentazione dell’atto di impugnazione a mezzo PEC che, secondo il Tribunale di sorveglianza, sarebbe consentita all’Amministrazione penitenziaria, verso la quale non varrebbero i relativi limiti posto che, secondo la difesa di C. P., ai sensi degli artt. 582 e 583 cod. pen., l’atto di impugnazione non potrebbe essere presentato a mezzo Pec tanto da parte dei difensori, quanto ad opera delle altre parti processuali tenuto conto altresì del fatto che, nel caso di specie, vi sarebbe stata un’assoluta incertezza in ordine alla riferibilità dell’atto di impugnazione all’Amministrazione penitenziaria; 2) inosservanza o erronea applicazione della legge penale nonché la mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione in relazione all’annullamento dell’ordinanza del Magistrato di sorveglianza sulla base di un criterio di determinazione della superficie detentiva minima fondato sul computo dei letti a castello, che la Corte di cassazione non avrebbe condiviso rilevandosi al contempo come l’ordinanza del Tribunale di sorveglianza avrebbe errato nel ritenere che eventuali violazioni dello spazio minimo pro capite potessero essere compensate dall’offerta trattamentale laddove la compressione dello spazio minimo vitale sarebbe di tale incidenza da non poter essere compensate con attività trattamentali e con la fruizione di periodi di tempo fuori dalle camere di pernottamento, e ciò in quanto la restrizione in celle inidonee sotto il profilo spaziale costituirebbe, di per sé, un grave pregiudizio per il detenuto e condizione sufficiente a ottenere il rimedio risarcitorio, integrando i presupposti indicati dalla legge; si evidenziava, inoltre, come la motivazione sarebbe state del tutto generica in quanto il Tribunale di sorveglianza si sarebbe limitato a indicare, in modo del tutto apodittico, le attività valutate come compensative senza verificare nel concreto se C. P. ne avesse realmente usufruito e con quali tempi e modalità. Le valutazioni giuridiche formulate dalla Cassazione - Il primo motivo di ricorso veniva fondato e, pertanto, era accolto posto che, ad avviso della Corte, il Tribunale di sorveglianza aveva errato nel ritenere ammissibile l’impugnazione del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria presentata tramite “posta elettronica certificata”. Si osservava a tal proposito che se l’art. 582 cod. proc. pen. stabilisce, al comma 1, che “salvo che la legge disponga altrimenti, l’atto di impugnazione è presentato personalmente ovvero a mezzo di incaricato nella cancelleria del giudice che ha emesso il provvedimento impugnato. Il pubblico ufficiale addetto vi appone l’indicazione del giorno in cui riceve l’atto e della persona che lo presenta, lo sottoscrive, lo unisce agli atti del procedimento e rilascia, se richiesto, attestazione della ricezione e, al comma 2, che “le parti private e i difensori possono presentare l’atto di impugnazione anche nella cancelleria del tribunale o del giudice di pace del luogo in cui si trovano, se tale luogo è diverso da quello in cui fu emesso il provvedimento, ovvero davanti a un agente consolare all’estero. In tali casi, l’atto viene immediatamente trasmesso alla cancelleria del giudice che emise il provvedimento impugnato” mentre il successivo art. 583 cod. proc. pen. prevede che “le parti e i difensori possono proporre l’impugnazione con telegramma ovvero con atto da trasmettersi a mezzo di raccomandata alla cancelleria indicata nell’articolo 582 comma 1. Il pubblico ufficiale addetto allega agli atti la busta contenente l’atto di impugnazione e appone su quest’ultimo l’indicazione del giorno della ricezione e la propria sottoscrizione” disponendo inoltre che “l’impugnazione si considera proposta nella data di spedizione della raccomandata o del telegramma. Se si tratta di parti private, la sottoscrizione dell’atto deve essere autenticata da un notaio, da altra persona autorizzata o dal difensore” (comma 2). Compiuto questo breve excursus normativo, si faceva altresì presente come la giurisprudenza di legittimità, vigendo in materia di impugnazioni il principio di tassatività delle forme per la presentazione del ricorso, la cui osservanza è sanzionata a pena di inammissibilità, avesse postulato che la presentazione dell’impugnazione con mezzi diversi da quelli previsti dalla norma è inammissibile (Sez. 1, n. 16356 del 20.3.2015) ivi compreso il caso di invio dell’impugnazione a mezzo di posta certificata (Sez. 3, n. 50932 del 11.7.2017; Sez. 4, n. 21056 del 23.1.2018; Sez. 1, n. 320 del 5.11.2018) fermo restando che tale principio vale per le parti private e per le parti pubbliche come può evincersi da quella pronuncia in cui la Cassazione ha affermato - in relazione al caso di impugnazione cautelare proposta dal pubblico ministero - proprio sul presupposto che le modalità di presentazione e di spedizione dell’impugnazione, disciplinate dall’art. 583 cod. proc. pen. (esplicitamente richiamato dall’art. 309, comma 4, a sua volta richiamato dall’art. 310, comma 2, cod. proc. pen.), sono tassative e non ammettono equipollenti, come sia possibile soltanto la spedizione dell’atto mediante lettera raccomandata o telegramma al fine di garantire l’autenticità della provenienza e la ricezione dell’atto mentre nessuna norma prevede la trasmissione mediante l’uso della posta elettronica certificata (così sez. 5, n. 24332 del 5.3.2015). Tal che se ne faceva conseguire come il provvedimento impugnato risultasse essere stato adottato nonostante l’originaria inammissibilità dell’impugnazione sicché l’ordinanza impugnata deve essere annullata, senza rinvio, con conseguente reviviscenza dell’ordinanza di primo grado. Conclusioni - La sentenza in commento è assai interessante nella parte in cui esclude che le impugnazioni, in materia penale, possano essere presentate a mezzo pec. Le argomentazioni addotte, a sostegno di questo assunto, a loro volta, sono condivisibili in quanto si basano, per un verso, su un attento esame della normativo a cui fare riferimento in casi di questo tipo, per altro verso, su una altrettanto puntuale disamina della giurisprudenza elaborata in subiecta materia. Nel ritenere dunque questo provvedimento del tutto corretto in punto di motivazione, sarebbe però auspicabile che il legislatore intervenisse consentendo la possibilità di impugnare anche a mezzo pec. Non si vedono difatti le ragioni per cui non si possa utilizzare questo strumento tecnologico per poter proporre un gravame che garantirebbe, al pari di quanto adesso previsto dal nostro ordinamento giuridico, la certezza sia di colui che invia la posta elettronica certificata, sia su quando questa missiva elettronica può dirsi giunta a conoscenza del destinatario (e dunque ciò consentirebbe di verificare se l’impugnazione sia stata presentata nei termini). Napoli: a Poggioreale sovraffollamento e padiglioni-lager: progetti finanziati, lavori mai eseguiti di Giuseppe Crimaldi Il Mattino, 27 agosto 2019 Celle occupate oltre ogni limite il ministero riconosce la gravità: situazione ormai endemica e in peggioramento. Dieci ombre e un macigno. Dieci pesanti criticità e una clamorosa evasione. No che non ci voleva proprio questa brutta storia dell’evasione. Una beffa che rende ancora più cupo il cielo sul carcere di Poggioreale. Ad assestare l’ultimo colpo era stato nientemeno che il Garante nazionale dei detenuti, in polemica aperta con la direttrice della Casa circondariale più sovraffollata d’Europa, dopo aver riscontrato presunte situazioni durante l’ultima sua visita a maggio (obiezioni alle quali la direttrice Palma ha ribattuto puntualmente). Invece è accaduto l’imprevedibile: e a scatenare questo inferno è stato un detenuto polacco, un lupo solitario, uno che non familiarizzava nemmeno con i suoi “coinquilini” di cella. Gli sono bastate tre lenzuola annodate, e una buona dose di coraggio. Da domenica mattina nell’istituto sono stati innalzati al massimo i livelli di sicurezza. Cerchiamo di mettere ordine. Per comprendere le criticità di Poggioreale basta scorrere gli atti ufficiali del Dap, il Dipartimento per l’amministrazione penitenziaria. “Certamente - scriveva qualche settimana fa la direttrice di Poggioreale in una nota riservata al ministero della Giustizia - le condizioni dell’istituto sono a dir poco preoccupanti, a partire da strutture inadeguate e in alcuni casi decisamente fatiscenti. Prima ombra. Seconda ombra: il sovraffollamento. A Poggioreale dovrebbero essere custoditi solo detenuti in attesa di giudizio. Invece così non è: ad oggi su circa 2100 vi sono circa 700 reclusi con sentenza passata in giudicato. “E il sovraffollamento - si legge nel dossier spedito a via Arenula - costituisce un dato endemico in progressivo aggravamento. La terza fermata di questa triste via crucis riguarda i padiglioni, che si trasformano spesso in veri e propri gironi dei dannati in terra. Terminate le opere di rifacimento dei padiglioni “Genova” e “Venezia”, resta ancora molto da fare. “Situazioni di fatiscenza, che continuano a rappresentare una violazione in ordine al rispetto della Convenzione europea per la tutela delle libertà fondamentali e dei diritti umani), permangono ai Padiglioni “Milano”, “Italia” e “Salerno”: gli interventi di ristrutturazione - programmati e già pure finanziati - non sono ancora iniziati. Quarto nodo: i colloqui tra detenuti e familiari. Il sovraffollamento si riverbera anche sugli incontri tra reclusi e parenti: in media se ne svolgono 400-450 al giorno, con una presenza di almeno tre familiari per detenuto. Insomma, quotidianamente gli uomini della Penitenziaria devono controllare qualcosa come 1.500 persone. Quinto nodo i lavori di risanamento del piano terra e dei primi piani: “La situazione - si legge nel report inviato al Dap dalla direttrice del carcere - è quella di due anni fa: sono stati programmati lavori che ancora non si riescono ad effettuare perché contemporaneamente sono in corso altri interventi, e la condizione di sovraffollamento non consente evacuazioni”. Una delle situazioni di maggior degrado resta quella del piano terra del “Roma”, che ospita reclusi transessuali. Poi c’è la settima piaga, rappresentata dalla palestra, uno dei pochi luoghi di aggregazione sociale: chiusa a febbraio per rischi di staticità, non è mai stata ristrutturata. Ma la direttrice assicura che tutto si risolverà nel giro di un mese. A Poggioreale per ora esiste un solo campetto sportivo, a fronte di una popolazione detenuta che si assesta sulle 2.000-2.200 presenze al mese. Che dire poi delle condizioni di sicurezza interne ai padiglioni. Per evitare disordini, promiscuità, scambio di oggetti e anche atti di autolesionismo ogni singola struttura ospitativa prevede una “rete anti-getto”. Ebbene “la percezione della situazione di quella esistente al “Milano” - si legge ancora nel dossier - non è corretta”. Inadeguate sono infine le cucine, e soprattutto quella che fornisce i pasti ai detenuti ricoverati nella struttura sanitaria del padiglione “San Paolo”. L’Asl Napoli 1 ha già diffidato l’istituto di pena ad adeguarsi alle minime prescrizioni. Per il rifacimento della cucina “centrale” nel 2018 sono stati stanziati oltre due milioni di euro, i lavori dovrebbero scattare a dicembre. Napoli: “Poggioreale non ha i requisiti per rieducare” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 27 agosto 2019 L’accusa del Cappellano, Don Franco Esposito. “Io mi meraviglio non per uno che scappa ma per l’ottanta per cento che dopo aver finito la pena in carcere ritorna a commettere reati e quindi vi rientra. Il carcere ha fallito, il carcere non risponde alla giusta domanda di sicurezza che i cittadini vogliono dalle istituzioni”, così ha scritto ieri su Facebook don Franco Esposito, cappellano del carcere di Poggioreale dal quale domenica scorsa è evaso il 32enne polacco Robert Lisowski attraverso una lunga fune. Don Franco non giustifica l’evasione, ma ha voluto spostare l’attenzione sul fatto che carceri come quello di Poggioreale non hanno i requisiti per essere rieducativi e non servono certo al reinserimento della persona detenuta nel tessuto sociale. “Allora mi domando - ha proseguito il cappellano - se il carcere non è questo, qual è il suo compito a cosa serve? Eppure il compito che la Costituzione dà a questa istituzione è quello di far sì che attraverso la pena il detenuto raggiunga una sua maturità sociale prendendo coscienza del male compiuto e iniziando una vita legale nel rispetto delle regole. Quindi se un carcere non riesce a fare quello che la Costituzione gli affida diventa una struttura anticostituzionale e quindi fuorilegge”. Sulla caccia a Robert Lisowski all’uomo sono impegnate tutte le forze di polizia. Il caso vuole che le criticità del carcere di Poggioreale sono emerse esattamente una settimana fa attraverso la pubblicazione del report a cura dell’autorità del Garante nazionale delle persone private della libertà. Una situazione impietosa quella del carcere napoletano. Dalle osservazioni poste dal Garante, emerge che si tratta di un edificio vecchio che presenta condizioni materiali che non soddisfano quello che richiede l’ordinamento penitenziario. Le stanze di pernottamento delle persone detenute sono estremamente disomogenee. Si va dai cosiddetti “cubicoli” con i servizi igienici a vista, ai cameroni da 14 persone. Particolarmente degradate alcune sezioni, come quella per persone malate o disabili, con letti a castello anche a tre piani. Condizioni che possono essere considerate in violazione dell’articolo 3 della Convenzione europea per la tutela delle libertà fondamentale e dei diritti umani che inderogabilmente vieta “trattamenti o pene inumane o degradanti”, secondo l’interpretazione che di tale precetto è data dalla Corte di Strasburgo. A tutto questo si aggiungono casi che potrebbero profilare il rischio maltrattamento. Dopo la pubblicazione, la direttrice del carcere ha reagito dicendo che l’autorità del Garante è stata ingenerosa. E lo ha fatto attraverso la pubblicazione della sua lettera nel giornale on line del ministero della Giustizia. “Ci tengo a ribadire - fa sapere il garante nazionale Mauro Palma - che non è una questione di essere generosi o non generosi, a volte è un po’ come quando si cura una malattia, è importante avere un quadro della situazione nella sua complessità e non accontentarsi di qualche anestetico e di piccoli miglioramenti. Noi le indicazioni le abbiamo riportate nel rapporto e, se si dovesse fare un tavolo di discussione, io ripartirò da quelle raccomandazioni”. Sull’evasione, anche il garante della regione Campania Samuele Ciambriello ha detto: “Tre anni fa il ministero delle Infrastrutture ha destinato alla Campania 15 milioni per ristrutturare 5 padiglioni obsoleti del carcere di Poggioreale. In 3 anni sono state fatte solo due visite per verificare lo stato dell’arte dei padiglioni e i lavori non sono mai iniziati. È uno scandalo, una cosa indegna”. A Poggioreale, ha ricordato Ciambriello, “l’anno scorso ci sono stati 4 suicidi, nelle carceri della Campania si sono registrati 77 tentativi di suicidio. Se non c’è stata una strage - ha concluso - dobbiamo ringraziare gli agenti della polizia penitenziaria”. Napoli: parla il Cappellano “a Poggioreale situazione di disumanità” di Antonio Averaimo Avvenire, 27 agosto 2019 “Dodici persone in celle da quattro, assenza di verde e di spazi per la socialità, risse e disperazione” Il cappellano del carcere: “Dalla disumanità si scappa”. Catturato ieri sera il detenuto evaso. È scappato un detenuto da Poggioreale, embè? Perché stupirsi davanti a una evasione dal carcere? È la cosa più naturale che possa accadere. Quello che è innaturale è tenere rinchiuse delle persone in una situazione disumana e degradante”. Don Franco Esposito, cappellano di Poggioreale, ha affidato a un post durissimo su Facebook il suo pensiero in merito alla rocambolesca evasione del detenuto polacco 32enne Robert Lisowski, avvenuta domenica mattina nel penitenziario napoletano: una fuga breve, il detenuto è stato ricatturato ieri sera. Accanto alla foto del lenzuolo appeso - così, calandosi dal muro di cinta, è scappato il senza fissa dimora in carcere con l’accusa di aver assassinato un cittadino ucraino - i giornali hanno affiancato titoli sul “record” della prima fuga dopo 100 anni. Ma di “record”, il carcere più sovraffollato d’Italia, ne conta ben altri. E “da un albero cattivo non possono nascere frutti buoni”. Don Franco, il suo commento all’evasione però, che tra l’altro è avvenuta proprio dopo la Messa da lei celebrata, ha fatto discutere. Nel migliore dei casi è stato ritenuto provocatorio, nel peggiore addirittura offensivo della famiglia del cittadino ucraino ammazzato dal detenuto evaso… “In questo momento io intendo solo tenere alta l’attenzione sulle condizioni gravissime in cui versa il carcere di Poggioreale. Parliamo di un istituto penitenziario nel quale ci sono quasi mille detenuti in più rispetto alla capienza prevista. Questo rende impossibile qualsiasi tentativo di renderlo vivibile. La presenza nostra come Chiesa o di psicologi, educatori, volontari si scontra con l’impossibilità di incidere in una realtà così sovraffollata e caotica. Una realtà indifendibile”. Negli ultimi mesi d’altronde a Poggioreale si sono registrate diverse rivolte. Dopo l’ultima, settimana scorsa, è seguita una durissima relazione del Garante nazionale dei detenuti sulle condizioni del penitenziario… “Il Garante dei detenuti fa il suo lavoro. Ciò che ha scritto è vero. Ma anche la direttrice Maria Luisa Palma - il cui operato è stato messo in discussione dalla presa di posizione del Garante - lavora in modo egregio, e così la polizia penitenziaria, i volontari ecc. Ma questo non basta a fare di Poggioreale un luogo umano. Ho sentito persino dire da qualcuno, in queste ore, che la colpa dell’evasione sarebbe da attribuire al fatto che pur essendoci pochi agenti della polizia non sono state sospese le attività trattamentali. Che sono le uniche a dare una parvenza di legalità alla situazione qui dentro. Senza contare che la Santa Messa non rientra nelle attività che il carcere offre ai detenuti, ma è un diritto inalienabile della persona. In ogni caso mi piace richiamare il Vangelo: da un albero cattivo non si possono trarre frutti buoni. Il carcere di Poggioreale e, in generale, il carcere com’è inteso in Italia non possono garantire nulla di buono”. Il segretario generale del Sindacato di polizia penitenziaria, Aldo Di Giacomo, ha dichiarato: “A Poggioreale lo Stato ha fallito. Ora il carcere sia immediatamente chiuso e abbattuto”… “Non è una proposta cattiva. Il carcere di Poggioreale è una struttura solo detentiva. Non c’è un angolo di verde, non c’è spazio per la socialità. Per far fronte alla condanna inflitta all’Italia dall’Unione Europea a causa del trattamento disumano riservato ai detenuti nelle nostre carceri, qui si sono aperti i corridoi durante il giorno. Ma è un’ipocrisia: esistono ancora celle che dovrebbero ospitare tre-quattro detenuti e arrivano a ospitarne anche 12. Le altre carceri campane e italiane pure sono sovraffollate, così risulta impossibile alleggerire Poggioreale. Il risultato è una situazione ormai ingestibile”. Presto dovrebbe sorgere un altro carcere in Campania, che alleggerirebbe gli altri penitenziari... “Ma vede, nemmeno questa è la vera soluzione al problema. La Costituzione non parla mai del carcere. Anzi, ne parla una sola volta, ricordando che la pena non dev’essere troppo lunga. La vera soluzione sono le misure alternative al carcere, una strada intrapresa da dieci anni dall’arcidiocesi di Napoli col centro di pastorale carceraria. La mia esperienza personale nel centro e le statistiche ci dicono che l’80 per cento di coloro che finiscono di scontare la pena in carcere torna a delinquere, mentre la recidiva scende al 10% per chi termina di scontarla in altre strutture che rispondono meglio alla funzione rieducativa della detenzione. Serve un percorso verso un modello non repressivo, che troppi governi hanno promesso e mai realizzato. Per paura di perdere consenso”. Napoli: “Dovrebbe fare più notizia la mancata rieducazione dei detenuti piuttosto che un’evasione” di Giuliana Covella Il Mattino, 27 agosto 2019 “La verità è che lo Stato è assente, il carcere ha fallito e non risponde alla giusta domanda di sicurezza che i cittadini vogliono dalle istituzioni. Fino a quando i nostri politici non prenderanno atto di questa verità, fino a quando le pene saranno “pagate” solo col carcere, non ci sarà niente di che meravigliarsi”. Don Franco Esposito, cappellano del carcere di Poggioreale, lancia una provocazione sui social: “Perché stupirsi? Secondo me dovrebbe fare più notizia il fatto che a Poggioreale non avviene nessuna rieducazione per evitare la recidiva”. Padre, il post che ha scritto sulla sua pagina Facebook ha lasciato spazio, a partire dal titolo, a polemiche ma anche a interrogativi sulla reale situazione delle carceri. Perché lo ha scritto? “Il mio “embè” era provocatorio, perché è normale che qualsiasi detenuto voglia scappare dal carcere. E questo fa giustamente notizia, ma dovrebbe farlo altrettanto il fatto che l’80% dei detenuti rientra in carcere dopo aver scontato la pena, perché non viene rieducato alla cultura della legalità e di una vita e un lavoro onesti”. Questo dato si riferisce però all’intero Paese… “Certamente, ma di quell’80% una buona percentuale riguarda Poggioreale: da quando sono qui non c’è mai stato finora nessun progetto che abbia dato realmente la possibilità al detenuto di rifarsi una vita una volta uscito”. Ma 400 detenuti, in 15 anni, da quando lei è il cappellano del carcere, sono riusciti a tornare a una vita normale... “Premesso che non voglio alcun merito. Ma ci va dato atto che abbiamo creato una comunità di accoglienza che si chiama “Liberi di volare” e che ha sede in una struttura donata dal cardinale Sepe in via Giuseppe Buonomo al Rione Sanità. Qui ospitiamo una quindicina di detenuti che devono finire di scontare gli ultimi anni di pena, ma ci sono anche quelli agli arresti domiciliari e in regime di semi libertà. Ecco la vera rieducazione: misure restrittive alternative al carcere. I detenuti svolgono attività artigianali e laboratori vari, così da favorire il loro concreto reinserimento nella società e nel mondo del lavoro. Oggi molti sono pizzaioli, ristoratori, artisti e artigiani”. Qual è l’attuale situazione di Poggioreale? “Sta letteralmente scoppiando, ma da anni è così. Vergognoso ci siano meno di 20 educatori per 2.400 detenuti che peraltro vivono in celle anguste rispetto a una capienza di oltre 1.400 persone. I problemi sono tanti. Le attività rieducative coinvolgono appena il 10% dei reclusi. Gli specialisti come psicologi e assistenti sociali a disposizione? Al massimo tre o quattro per gli stessi 2.400 detenuti. E cosa ancor più grave è che nessuno viene preso in carico da uno psicologo ad esempio, perché il medico cambia di continuo”. Qualche sindacato di polizia penitenziaria si è detto contrario alle attività di cui le parla. Cosa ne pensa? “Quello di cui non c’è sicuramente bisogno è restringere le attività trattamenti o le celebrazioni religiose. Sarebbe assurdo. I detenuti sono esseri umani e sono già limitati nei loro diritti. Ecco perché credo che l’unica possibilità di un progetto serio di rieducazione e reinserimento sia usufruire di misure alternative a una cella. Tra i circa 400 carcerati che hanno vissuto l’esperienza della nostra comunità di accoglienza, uno o due sono tornati a delinquere”. Di chi è la responsabilità affinché un carcere assolva alla sua funzione? “Anzitutto della politica. Che ben vengano le visite ispettive periodiche di consiglieri regionali o parlamentari, ma se non c’è la volontà di intervenire rimarranno solo sterili passerelle. Va bene denunciare il degrado e le strutture fatiscenti, ma c’è bisogno anche di riformare il nostro sistema carcerario. Finché il carcere rimarrà l’unica istituzione dove far scontare la pena, nulla cambierà. La stessa riforma dell’ex ministro Orlando, che prevedeva tra l’altro sostegni per le comunità di accoglienza, è stata affossata dall’attuale Governo. Noi stessi non abbiamo nessun aiuto dallo Stato”. Conosceva l’evaso? “Non benissimo. L’ho visto poche volte. So che domenica ha partecipato alla messa, dove erano una settantina e non duecento. Ma non è un pericoloso criminale, come lo hanno dipinto. Lo abbiamo aiutato con i beni di prima necessità, perché non ha famiglia e quando era fuori viveva di espedienti”. Napoli: evasione da Poggioreale, il carcere “fuori controllo” di Eleonora Martini Il Manifesto, 27 agosto 2019 Giusto la settimana scorsa il Garante nazionale dei diritti delle persone private di libertà, Mauro Palma, aveva denunciato in un dettagliato rapporto la situazione “preoccupante” e “poco sotto controllo” del carcere napoletano di Poggioreale, lo stesso dal quale domenica è evaso - con una banale quanto rocambolesca fuga tramite lenzuola usate per calarsi - un detenuto polacco 32enne, Robert Lisowski, condannato per omicidio e considerato molto pericoloso. Le ricerche proseguono ora almeno allo stesso ritmo con il quale si sottolinea che da oltre cento anni non accadeva un fatto simile in quel penitenziario. La realtà però è che la denuncia del Garante è caduta nel vuoto, prontamente smentita dalla direttrice di Poggioreale Maria Luisa Palma che da Gnews, il quotidiano online del ministero di Giustizia, ha difeso a spada tratta il proprio operato rivendicando perfino un tardivo trasferimento ad altri istituti di una parte di quei reclusi che risultavano eccedenti nel giugno scorso (erano 2.373, su 1.633 posti previsti e una capienza reale di 1.515), quando, poco dopo la visita del Collegio del Garante, scoppiò perfino una rivolta tra i detenuti. “Pur non negando la buona volontà della direzione, si tratta di una situazione che non è del tutto sotto controllo”, spiega Mauro Palma che parla di una struttura “non solo sotto organico” ma anche dove le condizioni di lavoro sono difficili, “come per gli uffici della matricola, ubicati in un semi-interrato insalubre”. “Se le condizioni sono disagiate per i lavoratori, sono disagiatissime per i detenuti”, sottolinea poi Palma che in ogni caso non intende puntare il dito contro nessuno per l’avvenuta evasione. E però, se i sindacati di polizia penitenziaria parlano di “evasione annunciata” per via della “mancanza di uomini e mezzi” più volte denunciata, secondo l’Osservatorio sulle condizioni di detenzione dell’associazione Antigone non c’è alcuna emergenza evasioni in Italia, e semmai c’è un’emergenza per la violazione sistematica dei diritti umani dei detenuti. “In media, ogni anno, escono legittimamente dal carcere 60 mila persone e meno di dieci escono illegittimamente - spiega Alessio Scandurra. Queste ultime vengono riprese, peraltro, in tempi molto brevi. Quindi, l’emergenza non sono le evasioni ma certamente le condizioni di detenzione. La situazione del personale è, in generale, critica in tutto il Paese - continua l’esperto di Antigone -, sulla carta viene stabilito un determinato organico mentre nella pratica è inferiore. Nonostante questo, siamo uno dei Paesi europei con il più alto numero di agenti per detenuti”. A Poggioreale però, sottolinea Scandurra, è in servizio un poliziotto ogni 3,1 detenuti, a fronte di una media nazionale di 2,1 reclusi per agente. Ma il punto cruciale che pochi colgono è che a Poggioreale vi è una carenza “strutturale”, nonostante gli sforzi di direzione e volontari, come riferisce Scandurra. Carenza di educatori, psicologi, formatori, insegnanti. E ben più pesante che di agenti, a Napoli come in tutti gli altri carceri d’Italia. La sicurezza si costruisce anche - e forse soprattutto - con loro. Napoli: Antigone “pochi evasi in Italia, i problemi sono altri” Il Mattino, 27 agosto 2019 A Poggioreale rispetto alla media di 2,1 detenuti per agente di polizia sono in servizio 3,1guardie carcerarie per detenuti”. “In Italia, ogni anno, ci sono casi di evasione ma sono davvero pochi. In media, ogni anno, escono legittimamente dal carcere 60mila persone e meno di dieci escono illegittimamente. Queste ultime vengono riprese, peraltro, in tempi molto brevi. Quindi, l’emergenza non sono le evasioni ma certamente le condizioni di chi vive e una politica che dovrebbe fare più attenzione alle proprie carceri, a cosa accade dentro, e a farli funzionare piuttosto che agitarsi dinnanzi isolati episodi come questo. La situazione del personale è, in generale, critica in tutto il Paese: sulla carta viene stabilito un determinato organico mentre nella pratica è inferiore”, dice Alessandro Scandurra, coordinatore dell’Osservatorio di Antigone sulle condizioni di detenzione. Napoli: catturato in centro l’evaso da Poggioreale di Conchita Sannino La Repubblica, 27 agosto 2019 Sorpreso in strada al Corso Garibaldi da squadra mobile e carabinieri. Era da solo. Il questore Giuliano: “Orgoglioso delle donne e degli uomini del mio ufficio, sinergia con i carabinieri”. Dopo una frenetica caccia all’uomo e due giorni di fuga, è stato catturato a Napoli Robert Lisowski, il detenuto 32enne di nazionalità polacca evaso dal carcere di Poggioreale calandosi con una corda dal muro di cinta. Si nascondeva non distante dal Corso Garibaldi, in via Camillo Porzio, nei pressi della vecchia pretura. Dunque in una zona non lontana dal carcere di Poggioreale, da cui era scappato in modo rocambolesco, con un clamoroso flop del sistema di videosorveglianza del carcere, e senza che nessun agente lo notasse mentre si calava con una fune fatta di lenzuola annodate, in pieno giorno. L’evaso si trovava dunque a meno di un chilometro di distanza dal carcere, non si era allontanato dalla zona. L’hanno arrestato squadra mobile e carabinieri, sorprendendolo in strada. Lisowski era solo. È un pericoloso assassino: un anno fa uccise a coltellate un uomo di nazionalità ucraina, che gli aveva impedito di molestare una donna. “Sono orgoglioso delle donne e degli uomini della questura, che hanno lavorato con impegno e professionalità straordinari. Questa cattura è inoltre frutto di una perfetta sinergia e di un efficace scambio di informazioni con i colleghi dell’Arma dei Carabinieri”: è il commento del questore di Napoli, Alessandro Giuliano. Napoli: libero al posto del compagno di cella, 45 anni fa la grande beffa di Arturo di Antonio Mattone Il Mattino, 27 agosto 2019 Alle nove di sera del 17 giugno 1974, l’appuntato Cirino si presentò trafelato all’ufficio matricola del carcere di Poggioreale per denunciare un fatto sconcertante. Si era accorto che un detenuto si era sostituito al suo compagno di cella che doveva essere messo in libertà, ed era evaso con tutta calma dal penitenziario napoletano. Frizziero Arturo aveva risposto alle molteplici domande di rito del capo ufficio matricola Paggiarino Mario sulla data di arresto e sulle generalità di Giardullo Luigi con cui condivideva la stanza 48 del padiglione Livorno. E così, senza destare sospetti, dopo aver messo la firma al posto del carcerato in uscita, aveva salutato tutti e se ne era andato per la porta principale. Questa è stata l’ultima evasione dal carcere oggi intitolato alla memoria di Giuseppe Salvia di cui si ha notizia. All’indomani della incredibile fuga di Robert Lisowski, il detenuto polacco che domenica mattina si è calato dal muro di cinta annodando più lenzuoli mentre si celebrava la messa nella chiesa centrale dell’istituto, si era parlato solo di un precedente episodio avvenuto nel 1921, quando due carcerati scapparono dal penitenziario a pochi anni dalla effettiva apertura della prigione. In seguito a quella vicenda, in un primo momento fu istituito un servizio di vigilanza esterna, fino a trasferire nel nuovo complesso l’intero corpo di guardia che era in servizio nel carcere del Carmine. Ma non fu quella l’unica evasione a Poggioreale. Infatti, nel rapporto redatto dal maresciallo Paggiarino per il comandante dell’epoca, si può trovare il dettagliato resoconto della rocambolesco episodio avvenuto 45 fa. Probabilmente non si trattò di un piano improvvisato, ma di un progetto studiato e preparato con cura in quanto solo alle 17,30 di quel giorno lo stesso Paggiarino aveva telefonato in reparto per comunicare l’elenco dei “liberanti”, cioè di quei detenuti che dovevano essere scarcerati. Alle domande bisognava rispondere con decisione e sicurezza, non ci potevano essere tentennamenti, gli addetti alla matricola si sarebbero accorti immediatamente dello scambio di persona. Inoltre bisognava avere il tempo per imitare la calligrafia di Giardullo, nel caso ci si trovasse di fronte ad un agente più scrupoloso nel momento in cui si doveva apporre la firma per ratificare l’avvenuta liberazione. Nelle foto pubblicate da Il Mattino che riportò la notizia il giorno successivo al fatto, si può vedere l’impressionate somiglianza tra i due detenuti, che tra l’altro erano coetanei, abitavano entrambi nella zona di Piedigrotta ed erano accusati dello stesso reato, furto aggravato anche se avvenuto in circostanze diverse. A trarre in inganno i secondini ci fu anche la complicità di un altro detenuto, un tale Grieco coimputato di Giardullo che era presente a tutta la messa in scena, in quanto anche lui stava per uscire di prigione, ma che non osò aprire bocca mentre si consumava il clamoroso inganno. I tre protagonisti della clamorosa evasione furono denunziati per reato di falso e sostituzione di persona. Di Frizziero, che era ancora giudicabile, si persero le tracce, anche nelle cronache dei giornali, ma probabilmente dopo qualche tempo fu assicurato alla giustizia. Mentre per Giardullo, che doveva essere liberato per la sospensione della pena, i cancelli di Poggioreale restarono chiusi. In tempi più recenti ci sono stati altri tentativi di fuga dal carcere napoletano. Alcuni anni fa un recluso del padiglione Roma saltò il muro di cinta dalla parte del parcheggio del personale, ma cadde rovinosamente sulle auto in sosta procurandosi alcune gravi fratture. Lo scorso maggio, invece, nel padiglione Milano c’è stato un progetto di fuga ancora più paradossale. Un giovane russo di 20 anni si è infilato in un grosso saccone di immondizia, nascondendosi tra i rifiuti. Da lì avrebbe aspettato il momento propizio per cercare di scappare in qualche modo. Per rendere più credibile il suo piano, aveva posizionato degli abiti e delle lenzuola sulla sua branda, in modo da sembrare che dormisse. Un tentativo goffo e velleitario sventato dagli agenti che se ne sono accorti in tempo. Sempre nello stesso reparto un senegalese di 25 anni durante l’ora dei passeggi è riuscito a scavalcare il primo muro, ma anche qui il pronto intervento del personale ha evitato che si dileguasse. Saranno l’ozio e la mancanza di attività a stimolare fantasiose evasioni, a progettare incredibili vie di fuga? Difficile dirlo. Quello che è certo è che a Poggioreale la creatività e l’inventiva riescono sempre a sorprendere. Per fortuna, solamente ogni 50 anni, senza lasciare traccia. Agrigento: torna l’acqua al carcere, ma l’emergenza è destinata a ripetersi agrigentonotizie.it, 27 agosto 2019 La struttura non è dotata di prese di approvvigionamento speciali, basta un minimo guasto e il servizio idrico si interrompe anche per la Casa circondariale. Anche questa volta, l’acqua è tornata alla casa circondariale “Di Lorenzo” di contrada Petrusa ad Agrigento. Non sarà però l’ultima volta che il carcere - sia il settore detentivo che quello degli accasermati della polizia penitenziaria - resterà senza il prezioso liquido. È un problema ventennale. Un disservizio che, periodicamente, viene a determinarsi. E questo perché la struttura carceraria non è dotata di prese di approvvigionamento speciali. Basta dunque il minimo guasto - hanno fatto notare ieri dalla casa circondariale - e anche il carcere Di Lorenzo ne risente, inevitabilmente. Domenica, dopo l’intervento della Prefettura di Agrigento, sono dovute intervenire le autobotti dei vigili del fuoco per rifornire la casa circondariale. Lo si è fatto, naturalmente, per evitare che potesse innescarsi una sorta di rivolta fra i detenuti che hanno anche a che fare, spesso, con la mancanza di acqua calda. Ieri, però - sia grazie al rifornimento dei pompieri del comando provinciale di Villaseta che al ripristino dell’ordinaria erogazione idrica - l’acqua c’era e non si registravano né disservizi, né tantomeno disagi. Reggio Calabria: carceri da allarme rosso, sovraffollamento e assistenza sanitaria inadeguata di Francesco Tiziano Gazzetta del Sud, 27 agosto 2019 Due giorni con i detenuti reggini per monitorare le loro condizioni di vita, il rispetto del diritto alla salute, la tutela della dignità, e annotare le crepe strutturali. Alle carceri Panzera e Arghillà, le due “ispezioni” della delegazione del Partito Radicale-Unione Camere Penali Italiane hanno fatto emergere un quadro da allarme rosso. Dal report conclusivo degli osservatori - come scrive Francesco Tiziano nella Gazzetta del Sud in edicola - la Casa circondariale Panzera “presenta bagni in condizioni degradate, con accessori e sanitari corrosi dalla ruggine”. Inoltre, “il dato maggiormente problematico è costituito dall’accorpamento del carcere Panzera alla struttura di “Arghillà” con esponenziale aumento della popolazione detentiva e senza l’ampliamento del personale”. Venezia: vecchi distributori automatici di bevande rigenerati dai carcerati di Filippo De Gaspari Il Gazzettino, 27 agosto 2019 L’azienda rigenera i suoi distributori automatici di bevande grazie ai carcerati. All’aspetto ambientale si aggiunge così quello sociale. Succede alla Scattolin distribuzione di Noale, che da tempo ha fatto della sostenibilità ambientale un impegno e un marchio di fabbrica. Adesso, per allungare la durata dei suoi distributori automatici, lancia la rigenerazione, un modo per protrarre il funzionamento dei distributori, rinviandone nel tempo la loro trasformazione in rifiuto. Un’attività che andava affidata a professionisti esperti, capaci di rimettere in sesto i macchinari sia nelle parti elettriche che in quelle meccaniche. La Scattolin ha deciso di avvalersi di una cooperativa, la Bee4, che ha come mission quella di offrire una nuova occasione di vita a persone che hanno incontrato il carcere lungo il cammino della loro storia personale. La collaborazione prevede l’affidamento dei distributori automatici bisognosi di revisione alla Bee4, impresa sociale che ha sede a Milano e si occupa, oltre che di rigenerazione, anche di servizi aziendali e assemblaggio di componentistica. “Nel percorso che stiamo portando avanti come azienda sostenibile e con una forte impronta etica spiegano i titolari Giorgia e Massimo Scattolin abbiamo incrociato questa bella realtà che ha per obiettivo quello di offrire una nuova occasione di vita a persone che si trovano in carcere. In questo modo contiamo sulla professionalità di un gruppo di esperti qualificati anche nel nostro settore e sulla voglia di impegno e riscatto di chi vuole ricostruirsi un’esistenza imparando un mestiere”. In questi giorni i primi distributori automatici rimessi in sesto sono tornati da Milano nella sede dell’azienda di via Torricelli, a Noale, pronti per essere nuovamente operativi nei numerosi punti dove Scattolin è presente con i suoi apparecchi e servizi. Terni: Orto21, in arrivo “Fresche Frasche” al Centro di Palmetta tuttoggi.info, 27 agosto 2019 Si terrà da lunedì 2 a domenica 8 “Fresche Frasche”, laboratorio di Land Art tenuto da Marco Barbieri (in arte Dem) e parte dei laboratori gratuiti promossi nell’ambito di Orto21, l’iniziativa di agricoltura sociale da Associazione Demetra, volto alla creazione di un orto sinergico con la collaborazione di detenuti della Casa circondariale di Terni e volontari. In cosa consiste Fresche Frasche? Questa volta la formazione sarà dedicata alla Land Art con il laboratorio di autocostruzione “Fresche Frasche” con Marco Barbieri in arte Dem. Durante il workshop, utilizzando gli sfalci vegetali, sarà possibile imparare a preparare e realizzare strutture stabili e durature di medie-grandi dimensioni, e come progettarle attraverso una serie di schizzi preparatori. Chi è Dem? Marco Barbieri, noto come Dem nel mondo dell’arte, come un moderno alchimista, crea personaggi bizzarri, creature surreali, abitanti di uno strato impercettibile della realtà umana. Multiforme e ironico, le sue opere che spaziano dal wall-painting, all’illustrazione, alla pittura su tela, si arricchiscono di un linguaggio simbolico che invita ad elaborare un proprio codice d’accesso per questo mondo enigmatico ed arcano. L’avvicinamento a tematiche antropologiche e legate alla natura stimola l’artista a una costante sperimentazione, giunta negli ultimi anni alla produzione di un film e alla creazione d’installazioni composte esclusivamente da materiali naturali. Oltre alla produzione nelle fabbriche abbandonate e nei boschi, scelti come sfondo ideale per i suoi lavori, Dem vanta varie pubblicazioni ed esperienze espositive, come la personale alla Oro Gallery di Goteborg e la partecipazione alla mostre Street Art, Sweet Art al Pac di Milano, Nomadaz alla Scion Installation di Los Angeles e Cctv all’Apostrophe Gallery di Hong Kong. Il progetto Orto 21 - Il progetto “Orto21” propone attività formative e pratiche di giardinaggio, orticoltura, frutticoltura e piccola manutenzione dello stabile del Centro di Palmetta al fine di promuovere la formazione e l’integrazione sociale di detenuti del Carcere di Terni, l’educazione e la formazione di adulti e bambini, il rispetto per l’ambiente, la creazione e il consolidamento di legami sociali. Ampio spazio anche alla formazione con dei percorsi aperti a tutti i cittadini, tra cui un corso di potatura di ulivi e alberi da frutto e uno sul giardinaggio. Incontri informativi rivolte alle aziende agricole del territorio e incontri di sensibilizzazione e promozione riguardo alle misure alternative alla detenzione e a progetti sperimentali sull’economia carceraria. Fermo: Camera penale e Osservatorio carcere Ucpi in visita alla Casa di reclusione cronachefermane.it, 27 agosto 2019 L’Unione delle Camere Penali italiane, con il suo Osservatorio Carcere, ha aderito alla campagna promossa dal Partito Radicale e Radio Radicale ‘Ferragosto in carcerè, visitando gli istituti penitenziari territoriali. Nell’occasione, l’avvocato Simone Mancini, responsabile regionale dell’Osservatorio Carcere Ucpi, insieme ad una delegazione della Camera Penale di Fermo composta dall’ex presidente, l’avvocato Igor Giostra e dai colleghi Michelangelo Giugni e Valeria Gobbi, si è recato il 16 agosto nell’istituto penitenziario di Fermo. La finalità di tale iniziativa è consistita nel verificare le condizioni intra-murarie dei detenuti, insieme a quelle del personale dell’istituto, situazioni che indubbiamente si riflettono nel livello di qualità della vita. Grazie alla cortese collaborazione offerta dalla direzione dell’istituto di Fermo, è stato possibile accedere a zone abitualmente interdette ed è stato possibile mostrare ai detenuti la vicinanza della Camera Penale di Fermo e dell’Osservatorio Carcere alle criticità della vita carceraria. “Proprio in conseguenza dell’allarmante situazione nell’ambito detentivo, l’Ucpi - ricordano il responsabile Osservatorio Carcere dell’Ucpi, l’avvocato Simone Mancini e il presidente della Camera Penale di Fermo, l’avvocato Andrea Albanesi - ha recentemente proclamato l’astensione dalle udienze e da ogni attività giudiziaria nel settore penale per il giorno 9 luglio scorso. Passando ai numeri: l’istituto penitenziario di Fermo non presenta ad oggi particolari criticità di organico. A fronte della previsione di 54 unità di personale, va rilevato che solo un dipendente è prossimo al pensionamento ma ben 4 nuovi impiegati sono in arrivo. È stata rilevata anche l’assenza di problematiche di sovraffollamento, circostanza verificatasi in passato in concomitanza con una certa carenza di organico: la popolazione consiste in circa 50 detenuti, di cui il 45% risulta essere composto da stranieri, essendo per quest’ultimi maggiormente difficoltoso reperire un’attività lavorativa ed un’abitazione tale da permettere l’accesso alle misure alternative alla detenzione. L’assistenza sanitaria è garantita dalla presenza di un medico ed un infermiere, al bisogno si ricorre anche all’intervento della guardia medica di turno e l’infermeria risulta dotata di defibrillatore. All’interno della Casa di reclusione di Fermo è prevista una piccola sezione riservata a detenuti in attesa di giudizio (la cosiddetta sezione circondariale), c’è un’ulteriore sezione per detenuti in stato di semilibertà, con 4 posti cadauno. Oltre all’insufficienza degli spazi all’interno delle celle, un punto di criticità su cui indubbiamente bisogna riflettere consiste, nonostante l’impegno umano e professionale di tutto il personale, nella difficoltà di gestione dei soggetti che presentano problematiche psichiatriche, stante la carenza di adeguate strutture che potrebbero condurre ad un approccio e ad un supporto più adeguato nei confronti di soggetti particolarmente vulnerabili, a diretto beneficio anche della convivenza tra i detenuti”. E per concludere, nella loro nota, il responsabile Osservatorio Carcere dell’Ucpi, l’avvocato Simone Mancini e il presidente della Camera Penale di Fermo, l’avvocato Andrea Albanesi chiedono maggiori iniziative di carattere sociale e lavorativo, quelle ossia importanti anche per il “recupero ed il reinserimento sociale del detenuto, ratio ispiratrice dello stato di detenzione”. Padova: dal Venezuela al carcere Due Palazzi, la speranza è in musica di Lorenzo Maria Alvaro Vita, 27 agosto 2019 La prima mondiale del disco “Venezuela. Il popolo, il canto, il lavoro” prodotto dall’associazione “Trabajo y persona” si è tenuta nel carcere patavino grazie a Cooperativa Giotto. “Un’altra tappa molto importante del nostro rapporto di amicizia che da alcuni anni accompagna le nostre due realtà sociali. Ci aiuta a riflettere su quello che facciamo per affrontare difficoltà diverse con lo stesso obiettivo: attraverso il lavoro crescere insieme per ritrovare se stessi e recuperare la propria dignità” Un concerto speciale in un luogo particolare, quello del carcere di Padova. Così si preannunciava alla vigilia l’evento organizzato grazie alla collaborazione tra la cooperativa sociale Giotto e l’associazione venezuelana Trabajo y persona. E le aspettative non sono andate deluse, anzi. Come spesso accade, la realtà supera l’immaginazione, ma occorre almeno una condizione: che al centro ci sia la persona, in questo caso un gruppo di persone, che di fronte a una situazione politica ma soprattutto socioeconomica che sta portando allo stremo l’intero popolo venezuelano, non si perdono d’animo, prendono in mano la loro vita e provano a rispondere alle difficoltà col lavoro e la bellezza. Questo sta all’origine del disco e del concerto “Venezuela. Il popolo, il canto, il lavoro”. “È molto difficile lavorare in Venezuela ma il lavoro è libertà: da noi manca tutto, dalle medicine ai generi di prima necessità, ma quando si trova, il lavoro diventa un’opportunità formidabile per risvegliarsi alla vita”, afferma Alejandro Marius, presidente di Trabajo y Persona, da cui è nato il progetto. “Ma della nostra situazione preferiamo vedere le positività, perché la durissima realtà quotidiana ci sfida continuamente a riconoscere ed affermare il senso della vita”. Per questo è nato il disco, per questo è nato il concerto, per testimoniare come la bellezza scalda il cuore e apre la mente, proprio quello di cui c’è bisogno per rimettersi al lavoro. Il produttore Francisco Sànchez e il direttore artistico Aquiles Baez, il compositore e chitarrista più famoso del paese, mettendo insieme una trentina di musicisti di diversa provenienza culturale, sono riusciti a fare un piccolo capolavoro: rivitalizzare con arrangiamenti moderni tutta una serie canti legati al lavoro della tradizione popolare, come quello della mungitura, delle lavandaie o della raccolta del caffè e del cacao. Brani bellissimi, che con freschezza autentica e ritmo travolgente sanno esprimere in profondità l’anima irriducibile del popolo venezuelano, che da sempre ha costruito la propria dignità sul lavoro. I detenuti, che occupavano in ogni ordine di posti l’auditorium del carcere se ne sono accorti subito e hanno risposto con tanta commozione e con grande entusiasmo. “Noi siamo rimasti colpiti da questo dono”, commenta Nicola Boscoletto, presidente della Giotto, “perché, dopo la prima mondiale al Meeting di Rimini, non pensavamo che venissero fin qui in carcere. Sicuramente è stata un’altra tappa molto importante del nostro rapporto di amicizia che da alcuni anni accompagna le nostre due realtà sociali. Ci aiuta a riflettere su quello che facciamo per affrontare difficoltà diverse, ma che al fondo contengono lo stesso obiettivo: attraverso il lavoro crescere insieme non per scappare dalla condizione in cui ti trovi, ma ritrovare se stessi e recuperare la propria dignità. In questo senso colpisce che gente come questa, che più di altri avrebbe la possibilità di lasciare il Venezuela come hanno già fatto quattro milioni di persone, ha scelto di rimanere per costruire risposte concrete per il popolo”. Gli fa eco Aquiles Baez: “Noi abbiamo voluto venire in carcere semplicemente perché la musica è libertà e il concerto è l’occasione per fare un po’ di esperienza di essa”. Il direttore della Casa di Reclusione di Padova Claudio Mazzeo, che all’inizio del concerto ha letto un bello e profondo messaggio del Vice Capo dell’Amministrazione penitenziaria Lina Di Domenico a testimonianza della portata dell’iniziativa, commenta soddisfatto: “Portare un pezzetto del Meeting di Rimini in carcere è molto significativo, perché il Meeting è per l’amicizia fra i popoli e noi qui dentro abbiamo un popolo con i suoi bisogni a cui dobbiamo rispondere. Una bella iniziativa di integrazione che collega la musica al lavoro”. Il progetto della produzione del disco e del libro che lo accompagna ha uno scopo benefico: raccogliere liberamente dei fondi anche attraverso l’acquisto del disco-libro, come farà la cooperativa Giotto per i regali di Natale ai dipendenti. La raccolta fondi proseguirà fino a Pasqua, grazie alle azioni di fund-raising dell’Organizzazione di volontariato Amici della Giotto, tese a sostenere, oltre agli amici venezuelani, anche ragazzi, tra i 12 e i 17 anni, di un carcere minorile in Uganda. Al concerto, hanno assistito anche due magistrati di sorveglianza, Lara Fortuna e Linda Arata. Quest’ultima, intervenuta per ritirare un omaggio augurale per il nuovo incarico di presidente del Tribunale di sorveglianza di Venezia, ha sottolineato l’importanza dell’evento, in particolare per la vicinanza con i tanti italo venezuelani implicati in questa difficile situazione di crisi. Verona: detenuti in giuria al Film Festival della Lessinia di Antonella Barone gnewsonline.it, 27 agosto 2019 Alex, Andrea, Dumitrita, Giuliano, Ion, Ndrec, Nox, Pietro, Yassine e Youness: sono i dieci componenti della Giuria MicroCosmo dal carcere di Verona del Film Festival della Lessinia (Ffdl) 2019 che valuteranno film provenienti da 32 Paesi e assegneranno un premio speciale, ideato e costruito dagli stessi detenuti. Il Ffdl è l ‘unico concorso cinematografico internazionale esclusivamente dedicato a cortometraggi, documentari, lungometraggi e film di animazione sulla vita, la storia e le tradizioni in montagna. Nato nel 1995, il Ffdl ha si svolge quest’anno dal 23 agosto al 1° settembre a Bosco Chiesanuova (Vr) e prevede, oltre ai 67 film in programma, numerosi eventi speciali, retrospettive, mostre, incontri e dibattiti. Da nove anni l’Associazione MicroCosmo organizza e coordina i lavori di una delle sei giurie collaterali, composta da detenuti e detenute. “Il punto di vista di una persona detenuta -affermano gli organizzatori - è interessante per la sua specificità e deve coinvolgere il cittadino libero in una riflessione attenta alle esperienze e come valore aggiunto alla percezione che ordinariamente un film muove nelle persone libere”. L’assegnazione del Premio MicroCosmo rientra nel più vasto e articolato progetto La Montagna Dentro che coinvolge, nel corso di un intero anno, i detenuti partecipanti proponendo elementi del paesaggio come dimensioni interiori da elaborare e approfondire tramite la scrittura e altri strumenti espressivi. L’Albero e la Madre terra sono stati i temi proposti quest’anno per narrazioni realizzate con diversi linguaggi, dalla scrittura, alla fotografia, alla graphic novel. Le attività laboratoriali sono state documentate in un video che sarà presentato sabato 31 agosto. nel corso della cerimonia di chiusura del Ffdl presso il teatro Vittoria di Bosco Chiesanuova. Quel sogno di Icaro per i diritti dei detenuti e dei cittadini di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 27 agosto 2019 Un libro, curato da Franco Corleone e Roberta Casco, sul carcere di Udine. Un volume che parte dalla riflessione sul carcere di Udine, ma che finisce per allargarla nei confronti dell’intero sistema carcerario. “Via Spalato, storie e sogni dal carcere di Udine”, è il titolo di questo volume - edito da Menabò - curato da Franco Corleone, il garante dei diritti delle persone private della libertà della regione Toscana e da Roberta Casco, presidente dell’associazione Icaro. Andando avanti con la lettura, si fa più volte riferimento all’opportunità che dal carcere, però, bisogna uscire. Ma c’è anche un intero capitolo dove si indaga sul fallimento del carcere e vengono esaminati i nodi più difficili: il senso della pena e del carcere, l’indulto e l’amnistia, l’ergastolo e il 41bis. “Un libro - spiega Roberta Casco - che nasce dall’esigenza di voler raccogliere e divulgare una parte dell’enorme lavoro svolto negli anni da Maurizio Battistutta sui temi legati alla detenzione, all’esecuzione della pena, alla Giustizia, e aspira a diventare un pretesto per numerosi momenti di approfondimento su una tematica troppo spesso dimenticata, ma che riguarda una realtà che appartiene alla nostra città”. Maurizio Battistutta, scomparso il 22 febbraio del 2017, è stato il fondatore dell’associazione Icaro. Un uomo, come ricordano chi l’ha conosciuto, dotato di rara umanità e che ha speso la sua esistenza per i diritti. A cominciare da quelli lavorativi. Si apprende nel libro che, dopo aver fatto l’operaio e il macchinista ferroviere, dal 1983 entra all’Enaip-Fvg - Centro Servizi Formativi di Pasian di Prato, dove lavora per oltre trent’anni come docente nei corsi di prima formazione, coordinatore didattico, responsabile per l’orientamento e tutor. Nel Centro svolge anche attività di rappresentante sindacale; il suo impegno nella Cgil lo porta poi ad avere un distacco parziale come responsabile regionale del settore della formazione professionale. Compie varie esperienze di ricerca sociale e, con il collega Marco Iob, pubblica “Ascoltare il futuro. Il mondo possibile dei preadolescenti”, Edizioni La Meridiana 1996. Dal 1988, inizia la sua inesausta attività di volontariato presso la Casa circondariale di Udine e il Centro di servizio sociale per adulti. Nel 1994 costituisce l’associazione di volontariato penitenziario Icaro, di cui sarà presidente fino alla sua nomina, nel 2012, a Garante dei diritti delle persone private della libertà personale nel Comune di Udine. “Come ci ricorda il titolo di questo libro: Via Spalato, non un luogo “altro” lontano da noi - spiega ancora la presidente dell’associazione Icaro di Udine -, ma al contrario molto vicino, a pochi passi dal centro della città. Il carcere, un edificio misterioso per i più, del quale è necessario parlare, con il quale è urgente continuare a costruire ponti per comprendere, per sollecitare soluzioni diverse dall’irragionevole e ben poco efficace emarginazione degli autori di reato”. Il ricavato delle vendite di questo volume sarà utilizzato per proseguire nel progetto del Premio Nazionale Maurizio Battistutta. “Progetto oneroso - ricorda sempre Roberta Casco - ma al quale non vogliamo rinunciare per nessun motivo. Così Maurizio entra in tutte le carceri italiane e consente ai detenuti di riflettere ed esprimersi. Un modo tra i tanti per dare dignità”. A novembre del 2018 c’è stata la prima edizione del Premio Nazionale intitolato a Battistutta e riservato alle persone detenute. “Al concorso - si apprende nel libro - hanno partecipato tantissimi detenuti, con lavori letterali e artistici, con lo scopo di far sapere che, pur rinchiusi, la loro vita scorre ancora e per dimostrare di essere capaci di attrarre attenzioni con il proprio lavoro di scrittura, o di pittura”. Ora l’associazione Icaro conta di ripeterlo nel 2020 grazie al ricavato delle vendite del libro. Cammina, parla, prega. I detenuti diventano pellegrini per rinascere di Laura Rio Il Giornale, 27 agosto 2019 In onda su Raitre il percorso di sei giovani sulla via Francigena. Dalla cella al mare. “È come uscire dall’Inferno”. “È come riscoprire l’aria”. “È come vedere il mondo come non lo hai mai visto”. Sono le sensazioni - ingenue solo se non hai passato gli ultimi anni dietro le sbarre - dei ragazzi protagonisti della docu-serie “Boez-Andiamo via”. Sei giovani (cinque maschi e una femmina) in regime di detenzione, in carcere o in comunità o ai domiciliari, che intraprendono un pellegrinaggio, un cammino reale e dello spirito. Novecento chilometri di strada, cinquanta tappe, dal Colosseo alla punta della Puglia, Santa Maria di Leuca, sulla via Frangicena del Sud, per viaggiare per l’Italia e dentro se stessi e, magari, attraverso questa esperienza capire come reimpostare la propria vita su una strada completamente diversa. Boez andrà in onda dal 2 al 13 settembre su Raitre alle 20,20: 10 puntate dalla durata di circa mezz’ora l’una, con la regia di Roberta Cortella e Marco Leopardi (coproduzione Rai Fiction-Stemal Entertainment) con il benestare del ministero della Giustizia. Sei ragazzi dalla vita segnata fin dalla nascita: figli della strada, di famiglie disagiate o delinquenziali, che non hanno conosciuto altro nella loro breve esistenza e condannati per furto, spaccio, rapina omicidio, estorsione. A piedi e con zaino in spalla, accompagnati da due educatori, si mettono in cammino per sessanta giorni e devono sopravvivere con pochi euro al giorno, chiedendo ospitalità per dormire, per lavarsi, anche per un pasto. Che non fanno fatica a trovare. Il tutto documentato dai ragazzi stessi attraverso i telefonini, oltre ovviamente dalle troupe, per rendere più realistico il racconto. Passo dopo passo, i sei giovani recuperano la voglia di parlare, di confrontarsi, di raccontare le loro esperienze. Chi, come Maria, è stata “fatta sposare” da ragazzina e ora ha un figlio che non vede e le manca tanto, chi come Alessandro, Matteo, Kekko, Omar, Francesco è passato dai furterelli allo spaccio a reati più gravi. La serie, il cui titolo ricorda un writer, è stata presentata ieri a Roma e prima al Giffoni Film Festival. Ha un carattere sperimentale già provato in altri Paesi: il cammino è una forma di recupero, una pena alternativa che può portare a risultati positivi. E, in ogni caso, è un modo per far conoscere vite di ragazzi chiusi in carcere che, magari, potranno essere recuperati e reinseriti nella società. Durante le ore passate a camminare e, di sera, nel buio delle tende riflettono sulla loro vita e si ripropongono, una volta fuori dalla sbarre, di cambiare. Poi chissà... “Boez è una di quelle esperienze che danno un senso profondo al nostro lavoro - sottolinea Eleonora Andreatta, direttrice di Rai Fiction -. Raccontiamo storie e vi cerchiamo sempre un raccordo con la contemporaneità in funzione del servizio pubblico. La serie.documentario riduce al minimo la mediazione spettacolare e narrativa, e mette al centro una sfida che riguarda la condizione di chi è detenuto e che sconta una pena alternativa: il lungo cammino della via Francigena, cammino dei pellegrini e qui cammino verso la speranza di poter ricominciare una nuova vita. Tutti e sei i ragazzi, infatti, sono sulla soglia che può decidere di un destino e aprirlo alla libertà”. La Andreatta sottolinea anche che “il senso di una fiction è legato non solo a ciò che racconta, ma anche alla rete di relazioni con la società e le istituzioni che crea il contesto decisivo per sperimentare la novità di lavori che escano dal perimetro delle convenzioni: essenziale in questo senso è stata la collaborazione con il Ministero della Giustizia che ha condiviso il progetto”. L’arrivo a Santa Maria di Leuca, l’affaccio sull’immensità del mare, rappresenta il premio e la soddisfazione di tutti: cominciare a sognare una vita migliore. “Malpelo” e altre storie di ordinario caporalato di Francesco Casula Il Fatto Quotidiano, 27 agosto 2019 “Oltre 20 caporali arrestati e altrettanti denunciati a piede libero tra i quali tanti italiani. E poi centinaia di migliaia di euro in multe, attività agricole sospese, automezzi e immobili sequestrati. Sono i risultati del “piano d’azione” varato dalla Prefettura di Taranto e dalla Regione Puglia contro il fenomeno del caporalato nelle campagne di Taranto, la risposta dello Stato dopo la tragedia di Paola Clemente, la 49enne originaria della provincia ionica morta il 13 luglio 2015 mentre lavorava nei campi per due euro all’ora. “Un traffico di braccia che nella crisi perdurante del sistema è sempre più presente e pressante” come hanno spiegato Paolo Peluso e Lucia La Penna della Flai Cgil che da sempre è in prima linea nella tutela dei diritti dei lavoratori che operano nelle campagne tra il capoluogo ionico e il materano. E proprio ieri, dinanzi alla Prefettura del capoluogo lucano, centinaia di manifestanti hanno chiesto un alloggio sicuro e più servizi per i lavoratori stranieri alloggiati nei capannoni della Felandina di Metaponto, un vero e proprio ghetto in cui, qualche settimana fa, ha perso la vita una donna a causa di un incendio. Nel tarantino, negli ultimi 12 mesi, grazie all’impegno dei Carabinieri, Polizia e guardia di finanza stanno arrivando i primi frutti. In particolare l’opera del e in particolare del “Nil”, il comando dell’Arma per la tutela del lavoro, sta portando alla luce storie incredibili di sfruttamento. Ad esempio quella di un ragazzino: lo chiameremo Malpelo, come il Rosso protagonista di una novella di Giovanni Verga. Anche lui come il personaggio nato dalla penna dello scrittore siciliano è ancora minorenne e ha già imparato cosa siano “il sudore e la fatica”. Non va a scuola, non usa il cellulare, non esce con gli amici. È tutto proibito dal suo padrone. Ed è qui che la realtà supera il romanzo: il suo padrone è suo padre e a differenza di Mastro Misciu non mostra affetto nei confronti del figlio. I carabinieri lo hanno salvato da quell’uomo che lo aveva ridotto in schiavitù. L’uomo è finito in carcere con accuse pesantissime: “per aver esercitato nei confronti del figlio minore poteri corrispondenti al diritto di proprietà, costringendolo a prestazioni lavorative inumane”. Il pubblico ministero Antonella De Luca le ha formalizzate dopo l’agghiacciante racconto che Malpelo ha reso quando è stato portato via dalla sua prigione. “Di solito - ha detto il giovane - la sera mangio da solo preparandomi da solo i pasti, mentre loro (il padre e la sua convivente, ndr) mangiano e vanno a coricarsi prima che io abbia finito di lavorare. Una volta ho risposto male a mio padre e mi ha colpito con un ferro alla gamba, un’altra volta mi ha tirato un cazzotto in faccia perché mi lamentavo del lavoro e poiché qualche giorno fa non avevo svolto un lavoro che mi aveva chiesto, ossia riparare un cancello, mi ha lanciato il barattolo della Nutella colpendomi al volto. Mio padre è sempre stato così, sin da bambino”. Ha poi aggiunto: “Sono il suo schiavo, il suo miglior operaio”. Ma dalle carte dell’inchiesta emerge addirittura di peggio. Quell’uomo lo ha picchiato “con i più disparati arnesi da lavoro” e, dopo averlo obbligato a lasciare la scuola, ha provato persino a investirlo con il trattore. Malpelo è salvo solo grazie alla sua prontezza di riflessi: quando il padre si è lanciato contro di lui “è riuscito a passare - come si legge negli atti d’indagine - nella parte centrale del mezzo evitando le ruote”. Malpelo è tornato libero grazie a una sorella che non sapeva nemmeno di avere. Separata da lui alla nascita è stata adottata da una famiglia che vive lontano da lui. Lei lo ha trovato e quando ha scoperto le sue condizioni di vita ha denunciato tutto. Una sua storia che potrà dare nuovo impulso ai tanti invisibili costretti a lavorare per oltre 10 ore al giorno in cambio di una paga di 30 euro da cui i caporali sottraggono denaro per il trasporto per un alloggio fatiscente. Donne e uomini che non hanno il diritto di lamentarsi. Proprio come Malpelo. Caporalato. “Denunciano quasi soltanto gli stranieri” di Francesco Casula Il Fatto Quotidiano, 27 agosto 2019 Intervista a Claudio Petrone, legale della Flai Cgil: “La giustizia funziona, bisogna avere più coraggio”. “Per ridurre lo sfruttamento che, troppo spesso sfocia nella riduzione in schiavitù, è necessario che tutti i soggetti coinvolti raccontino alle forze dell’ordine quanto accade”. Così l’avvocato Claudio Petrone legale della Flai Cgil a Taranto, sintetizza il quadro della lotta al caporalato in una parte della Puglia. Avvocato Petrone, la presenza dello Stato nei campi è arrivata? La vicenda che ha coinvolto la povera Paola Clemente è servita ad aumentare l’attenzione su una problematica presente e che il sindacato della Flai Cgil denunciava da tempo. Purtroppo, come spesso accade, è stata necessaria la tragedia per far sì che l’opinione pubblica sapesse. Lo sfruttamento dei lavoratori è punito con pene severe dal codice penale e bisogna avere la forza di denunciare. Chi sono coloro che non denunciano? Può sembrare paradossale, ma il più delle volte chi trova coraggio di non cedere al ricatto occupazionale, sono in maggioranza cittadini stranieri. E, mi creda, non lo fanno per un tornaconto personale. Il più delle volte, infatti, il risarcimento dei danni subiti è di difficile ottenimento e certamente non immediato: i racconti di chi è sfruttato nei campi trova sempre riscontro nell’attività investigativa delle forze dell’ordine. Pensi che in una recente vicenda alcuni cittadini rumeni sono dovuti rientrare in Italia più volte e a loro spese, per poter testimoniare nel processo, ma lo hanno fatto per amore della giustizia. Ma trovano davvero giustizia nelle aule dei tribunali? Certamente e anche velocemente. Sono ormai anni che vengono effettuati numerosi arresti nella provincia di Taranto, soprattutto grazie alle competenze specifiche dei carabinieri del Nil e dei reparti territoriali. Alcuni processi sono in corso, ma in altre vicende gli imputati hanno subito scelto di patteggiare o sono stati condannati. Eppure il fenomeno continua a essere imponente: cosa serve ancora? Le ripeto: serve più forza per denunciare. I lavoratori, italiani e non, devono sapere di non essere soli, possono contare non solo sulle forze dell’ordine, ma anche sulle associazioni sindacali. La Flai Cgil fornisce consulenza legale, ma è presente con le sedi territoriali nei piccoli comuni e soprattutto nella campagne, proprio accanto ai lavoratori. Migranti. Servono soluzioni, ma fermiamo l’attacco alle Ong di Gianfranco Lattai* Corriere della Sera, 27 agosto 2019 Secondo Laozi: “Fa più rumore un albero che cade di una foresta che cresce”. Coloro che si occupano di cooperazione internazionale constatano ogni giorno il senso di questa massima. Più facilmente si comunicano gli interventi per le emergenze umanitarie e le calamità naturali piuttosto che il costante impegno nello sviluppare posti di lavoro per i giovani, nel garantire una sanità di base, nell’assicurare l’alfabetizzazione e la scolarizzazione a bambine e bambini delle famiglie più vulnerabili, nel promuovere progetti di autosufficienza alimentare, di sviluppo umano, di crescita economica e sociale dei territori. L’attuale fase storica rimuove ciò, sostenendo che le ong siano sono solo quelle nel Mediterraneo. Un’accezione distorta e limitativa. Se poi fosse provata la collusione con gli scafisti sarebbe ancor più grave e dovremmo auspicare l’intervento della magistratura. Tuttavia le procure di Catania e Trapani, che hanno sollevato sospetti sulle legittimità delle azioni di queste navi, non hanno emesso finora alcun provvedimento giudiziario. L’opinione pubblica è disorientata. Non comprende come nella sola Libia ci siano 800mila uomini, donne, bambini nei campi di detenzione ove neppure l’Onu accede. Un vero inferno e un vero affare per i trafficanti di uomini. Per capire questo infernale business basterebbe analizzare il sofisticato mercato illegale degli organi. Coloro che lasciano i loro Paesi e le loro famiglie lo sanno prima di partire. Eppure decidono di cercare un futuro possibile. Sono consapevoli dei rischi mortali e che spenderanno almeno dieci volte di più dell’acquisto di un biglietto aereo per l’Europa, ma per loro sono chiusi gli aeroporti. Gli scafisti sono solo l’epilogo di storie partite mesi o anni prima. I trafficanti lucrano sulle persone comunque, a prescindere dalla sopravvivenza di queste ultime. È inumano fare la politica dei rimpatri in Libia sapendo che in questo Paese non possiamo assicurare, neanche come ong d’intesa con le Agenzie Onu, quei servizi che molti dei nostri organismi offrono nei campi sfollati e rifugiati in tante parti del mondo. È inumano che l’Europa non trovi una soluzione per l’accoglienza. Tuttavia siamo grati del fatto che, nel discorso di insediamento come nuovo Presidente del Parlamento Europeo, David Sassoli abbia accennato alla revisione del Trattato di Dublino. Bene che ci siano navi di Ong o della Marina Militare Italiana che salvino la dignità di un Paese, l’Italia, e di una comunità, non condannando a morte tante persone nel Mediterraneo. Forse a noi delle Ong italiane è mancato il coraggio di mettere in mare una nostra nave. Tuttavia non è mai troppo tardi. Il problema non sono le Ong che per definizione operano in carenza di diritti, ma quei diritti negati che rischiano di diventare pietre angolari di una cultura priva di qualsiasi dignità. Cultura che contraddice l’articolo 2 della Legge 125.14, la quale riconosce la centralità della persona umana, nella sua dimensione individuale e comunitaria. Legge democraticamente ratificata dai rappresentanti del popolo italiano. *Presidente Focsiv Stop alle Ong dei cieli, l’Italia blocca gli aerei che avvistano migranti di Marco Mensurati La Repubblica, 27 agosto 2019 L’Italia tarpa le ali alle vedette volanti. Da quasi un mese, Moonbird e Colibrì, i due aerei leggeri delle ong che sorvolano il Mediterraneo per avvistare i gommoni dei migranti, non possono decollare da Lampedusa né da altri scali del nostro Paese. “Le norme nazionali impongono che quei velivoli possano essere usati solo per attività ricreative e non professionali”, sostiene infatti l’Enac, l’Ente nazionale per l’aviazione civile. Qualche volo riescono ancora a farlo, ma con grande difficoltà, e partendo da aeroporti lontani, in altri Stati. Dopo la desertificazione del mare davanti alla Libia a colpi di decreti sicurezza, si rischia dunque la desertificazione del cielo. Chiunque abbia partecipato a missioni di Search and Rescue sulle navi delle ong (ieri la tedesca Lifeline ha soccorso un centinaio di migranti a 31 miglia dalla costa libica), sa quanto sia importante avere due occhi che scrutano dall’alto. È il modo più efficace, talvolta l’unico, per individuare i gommoni e segnalarne tempestivamente la posizione ai soccorritori. Le coordinate sono trasmesse via radio dall’equipaggio di Moobird (un Cirrus Sr22 che vola per la no profit svizzera Humanitarian Pilote Initiative, in collaborazione con la ong tedesca Sea-Watch) e di Colibrì (un Mcr-4S a elica costato 130.000 giuro ai francesi di Pilotes Volontaires). Secondo un’inchiesta del Giornale, dal primo gennaio agli inizi di giugno Colibrì e Moonbird hanno accumulato 78 missioni, 54 delle quali partite da Lampedusa. “Colibrì - dice l’Enac - non è un aeromobile certificato secondo standard di sicurezza noti ed è in possesso di un permesso di volo speciale che non gode di un riconoscimento per condurre operazioni su alto mare. È stato inoltre oggetto di modifiche significative di cui non abbiamo tracciabilità”. Moonbird presenta caratteristiche simili. I rilievi vengono respinti dalla Sea-Watch, forte del parere di uno studio legale di esperti di aviazione che smonta l’approccio dell’Enac. “Ci viene da pensare che dietro a queste complicazioni burocratiche - dice Giorgia Linardi, responsabile di Sea-Watch Italia - ci sia la volontà politica di fermare le attività di ricognizione”. La desertificazione del cielo completa un processo in corso da mesi nel Mediterraneo centrale. Ancora ieri i volontari a bordo della Mare Jonio hanno potuto documentare come nelle sole ultime 24 ore, a fronte di almeno sei casi conclamati di gommoni in avaria grave, la cosiddetta guardia costiera libica (coordinata, come noto, dalla Marina italiana) non abbia emesso nemmeno un allarme Navtext, come invece sarebbe prassi. Una scelta perfettamente coerente con quanto da tempo fanno i comandi militari e i centri di coordinamento europei che non rilanciano le segnalazioni di imbarcazioni in difficoltà, come sarebbe invece loro dovere fare, ma interloquiscono direttamente ed esclusivamente con le autorità libiche. Migranti. Jerry Esslan Masslo, un monito contro il razzismo di Paolo Fallai Corriere della Sera, 27 agosto 2019 L’assassinio nelle campagne di Villa Literno del giovane fuggito dal Sudafrica segna ogni riflessione sul tema dell’immigrazione. Persi in un eterno presente, ci siamo resi conto in questi giorni che sono passati trent’anni dall’omicidio di Jerry Essan Masslo, fuggito dal Sud Africa dell’apartheid e trucidato da una banda di assassini il 24 agosto 1989, nelle campagne di Villa Literno, in provincia di Caserta. Fu quell’omicidio a far scoprire il razzismo all’Italia. Masslo non aveva 30 anni ed era arrivato in Italia solo un anno prima. Appena sceso dall’aereo a Fiumicino chiese asilo politico, ma l’Italia non aveva uno strumento legislativo per concederglielo, nonostante il fatto che nelle manifestazioni anti apartheid avesse perso il padre e una figlia di 7 anni. Nonostante il fatto che la moglie e un’altra figlia fossero fuggite in Canada, dove lui tenterà inutilmente di raggiungerle. La legge Martelli venne approvata in pochi mesi sull’onda emotiva di quell’omicidio, dopo una imponente manifestazione anti razzista a Roma, e servirà proprio a ridefinire e ampliare le norme per il riconoscimento dello status di rifugiato. In quel 1988 a Masslo era stato consentito di rimanere in Italia ma senza alcuna protezione, se non l’assistenza fornita dalla Comunità di Sant’Egidio. Finì a raccogliere pomodori nelle campagne di Villa Literno per mille lire (50 centesimi) ogni cassetta da 25 chili. È morto perché una banda di balordi voleva rubare i soldi a questi “schiavi”, nella baracca dove dormivano in trenta. Sono passati tre decenni da quella morte che segna ogni riflessione seria sul tema immigrazione. Lo storico del Cnr Michele Colucci apre con la vicenda di Masslo la sua “Storia dell’immigrazione straniera in Italia” (Carocci). Ci sono voluti anni di denunce e inchieste, come quelle preziose che ci ha lasciato Alessandro Leogrande, perché l’Italia si dotasse, solo nel 2016, di una legge contro la mafia del caporalato. Il razzismo è entrato nel nostro eterno presente. Anche per questo Jerry Essan Masslo non merita di essere dimenticato. Le chiacchiere di Biarritz e le bombe di Israele di Alberto Negri Il Manifesto, 27 agosto 2019 G7. A Biarritz si chiude il teatrino dei Grandi della Terra. E mentre Trump finge di discutere con Teheran, il suo principale alleato in Medio Oriente parla con le armi. Gli ingredienti per la rappresentazione di Macron c’erano tutti: Biarritz ha fornito la scenografia vacanziera e il palco del napoleonico Hotel du Palais per la messa in scena dei Grandi della Terra. Soprattutto si doveva soddisfare il primo attore, Donald Trump, un “pericoloso e petulante narcisista” come lo definisce sul Financial Times il suo ex consigliere Anthony Scaramucci: una star bizzosa, da trattare con i guanti. In primo piano nel canovaccio francese il disastro mondiale dell’Amazzonia, le disuguaglianze economiche e sociali, l’Iran, la Cina, le guerre commerciali. Ma niente di questi temi così seri doveva prendere un tono drammatico, come era avvenuto al summit dell’anno scorso in Canada, ma virare verso la pochade ottocentesca, un intreccio caratterizzato da equivoci e doppi sensi da interpretare. E così è stato: il regista Macron ha puntualmente sorpreso il pubblico con i colpi di scena di al Sisi e Zarif senza mai scivolare in una tediosa, e pericolosa, serietà. Questa del G-7 doveva restare una commedia brillante, un puro divertimento senza neppure l’ombra inquietante di una vera notizia. Un’elegante fake news per distrarre il pubblico internazionale dalla prossima e temuta recessione economica. Ci sono le chiacchiere e poi c’è la realtà, al G-7 come in qualunque consesso umano. Il vertice di Biarritz non è stato esattamente come lo descrivono le cronache. Con il colpo di teatro dell’arrivo del ministro degli Esteri iraniano Macron ha annunciato alle tv che era stata raggiunta un’intesa per inviare un messaggio comune a Teheran. Trump poco dopo lo ha smentito, anche se ha aggiunto di non avere niente da obiettare agli sforzi francesi di mediazione. “Siamo aperti al negoziato - è la posizione ufficiale Usa - ma non ci sono le condizioni per avviarlo”. Stop. In realtà Trump ha lasciato fare a Macron le sue evoluzioni mentre Israele bombardava in quattro Paesi del Medio Oriente facendo la sua guerra all’Iran. Gli israeliani hanno colpito in Iraq le milizie sciite affiliate a Teheran, poi ha cercato di bersagliare gli Hezbollah filo-iraniani a Beirut, preso di mira i Pasdaran degli ayatollah in Siria e bombardato Gaza. In poche parole mentre a Biarritz si faceva finta di discutere, il maggior alleato Usa nella regione faceva parlare le armi. Nei campi di battaglia se ne fregano del G-7. Per il presidente americano questi vertici internazionali sono di una noia assoluta, l’unica cosa che poteva interessarlo era riammettere Putin espulso nel 2014 per l’annessione della Crimea ma gli europei si oppongono e la questione è stata per il momento archiviata. La stessa cosa vale per i dazi, una guerra commerciale che sta trascinando al ribasso l’intera economia mondiale. Trump non solo vuole imporli ai cinesi ma anche agli europei: è consapevole che questo può portare a una vasta crisi economica mondiale ma è disposto a pagarne il prezzo, almeno fino al punto che questo non incida sulla sua rielezione, visto che ormai è entrato in piena campagna elettorale. Anche la Brexit nella pochade di Biarritz è apparsa meno drammatica ma persino il prossimo amicone di Trump, il premier Boris Johnson, ha ribadito che il libero commercio è un pilastro della politica britannica da 200 anni. Per ora il patto transatlantico non si vede e Trump, per non perdere troppo tempo, ha vestito per un momento anche i panni del piazzista vendendo il suo grano ai giapponesi. Tokyo ha specificato che acquisterà solo le quote di grano Usa che non saranno vendute in Cina. Quanto all’Italia questo G-7 era soltanto una passerella per il premier dimissionario Giuseppe Conte che, contrariamente alla Lega di Salvini, sostenendo la candidatura della tedesca Ursula von der Leyen alla presidenza della commissione europea, si è guadagnato l’appoggio dell’establishment dell’Unione, secondo il copione dettato dal presidente Mattarella. Conte è apparso così sicuro da dichiarare che “dopo un anno di governo è in grado di indicare le soluzioni per risolvere i problemi del Paese”. Neppure Andreotti aveva mai detto una cosa simile dopo mezzo secolo ai vertici della repubblica. Medio Oriente. Guerra all’orizzonte dopo i raid israeliani di Michele Giorgio Il Manifesto, 27 agosto 2019 Forti reazioni arabe dopo l’ondata di attacchi aerei che Israele ha messo a segno nel giro di poche ore in Siria, Libano, Iraq e Gaza. Netanyahu lancia nuovi avvertimenti a Tehran e guarda con sospetto a un possibile dialogo tra Trump e Rohani. La prova di forza e di capacità strategica offerta da Israele negli ultimi giorni potrebbe essere solo l’inizio di qualcosa di più grosso e pericoloso per il Medio oriente. Ieri, mentre nella regione si accendevano le proteste di leader di Stato e di governo e di organizzazioni militanti riconducibili all’Iran per i bombardamenti che l’aviazione israeliana ha compiuto in Siria, Iraq, Libano, e nella Striscia di Gaza, Benyamin Netanyahu ha convocato il leader dell’opposizione ed ex capo di stato maggiore, Benny Gantz, e attraverso i suoi consiglieri lo ha informato sulla situazione. Un segnale inequivocabile. I primi ministri di solito informano il capo dell’opposizione su questioni di sicurezza nazionale in caso di una guerra imminente o molto probabile. Qualcuno ridimensiona il rischio di un conflitto diretto tra Israele e Iran. Spiega l’escalation in corso con Netanyahu che, a tre settimane dal voto, vuole apparire agli occhi degli elettori come “Mr. Sicurezza”, colui “che le suona ad arabi, palestinesi e iraniani”. Il quadro però è più complesso. Nella notte tra sabato e domenica, dopo l’attacco israeliano contro una presunta base nei pressi di Damasco della Brigata al Quds della Guardia rivoluzionaria iraniana - Tehran smentisce e il movimento sciita libanese Hezbollah sostiene che si trattava di una sua struttura - Netanyahu è uscito allo scoperto. In pubblico, come di rado fa Israele, ha rivendicato il raid sostenendo di averlo ordinato allo scopo di prevenire un “attacco imminente” dell’Iran con droni contro il nord della Galilea che, a detta del primo ministro, avrebbe avuto gravi conseguenze. Quindi ha lanciato un nuovo avvertimento. “L’Iran non ha alcuna immunità. Le nostre forze operano in ogni settore” ha detto per sottolineare le capacità strategiche e di intelligence delle forze armate ai suoi ordini. A inizio settimana della scorsa settimana a mezza bocca Netanyahu aveva indicato un possibile coinvolgimento di Israele nei recenti attacchi avvenuti in Iraq contro organizzazioni legate a Tehran. Coinvolgimento poi confermato da un funzionario governativo statunitense al New York Times. E mentre rivendicava l’attacco in Siria, prontamente giustificato come “autodifesa” dagli Stati uniti, il premier israeliano ha innescato una escalation di attacchi in mezzo Medio oriente. In Libano due droni israeliani sono caduti in circostanze poco chiare a sud di Beirut, la roccaforte di Hezbollah. Poi nelle ore successive aerei, forse ancora droni, hanno preso di mira, nella Valle della Bekaa, una caserma del Fronte popolare-comando generale (partito palestinese vicino alla Siria). Quindi è giunto l’attacco in Iraq - è stato ucciso un importante comandante militare -, nella provincia di al Anbar, a qualche chilometro dal valico di Qaim con la Siria, contro un convoglio della Brigata 45 delle Hashd al Shaabi, le Forze sciite di mobilitazione popolare prese di mira da Israele quattro volte nell’ultimo mese. Infine è stata colpita Gaza, in risposta al lancio di tre razzi di cui Hamas nega la responsabilità sua o di altre organizzazioni palestinesi. Israele ha annunciato che farà entrare a Gaza solo metà della quantità necessaria di carburante. Attacchi a ripetizione che stanno incendiando la regione. Domenica il leader di Hezbollah, Hassan Nasrallah, ha avvertito che “È finito il tempo in cui Israele bombardava il Libano rimanendo poi al sicuro” e ha annunciato che la sua organizzazione abbatterà i droni israeliani che entreranno nello spazio aereo libanese. I suoi commenti hanno ricevuto l’appoggio prima del capo di governo, il sunnita Saad Hariri, e poi del presidente, il cristiano Michel Aoun, che ha definito l’attacco israeliano una “dichiarazione di guerra”. Uguali le parole delle Hashd al Shaabi che hanno annunciato: “ci riserviamo il diritto di rispondere” a Israele. L’Iraq rischia di trasformarsi in un campo di battaglia a causa di questi attacchi. Le conseguenze potrebbero travolgere il premier Abdul Mahdi impegnato a consolidare il suo fragile potere e a colpire le fazioni delle Hashd al Shaabi che operano ancora al di fuori dell’autorità del suo governo. I raid israeliani umiliano l’Iraq, ne evidenziano la debole sovranità e rafforzano i critici di Abdul Mahdi che mantiene ottimi rapporti con gli Stati uniti alleati di Israele. In queste ore si levano più forti nuove e vecchie voci che chiedono l’uscita dei militari Usa dal paese. Sullo sfondo di questa ondata di attacchi israeliani, c’è il G7. Non pare un caso che i raid siano scattati proprio mentre il presidente francese Macron accoglieva Donald Trump e i leader degli altri paesi membri e a Biarritz arrivava “a sorpresa” il ministro degli esteri iraniano Mohammad Javad Zarif. In casa israeliana si guarda con sospetto all’iniziativa di Macron per un allentamento della tensione tra Usa e Iran. Donald Trump senza alcun dubbio è un alleato strettissimo di Netanyahu e lo ha dimostrato più di una volta. Però è anche imprevedibile e potrebbe cercare il dialogo con Tehran che oggi appare impossibile. Intanto Trump ha fatto al premier israeliano un regalo elettorale. A Biarritz ha annunciato che con ogni probabilità gli Usa presenteranno il loro piano (Accordo del Secolo) prima del voto in Israele il 17 settembre. Iraq. Pena di morte per 8mila detenuti. Cosa sarà dei cittadini Ue accusati di combattere con l’Isis? di Riccardo Noury* Il Fatto Quotidiano, 27 agosto 2019 La scorsa settimana l’Alta commissione irachena per i diritti umani ha reso noti i risultati di una sua ricerca sull’uso della pena di morte dall’inizio dell’anno. Anche se il governo non ha mai reso pubbliche informazioni sull’argomento, la fonte della ricerca è ufficiale: il ministero della Giustizia di Baghdad. Da gennaio sono stati messi a morte oltre 100 prigionieri e altri 8022 attendono l’esecuzione nei bracci della morte. Al ritmo attuale, comunque terrificante, e in assenza di nuove condanne a morte (un evento inimmaginabile) ci vorrebbero 40 anni per svuotarli tutti. Un’accelerazione c’è comunque già stata rispetto allo scorso anno, quando in tutto le esecuzioni erano state 52. La maggior parte delle esecuzioni si è basata sulle leggi speciali antiterrorismo e ha avuto luogo al termine di processi sommari, fondati su confessioni estorte con la tortura o su presunte dichiarazioni di persone mai comparse in tribunale. Le persone messe a morte erano prevalentemente combattenti dello Stato islamico, o sospetti tali, catturati nella battaglia di Mosul o consegnati alle autorità irachene dalle Forze democratiche siriane, a guida curda, restie al trasferimento ma, come si capirà meglio più avanti, senza altra scelta. Sempre secondo l’Alta commissione per i diritti umani, complessivamente nelle 36 prigioni irachene si trovano, condannati o in attesa di giudizio, 37.113 prigionieri: la metà - 18.306 - sono detenuti per reati di terrorismo e, come ricordato, più di 8mila sono in attesa di esecuzione. Come ho già scritto in un post alcune settimane fa, molti detenuti sono cittadini stranieri arruolatisi nello Stato islamico: presumibilmente 4mila, più di un decimo dei quali di nazionalità francese. Il Kosovo, primo paese europeo in termini relativi, ossia in proporzione alla popolazione, per numero di foreign fighters è tra i pochi ad aver organizzato il rientro di parte dei suoi cittadini: 110, soprattutto donne e bambini. L’hanno fatto anche alcune ex repubbliche sovietiche dell’Asia centrale, ma presumibilmente per sbarazzarsene a modo loro coi metodi tipici di quelle dittature. Resta aperta la questione di cosa fare dei cittadini dell’Unione europea. La posizione irachena non è chiara: c’è chi negozia con gli Stati europei perché se li riprendano e chi, magari in cambio di aiuti economici, propende per svolgere i processi in Iraq difendendo la scelta della pena di morte. Nei giorni scorsi l’esperta delle Nazioni Unite sulle esecuzioni extragiudiziali, sommarie e arbitrarie, Agnès Callamard, ha sollecitato Parigi a rimpatriare sette jihadisti francesi condannati a morte senza aver avuto la minima assistenza consolare. Nella sua nota Callamard ha messo in luce l’incongruenza di fondo di questa vicenda: la Francia è contraria alla pena di morte (e, col resto dei paesi dell’Unione europea, porta avanti una politica globale abolizionista), ma non al fatto che suoi cittadini siano processati in un paese che applica la pena di morte su scala industriale. Si è persa nel silenzio generale la proposta delle Forze democratiche siriane di processare i terroristi dello Stato islamico istituendo nei loro territori, nel nord-est della Siria, un tribunale internazionale. Non gli ha risposto nessuno: l’amministrazione curda non è riconosciuta a livello internazionale. Eppure sarebbe l’unica soluzione in grado di assicurare due obiettivi: la non impunità per gli imputati riconosciuti colpevoli di gravissime violazioni dei diritti umani e, allo stesso tempo, il rispetto dei loro diritti di fronte alla giustizia penale. Troppo idealistica e velleitaria, vero? Più semplice affidare tutto al boia iracheno. *Portavoce di Amnesty International Italia Niger. “Se questo è un uomo, un’altra volta ancora” di Alberto Barbieri* La Repubblica, 27 agosto 2019 La testimonianza del medico coordinatore di “Medici per i diritti umani” (Medu). Il richiamo a libro di Primo Levi nel raccogliere le testimonianze di quanti hanno subito le violenze in Libia. “E se potessi racchiudere in un’immagine tutto il male del nostro tempo, sceglierei quest’immagine, che mi è familiare: un uomo scarno, dalla fronte china e dalle spalle curve, sul cui volto e nei cui occhi non si possa leggere traccia di pensiero”. L’uomo è seduto davanti a noi nel posto medico per l’assistenza psicologica, un piccolo modulo di plastica, il caldo è soffocante. Siamo nel deserto, a pochi chilometri da Agadez, nel campo allestito dall’Unhcr per i rifugiati in fuga dalla Libia. L’uomo, sudanese, ha trenta, forse quarant’anni; racconta di come è fuggito dal Darfur, dove il suo villaggio è stato distrutto e parte della sua famiglia sterminata. Il resto delle persone a lui care, un figlio e un fratello, le ha perse nei campi di sequestro libici dove è rimasto quasi un anno; poi la fuga ancora in Algeria perché l’accesso alle coste libiche e all’Europa era bloccato. Il respingimento dall’Algeria. È stato costretto a una marcia forzata nel Sahara fino in Niger, ad Agadez. L’uomo ha perso tutto; le persone, le cose, la sua terra. Racconta la sua storia con un tono di voce regolare, monotono, in un silenzio assoluto in cui anche il respiro di noi medici sembra essersi fermato, sembra che la sua voce debba spezzarsi da un momento all’altro e trasformarsi, se non in pianto, in lacrime. Ma non avviene. Al termine, il suo sguardo appare perduto, i suoi occhi vuoti, il suo corpo scarno e ripiegato su se stesso. Da un angolo della mia memoria riemerge la descrizione di un uomo ad Auschwitz, in Se questo è un uomo di Primo Levi. Certezze che si sgretolano. Per ogni generazione c’è un momento in cui ogni certezza si sgretola e ciò che è umano sembra svanire. Per la nostra, quel momento è arrivato nel quotidiano incontro con uomini, donne e bambini migranti sopravvissuti alle atrocità commesse nei campi di tortura in Libia e sulle rotte migratorie del XXI secolo. Si dirà che l’accostamento dei campi di sequestro e dei centri di detenzione libici in cui dal 2011 almeno un milione di persone sono state rinchiuse per settimane, mesi o anni, all’Olocausto per eccellenza, ai campi di sterminio hiltleriani, sia del tutto pretestuoso data l’incomparabilità storica e oggettiva delle due vicende. Forse, probabilmente. Lascerò giudicare a chi leggerà queste righe. Le atrocità ascoltate. Mi limiterò ad elencare solo alcune delle volte (purtroppo gli esempi sarebbero assai di più, date le innumerevoli testimonianze di atrocità ascoltate come medico e psicoterapeuta in questi anni) in cui le storie e le evidenze raccolte dagli operatori di Medici per i Diritti Umani (MEDU) direttamente dai sopravvissuti mi hanno richiamato attraverso un prepotente meccanismo di associazione, le parole di Primo Levi. Faccio questo, lo ammetto, per impellente necessità personale, non pretendendo che le associazioni della mia testa abbiano sempre un’indiscutibile forze oggettiva. Sonderkommandos (squadre speciali). Così le SS chiamavano, in modo volutamente vago, i gruppi di prigionieri che venivano obbligati ad occuparsi dei forni crematori ad Auschwitz e negli altri lager nazisti. “Aver concepito ed organizzato le Squadre (sonderkommandos n.d.r) è stato il delitto più demoniaco del nazionalsocialismo. Attraverso questa istituzione, si tentava di spostare su altri, e precisamente sulle vittime, il peso della colpa talché, a loro sollievo, non rimanesse neppure la consapevolezza di essere innocenti. Non è facile né gradevole scandagliare questo abisso di malvagità, eppure io penso che lo si debba fare, perché ciò che è stato possibile perpetrare ieri potrà essere nuovamente tentato domani” (I sommersi e i salvati, Primo Levi). “Ho lavorato per la polizia libica ma non era proprio un lavoro. Loro mi usavano, io non mi potevo rifiutare. “Dovevo recuperare i cadaveri dei miei fratelli”. Quando ho provato a rifiutarmi mi hanno picchiato violentemente e hanno minacciato di uccidermi. Il mio compito era quello di recuperare i cadaveri dal mare, i cadaveri dei miei fratelli che morivano durante i naufragi. Li recuperavo e poi dovevo seppellirli. In questi due anni ho contato circa 3.000 corpi. Ho finito per farci l’abitudine. Alla fine non mi emozionavo più, non mi sconvolgevo più. Solo per le donne che erano visibilmente in gravidanza o per i cadaveri dei bambini non sono mai riuscito a farci l’abitudine. (L., 17 anni, dal Gambia, testimonianza raccolta presso l’Hotspot di Pozzallo, ottobre 2017). La vergogna e la colpa. “L’uscir di pena è stato un diletto solo per pochi fortunati, o solo per pochi istanti, o per animi molto semplici; quasi sempre ha coinciso con una fase di angoscia… A mio avviso, il senso di vergogna o di colpa che coincideva con la riacquistata libertà era fortemente composito: conteneva in sé elementi diversi, ed in proporzioni diverse per ogni singolo individuo…Si soffriva per la riacquistata consapevolezza di essere stati menomanti. Non per volontà né per ignavia né per colpa, avevamo tuttavia vissuto per mesi o anni ad un livello animalesco” (I sommersi e i salvati, Primo Levi). “Vicino alla città di Ajdabiya siamo stati rapiti da militanti del Daesh (l’autoproclamato Stato Islamico, n.d.r) e per 3 mesi ci hanno tenuto in ostaggio. “Ci maltrattavano con i fucili e i coltelli”. All’inizio ci maltrattavano con i fucili, con i coltelli, urinavano su di noi, facevano tutto quello che volevano senza pietà. Dormivamo ammassati in un capannone senza mangiare e senza bere. Io sono cristiano, ma quando ho capito che l’unico modo per salvare la mia vita era convertirmi l’ho fatto...” (M.I., dall’Eritrea, 22 anni, testimonianza raccolta a Roma presso la clinica mobile di Medu, novembre 2015). “Da lì, sono stato portato alla prigione di Al-Khums, lontano da Tripoli. C’erano più di 300 persone in ciascuna stanza, non c’era spazio per stendersi e per dormire. Ci davano poca acqua e poco cibo. Ogni giorno alle 13 ci portavano un pezzo di pane e un bicchiere di acqua. Questo era tutto ciò che abbiamo ricevuto per tutti gli 8 mesi in cui sono stato detenuto lì dentro.” (A. D, 20 anni, dal Gambia, testimonianza raccolta presso il CAS di Canicarao (Ragusa), novembre 2014) L’autoaccusa per una mancata solidarietà. “Più realistica è l’autoaccusa, o l’accusa, di aver mancato sotto l’aspetto della solidarietà umana …quasi tutti si sentono colpevoli di omissione di soccorso…Hai vergogna perché sei vivo al posto di un altro? Ed, in specie, di un uomo più generoso, più sensibile, più savio, più utile, più degno di vivere di te ? … è una supposizione ma rode; si è annidata profonda, come un tarlo… (I sommersi e i salvati, Primo Levi). “Il casolare dove eravamo tenuti prigionieri era a pochi chilometri dal mare, ad Al Zawiya. Quella sera le guardie entrarono nello stanzone in cui eravamo ammassati per portare via i cadaveri di alcuni di noi; poi iniziarono a picchiare selvaggiamente alcuni nuovi arrivati che, secondo loro, non obbedivano agli ordini abbastanza velocemente. Io e il mio amico approfittammo del trambusto; la porta era rimasta semi aperta. Iniziammo a correre senza guardare indietro, con tutte le forze che avevamo ancora nelle gambe. Eravamo quasi al sicuro in un campo di ulivi quando una raffica di mitra colpì il mio amico. Cadde a terra. Io mi fermai per un attimo, poi ripresi a correre perché le guardie stavano arrivando. Piango ora come allora. Lo porterò con me fino a che vivrò.” (A., 20 anni, dalla Sierra Leone, testimonianza raccolta al centro Medu Psyché, settembre 2017). I peggiori crimini del mondo contemporaneo. “E c’è una vergogna più vasta, la vergogna del mondo…c’è chi davanti alla colpa altrui, o alla propria, volge le spalle, così da non vederla e non sentirsene toccato... nell’illusione che il non vedere sia un non sapere” (I sommersi e i salvati, Primo Levi). La vergogna del mondo, certo. Dell’Italia, dell’Europa, della comunità internazionale. La nostra vergogna che è l’ostinazione a non voler vedere chi sta dall’altra parte del mare, per non sapere, per declinare ogni responsabilità. Oppure il voler credere, al di là di ogni evidenza, che sia tutto finto, sia tutta propaganda perché in realtà “qui da noi arrivano finti rifugiati, giovani palestrati con i cellulari di ultima generazione e le catene d’oro”. Chiunque abbia responsabilità di governo, qualunque cittadino degno di questo nome prima di formulare giudizi e intraprendere azioni dovrebbe riflettere su come i peggiori crimini del mondo contemporaneo siano sempre stati oggetto di incredulità e di ogni tipo di negazionismo; dovrebbe per lo meno porsi il dubbio prima di urlare il proprio verdetto. Violenza inutile. “Violenza inutile, fine a se stessa, volta unicamente alla creazione di dolore; talora tesa ad uno scopo, ma sempre ridondante, sempre fuor di proporzione rispetto allo scopo medesimo” (I sommersi e i salvati, Primo Levi). “La Libia è stato un inferno. Io sono maledetta, sono proprio maledetta. A Sabha mi hanno preso e portato in prigione, volevano da me dei soldi. Sono stata in prigione sette mesi: dal settembre 2016 all’aprile 2017. Mi hanno fatto di tutto! Ogni giorno ci prendevano e ci portavano da degli uomini per soddisfare le loro voglie. Mi hanno preso da davanti, da dietro, erano così violenti che dopo avevo difficoltà anche a sedermi. Mi filmavano mentre mi violentavano. Mi urinavano addosso! Un giorno mi hanno costretta ad avere un rapporto con un cane e loro mi hanno filmato. “Le guardie si divertivano a vederci soffrire”. Sono maledetta” (N. S., dalla Costa d’Avorio, 40 anni, testimonianza raccolta presso il Cara di Mineo, giugno 2017). “Le guardie si divertivano a vederci soffrire. Ci portavano il cibo una volta al giorno e mentre ce lo davano ci torturavano con le scosse elettriche. Durante 3 mesi sono stato picchiato ogni giorno. Le guardie venivano, mi facevano togliere la maglietta e mi picchiavano sulla schiena con un bastone, dicevano che senza vestiti faceva più male e loro si divertivano. A volte invece di picchiarmi mi bruciavano, scaldavano un ferro da stiro e me lo appoggiavano addosso”. (G.O., 19 anni, dalla Nigeria, testimonianza raccolta presso l’Hotspot di Pozzallo, agosto 2017). “Vivevamo nel terrore anche perché sembrava che i carcerieri ci facessero del male per puro divertimento o per proprio piacere. A volte la notte arrivavano ubriachi e se qualcuno passava sparavano. A volte lasciavano morire le persone dissanguate.”. (O., 18 anni, dalla Nigeria, testimonianza raccolta presso l’Hotspot di Pozzallo, 8 settembre 2017). Il trauma di fare i propri bisogni in pubblico. “Evacuare in pubblico era angoscioso o impossibile: un trauma a cui la nostra civiltà non ci prepara, una ferita profonda inferta alla dignità umana, un attentato osceno e pieno di presagio; ma anche il segnale di una malignità deliberata e gratuita” (I sommersi e i salvati, Primo Levi). “Il cibo veniva preparato negli stessi contenitori dove ci si lavava e si urinava. Le guardie del centro mescolavano gli escrementi che i bambini facevano nella spazzatura con gli alimenti ed eravamo costretti a mangiare quel cibo anche perché eravamo da giorni o settimane a digiuno.” (M., dalla Costa d’Avorio, 38 anni, testimonianza raccolta presso il Cara di Mineo, agosto 2017). I Kapò. Erano liberi di commettere sui loro sottoposti le peggiori atrocità, a titolo di punizione per qualsiasi loro trasgressione, o anche senza motivo alcuno: fino a tutto il 1943, non era raro che un prigioniero fosse ucciso a botte da un Kapo, senza che questo avesse da temere alcuna sanzione” (I sommersi e i salvati, Primo Levi). “Preciso che io mi trovavo a Sabha nel ghetto dei nigeriani ed il capo del centro era il nigeriano Rambo. Ho poi saputo che c’erano ghetti per ogni nazionalità, ma tutti facevano parte del grande Ghetto di Alì. Ogni ghetto aveva un capo, spesso della stessa nazionalità dei prigionieri che dipendeva dai padroni libici. Subivamo ogni giorno violenze atroci. Rambo era una presenza fissa. Era presente all’appello e procedeva personalmente a torturare i ragazzi che non pagavano per essere liberati” (W., 20 anni, dalla Nigeria, testimonianza raccolta al centro Medu Psyché, dicembre 2017). Il lavoro non retribuito. “Il lavoro non retribuito, cioè schiavistico, era uno dei tre scopi del sistema concentrazionario (nazista, n.d.r.); gli altri due erano l’eliminazione degli avversari politici e lo sterminio delle cosiddette razze inferiori … il regime concentrazionario sovietico differiva da quello nazista per la mancanza del terzo termine e per il prevalere del primo” (I sommersi e i salvati, Primo Levi). Estorsione di denaro e lavoro schiavistico, sono i principali scopi dei campi di sequestro e dei centri di detenzione libici. Come nei gulag, la morte è dunque “un sottoprodotto” mentre nei campi di sterminio hitleriani essa ero lo scopo ultimo. “Sono stato rinchiuso in una prigione per 2 anni. Non ci portavano niente da mangiare. Il cibo un giorno sì e un giorno no”. “Venivano per il cibo un giorno si e uno no e il cibo era solo un piccolissimo pezzo di pane. Durante questi due anni mi hanno picchiato tantissimo, tutti i giorni. E non mi facevano mai alzare, ero costretto a stare sempre seduto. Ho cominciato a non riuscire più a usare bene le gambe. Non riesco più a stendere le gambe, non riesco camminare e nemmeno a stare in piedi. Mentre ero in prigione non potevo muovermi, alla fine. Non sono riuscito nemmeno a salire sulla barca che mi portava in salvo. Un amico ha dovuto prendermi in braccio…Queste persone volevano da me un riscatto ma io non sapevo come pagare. Se sono libero oggi è perché mi hanno dato per spacciato, ero vicinissimo alla morte secondo loro. Per questo mi hanno liberato. Pensavano che da me non avrebbero potuto ottenere nient’altro.” (A., 20 anni, dalla Somalia, testimonianza raccolta presso l’Hotspot di Pozzallo, novembre 2017). Costtetti a picchiare violentemente i propri familiari. Sebbene non ne sia un aspetto fondante, il movente dell’odio e del disprezzo razziale è comunque rintracciabile anche per molte delle atrocità commesse in Libia. “Il trattamento che viene riservato agli eritrei e ai somali non è lo stesso. Gli eritrei in generale vengono trattati un po’ meglio, i somali invece vengono massacrati. Il cibo e l’acqua non ci sono per nessuno. Però ai somali fanno subire più violenze e crudeltà. Queste cose vengono fatte da Walid e dai suoi uomini che sono moltissimi. Si divertono a vederci soffrire. Di solito vengono la mattina e passano tutta la mattinata a giocare con noi. Ci costringono a farci del male l’uno all’altro. Per esempio se si accorgono che due persone sono moglie e marito chiedono ad uno di picchiare l’altra nel modo più forte possibile. Oppure se una persona sta molto male le guardie vanno lì e dicono “Tu non sei né vivo né morto, ti devi decidere”. E allora lo picchiano violentemente. Così la persona deve scegliere se riuscire ad alzarsi e continuare a vivere o lasciarsi andare e morire.” (G., 18 anni, dall’Eritrea, testimonianza raccolta presso l’Hotspot di Pozzallo, novembre 2017). Umano e disumano. Non erano di “una sostanza umana perversa, diversa dalla nostra (i sadici, gli psicopatici c’erano anche fra loro, ma erano pochi): semplicemente “erano piuttosto bruti ottusi che demoni sottili. Erano stati educati alla violenza: la violenza correva nelle loro vene, era normale, ovvia.” (I sommersi e i salvati, Primo Levi). Auschwitz ritornerà? Era una delle domande più frequenti che veniva rivolta a Primo Levi e agli altri superstiti dell’Olocausto. I lager libici mostrano qui forse l’aspetto più inquietante: anche senza la letifera ideologia nazista, pezzi di quel mostro possono ritornare in altre epoche e con altri uomini. Il lettore avrà notato che le testimonianze riportate in queste righe si arrestano al dicembre del 2017. I lager libici sono ancora lì, intatte macchine di dolore e di morte. Semplicemente i migranti che dalla Libia riescono a raggiungere l’Italia e l’Europa sono oggi enormemente meno. Come ha scritto Levi “le verità scomode hanno un difficile cammino”. I programmi di Medu. Dal 2014 Medici per i Diritti Umani gestisce in Italia, Egitto e Niger programmi medico-psicologici di supporto a migranti e rifugiati sopravvissuti a tortura e violenza intenzionale. La web map Esodi raccoglie migliaia di testimonianze raccolte sulle rotte migratorie dall’Africa sub-sahariana all’Europa. *Medico, coordinatore generale di Medici per i Diritti Umani Eritrea. Almeno 150 cristiani arrestati in due mesi, molti rinchiusi sottoterra di Leone Grotti Tempi, 27 agosto 2019 Il 18 agosto, il regime ha arrestato 80 cristiani. I 70 fedeli detenuti il 23 giugno sono stati portati in una prigione sotterranea. Cinque preti ortodossi sono stati imprigionati e a sei dipendenti del governo è stato imposto di “rinunciare a Cristo”. Non si ferma la nuova ondata di persecuzione contro i cristiani in Eritrea. Dopo la chiusura di 21 ospedali cattolici, almeno 150 cristiani sono stati arrestati in soli due mesi in diverse città. Ad altri è stato chiesto davanti a un giudice di rinunciare alla fede cristiana. Il 18 agosto, come riportato da World Watch Monitor, 80 cristiani sono stati arrestati a Godayef, un’area vicina all’aeroporto della capitale Asmara. Sono stati portati alla vicina stazione di polizia e da allora sono scomparsi. Il 23 giugno altri 70 cristiani appartenenti alla Faith Mission Church of Christ erano stati arrestati a Keren, la seconda città più grande dell’Eritrea. Tutti e 70, tra i quali 35 donne e 10 bambini, sono stati trasferiti nella prigione di Ashufera. Questa non è altro che un insieme di tunnel sotterranei, la cui entrata si trova a 30 minuti di distanza a piedi dalla città. Come riportato da una fonte locale a World Watch Monitor, “le condizioni di vita all’interno sono dure. I detenuti sono costretti a scavare nuovi tunnel ogni volta che i funzionari del regime portano dentro nuovi prigionieri”. La chiesa della Faith Mission Church of Christ era l’ultima rimasta aperta nella città di Keren. La congregazione, che esiste in Eritrea da 60 anni, aveva chiesto nel 2002 di essere registrata ufficialmente ma non ha mai ricevuto risposta. Dopo l’arresto dei cristiani, anche la scuola gestita dalla comunità è stata chiusa. Il 16 agosto, sei cristiani dipendenti del governo sono stati arrestati e portati davanti a un tribunale ad Asmara. Qui il giudice ha preteso che gli impiegati rinunciassero alla loro fede, ma questi hanno risposto che “non siamo disposti a negoziare la nostra fede in Gesù”. Tutti e sei sono stati rilasciati per il momento in attesa del verdetto. L’8 luglio anche l’ultimo ospedale gestito dalla Chiesa cattolica è stato confiscato dal regime. La chiusura forzata delle strutture, che offrono assistenza gratuita a 170 mila persone all’anno, era cominciata a giugno. La Chiesa ha protestato spiegando che “privarci di queste istituzioni mina la nostra stessa esistenza ed espone i nostri dipendenti, religiosi e laici, alla persecuzione”. Lo Stato ha requisito le cliniche alla Chiesa per vendicarsi delle critiche rivolte dai vescovi al governo del dittatore Isaias Afewerki, che continua a rimandare le riforme democratiche promesse, nonostante il conflitto militare con l’Etiopia sia ormai concluso. Il regime vorrebbe essere il solo fornitore di cure mediche, ma la gente preferisce affidarsi alla Chiesa, che ha strutture migliori e professionisti più dedicati. La persecuzione non riguarda solo cattolici e protestanti: il 13 giugno sono stati arrestati cinque preti ortodossi che risiedevano nell’antico monastero di Debrè Bizen. I religiosi sarebbero colpevoli di aver sostenuto il patriarca della Chiesa ortodossa, Abune Antonios, agli arresti domiciliari dal 2007, da quando cioè si è opposto all’interferenza del regime nella vita della Chiesa ortodossa. La Costituzione eritrea del 1997 garantisce il rispetto di tutti i diritti umani, ma non è mai stata realizzata. Dopo anni di promesse, finalmente nel 2002 lo Stato ha ammesso quattro confessioni religiose: Chiesa ortodossa, Chiesa cattolica, Chiesa evangelica luterana e islam sunnita. I loro fedeli hanno una limitatissima libertà di culto, tutti gli altri neppure quella. Ancora oggi, nelle oltre 300 carceri, ufficiali e non, sparse per il paese languono più di 10 mila prigionieri politici e di coscienza in condizioni spaventose. I cristiani incarcerati per la loro fede sono “migliaia”, il dato più credibile si aggira intorno alle tremila unità e si può essere arrestati anche solo per il possesso di una Bibbia. Iran. Volevano salvare i ghepardi, 9 scienziati in carcere per spionaggio di Viviana Mazza Corriere della Sera, 27 agosto 2019 Otto ricercatori rischiano la pena di morte, il nono è deceduto in prigione, la famiglia non crede al suicidio. Tutti lavoravano per una fondazione ambientalista. Nel parco Pardisan, appena a nordovest di Teheran, vivono due ghepardi asiatici in cattività. Insieme a meno di cinquanta esemplari individuati in aree isolate e poco popolate dell’Iran. Delbar, una femmina, e Koshki, un maschio, sono gli ultimi due sopravvissuti di una sottospecie che una volta era presente nel resto dell’Asia ma che è ormai quasi estinta. Fino a due anni fa, quando la vicepresidente Masoumeh Ebtekar era anche a capo del dipartimento dell’Ambiente, riceveva i giornalisti nel suo ufficio proprio in questo parco. Mentre aspettavi in sala d’attesa potevi studiare su un’enorme manifesto le sette province nell’altipiano centrale dell’Iran in cui gli scienziati avevano monitorato il mammifero. Salvare il ghepardo asiatico era una priorità, al punto che nel 2014 era diventato il simbolo della nazionale di calcio. Ma l’anno scorso nove ricercatori iraniani impegnati nell’ambizioso progetto di collocare fotocamere per catturale immagini del mammifero più veloce del mondo hanno attirato i sospetti dei Guardiani della rivoluzione e sono stati arrestati con l’accusa di spionaggio. Le accuse - Il corpo delle forze armate creato dopo la rivoluzione del 1979 sostiene che gli studiosi, col pretesto di salvare il ghepardo, abbiano raccolto informazioni su operazioni militari top secret in quelle aree remote. Il direttore della Fondazione per il patrimonio naturale persiano, Kavous Seyed-Emami, che aveva cittadinanza sia iraniana che canadese, è morto in prigione: le autorità parlano di suicidio, ma la famiglia rifiuta di crederci. Quattro colleghi rischiano la pena di morte e altri quattro 10 anni di carcere. Sono tutti legati a quella stessa fondazione no profit che operava in collaborazione con il dipartimento dell’Ambiente, quest’ultimo supportato fino al 2017 da fondi del Programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo. Lo scontro interno - Un appello firmato da 350 colleghi di tutto il mondo sostiene la loro innocenza, che è stata peraltro confermata da due agenzie governative supervisionate da Rouhani ma ciò non è bastato a farli rilasciare. Gli arresti fanno parte di una repressione che ha colpito accademici e imprenditori con doppia nazionalità o contatti con istituti stranieri, incluso Ahmadreza Djalali, ricercatore di Medicina dei disastri presso l’Università del Piemonte Orientale di Novara, condannato a morte con l’accusa di “spionaggio”. Il loro destino è complicato dalle tensioni tra i “falchi” all’interno dei Guardiani della rivoluzione e il governo, che aveva lavorato per l’apertura all’Occidente ma si è visto chiudere la porta in faccia da Trump. Vittime collaterali - Tra le vittime collaterali non c’è solo il ghepardo; c’è anche il tentativo di affrontare la critica scarsità di risorse idriche causata dall’urbanizzazione e dall’eccessiva costruzione di dighe - progetti dei Guardiani della rivoluzione, i cui interessi economici cozzano con gli allarmi degli ambientalisti. La rivoluzione del 1979 ha rovesciato la monarchia corrotta, ma i “gattopardi” di Teheran ricordano che “bisogna cambiare tutto per non cambiare niente”, come nella storia di Tomasi di Lampedusa sul felino siculo simbolo di un’aristocrazia in via di estinzione.