Quando ci sarà una tangentopoli carceraria? di Carmelo Musumeci welfarenetwork.it, 26 agosto 2019 Non manco mai di leggere gli articoli di Damiano Aliprandi, che scrive su “Il Dubbio”, uno che in carcere non c’è mai stato, ma che descrive le realtà carcerarie come se ci fosse stato tutta la vita. I casi sono due: o c’è stato in un’altra vita o è solo un bravissimo giornalista, probabilmente tutte e due le cose. Ecco i titoli dei suoi due ultimi articoli: “Petto di pollo scaduti da tre mesi in vendita ai detenuti di Bologna” (…) “Costretti al sopravvitto che costa anche il doppio. Colazione, pranzo e cena per ciascun recluso costano 3 euro e 90”. Sì, lo so, non bisogna mai generalizzare, ma penso che se un giorno i giudici entrassero in carcere per fare rispettare la Costituzione e la legge buona parte di chi ci lavora, a partire dai funzionari ministeriali, sarebbero arrestati e processati. Questo però è difficile che possa accadere, perché la società chiede giustizia, ma in realtà vuole vendetta e nessuno si lamenta se il carcere è il posto più illegale di qualsiasi altro luogo. Non è una novità che il cibo del carcere faccia schifo, non per niente in gergo carcerario viene chiamato “sbobba”. Solo i più poveri fra i poveri lo prendono, non per mangiarlo ma solo per nutrirsi. È poco, cucinato male e quando dalla cucina arriva in sezione, spesso senza carrelli termici, sembra un pastone per galline. Per questo molti detenuti si cucinano da soli, anche perché chi ha scontato molti anni di carcere è ammalato allo stomaco. Ovviamente, con la solita scusa di “motivi di sicurezza” i mezzi e gli ingredienti per farsi da mangiare da soli sono pochi: qualche pentola, fornello da campeggio, buona volontà e passione. Io non cucinavo molto bene, quando non mi mandavano il “piatto” i miei compagni (fra di noi si usa scambiarci quello che cuciniamo) mi facevo spesso un piatto di spaghetti con il pomodoro fresco, olio crudo, aglio e basilico ed una spruzzata di pecorino. Mi ricordo che la cosa più brutta era mangiare da soli come cani, perché dei miei 28 anni di carcere la maggior parte li ho passati in regimi di carcere duro, dove non potevo neppure prepararmi un pasto caldo. Ecco cosa scrivevo alla magistratura di sorveglianza quando ero detenuto in Sardegna: “È un periodo che il cibo che passano è scarso e cucinato male più del solito, specialmente per cena passano un pentolone con una brodaglia che neppure i maiali mangerebbero… si vede che ultimamente stanno rubando di più. Non ci è stata consegnata la posta perché non è stata ritirata, i posti di lavoro non sono stati ancora assegnati. Un nostro compagno ha dovuto buttare il pacco contenente cibo perché consegnato in ritardo; domandine che spariscono o che vengono respinte senza ragionevole motivazione. I detenuti rifiutano sistematicamente il cibo ordinario perché c’è un solo carrello che deve fare tre piani (portato a mano da un piano all’altro) e man mano che arriva nelle ultime cella il cibo diventa immangiabile, una specie di pastone per galline. I lavoranti non sono forniti di guanti, berretti grembiuli e degli appositi carrelli termici. Lamentiamo la mancanza di spazi comuni dove svolgere qualsiasi attività, passiamo circa 20 ore al giorno su 24 in cella. La corrispondenza è l’unica forma davvero libera di cura degli affetti, le lettere sono un piccolissimo angolo di libertà che a volte è la sola ricchezza di chi sta in galera: una specie di cibo per l’anima. La posta in carcere rappresenta una prova tangibile dell’altrui affetto, quasi un mezzo per non sentirsi dimenticati o abbandonati, infatti uno dei pochi momenti “belli” della nostra giornata è rappresentato dalla distribuzione della posta, ed è crudele che a volte la posta ci venga negata per problemi burocratici interni”. Sanzione penale à la carte: entra in gioco la particolare tenuità di Marino Longoni Italia Oggi, 26 agosto 2019 Inchiesta sull’applicazione dell’art. 131bis del Codice penale, che non considera più reati i fatti puniti con reclusione fino a 5 anni se l’offesa è di “particolare tenuità” Ricognizione delle sentenze della Corte di Cassazione che hanno cercato di definire i confini dell’articolo 131 bis del codice penale. Una norma introdotta nel 2015 che ha voluto escludere la rilevanza ai fatti puniti con reclusione fino a 5 anni. Non è punibile penalmente per tenuità del fatto il senzatetto che viola il domicilio altrui per trovare un alloggio notturno. Mentre non è possibile concedere l’assoluzione per tenuità del fatto all’autore di una “violenza sessuale” consistente in un bacio non voluto. Sono solo due delle sentenze della Corte di cassazione che hanno cercato di definire i confini di una norma, l’articolo 131-bis del codice penale, introdotta nel 2015. Una norma che ha voluto escludere la rilevanza penale per i reati sanzionabili con pena detentiva inferiore a cinque anni, quando sia esclusa l’abitualità del comportamento e l’offesa sia di particolare tenuità. Si tratta di una norma che cerca di dare attuazione ai principi di offensività, sussidiarietà e proporzionalità. Ma che trova la sua ragione anche nell’esigenza di smaltire i carichi giudiziari e quindi di rendere più veloci i processi penali (di maggior peso). Numerose riforme sono state realizzate negli ultimi anni con lo stesso obiettivo, basti pensare alla depenalizzazione dei reati minori del 1999 e poi ancora del 2016, al perdono giudiziale per i minorenni (art. 169 cp), all’esclusione della procedibilità nei casi di particolare tenuità del fatto nei procedimenti innanzi al giudice di pace o alla sentenza di non luogo a procedere per irrilevanza del fatto nel processo penale minorile. Bisogna anche tener presente che, come dispone l’art. 651-bis cp, la sentenza penale irrevocabile di proscioglimento pronunciata per la particolare tenuità del fatto può essere utilizzata in sede civile per le restituzioni e il risarcimento del danno promosso nei confronti del condannato. Resta però la sensazione, come dimostrano le due sentenze citate all’inizio e le numerosissime massime riportate nell’inchiesta pubblicata su questo numero di ItaliaOggi Sette, che la discrezionalità esercitata dai giudici nel riconoscere quando si è in presenza della particolare tenuità del fatto possa condurre a risultati non sempre condivisibili: se da una parte è evidente a tutti che una cosa è il furto di un vasetto di Nutella e altra il furto dei dati di migliaia di carte di credito, tuttavia lasciare ai giudici la più ampia discrezionalità di stabilire quando un fatto e una persona devono essere punibili e quando no può creare a sua volta altri problemi. Una società sempre più polverizzata e priva di una solida base valoriale comune non potrà che produrre decisioni spesso contraddittorie, che aumenteranno il senso di disgregazione sociale. Non è un caso se capita assai di frequente di avere notizia dell’autore di un reato (non sempre bagatellare) che viene arrestato e subito rimesso in libertà. E questo genera frustrazione e risentimento in buona parte dell’opinione pubblica. Nessuno pensa che l’occupazione abusiva di un appartamento o un borseggio sia equiparabile a un omicidio o un attentato terroristico, tuttavia numerosi sono i segnali che dimostrano come sia crescente il sentimento di insicurezza che aleggia in una società sempre più liquida e multiforme: cresce la fetta di cittadinanza che non si sente più tutelata rispetto a quei comportamenti offensivi (magari anche minimi) che sono molto vicini all’esperienza quotidiana della maggior parte delle persone, soprattutto quelle più deboli e perciò meno in grado di difendersi. Non è un caso se la domanda politica di sicurezza sia in cima alle richieste di gran parte della popolazione e non è un caso se i partiti che più si sono dimostrati sensibili a queste istanze sono quelli che più hanno guadagnato in termini di consenso politico negli ultimi anni. Chissà se il prossimo governo saprà mettere in agenda anche questi temi, oppure preferirà fare orecchio da mercante. Tenuità, spetta ai giudici dire quando il reato non è reato di Antonio Ciccia Messina Italia Oggi, 26 agosto 2019 Le soglie di punibilità nei reati tributari sono superabili, senza andare incontro a condanna penale, se lo sforamento è minimo. E anche le soglie del tasso di alcool nel sangue per la guida in stato di ebbrezza. Anche la bancarotta commessa senza rilevante danno ai creditori è perdonata. Così come si evita la pena anche per un reato ambientale o un furto o un abuso edilizio. Tutto ciò quando i fatti sono di particolare tenuità e non abituali (articolo 131-bis del codice penale). L’esame della giurisprudenza sull’applicazione dell’articolo 131-bis citato mette in evidenza una mutazione profonda del sistema penale. Non solo quanto alla pena da irrogare, ma anche a riguardo della modalità di prestazione del “servizio della giustizia”. In base all’articolo 131-bis un reato (punito dalla legge nel massimo fino a cinque anni) non è sempre reato, e cioè non è sempre punibile. Dipende. È il giudice che deve valutare l’offensività in concreto del singolo fatto, oltre ad altri presupposti che riguardano le caratteristiche soggettive e comportamentali dell’autore del fatto. In relazione al fatto, bisogna considerare se è di “particolare tenuità”. Se il reato è particolarmente tenue, allora il giudice (che deve accertare la tenuità) può assolvere l’incolpato. Il legislatore ha, dunque, messo nelle mani del giudice la punibilità di un fatto anche quando il fatto certamente rientra nella descrizione della disposizione incriminatrice. Quindi, posto che qualcuno abbia certamente commesso un furto o un’evasione fiscale o una guida da ebbro o un versamento di rifiuti pericolosi e così via, non è detto che quel fatto (che corrisponde al reato) sarà punito. Ci sono reati punibili e reati non punibili. Dipende. In sostanza anche chi ha commesso un fatto, che coincide esattamente con il divieto/obbligo scritto nel precetto contenuto in un articolo di una legge penale, anche costui avrà la chance di sostenere che, per le caratteristiche del fatto specifico e per il suo curriculum di vita e per la sua personalità, nessuno si è “fatto del male” e, quindi, la punizione penale è sproporzionata. Il legislatore del 2015 ha deciso così. Anche se ci sono ripensamenti. Il decreto sicurezza n. 53 del 2019, come integrato dal parlamento durante l’iter di conversione, culminato nella legge 77/2019, ha stoppato in alcune ipotesi la assoluzione per tenuità del fatto: ciò in caso di reati commessi nei confronti di un pubblico ufficiale nell’esercizio delle proprie funzioni (violenza o minaccia a un pubblico ufficiale, resistenza a un pubblico ufficiale, oltraggio a pubblico ufficiale); e anche quando si procede per delitti, puniti con una pena superiore nel massimo a due anni e sei mesi di reclusione, commessi in occasione o a causa di manifestazioni sportive. Peraltro, al netto di questi “stop and go”, la “particolare tenuità” può azzerare la cattiveria e la spregevolezza di qualunque azione in astratto criminosa. Lo ha scritto anche la Corte di cassazione: “anche l’omicidio, può essere tenue, come quando la condotta illecita conduce ad abbreviare la vita solo di poco” (sentenza delle sezioni unite penali, n. 13681/2016). Sul punto si ricordi, però, che, ai sensi del secondo comma dell’articolo 131 bis, l’offesa non può essere ritenuta di particolare tenuità, quando la condotta ha cagionato o da essa sono derivate, quali conseguenze non volute, la morte o le lesioni gravissime di una persona. Particolare tenuità. Principi e casi da catalogare Italia Oggi, 26 agosto 2019 La scelta del legislatore di non punire i fatti particolarmente tenui e non abituali deve essere inserita in un quadro di certezza giuridica e di prevedibilità della reazione dello Stato. Ci vuole un catalogo dei fatti tenui non punibili. La scelta del legislatore di non punire i fatti particolarmente tenui e non abituali deve essere inserita in un quadro di certezza giuridica e di prevedibilità della reazione dello Stato al comportamento delle persone. Questo principio riguarda non solo le garanzie per l’imputato, ma anche e soprattutto la vittima, che deve cercare di difendersi e di tutelarsi anche da fatti che, magari, non meriteranno una punizione penale, ma che pur sempre fanno male. Per la vittima. Facciamo un po’ di esempi. Se uno ruba qualche bottiglia di liquori da un supermercato può confidare nella tenuità del fatto e non essere condannato: ma il negozio deve potenziare il sistema di controllo della merce per evitare furti. Se non c’è il disincentivo delle conseguenze penali del proprio gesto, l’autore del furto deve comunque trovare la strada del crimine in salita e il negoziante deve imparare a fare a meno dell’aspettativa dell’effetto disincentivante del rischio penale (svaporato per effetto della disciplina della “particolare tenuità). Se le molestie telefoniche possono essere condonate dalla particolare tenuità, bisogna pensare a cambiare numero di telefono o a fare causa civile. Tutto ciò riguarda anche gli enti pubblici. Se un dipendente pubblico fa telefonate private di breve durata con la linea dell’ufficio, questi può sperare di non essere incriminato, perché il peculato è tenue; ma ciò non toglie che l’ente pubblico deve prevenire e punire tutti i peculati, anche quelli non penalmente puniti. Se un dipendente pubblico telefona per un minuto non è poi un gran danno, si dirà. Ma se centinaia di migliaia di lavoratori impiegati nella pubblica amministrazione telefonano per ragioni extra lavorative, quelle p.a. devono arginare quelle condotte dannose con altri sistemi relativi all’organizzazione del lavoro, alla disponibilità degli strumenti di lavoro, ai procedimenti disciplinari. Oppure, ancora, se uno stocca rifiuti pericolosi, magari non verrà punito, ma comunque bisogna ripulire l’area e cercare di rendere la vita difficile a chi vuole sporcare il territorio, anche se solo un pochino. Oppure, ancora, se le tasse non versate hanno un importo di poco superiore alla soglia della punibilità penale, allora bisogna che il fisco incrementi l’efficacia della sua azione amministrativa antievasione, non potendo contare sul potere intimidatorio della norma penale. Per l’imputato. L’esigenza di prevedibilità della reazione alla propria condotta è, poi, un principio di garanzia a tutela dell’autore di una certa condotta. Quest’ultimo deve poter sapere in anticipo se andrà assolto o andrà punito e, quindi, le conseguenze della propria azione. Da questo dipende l’effettività del sistema punitivo. La raccolta delle sentenze. Un riflesso di questa nuova impostazione è la necessità di avere cataloghi delle condotte punibili e di quelle non punibili. Le raccolte delle sentenze, massimari e banche dati, devono essere compilati non solo sulla base dei principi generali, che poi i singoli giudici applicano ai casi concreti: questo è sufficiente in un sistema, in cui per la punibilità basta che un fatto storico concretizzi la portata astratta di una norma. Se, invece, la punibilità richiede qualcosa di più e cioè la valutazione della offensività in concreto di quel fatto specifico, occorre un catalogo anche dei fatti specifici offensivi e dei fatti specifici inoffensivi. Ci sarà, per esempio, il catalogo dei furti in concreto punibili e di quelli in concreto non punibili. Così, per continuare nell’esempio, le sentenze distingueranno il furto di bottiglia singola di liquore dal supermercato dal fatto del furto ripetuto in più giorni di più bottiglie di liquore. In tutti e due i casi abbiamo un reato di furto, ma uno dei due sarà punito e l’altro no. Le raccolte delle sentenze dovranno censire ed elencare non solo principi astratti, ma casistica concreta. E di questa casistica ci deve essere ampia conoscibilità, affinché la circolazione delle notizie consenta ai giudici di seguire gli orientamenti che si diffondono sui singoli casi, essendo ovviamente augurabile che i precedenti autorevoli possano ispirare futuri giudizi simili sulla offensività in concreto su casi simili. Aziende in controllo giudiziale: sospesa l’interdittiva antimafia di Paola Maria Zerman Il Sole 24 Ore, 26 agosto 2019 Quali siano gli effetti del controllo giudiziale, concesso dal giudice penale all’imprenditore raggiunto da un’interdittiva antimafia, e il giudizio amministrativo davanti al quale quest’ultima è impugnata, lo ha stabilito di recente il Consiglio di Stato. Con le due ordinanze, la 5482 del 1 agosto (presidente Lipari) e la 4873 del 10 luglio (presidente Frattini), la Terza sezione del Consiglio di Stato ha disposto la sospensione del processo amministrativo “sino al decorso del termine di efficacia del controllo giudiziario”. Con la intuibile conseguenza della ripercussione dell’esito dello stesso sul giudizio di legittimità dell’interdittiva. Conclusione non scontata, visto che la legge non prevede alcun rapporto di pregiudizialità tra l’istituto del controllo giudiziario, che si trova alle sue prime applicazioni giurisprudenziali, e il giudizio amministrativo. Una soluzione, quella del Consiglio di Stato, volta al raccordo dei due contrastanti istituti, pensati dal legislatore in un’ottica di bilanciamento tra la tutela dell’ordine e della sicurezza pubblica e la libertà di iniziativa economica riconosciuta dall’articolo 41 della Costituzione (Consiglio di Stato, adunanza plenaria 3 del 6 aprile 2018). Il controllo giudiziale - Il controllo giudiziale delle aziende - la cui durata va da un minimo di un anno ad un massimo di tre - è un istituto di nuovo conio (legge 161/2017 che introduce l’articolo 34-bis nel Codice antimafia), ideato nella logica terapeutica di recupero di imprese sostanzialmente sane che abbiano con la criminalità organizzata solo un rapporto di occasionalità. A differenza delle più incisive misure preventive patrimoniali come il sequestro e la confisca, non determina il radicale spossessamento dei beni, ma impone una serie di misure, volte a sanare l’impresa grazie a controlli di varia intensità, conservando la titolarità del bene in capo all’imprenditore colpito dalla misura di prevenzione. Azione innovativa e più soft, da parte dello Stato, rispetto all’amministrazione giudiziaria (articolo 34 del Codice antimafia), volta a contrastare un’infiltrazione mafiosa non occasionale attraverso la nomina di un amministratore giudiziario che gestisce l’attività di impresa nella garanzia di tutela del livello occupazionale. Peculiarità del controllo giudiziario è che può essere disposto non solo d’ufficio, ma anche su richiesta dell’imprenditore raggiunto da interdittiva antimafia, purché impugnata davanti al giudice amministrativo. Il provvedimento che dispone il controllo giudiziario, sospende gli effetti dell’interdittiva antimafia. Prospettiva non di poco conto, considerati gli effetti fortemente incisivi sulla vita dell’impresa, dato che l’informativa antimafia interdittiva preclude non solo qualsiasi attività nei rapporti con la pubblica amministrazione (contratti, concessioni o sovvenzioni pubbliche), ma incide anche in quelli tra privati, posto che l’effetto interdittivo si estende anche alle autorizzazioni (articolo 94 comma 1). Le interferenze tra giudice penale e amministrativo - Nell’assenza della previsione normativa, le possibili interferenze tra il Giudice penale e quello amministrativo, sono ancora in gran parte inesplorate. Da una parte il Giudice penale della prevenzione, per la concessione del controllo giudiziario, deve valutare non solo il presupposto formale dell’esistenza dell’interdittiva in capo al richiedente e della sua impugnazione in sede amministrativa, ma anche quello sostanziale, assai ben più complesso e delicato, del presupposto della “occasionalità” dal contagio mafioso (Cassazione penale 34526/2018). Dall’altra, il sindacato di legittimità dell’interdittiva antimafia si incentra sul profilo della coerenza, della logicità e della gravità del quadro indiziario posto alla base della valutazione sul pericolo di infiltrazione mafiosa. Quest’ultimo, costituisce fondamento e limite del potere prefettizio, demarcandone la discrezionalità, anche in relazione alla necessità di assicurare “una tutela giurisdizionale piena ed effettiva contro ogni eventuale eccesso di potere da parte del Prefetto nell’esercizio di tale ampio, ma non indeterminato, potere discrezionale” (Consiglio di Stato, sezione III, 758 del 30 gennaio 2019). Con le due ordinanza richiamate, il Consiglio di Stato, sospendendo il giudizio sino all’esito del controllo giudiziario, si è risolto nel senso di evitare possibili sovrapposizioni, privilegiando l’esito del monitoraggio dell’effettivo risanamento dell’impresa, da parte del giudice penale, con la prevedibile presa d’atto in ordine all’esito giudizio sulla legittimità dell’interdittiva. Concorso di cause: l’interruzione del nesso causale tra condotta ed evento Il Sole 24 Ore, 26 agosto 2019 Reato - In generale - Concorso di cause - Cause sopravvenute - Capacità di interrompere il rapporto causale - Condizioni - Fattispecie. In tema di concorso di cause, l’ambito di operatività dell’art. 41, comma 2, c.p. è circoscritto ai casi in cui la causa sopravvenuta inneschi un rischio nuovo e del tutto incongruo rispetto al rischio originario, attivato dalla prima condotta. Nel caso in esame, afferente a infortunio sul lavoro, non è stata ritenuta causa sopravvenuta, da sola sufficiente a produrre l’evento, il comportamento imprudente del lavoratore nell’effettuare operazioni rientranti nelle sue attribuzioni, non avendo egli adottato una condotta del tutto esorbitante dalle procedure operative e incompatibile con il sistema di lavorazione e con le norme antinfortunistiche. • Corte di cassazione, sezione IV penale, sentenza 22 luglio 2019 n. 32507. Reato - Causalità (rapporto di) - Concorso di cause - Condotta negligente della vittima - Interruzione del nesso di causalità - Esclusione - Ragioni. In tema di omicidio colposo conseguente a sinistro stradale, il mancato uso, da parte della vittima, della cintura di sicurezza non vale di per sé a escludere il nesso di causalità tra la condotta del conducente di un’autovettura - che, violando ogni regola di prudenza e la specifica norma del rispetto dei limiti di velocità, abbia reso inevitabile l’impatto con altra autovettura sulla quale viaggiava la vittima - e l’evento, non potendo considerarsi abnorme né del tutto imprevedibile il mancato uso delle cinture di sicurezza. • Corte di cassazione, sezione IV penale, sentenza 23 maggio 2017 n. 25560. Reato - Causalità (rapporto di) - Concorso di cause - Causa sopravvenuta - Omicidio colposo da incidente stradale - Errore nella prestazione delle cure alla vittima dell’incidente - Interruzione del nesso di causalità - Esclusione - Fattispecie. L’eventuale negligenza o imperizia dei sanitari nella prestazione delle cure alla vittima di un incidente stradale, ancorché di elevata gravità, non può ritenersi causa autonoma e indipendente, tale da interrompere il nesso causale tra il comportamento di colui che ha causato l’incidente e la successiva morte del ferito. (Nella specie, la Corte ha escluso l’interruzione del nesso di causalità in relazione al decesso della vittima per insufficienza cardiocircolatoria con coma da shock emorragico in soggetto politraumatizzato da lesioni stradali, intervenuto a circa un mese di distanza dal sinistro, rilevando che i potenziali errori di cura costituiscono, rispetto al soggetto leso, un fatto tipico e prevedibile, mentre, ai fini della esclusione del nesso di causalità, occorre un errore del tutto eccezionale, abnorme, da solo determinante l’evento letale). • Corte di cassazione, sezione IV penale, sentenza 23 maggio 2017 n. 25560. Cause di (Rapporto di) - Concorso di cause - Interruzione del nesso causale. È configurabile l’interruzione del nesso causale tra condotta ed evento quando la causa sopravvenuta innesca un rischio nuovo e incommensurabile, del tutto incongruo rispetto al rischio originario attivato dalla prima condotta. (Nella fattispecie la S.C. ha ritenuto immune da censure la decisione che aveva affermato la sussistenza del nesso causale tra l’errore chirurgico originario, che aveva ridotto la paziente in coma profondo, e il decesso della medesima per setticemia contratta durante il lungo ricovero presso l’unità di terapia intensiva, rilevando come l’infezione nosocomiale sia uno dei rischi tipici e prevedibili da tener in conto nei casi di non breve permanenza nei reparti di terapia intensiva, ove lo sviluppo dei processi infettivi è tutt’altro che infrequente in ragione delle condizioni di grave defecazione fisica dei pazienti). • Corte di cassazione, sezione IV penale, sentenza 21 giugno 2016 n. 25689. Napoli: Mauro Palma “carcere di Poggioreale ingestibile, la direttrice sbaglia” di Paolo Barbuto Il Mattino, 26 agosto 2019 Il Garante nazionale per i detenuti: “Poggioreale ha problemi, è un errore negare la realtà dei fatti”. Sorpreso alla notizia dell’evasione da Poggioreale, gli scappa di primo acchito un “eh, per quanto era ben controllato quel carcere”. Le parole sgorgano con un moto di stizza: mercoledì scorso Palma, Garante nazionale per i detenuti, ha reso noti i risultati di un suo recente sopralluogo a Poggioreale mettendo in luce le criticità di quell’istituto; il giorno seguente la direttrice del carcere, Maria Luisa Palma, ha risposto a quelle critiche con un documento pubblicato su “Giustizianews online”, il quotidiano del ministero della Giustizia aprendo il fronte delle polemiche. Palma, cosa pensa di questa evasione? “Io stesso ho trovato una situazione difficile, complessa in quel carcere, e ho riscontrato risposte fragili. Vede, se si affrontano le complessità in maniera fragile, poi le situazioni sfuggono di mano e può succedere che un detenuto evada. Non voglio puntare il dito perché certe situazioni possono verificarsi a prescindere dall’ambiente interno al carcere... certo se un detenuto evade con le lenzuola arrotolate siamo su Topolino praticamente”. Una fuga da fumetti? “Non mi faccia essere severo. Anzi, per piacere, ribadisca che io non voglio puntare il dito contro nessuno”. Però nel suo report su Poggioreale lo ha fatto… “Io lì ho trovato una situazione variegata. Non nego che ci sono buone intenzioni da parte della direzione e ci sono alcuni fronti ben gestiti. Però la sensazione che ho avuto è che a Poggioreale non ci sia una situazione pienamente sotto controllo”. Parole dure, non crede? “Ripeto, non si tratta di critiche fatte per colpire. Ho notato e ho scritto, ad esempio, che al padiglione Venezia o al Genova sono state fatte buone cose, se però poi arrivo al padiglione Roma e trovo un altro mondo, allora mi pongo qualche domanda, rifletto. E penso che quel luogo mi offre una sensazione di assenza di idea progettuale complessiva e invece Poggioreale ha un gran bisogno di una visione complessiva”. Sono critiche pesanti alla direttrice Maria Luisa Palma… “Io conosco da tempo la direttrice della quale, ovviamente, non sono parente, nonostante il cognome comune. La conosco dai tempi in cui dirigeva il carcere di Benevento e lo faceva in maniera egregia, ma Poggioreale non è come Benevento”. Che significa? “Che le situazioni sono differenti e molto più complicate qui a Napoli. In genere uno dei difetti delle persone è non riconoscere la complessità delle cose e, allo stesso tempo, non riconoscere il bisogno di chiedere aiuto”. Avrebbe dovuto chiedere aiuto la direttrice Palma? “Ha scritto una risposta tutta incentrata sul fronte della difesa da presunte accuse. In quella risposta accusa me di essere stato ingeneroso, di aver “puntigliosamente segnalato” certe cose che non andavano. La direttrice non ha compreso il senso: il migliore aiuto per una situazione che non funziona è quella di riconoscere gli errori, il migliore aiuto per un malato è quello di individuare la malattia”. Non è stato così? “C’è stata solo una strenua difesa che, fra l’altro, è stata presentata con una pesante sgrammaticatura istituzionale. Le cose funzionano diversamente da come le ha interpretate la direttrice: io come istituzione mando il mio report al Dipartimento che ha trenta giorni di tempo per rispondere dopo aver consultato la direttrice. Insomma, la risposta del carcere deve arrivare al Dipartimento che poi le invia al Garante, non va diffusa tramite un sito web o dalle colonne di un giornale”. Se l’è presa per quella risposta? “Per i modi, per la sgrammaticatura istituzionale, appunto. In tal senso ho scritto una lettera ufficiale l’altro giorno al Capo Dipartimento, mi sono mostrato stupito per il fatto che una comunicazione dal carcere di Poggioreale invece di arrivare in via istituzionale sia stata diffusa dalla direttrice attraverso gli organi di stampa”. Lei ha coinvolto anche la Procura… “C’era la questione del detenuto trasferito prima del nostro arrivo, che poi abbiamo incontrato trovandolo pieno di ecchimosi, ma non solo”. C’è dell’altro? “Ho ritenuto di mandare certe questioni in Procura innanzitutto perché con il procuratore Melillo e con tutto il suo staff c’è una collaborazione molto forte rispetto alle vicende carcerarie e quindi mi sembrava corretto informarli. Poi perché secondo me in alcune situazioni è bene far capire che le autorità nazionali si stanno muovendo”. Cosa intende? “La direttrice Palma si potrà anche offendere ma se venisse una commissione internazionale, di fronte a situazioni come al padiglione Salerno o al Milano-piano terra, farebbe certamente partire una censura, una sanzione. Condividere certe notizie con la Procura significa anche difendere lo Stato e dire che noi come istituzioni la situazione la conosciamo, la capiamo. Si tratta di una tutela dello Stato, in qualche modo”. Napoli: carcere di Poggioreale, in pochi metri anche dodici detenuti di Giuseppe Crimaldi Il Mattino, 26 agosto 2019 I Sindacati: quel carcere va demolito. Incredulità. E sgomento. Per il personale - sia amministrativo che in divisa - che opera quotidianamente e non senza sacrifici nella casa circondariale di Poggioreale questa è davvero una brutta storia. Era possibile evitare l’evasione di Robert Lisowski? Saranno le indagini a dare una risposta e a individuare presunte omissioni e colpe. Nel frattempo (e lasciandosi alle spalle anche la polemica divampata nei giorni scorsi dopo le critiche avanzate alla direzione del carcere dal Garante nazionale per i detenuti, Mauro Palma) a descrivere le criticità oggettive della struttura sono i numeri. A Poggioreale oggi soggiornano 2.100 detenuti, a fronte di una capienza che ne prevede al massimo 1.423. Ci sono anche 700 “definitivi” (cioè persone condannate con sentenza passata in giudicato) che invece dovrebbero trovarsi in altre strutture penitenziarie. Poggioreale scoppia. Solo qualche giorno fa l’intervento degli agenti ha evitato che una rissa scoppiata tra detenuti napoletani ed algerini potesse sfociare in un bagno di sangue. Il degrado è rappresentato da molti elementi: sebbene siano in corso lavori di ristrutturazione di alcuni padiglioni, le condizioni di vita per i detenuti sono spesso terribili. Ci sono celle che ospitano anche fino a dieci-dodici persone, che dormono arroccate su letti a castello ed utilizzano un solo bagno. La palestra non è più funzionante. L’ascensore interno - rottosi a febbraio - è stato riparato solo il 26 giugno. In queste condizioni, oltre ai detenuti a soffrire gli effetti del degrado e le tensioni crescenti tra la popolazione carceraria ci sono loro: i baschi blu della Polizia Penitenziaria. Da tempo i sindacati chiedono che su Poggioreale si apra un tavolo di confronto con il Dap del ministero della Giustizia. “Questa evasione - commenta il segretario campano del Sappe, Emilio Fattorello - porta alla luce le priorità della sicurezza (spesso trascurate) con cui quotidianamente hanno a che fare le donne e gli uomini della Polizia Penitenziaria di Poggioreale. Si è trattato di una “evasione annunciata”, frutto della superficialità con cui sono state trattate e gestite le molte denunce fatte dal Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria sulle condizioni di sicurezza dell’istituto. Se fossero state ascoltate le nostre continue denunce, probabilmente tutti gli eventi critici e questa stessa evasione non sarebbero avvenuti”. Parole forti, riprese anche dal segretario generale del Sappe, Donato Capece: “Il sistema penitenziario, per adulti e minori, si sta sgretolando ogni giorno di più. La situazione nelle carceri si è notevolmente aggravata rispetto agli anni precedenti. I numeri riferiti agli eventi critici avvenuti in Italia tra le sbarre nel primo semestre del 2019 sono inquietanti: 5.205 atti di autolesionismo, 683 tentati suicidi, 4.389 colluttazioni, 569 ferimenti, 2 tentati omicidi. I decessi per cause naturali sono stati 49 ed i suicidi 22. Le evasioni sono state 5 da istituto, 23 da permessi premio, 6 da lavoro all’esterno,10 da semilibertà, 18 da licenze concesse a internati”. “Dopo l’evasione rocambolesca di un detenuto dal carcere di Poggioreale, l’istituto andrebbe definitivamente abbattuto ed il capo dell’Amministrazione penitenziaria rimosso dall’incarico”, dichiara invece il segretario generale del Sindacato di polizia penitenziaria Aldo Di Giacomo. Anche la Fns Cisl, attraverso Lorenza Sorrentino e Luigi D’Ambrosio, esprime sconcerto e afferma che “ancora una volta si paga lo scotto di una politica inadeguata che ignora scelleratamente le necessità e le richieste di adeguamento in termini di uomini e mezzi”. Napoli: evasione da Poggioreale, la corda con le lenzuola di Fulvio Bufi Corriere del Mezzogiorno, 26 agosto 2019 Il killer polacco beffa il fortino per la prima volta in 100 anni. Robert Lisowski, 32 anni, ha scavalcato il muro della casa circondariale con una corda di lenzuola mentre stava andando a messa. Sovraffollato, invivibile, violento ma sicuro, inviolabile: è stato così per più di un secolo il carcere di Poggioreale (costruito nel 1914). Da ieri mattina, invece, l’ultima caratteristica non vale più. Da Poggioreale si evade. Lo ha fatto, per la prima volta, Robert Lisowski, un polacco di 32 anni detenuto per l’omicidio di un connazionale. E lo ha fatto nel modo più scontato e banale che si possa immaginare per una evasione: si è calato dal muro di cinta utilizzando una corda ricavata annodando numerose lenzuola. Era l’ora della messa, e Lisowski faceva parte dei quasi duecento reclusi che dai padiglioni stavano raggiungendo la cappella, scortati dagli agenti della polizia penitenziaria. Non è ancora chiaro come abbia fatto, ma è certo che si è allontanato dal gruppo e ha raggiunto la parte più alta del muro che circonda la casa circondariale. Probabilmente ha sfruttato una via alla quale è riuscito ad avere accesso partendo dalla chiesa. Poi potrebbe essersi arrampicato su una inferriata e da lì potrebbe aver agganciato la sua corda in modo tale da farla scendere verso l’esterno. Sicuramente Lisowski è stato furbo ma anche fortunato. Furbo perché ha approfittato di una giornata in cui la presenza di agenti di polizia penitenziaria era ridotta, a causa dell’accavallamento tra ferie e giorno festivo. Fortunato perché le possibilità di passare inosservato erano davvero pochissime. Eppure nessuno si è accorto di lui attraverso il servizio di videosorveglianza che ha telecamere puntate sia all’interno che all’esterno del carcere; e nessuno lo ha visto nemmeno quando si è calato in via Porzio, una strada laterale (che conduce verso il tribunale e il Centro direzionale), dove c’è l’ingresso del parcheggio interno per gli operatori penitenziari e dove pure i posti auto lungo il marciapiede sono riservati agli agenti. Per non dire, poi, di come abbia fatto Lisowski a raccogliere lenzuola a sufficienza per realizzare una corda lunga come quella di cui aveva bisogno, corda che tra l’altro, piegata su se stessa, diventa anche decisamente ingombrante. Tutto questo è oggetto delle indagini avviate dalla polizia penitenziaria (mentre i sindacati di categoria rilanciano la necessità di intervenire con urgenza sugli organici) per ricostruire l’esatta dinamica della fuga e stabilire anche eventuali complicità. Della ricerca di Lisowski si occupano invece polizia e carabinieri. La Questura ha diffuso una descrizione dell’evaso (un metro e 80 di altezza, capelli rasati, barba, leggermente claudicante) sottolineandone la pericolosità. Il giovane polacco fu arrestato lo scorso anno per aver ucciso a coltellate un connazionale che aveva cercato di fare da paciere durante un litigio tra lo stesso Lisowski e un altro uomo. In carcere era quindi uno dei tanti immigrati che affollano Poggioreale (2.400 detenuti e meno di novecento agenti) e che rappresentano oggi una parte consistente della popolazione carceraria. Recentemente nella casa circondariale napoletana c’è stata anche una rivolta, rientrata però in poche ore. Nulla rispetto alle sommosse degli anni Settanta, in particolare quella del ‘72, che durò due giorni e fu stroncata dall’intervento degli agenti che uccisero anche un detenuto di 19 anni. Agrigento: manca l’acqua in carcere, scoppia protesta tra i detenuti agrigentonotizie.it, 26 agosto 2019 Dalla Prefettura, dove è giunta la segnalazione del disservizio e del rischio di rivolta da parte dei reclusi, è stato chiesto “aiuto” al comando provinciale dei vigili del fuoco. Resta senz’acqua il carcere “Di Lorenzo” di contrada Petrusa e, fra i detenuti, dilaga la protesta. Nella mattinata di ieri dalla Prefettura di Agrigento - dove è giunta la segnalazione del disservizio e del rischio di rivolta da parte dei reclusi - è stato chiesto “aiuto” al comando provinciale dei vigili del fuoco. In contrada Petrusa, almeno questa volta, non stavano però bruciando delle celle, ma era finita l’acqua. Malumori e lagnanze, da parte dei detenuti, si erano dunque già trasformati in protesta e il rischio, di fatto, era che si innescasse una sorta di rivolta. I pompieri si occupano di soccorso tecnico urgente, ma non essendo quella di ieri una giornata emergenziale sono riusciti - ed anche rapidamente - a dare una concreta mano d’aiuto con le loro autobotti. L’Aquila: detenuto della ‘ndrangheta salvato dal suicidio in carcere Il Centro, 26 agosto 2019 Sottoposto al regime “duro” (41bis), gli agenti di polizia penitenziaria riescono a rianimarlo nella cella dove si era impiccato. Il sindacato Uil: “Condizioni pericolose alle Costarelle”. Gli agenti di polizia penitenziaria hanno fatto in tempo ad evitare che un detenuto morisse impiccato nella propria cella nel carcere delle Costarelle all’Aquila. Il fatto è stato denunciato dal sindacato di polizia penitenziaria della Uil. Il detenuto che voleva uccidersi è di origini calabresi, è accusato di appartenere alla ‘ndrangheta ed è sottoposto al regime speciale del 41bis (“carcere duro”). Gli agenti lo hanno salvato in extremis. “Determinante è stata l’opera di rianimazione operata dal personale intervenuto tanto da poter dire che se non si è contata una vittima nel carcere delle Costarelle lo si deve all’elevata professionalità posseduta dagli operatori intervenuti”, afferma in una nota il vice segretario regionale del sindacato Uil-penitenziaria Mauro Nardella che torna a denunciare la condizione in cui versa il carcere dell’Aquila soprattutto in ordine all’eccessiva presenza di detenuti tra i più pericolosi d’Italia: 160 i sottoposti al 41bis d’Italia. “Tuttavia”, continua, “non risulta essere sufficiente l’attenzione ad esso data da parte del ministero della Giustizia sull’impossibilità sopraggiunta di garantire un sufficiente numero di posti all’interno della caserma agenti. Agenti costretti a pernottare altrove e quindi impossibilitati ad intervenire qualora, come nel caso in questione si sentisse la necessità di dover provvedere in caso di assoluta emergenza”. Trapani: personale femminile della Polizia penitenziaria nelle sezioni maschili alqamah.it, 26 agosto 2019 La Uil-Pa: “Impiego illegale”. “Registriamo ancora una volta atti discutibili, presso la Casa Circondariale Pietro Cerulli di Trapani. Ci riferiamo, in particolare, alla questione dell’impiego illegale del personale di Polizia femminile all’interno delle sezioni ove sono reclusi detenuti di sesso maschile: tale impiego di personale è vietato, come noto, dalla L. 395/1990 (divieto ribadito da successive circolari ministeriali concernenti il tema)”. È quanto afferma il Segretario Generale della Uil-Pa Polizia Penitenziaria Gioacchino Veneziano in una lettera inviata, tra gli altri, al direttore della Casa Circondariale “Pietro Cerulli” di Trapani. “Nel passato quanto è stato sollevato il problema, in un apposito incontro di esame congiunto, si è proceduto a consegnare al Direttore dell’Istituto trapanese (di allora) e al Comandante di reparto una risposta del Prap Sicilia ad un quesito riferito ad una questione analoga accaduta in un altro Istituto della Sicilia: ovviamente, la risposta del Provveditore integrata addirittura da una nota ministeriale della Direzione Generale del Personale del Personale, era chiara, nettamente contraria all’impiego in sezioni ove sono reclusi detenuti di sesso maschile delle Unità femminili di Polizia Penitenziaria. Da quasi una settimane ci troviamo ad affrontare la stessa problematica, anzi aggravata dal fatto che le donne poliziotte sono state impiegate all’interno dei cortili passeggi del reparto Adriatico, (quindi in piena zona detentiva maschile) e in questi ambienti vi sono pure i bagni, ragion per cui a quanto dato sapere nel controllo visivo si sono verificate situazione incresciose. - sottolinea Veneziano - Stendiamo un velo pietoso quando abbiamo saputo che una collega è stata mandata a controllare i passeggi sempre dello stesso reparto maschile, nel “casotto di legno” (che non è altro il locale vendite birre e gelati del lido balneare, genialmente installato dal passato direttore per controllare i passeggi maschili), sotto lo sguardo divertito dei detenuti maschi. Inoltre - continua nella lettera - in barba sempre alle disposizioni di legge, le donne poliziotte sono state perfino obbligate ad operare all’atrio del reparto “Mediterraneo” con la presenza di oltre 200 detenuti maschi, ed in quel posto si registra il passaggio di circa 400 detenuti maschi, poiché si trova all’interno della sezione detentiva maschile, ed è il punto di smistamento di tutte le tre piani detentivi maschili. Pertanto premesso - conclude - la invitiamo a far cessare senza indugio siffatte procedure illegali, dando le indicazione a chi gestiste il personale poiché le iniziative assunte si pongono in netta opposizione con ogni fonte normativa regolante l’impiego di personale di Polizia Penitenziaria, costituendo di per sé un “elemento che può esporre le poliziotte a condizioni operative di ulteriore pericolo, inasprendo la probabilità di tutela della loro sicurezza dentro l’ambiente di lavoro”. A Salerno storie di brigantesse nel Sud della rivolta ilmezzogiorno.info, 26 agosto 2019 Nell’ambito della XXXIV edizione della rassegna estiva di teatro “Barbuti Festival”, per “La notte dei Barbuti”, domenica 25 agosto alle 21.30 nella chiesetta di Sant’Apollonia, in via San Benedetto, nel centro storico di Salerno, Teatralto presenta “Brigantesse”, di Eduardo Ricciardelli che ne cura anche la regia. In scena: Antonio Lubrano, Susy Parlante, Antonella Valitutti, Alessandra De Concilio, Apollonia Bellino (ingresso 10 euro). Quattro donne e un uomo si trovano in una casa, nei pressi di Roscigno Vecchia paese del Cilento. La loro vita procede tra liti e organizzazione di atti di guerriglia. Ci troviamo nell’Italia appena unificata e nel deserto lasciato dallo strapotere piemontese, che ha senza scrupoli saccheggiato le casse dell’oro del regno di Napoli, rubati tutti i macchinari e le ricchezze possedute dal Regno delle due Sicilie. L’effetto dell’unificazione ha giocato alle vite dei cittadini un brutto scherzo, la fame la povertà e le continue umiliazioni subite dall’esercito sabaudo costringono alcuni gruppi armati per la difesa del territorio e questi stessi vengono definiti in modo improprio Briganti. Lo spettacolo, nonostante tratti un tema drammatico, ha molti guizzi comici e molte canzoni che rendono la rappresentazione agile e godibile. Il grottesco insito nella storia esce fuori grazie agli attori con una enorme forza comica. Si ripercorre il sud dai canti popolari dell’area vesuviana alla tarantella del Gargano e del carnevale di Montemarano per poi arrivare ai canti di giacca e alla fronda di limone che sono tipici canti a distesa di devozione alla Madonna, che venivano anche usati per fare le comunicazioni fuori dalle carceri avendo una potenza di estensione vocale. Lo spettacolo punta il dito sugli aspetti più umani e fragili di donne e uomini costretti a combattere per sopravvivere. Un percorso europeo per le riforme italiane di Maurizio Ferrera Corriere della Sera, 26 agosto 2019 L’agenda della presidente della Commissione Ue contiene idee valide anche per noi. In questo contesto sarebbe possibile un allentamento del vincolo di bilancio. Il governo uscente ha avuto con la Ue un rapporto teso e conflittuale. Nel dicembre 2018 abbiamo rischiato la bocciatura della legge di Stabilità, schivata solo “grazie” alle tristemente note clausole di salvaguardia sull’Iva. Nella primavera scorsa abbiamo evitato per un soffio la procedura per debito eccessivo. I due partner di maggioranza (soprattutto Salvini) s’illudevano di poter cambiare gli equilibri politici europei nelle elezioni dello scorso maggio. Guadagnando così “licenza di spendere”. Nonostante il successo della Lega, l’operazione dei sovranisti è fallita. La nuova Commissione avrà infatti il sostegno dei partiti tradizionalmente europeisti: popolari, socialisti e democratici, liberali. Sarebbe sbagliato però dire che la Ue è rimasta quella di sempre. La nuova legislatura sarà sicuramente meno “austera” delle due precedenti (Juncker e Barroso), meno orientata alla stabilità fiscale in quanto tale e più aperta verso i temi della crescita, dell’occupazione, della sostenibilità ambientale e sociale. Lo testimoniano innanzitutto i programmi dei partiti che ora formano la maggioranza a Strasburgo. Rispetto alle elezioni del 2014, essi hanno formulato proposte precise su tutti questi fronti (si vedano le analisi su www.euvisions.eu). Il segnale più forte viene tuttavia dall’”Agenda per l’Europa” preparata dalla neopresidente Ursula von der Leyen per il prossimo quinquennio Una lettura attenta di questo documento sarebbe molto utile a chi sta lavorando per risolvere la crisi di governo. Vi si trovano infatti idee e proposte molto calzanti per l’Italia. In primo luogo, von der Leyen richiama l’attenzione sui temi ambientali e sulla necessità di un vero e proprio “Patto verde” europeo. Non solo per affrontare la sfida oggi più dirompente per l’intero pianeta - il cambiamento climatico - ma anche per stimolare la crescita. Economia circolare, risanamento ambientale, rilancio delle aree e delle attività rurali, investimenti massicci in sostenibilità: preso seriamente, il perseguimento di questi obiettivi avrebbe enormi ricadute in termini di Pil e occupazione. Sul versante del lavoro, la neopresidente propone un salario minimo Ue e la regolazione della cosiddetta gig economy (i lavori tramite piattaforma, che interessano un numero crescente di giovani europei). In tema di welfare, l’obiettivo prioritario è il rafforzamento della garanzia giovani, nonché di una nuova “garanzia minori” (reddito, asili, formazione primaria, salute per tutti i bambini/ragazzi in condizioni disagiate). Dato il suo successo come ministra per gli affari sociali e la famiglia in Germania, von der Leyen propone poi un piano ambizioso per le donne (conciliazione, pari opportunità, protezione contro violenze e femminicidi) e la piena realizzazione del nuovo Pilastro europeo dei diritti sociali. Inoltre, la sua Agenda insiste moltissimo sugli investimenti digitali e in capitale umano: istruzione, ricerca e sviluppo. Nel documento c’è molto altro (compresa la revisione del Regolamento di Dublino sull’immigrazione). Ma i punti menzionati sono tutti rilevantissimi anche per l’Agenda Italia. Se un nuovo governo li includesse nel programma, si tratterebbe (questa volta sì) di un cambiamento epocale rispetto agli approcci del passato, prevalentemente basati sulla difesa a oltranza dell’esistente (settori economici tradizionali, previdenza pensionistica) piuttosto che investimenti per il futuro e per l’inclusione attiva delle persone più svantaggiate. Oltre che per i contenuti, la svolta di von der Leyen merita attenzione anche per altri motivi. In vari Paesi membri non vi sono oggi i margini fiscali per muovere nelle direzioni indicate dalla neopresidente. Certo, con incisive riqualificazioni della spesa pubblica e una lotta a tutto campo contro l’evasione, un po’ di margini si potrebbero (e dovrebbero) trovare. Ma difficilmente basterebbero, almeno nel breve periodo. In Italia abbiamo una complicazione in più. Le clausole sull’Iva introdotte dal governo giallo-verde ci obbligano a trovare 23 miliardi per il 2020 e 29 per il 2021. Se non le disinneschiamo, si rischia di tarpare ancor di più le ali a una crescita già intorno allo zero. E senza crescita il debito non scende. C’è un modo per uscire da questo circolo vizioso? Immaginiamo il seguente scenario. Il nuovo governo elabora (preferibilmente con l’assistenza tecnica della Commissione) un ambizioso piano di riforme in linea con l’Agenda Ursula, indicandone anche i costi. Poi lo presenta come Nota aggiuntiva al programma di Stabilità che tutti i Paesi devono sottoporre a Bruxelles nel mese di ottobre. Come reagirebbe la Commissione? È difficile che ci risponda con un no secco. Vorrà sicuramente essere sicura che non si tratti di una richiesta opportunistica, come è già avvenuto in passato. Chiederà assicurazioni su contenuti e tempi delle riforme, forse vorrà essere coinvolta nel monitoraggio e nella valutazione in corso d’opera. Inoltre si aspetterà che la legge di Stabilità per il 2020 si allinei alle raccomandazioni di politica economica e sociale ricevute dall’Italia lo scorso giugno (ad esempio rivedere quota 100 e il reddito di cittadinanza, per renderlo più efficace). Ma se vi saranno queste condizioni, è possibile che la Commissione allenti il vincolo di bilancio per l’Italia già a partire dal 2020, concedendo flessibilità. Peraltro, è previsto che la Ue consigli a tutti i Paesi per l’anno prossimo politiche più espansive. Dato il nostro debito, per l’Italia la raccomandazione della Commissione si limiterebbe a passare da politica “restrittiva” a politica “neutrale”. Solo questo significherebbe però che il deficit strutturale del prossimo anno potrebbe attestarsi sul livello del 2019, senza ulteriori riduzioni. Un percorso di questo genere avrebbe per l’Italia due ovvi vantaggi. Alleggerirebbe l’onere (anche politico) della prossima legge finanziaria; consentirebbe la ripresa degli investimenti e dunque della crescita. Ci sarebbe però un vantaggio anche per la Ue. La sua immagine potrebbe finalmente affrancarsi dallo spauracchio della “guardiana cattiva” agitato dai sovranisti e assumere il volto più amichevole di una istituzione che si prende cura dei propri cittadini e del loro futuro. Una previsione troppo ottimistica? Può darsi. C’è un modo solo per verificarlo: prendere l’iniziativa. Per le forze politiche che stanno negoziando sarebbe il modo migliore per raccogliere l’invito alla serietà del presidente Mattarella. E soprattutto per non sprecare i prossimi mesi in una rumorosa e inconcludente campagna elettorale. L’Italia a rischio vive di emergenze, ma stanzia (e spende) poco per prevenire di Marta Casadei Il Sole 24 Ore, 26 agosto 2019 Il report “Dall’emergenza alla prevenzione: urge un cambio dì paradigma”, frutto dell’elaborazione di dati Ispra e Protezione civile, dipinge un territorio fragile - il 16,6% è mappato nelle aree di maggiore pericolosità di dissesto idrogeologico - nel quale ci si trova a ragionare soprattutto in chiave di risposta a una calamità. A molte, in realtà: tra il 1° maggio 2013 e il 13 maggio 2019 diciannove delle venti Regioni italiane hanno dichiarato almeno uno stato d’emergenza. E hanno chiesto, nel complesso, 11,4 miliardi di euro, di cui 9,4 sono stati riconosciuti come legittimi dai commissari. Ad essere assegnati e trasferiti, tuttavia, sono stati poco più di 900 milioni. Tra le Regioni più colpite dalle emergenze (12 in sei anni) c’è l’Emilia Romagna, che ha chiesto 1,3 miliardi di euro, ottenendo (per ora) solo 112 milioni degli 1,1 miliardi di fabbisogno riconosciuto. Subito dietro, la Toscana: otto stati di emergenza proclamati e danni riconosciuti per 783 milioni, di cui sono stati assegnati e trasferiti poco meno di 94 miliardi. Per il solo stato emergenza dovuto al maltempo registrato nell’ottobre 2018, che ha coinvolto dieci Regioni e due Province autonome, Trento e Bolzano, sono stati stanziati 150 milioni di cui 102 già trasferiti al commissario delegato. Secondo l’Anbi, associazione che rappresenta i consorzi di bonifica, di irrigazione e di miglioramento fondiario, investire in prevenzione costerebbe circa sette volte meno rispetto al costo di gestione delle emergenze, ma l’Italia ha ancora un approccio poco lungimirante: “I fondi impegnati sono inferiori rispetto al fabbisogno espresso dagli enti locali - spiega Andrea Ballabio di Laboratorio Ref Ricerche, tra gli autori del report - e si continua a ragionare in un’ottica più che altro emergenziale”. Negli ultimi 20 anni circa (dal 1999 al 2017) il ministero dell’Ambiente, infatti, ha risposto alla richiesta di fondi per la prevenzione - circa 23 miliardi di euro per oltre 8mila interventi- con una nuova iniezione di “soli” 5,6 miliardi (secondo la classificazione proposta dall’Ispra, che raggruppa atti e decreti in sei macro categorie) principalmente attraverso il Dl 180/1998 (varato dal primo Governo Prodi dopo l’alluvione di Sarno) e gli accordi di programma 2010-2011. La quota più nutrita dei finanziamenti è andata alla Sicilia (662 milioni), seguita da Lombardia e Toscana con, rispettivamente, 551 milioni e 567 milioni di euro. Ma, a livello nazionale, solo il 44% dei fondi - e quindi circa 2,4 miliardi - sono stati impiegati in progetti portati a termine. Il 15%, più di 800 milioni, è stato destinato a progetti mai avviati o definanziati. Tra le Regioni che avrebbero utilizzato i fondi nel modo meno efficace c’è la Liguria, dove meno del 20% del denaro stanziato nel periodo (439 milioni, di cui, tuttavia, 315 milioni arrivati con il Piano stralcio aree metropolitane 2015-2020) sono stati impiegati in progetti terminati. “Negli ultimi abbiamo invertito la tendenza - spiega Giacomo Giampedrone, assessore all’ambiente della Regione Liguria - essendo cresciute le emergenze, da un lato, e la sensibilità degli enti locali dall’altro. E continuiamo su questa strada: a settembre lanceremo il bando di gara per lo scolmatore del torrente Bisagno, un appalto del valore di 204 milioni”. Secondo Giampedrone “quando ci sono le emergenze i fondi arrivano, come è successo per l’alluvione del 2018; il nodo vero sono gli stanziamenti per la progettazione. Il piano Proteggi-Italia, per esempio, ha previsto solo lo milioni per la Liguria: risorse insufficienti, considerando servirebbero 5o milioni per chiudere il programma strutturale”. Il Proteggi-Italia, pubblicato in Gazzetta Ufficiale il 12 aprile scorso, ha stanziato 11 miliardi di euro per il triennio 2019-2021, con tre miliardi destinati a interventi già eseguibili nell’anno in corso. “Il Piano non stanzia fondi sufficienti per la prevenzione - continua Ballabio di Laboratorio Ref Ricerche - perché circa tre degli n miliardi di euro complessivi sono dedicati alle emergenze e quasi tutti sono già stati assegnati dalla Protezione Civile per le calamità dell’autunno 2018. I fondi realmente destinati al ministero dell’Ambiente per la prevenzione sono quattro miliardi per il periodo 2019-21 a cui si aggiungono 900 milioni di euro a triennio da qui al 2030”. Migranti. Naufragio sovranista sugli sbarchi: sulla Libia violate troppe leggi di Alessandro Barbera La Stampa, 26 agosto 2019 Norme interne e internazionali dietro il flop della linea “porti chiusi”. “Migranti riportati in mare dopo essere stati torturati e dietro pagamento di un riscatto”, denuncia un rapporto per l’Aja. Ufficio del giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Trapani, 23 maggio: “Il diritto a non essere espulsi, estradati o respinti verso Paesi a rischio tortura sono assoluti ed inderogabili”. Tribunale amministrativo del Lazio, 14 agosto: “Si ravvisa una violazione delle norme di diritto internazionale del mare in materia di soccorso”. Procura della Repubblica di Agrigento, 20 agosto: “L’obbligo di salvataggio delle vite in mare costituisce un dovere degli Stati e prevale sulle norme e gli accordi bilaterali”. Cosa spinge tre uffici giudiziari in tre mesi a mettere in discussione le scelte dell’autorità politica? “Porti chiusi”, dice Matteo Salvini. Ma chiusi a cosa? In nome di quali regole? Perché il ministro degli Interni è stato indagato per sequestro di persona e invece Carola Rackete - l’ormai famosa comandante tedesca della Sea Watch - è stata rilasciata in poche ore dopo aver attraccato illegalmente a Lampedusa? Il più incredibile fallimento politico della storia continentale viene da lontano e cade sulle spalle dell’intera Unione europea: Mare Nostrum, Frontex, Frontex plus, Triton, Themis, confusi tentativi di risposta all’emergenza migratoria scivolati lentamente nell’irrilevanza delle istituzioni comuni. A differenza di quanto accaduto nei Balcani, l’Unione ha lasciato l’Italia sola a gestire la rotta libica e tunisina. Le soluzioni adottate negli ultimi due anni hanno sì fatto crollare il numero degli sbarchi, ma hanno provocato un cortocircuito fra le regole nazionali invocate nei singoli casi e il quadro giuridico internazionale. Il memorandum con la Libia La Libia è unico Paese al mondo che ha importanti responsabilità di coordinamento di salvataggio di migranti senza essere mai stato presa in considerazione come porto sicuro. Eppure è ciò che impone la legge del mare. Non solo: la Libia non è riconosciuta come porto sicuro nemmeno dall’Onu la quale - paradosso nel paradosso - è responsabile dell’agenzia alla quale è stata comunicata la zona di pattugliamento libico. L’innesco del cortocircuito è il memorandum con cui Italia ed Europa si mettono nelle mani di Tripoli per risolvere il problema migratorio. Nasce dall’iniziativa dell’allora ministro degli Interni Marco Minniti, ed è firmato il 2 febbraio 2017 da Paolo Gentiloni e dal traballante capo del governo riconosciuto dall’Unione, Fayez Serraj. Il quale - per inciso - non ha alcun controllo su un’enorme parte della Libia e sulla Cirenaica. Quello è il momento nel quale l’Italia inizia a finanziare il pattugliamento della guardia costiera locale e nel Mediterraneo si moltiplicano le missioni delle Organizzazioni non governative. Nel provvedimento di maggio il Tribunale di Trapani sostiene che quell’intesa - non esplicitamente ratificata dal Parlamento, ma solo attraverso la legge di conversione del pacchetto di misure che ne seguì - non avrebbe nemmeno valore giuridico vincolante. Contro l’accordo italo-libico l’Università di Science Po ha preparato un lungo rapporto consegnato alla Corte penale internazionale. Fra le tante, una denuncia spiega da sola il fallimento del sistema: migranti recuperati in mare, torturati, e infine scortati di nuovo in acqua dalle stesse milizie libiche per raggiungere l’Europa dopo aver pagato un riscatto. La richiesta - anche a carico del governo che lo introdusse - è di un’indagine per crimini contro l’umanità. C’è un caso che più di ogni altro racconta bene il cortocircuito fra legalità e illegalità. Pur essendo firmataria della convenzione Sar di Amburgo del 1979 (“search and rescue”, “cerca e salva”), la Libia non si era mai occupata di pattugliare le sue coste. A valle dell’accordo con l’Italia, a giugno del 2018 Tripoli comunica all’Imo (l’autorità marittima dell’Onu) di aver individuato un’ampia zona di mare in cui si farà carico del soccorso dei migranti. La zona Sar non coincide con le acque territoriali, i cui confini sono sempre incerti. Ma se un’organizzazione non governativa recupera persone in acque nella zona Sar libica, sarebbe tenuta a riconsegnarle alle autorità di Tripoli. È quel che avrebbe dovuto fare nell’estate 2018 il rimorchiatore italiano Vos Thalassa, oggetto dell’indagine della procura di Trapani. L’otto luglio il comandante comunica al centro nazionale di coordinamento del soccorso marittimo di aver recuperato al largo delle coste libiche più di sessanta migranti. In un primo tempo le autorità italiane impongono al rimorchiatore di far rotta verso Lampedusa. Poche ore dopo il comandante fa sapere di essere stato contattato dalla Guardia costiera libica che lo invita a consegnare i migranti perché salvati in zona Sar di loro competenza. Quando i naufraghi si accorgono del cambio di rotta, due di loro organizzano una rivolta e minacciano di morte l’equipaggio. A quel punto il comandante chiede l’assistenza della guardia costiera italiana, che interviene e accompagna il gruppo a Lampedusa. La sentenza che assolve i due migranti eccepisce il “diritto assoluto” alla “legittima difesa”, al “non respingimento” e al rimpatrio in un “porto sicuro”, dunque non in Libia. Il fondamento della decisione è in una lunga lista di norme, interne e internazionali: l’articolo due della Costituzione italiana, le dichiarazioni europea ed universale dei diritti dell’uomo, la convenzione di Montego Bay sul diritto del mare (1982), la convenzione di Londra per la salvaguardia della vita in mare (1974), la già citata convenzione Sar di Amburgo del 1979. Nella sentenza si dice di più: la stessa convenzione di Amburgo non consente il rimpatrio in Libia dei migranti, ma al contrario impone di accompagnarli in luogo sicuro, ed è uno dei fondamenti del principio di non respingimento. Un principio sancito da due istituzioni (quella dei diritti dell’uomo di Strasburgo e la corte di giustizia dell’Unione) e sul quale invece si regge l’intesa con la Libia. Il venti agosto la procura di Agrigento ha disposto il sequestro della nave Open Arms e l’evacuazione del suo carico di immigrati. Ecco cosa scrive il procuratore Luigi Patronaggio a proposito degli obblighi di salvataggio delle vite in mare: “Le convenzioni internazionali in materia costituiscono un limite alla potestà legislativa e non possono costituire oggetto di deroga da parte dell’autorità politica”. Spetta ai giudici disporre la disapplicazione di leggi votate dal Parlamento? La domanda se la pongono in molti, ma non risolve la contraddizione. Al netto della propaganda da comizio, le circolari a firma Matteo Salvini forniscono qualche appiglio giuridico al tentativo (mai riuscito) di chiudere i porti, legittimare i controlli libici e la consegna dei migranti alla Guardia costiera di Tripoli. Il documento pubblicato il 18 marzo dal ministro degli Interni ammette che l’Italia “ha l’obbligo di garantire la vita umana in mare e coordinare le azioni di soccorso anche fuori della propria regione di competenza”, ma “soltanto fino a quando il centro competente non abbia assunto il coordinamento” del salvataggio. Non solo: Salvini lamenta l’intervento delle navi delle Ong “in zone di responsabilità non italiane disattendendo le direttive delle autorità Sar”. I porti “libici, tunisini e maltesi possono offrire adeguata assistenza logistica e sanitaria, essendo peraltro più vicini in termini di miglia marine”. Qui il ministero degli Interni non si preoccupa di stabilire se si tratti o meno di porti sicuri. O se - come nel caso di Malta - il Paese ospitante sia attrezzato per accogliere barche cariche di decine di migranti. La circolare omette anche di citare la Spagna fra i possibili approdi, perché troppo lontana per chi spesso sale a bordo in condizioni precarie. Salvini rivendica in ogni caso pieni “ed esclusivi” poteri sul mare territoriale italiano. Passaggio in acque territoriali Una seconda circolare del 4 aprile dopo il caso della nave Alan Kurdi e una terza il 15 maggio dedicata a Sea Watch 3 citano l’articolo 19 della convenzione di Montego Bay e il diritto a negare il passaggio di una nave nelle acque territoriali se ritenuto “non inoffensivo”. La norma parla esplicitamente di “carico o scarico di persone in violazione delle leggi e dei regolamenti in materia sanitaria e di immigrazione vigenti nello Stato costiero”. E però si tratta di un’eccezione alla regola generale che regola il diritto al passaggio: è considerato inoffensivo finché “non arreca pregiudizio alla pace, al buon ordine e alla sicurezza dello Stato costiero”. Si può eccepire un simile argomento contro un battello di immigrati che in molti casi hanno diritto di chiedere asilo o lo status di rifugiato? È questo il cappio giuridico a cui è appesa l’Italia: da un lato il potere riconosciuto di negare l’approdo in nome delle leggi nazionali contro immigrazione clandestina e traffico di esseri umani, dall’altro il dovere di assicurare i diritti dei migranti. L’unica soluzione per evitare l’applicazione all’Italia del regolamento di Dublino - quello che prevede di chiedere asilo nel primo luogo di approdo - sarebbe quella di considerare la bandiera delle Ong alla stregua di un’ambasciata. Ma non c’è regola che possa modificare la geografia: l’Italia resta il primo porto sicuro per chi è in fuga dal continente africano. Le circolari lamentano interventi delle Organizzazioni non governative “finalizzati al trasferimento sul territorio di migranti irregolari, facendo ricorso strumentale alle convenzioni”. In nome di questo il decreto sicurezza bis ha introdotto multe fino a un milione di euro per le Ong e l’arresto dei capitani delle loro navi. Ma si può contestare tali violazioni se firmatari di accordi internazionali che prevedono l’obbligo di salvare vite in mare? Le statistiche dicono che gli interventi delle Ong restano marginali rispetto ai grandi numeri. L’Istituto per gli studi internazionali (Ispi) stima che sui 3.073 migranti arrivati in Italia da gennaio a luglio, solo 248 sono stati accompagnati dalle Ong. Gli altri 2.825 sono “sbarchi fantasma”. Migranti riusciti a sfuggire alla morte in mare, al tritacarne mediatico e che meriterebbero miglior sorte con una soluzione europea al problema. Stati Uniti. San Francisco vuole cambiare le parole con cui si parla di carcere ilpost.it, 26 agosto 2019 Per usare un linguaggio che aiuti chi ha commesso dei reati a rifarsi una vita con meno pregiudizi. Il Board of Supervisors di San Francisco, l’organo legislativo della città e della coincidente contea in California, ha approvato a metà luglio una risoluzione per raccomandare a tutte le istituzioni cittadine l’uso di nuove parole quando si parla di “criminali”, “detenuti” o “drogati”. Lo scopo della risoluzione è usare parole meno stigmatizzate, che rendano più facile il reinserimento nella società di chi abbia avuto problemi con la legge ed evitino il perdurare di stereotipi negativi. La risoluzione parte dalla constatazione che un quinto degli abitanti della California abbia avuto problemi di qualche tipo con la legge e dal fatto che il linguaggio ufficiale con cui si parla di loro tende a enfatizzare i reati commessi, cancellando le persone, con effetti negativi sulle loro vite. “Il linguaggio dà forma alle idee, alle percezioni, alle credenze e alle azioni di persone, della società e dei governi” dice la risoluzione, “e l’uso di un linguaggio che enfatizza o dà priorità ai reati commessi invece che alle persone disumanizza, svaluta, indebolisce, demoralizza e disonora l’umanità di quelle persone”. Per questo, seguendo quanto già stabilito da altre istituzioni cittadine, il Board of Supervisors ha raccomandato l’uso di quello che in inglese viene chiamato people-first language: un linguaggio che metta al centro le persone. La risoluzione contiene alcuni esempi di parole considerate migliori da usare al posto di vecchie definizioni: a “felon” e “offender”, due parole con cui si indicano genericamente i pregiudicati, bisogna per esempio preferire espressioni come “persona precedentemente incarcerata”; al posto di “violent offender”, “violento criminale”, meglio “persone condannata per un reato grave/violento”. La lista delle parole contenuta nel testo della mozione non va comunque considerata esaustiva, ma solo esemplificativa. La mozione non è stata firmata dalla sindaca di San Francisco London Breed, che per consuetudine non adotta ufficialmente le raccomandazioni di mozioni non vincolanti. La polizia della città ha detto che sta riflettendo su come l’uso di nuove parole potrebbe avere effetti sul lavoro quotidiano, mentre l’ufficio del procuratore distrettuale di San Francisco ha detto di essere d’accordo con il contenuto della mozione. Stati Uniti. Trump e lo Ius soli, abolirlo è irrealizzabile di Massimo Teodori Corriere della Sera, 26 agosto 2019 La procedura di revisione costituzionale, che deriva dal compromesso originario tra il potere federale e i diritti degli Stati, è oggi del tutto improbabile per i rapporti di forza tra i partiti in campo. La minaccia di Donald Trump di cancellare la legge dello Ius Soli, l’automatica cittadinanza degli Stati Uniti per i bambini che nascono sul territorio americano, non è altro che un messaggio propagandistico volto ad eccitare l’elettorato fedele al Presidente nazionalpopulista, senza tuttavia perseguire alcun effetto sulla legislazione federale. Il XIV emendamento costituzionale, che ha istituito lo Ius Soli nel 1868 all’indomani della abolizione della schiavitù nella Guerra civile, non può essere revocato se non con un altro emendamento eguale e contrario come avvenne nel 1933 con un emendamento che annullava il proibizionismo decretato nel 1919. La procedura di revisione costituzionale, che deriva dal compromesso originario tra il potere federale e i diritti degli Stati, è oggi del tutto improbabile per i rapporti di forza tra i partiti in campo. Infatti, per riformare la Costituzione è necessaria la maggioranza dei sue terzi in entrambe le camere del Congresso, quindi occorre che i tre quarti delle assemblee legislative o delle convenzioni costituzionali degli Stati ratifichino il nuovo emendamento entro i successivi sette anni. La verità dell’improvvisa dichiarazione di Trump, che ha definito “ridicolo” lo storico diritto di cittadinanza per nascita in vigore da un secolo e mezzo, sta nel fatto che il Presidente nell’ultimo anno del mandato ispira la sua propaganda ai vecchi canoni di quel nativismo che ebbe il suo quarto d’ora di successo alla fine dell’Ottocento, nella stagione dell’immigrazione di massa per fare fronte allo straordinario sviluppo industriale della nazione. Era la tendenza che allora istigava i “bianchi anglo-sassoni protestanti” (Wasp) a combattere gli immigrati in gran parte cattolici o israeliti, allora provenienti dall’Europa centrale e meridionale, i quali nelle città della costa atlantica contrastavano il predominio elettorale dei protestanti. Oggi il nativismo con risvolti xenofobici, di cui Trump è l’interprete, indirizza la foga anti-immigranti contro gli ispanici che entrano dalla frontiera messicana e si insediano negli Stati del Sud-Ovest (California, Texas, Arizona, Colorado, New Mexico) che fino al 1848 appartenevano al Messico. La popolazione bianca tradizionalista per lo più extra-urbana, giovani e vecchi, uomini e donne, ricchi e poveri, che respinge la società pluralistica e vota massicciamente per Trump (definito perciò il primo “presidente bianco”), teme che gli ispanici, che sono già la prima minoranza etnica con il 16% della popolazione, scalzino numericamente la maggioranza dei bianchi nei grandi e ricchi Stati del Sud-Ovest (California e Texas) grazie alla massiccia immigrazione, legale e illegale, dall’America centrale e al tasso di crescita demografica dei latinos doppio della media nazionale. Di qui, dopo il “Muro” eretto a simbolo della resistenza dei bianchi, si aggiunge ora un altro totem del nativismo, lo Ius Soli. Egitto. Al Sisi su Regeni: “consegneremo i criminali alla giustizia” di Ludovico Fontana rainews.it, 26 agosto 2019 Incontro del presidente egiziano con Conte a margine del G7 in corso a Biarritz. Ma l’account twitter “Verita per Giulio” vuole il ritiro dell’ambasciatore italiano al Cairo. Conte e Al Sisi sono tornati a parlare di Regeni a margine del G7 in corso a Biarritz, in Francia. Il presidente egiziano ha assicurato al premier italiano “l’impegno per scoprire le circostanze del caso e arrivare ai criminali e consegnarli alla giustizia”. “La determinazione del governo italiano, interprete dell’opinione pubblica, a chiedere effettivi risultati dalle indagini sul caso Regeni, è stata ribadita - ha detto Conte. “Tale determinazione - ha aggiunto - non verrà meno anche da parte dei prossimi governi”. Nel corso dell’incontro Al Sisi e Conte hanno anche discusso della crisi libica, della lotta al terrorismo, degli investimenti e dei progetti italiani in corso in Egitto”. Regeni, originario di Fiumicello in provincia di Udine, fu rapito, torturato e ucciso nel 2016. “43 mesi fa Giulio spariva - scrive l’account Twitter “Verità per Giulio” a commento dell’incontro: “Tre governi si sono succeduti: tante promesse e strette di mano ma nessun risultato, nessuna risposta concreta alle richieste di verità e giustizia. Per questo, scrivono, chiediamo un atto concreto: il ritiro dell’ambasciatore”. Russia. Khodorkovsky: “Putin ora è stanco Non capisce più il mondo moderno” di Stefania Ulivi Corriere della Sera, 26 agosto 2019 L’avversario dello Zar: “La mia vita sempre in pericolo. Trump è affascinato dal modello autoritario di Mosca. I rapporti con Salvini? Il leader del Cremlino recluta politici in Europa”. Sarò a Venezia, anche se basandomi su ragioni di sicurezza non dovrei farlo. Ci sono molti esempi in cui l’Italia non è stata accogliente verso gli oppositori di Putin. Ma sono un ottimista”. Sarà una presenza che si farà notare la sua, alla Mostra del cinema di Venezia, dove è protagonista di uno dei film più attesi, “Citizen K”, firmato dal regista premio Oscar Alex Gibney. Il ritratto di Mikhail Khodorkovsky, ex potentissimo oligarca, uomo più ricco di Russia, patron della Yukos, condannato per frode e evasione fiscale, oggi simbolo della dissidenza. Nemico numero uno di Vladimir Putin, in esilio a Londra dopo anni di carcere duro in un campo di lavoro al confine con la Mongolia. Un personaggio controverso, un enigma che, agli occhi del regista, aiuta a comprendere la complessità e le contraddizioni delle dinamiche del potere in Russia. Come l’interessato stesso sottolinea. “Credo che Alex pur essendo straniero abbia fatto un ottimo lavoro”. Nel film lei sostiene che Putin non sia così potente come lo vediamo in Occidente. Crede davvero che sia un insicuro e che stia iniziando a perdere il controllo del suo entourage? “Negli ultimi anni ho notato sempre più spesso che Putin usa un’informazione unilaterale e che le persone che lo circondano lo manipolano più facilmente di prima in base ai loro interessi. È stanco, ha perso la capacità di comprensione di molti aspetti della contemporaneità”. Si aspetta cambiamenti anche prima della fine del suo nuovo mandato presidenziale, previsto nel 2024? “Non sono un sognatore. Eventi improvvisi possono accadere ogni giorno o essere ritardati per anni. Il nodo più immediato è il 2021. Le élite faranno il possibile perché alle elezioni la Duma possa diventare un organo di potere essenziale. La successiva rielezione sarà dopo il 2024, ovvero dopo le presidenziali”. Come giudica i suoi principali oppositori, per esempio Aleksej Navalnyj? E che ruolo pensa possano giocare nuovi leader come la giovane Olga Misik? “Aleksei Navalny, Dmitry Gudkov, Ilya Yashin e altri stanno facendo un grande lavoro per rafforzare la società civile. Se i cambiamenti avverranno presto, loro potranno guidarli. Se no, vediamo già una nuova generazione all’orizzonte. È importante per la Russia che a Putin non succeda un nuovo autocrate e che il Paese finalmente abbia un sistema moderno e di bilanciamento dei poteri. Questo è il compito più complicato”. Che influenza ha Vladimir Putin su Donald Trump? Crede che il Cremlino abbia materiale compromettente contro di lui? “Non credo al cosiddetto “killing kompromat” (dossier con informazioni compromettenti, ndr) su Trump. Piuttosto che il modello criminale e autoritario di Putin lo affascini. Persone educate di buona famiglia spesso sentono soggezione e persino un certo timore dei bulli. E Putin ha indossato questa maschera tanto tempo fa”. E cosa pensa dei rapporti tra Matteo Salvini e Putin? “Ci sono molte informazioni sui legami profondi tra Salvini e Putin e il suo entourage. Parte di queste informazioni fanno dubitare dell’integrità di questi contatti. Sfortunatamente si tratta di una pratica comune per Putin che è un eccellente ufficiale reclutatore ed è riuscito a trovare chiavi di varia natura per arrivare a molti politici europei”. Lei vive a Londra e sa di essere in pericolo. Cosa pensa delle tante morti misteriose di questi anni? Cosa pensa ne sappia Putin? “Basandomi sulle mie conoscenze posso dire che Putin approva le uccisioni di coloro che considera traditori, come Litvinenko, ma non dà ordini diretti per eliminare coloro che considera nemici. Altrimenti sarebbe stato difficile per me sopravvivere fino a oggi. Ma tutto cambia”. Cosa pensa della recente esplosione nucleare nella base militare di Nenoksa? “In base alle informazioni in mio possesso, il motore a combustibile solido del razzo con un radioisotopo è esploso. L’esplosione ha lanciato materiale con isotopo ad alta attività. Per fortuna questo è accaduto sulla piattaforma di lancio e non sopra una località abitata. Questo progetto idiota e pericolosissimo per l’ambiente è stato annunciato da Putin personalmente”. Lei ha passato anni in carcere, come è sopravvissuto? E come ha conservato il sangue freddo e il senso dell’umorismo che vediamo nel film? “L’Urss dove ho vissuto i miei primi 28 anni mi ha preparato bene per la prigione ma senza il supporto morale della mia famiglia e di migliaia di persone nel mondo sarebbe stato più duro. Ringrazio i miei parenti: mi hanno aspettato e accettato le mie scelte”. Lei è considerato un eroe dei diritti umani. È ottimista sul futuro del suo paese? Spera ancora che possa diventare una terra dove “i diritti umani non siano più subordinati al capriccio dello zar”? “Il mio motto è “Russia will be free!” Se avessi dubitato di questo probabilmente non sarei sopravvissuto”. Si riconosce nel ritratto che fa di lei nel film Gibney che non nasconde i lati avvolti da mistero della sua parabola ma si dice “colpito dal suo idealismo” e la paragona a Jake La Motta di Toro scatenato, un lottatore? “Non ho familiarità con il suo paragone, ma per me combattente è il più alto valore di una persona. Sono felice che Alex lo dica di me”. Kazakistan. Libero in cambio del silenzio l’attivista Serikzhan Bilash di Riccardo Noury Corriere della Sera, 26 agosto 2019 Raramente, negli stati ex sovietici dell’Asia centrale, capita che un prigioniero di coscienza sia rilasciato: è successo il 16 agosto in Kazakhstan ma la buona notizia è tale solo a metà. Serikzhan Bilash, nato in Cina da genitori kazaki e residente in Kazakistan da oltre 10 anni, è stato fino a quando ha potuto una preziosa fonte di informazioni sulla feroce persecuzione delle minoranze musulmane in Cina. Nel 2017 ha costituito un’associazione per assistere le famiglie dei kazaki detenuti nella Regione autonoma uigura dello Xinjiang. Ha chiesto il riconoscimento ufficiale, le autorità gliel’hanno negato e poi lo hanno multato per aver svolto attività nell’ambito di un gruppo non registrato. Bilash ha collaborato a un rapporto di Amnesty International, pubblicato nel settembre 2018, sugli arresti arbitrari e l’indottrinamento forzato degli uiguri, dei kazaki e di altri gruppi etnici musulmani nello Xinjiang. L’arresto è avvenuto il 10 marzo 2019, per “incitamento all’odio sociale, nazionale, clanico, razziale, di classe o religioso”. Il “reato” sarebbe stata questa affermazione, fatta un mese prima durante un incontro con la comunità uigura: “Oggi il jihad non è prendere un fucile e andare a combattere in Cina. Il jihad è fare informazione, fare propaganda”. Un’opinione, da condividere o meno, ma un’opinione. Il 16 agosto Bilash è stato portato di fronte a un giudice e, a insaputa del suo avvocato e nottetempo, ha evitato una condanna a sette anni di carcere patteggiando il rilascio in questi termini: l’ammissione di colpevolezza, una multa di 300 dollari, il divieto di viaggio per tre mesi e l’impegno a non fare più campagne sui diritti umani in Cina. Le autorità del Kazakistan non mostrano alcuna preoccupazione per la sorte dei loro cittadini detenuti in Cina. Anzi, collaborano attivamente con Pechino: lo scorso anno hanno negato l’asilo politico a Sayragul Sautybai, una ex istruttrice di un campo di rieducazione cinese, dunque testimone diretta. Sautybai è stata arrestata e minacciata di rimpatrio forzato ed è riuscita fortunosamente a lasciare il Kazakistan. Le autorità di Pechino hanno ringraziato ufficialmente il fedele alleato per il contributo al loro “programma di deradicalizzazione”. Iran. Nuovo rapporto su criminalizzazione dei difensori dei diritti umani thedailycases.com, 26 agosto 2019 I difensori dei diritti umani in Iran, da lungo tempo nel mirino del governo, sono stati sottoposti a sistematiche molestie giudiziarie dalla fine del 2017. L’Osservatorio per la protezione dei difensori dei diritti umani, un partenariato Fidh-Omct, fa luce su questa ondata di repressione che ha colpito noti attivisti come Nasrin Sotoudeh, Reza Khandan e Mohammad Najafi. Il rapporto, intitolato “Indefensible: Iran’s systematic criminalisation of human rights defenders”, documenta come i difensori dei diritti umani, compresi gli avvocati per i diritti umani, sono stati frequentemente arrestati senza accuse, trattenuti in detenzione preventiva prolungata senza accesso alla rappresentanza legale di loro scelta, condannati a lunghe pene detentive per vaghe accuse a seguito di processi iniqui e incarcerati in cattive condizioni. Questo modello di criminalizzazione ha lo scopo di frenare le loro attività sui diritti umani e di minare i loro diritti alla libertà di espressione. Il rapporto si basa sull’analisi di 28 singoli casi affrontati dall’Osservatorio nel 2018 e nella prima metà del 2019, tra cui noti attivisti e avvocati Nasrin Sotoudeh, Reza Khandan e Mohammad Najafi. Di questi casi, 15 sono difensori dei diritti delle donne e 13 avvocati per i diritti umani. Tredici di loro sono attualmente detenuti e 15 sono a rischio di re-arresto imminente. “La Repubblica islamica dell’Iran è un regime ostile per i difensori dei diritti umani. Qualsiasi forma di dissenso da parte loro è sistematicamente criminalizzata e soggetta a dure rappresaglie da parte delle autorità. Il governo iraniano deve smettere di perseguitare i difensori e iniziare a prendere misure urgenti per proteggerli “, ha dichiarato il vicepresidente del FIDH Guissou Jahangiri. Molti difensori dei diritti umani, sia uomini che donne, sono stati presi di mira per la loro difesa dei diritti delle donne e per il loro sostegno alle proteste contro le leggi obbligatorie sull’hijab. Nel frattempo, gli avvocati sono regolarmente presi di mira per la raccolta di casi relativi ai diritti umani e per la difesa di altri avvocati accusati di occuparsi di diritti umani. Gli avvocati per i diritti umani sono stati particolarmente colpevolizzati a causa delle loro critiche nei confronti della magistratura, a partire dal trattamento riservato ai propri clienti e colleghi avvocati da parte dei magistrati iraniani. “L’Iran ha una lunga storia di criminalizzazione dei difensori dei diritti umani e li persegue con le cosiddette accuse di sicurezza nazionale. Lungi dall’essere un protettore dei diritti come richiesto dai trattati ratificati dall’Iran, la magistratura rimane sottomessa al Capo supremo e, come mostrato nel nostro rapporto, agisce come un boia volontario della repressione dei difensori dei diritti umani. Sono necessarie urgenti riforme per garantire il rispetto dello stato di diritto e l’integrità e l’indipendenza di giudici, avvocati e pubblici ministeri “, ha affermato il segretario generale dell’Omct Gerald Staberock. In molti casi, ai difensori dei diritti umani che sono arrestati in base alle cosiddette accuse di sicurezza nazionale, viene negato l’accesso a un avvocato di loro scelta, in particolare durante il processo di indagine. Sono condannati a pene detentive severe - fino a 15 anni di carcere per una sola accusa - dopo processi iniqui condotti nei noti tribunali della Rivoluzione islamica dell’Iran. La maggior parte dei difensori dei diritti umani i cui casi sono dettagliati nel rapporto, sono detenuti nella famigerata prigione di Evin di Teheran, tristemente famosa per le sue gravi condizioni di sovraffollamento e antigieniche. Sono tenuti in isolamento per lunghi periodi di tempo, sono privati ??delle cure mediche essenziali e spesso vengono loro negate le visite dalle loro famiglie o dai loro avvocati. Il rapporto indica una serie di raccomandazioni alle autorità iraniane, nonché alle parti interessate delle Nazioni Unite e dell’Unione Europea. Esorta il governo iraniano a rilasciare immediatamente e incondizionatamente tutti i difensori dei diritti umani detenuti e a riconoscere il ruolo legittimo ed essenziale che svolgono nella società. L’Osservatorio per la protezione dei difensori dei diritti umani (l’Osservatorio) è stato creato nel 1997 da Fidh e dall’Organizzazione mondiale contro la tortura (Omct). L’obiettivo di questo programma è di intervenire per prevenire o porre rimedio a situazioni di repressione contro i difensori dei diritti umani. Fidh e Omct sono entrambi membri di ProtectDefenders.eu, il meccanismo dei difensori dei diritti umani dell’Unione europea attuato dalla società civile internazionale. Messico. Claudio, “missionario laico” contro il crimine organizzato di Nando Dalla Chiesa Il Fatto Quotidiano, 26 agosto 2019 Uno spirito inquieto? Un missionario laico? Un combattente di tutte le buone cause? Magro, non alto, una barba sottile e ben curata, quattro lingue imparate girando per il mondo, una passione smisurata per quello che fa, Claudio La Camera l’avevo conosciuto anni fa a Reggio Calabria, poi l’avevo incontrato fugacemente a Berlino, e l’ho ritrovato ora a Città del Messico. Dove lavora per le Nazioni Unite, più precisamente per l’Unodc, l’agenzia con sede a Vienna deputata a combattere la droga e il crimine organizzato. Qui in Messico, una volta di più, costruisce progetti sul campo, dove lo spingono lo spirito di battaglia e una certa idiosincrasia per la teoria inoperosa e la vita d’ufficio. Un accordo tra il ministero della Giustizia messicano e quello italiano per trasferire oltre oceano le nostre pratiche di reinserimento dei detenuti. Piani “integrali” di lotta alle estorsioni. Una strategia di sostegno alla causa immensa delle madri dei desaparecidos. La raccolta di testimonianze dirette e l’appoggio di progetti sociali nelle zone del diavolo, la Ciudad Juarez capitale mondiale del femminicidio, o lo stato di Guerrero, oggi in assoluto il più pericoloso dei 32 della federazione messicana (“in un paio di casi ho rischiato molto”, ammette). Vi sembra molto? Troppo? Poco, rispetto a ciò che questo spirito avventuroso e combattivo ha fatto nella sua vita. Che non è mai stata sedentaria, fedele al principio che è “meglio essere poveri e vedere il mondo”. Il suo giro Claudio lo iniziò a 17 anni, quando prese ad andare nei mesi estivi da Reggio Calabria in Francia a raccoglier frutta per mantenersi agli studi. Il salto di qualità giunse invece dopo la laurea a Catania in filosofia del diritto (“feci la tesi sulle leggi non scritte in “Antigone”). Partì per il Brasile con un prete del Don Orione conosciuto a Roma, José Carlos dos Santos, perché “nella vita ho sempre fatto le mie scelte seguendo le persone, non l’ambizione o il denaro”. Lì gli venne affidato il compito di costruire un Cottolengo vicino a Fortaleza. Ci riuscì grazie a un ricco italiano, barcamenandosi con successo tra amministratori analfabeti e latifondisti d’assalto. Poi una nuova missione in Brasile con i francescani, reparto cappuccini dell’Umbria. Totale, dieci anni di Amazzonia. A quel punto incominciò una girandola di mete lontane: l’Australia, un progetto di antropologia teatrale, e l’Africa. Un anno in Costa d’Avorio, ancora con religiosi. “Ricordo un incarico di fiducia. Attraversare territori infiniti tra Costa d’Avorio e Togo per portare a Koroghò una busta con denaro a un gruppo di suore rimaste isolate. Quando arrivai le trovai sedute in tondo a parlare, in frigorifero non avevano nulla da mangiare”. Poi il ritorno in Italia. Naturalmente zone di frontiera. Ristrutturare la casa di Peppino Impastato a Cinisi, la catalogazione del materiale trovato tra quelle mura (con carteggi mai prima usciti), riaprire al pubblico la reggia confiscata a don Tano Badalamenti. “Misero musica ad alto volume sul marciapiede per boicottare l’evento. In quel clima feci una scelta di metodo: andare al sodo, realizzare cose buone, senza farmi impelagare nelle piccole rivalità delle associazioni antimafia, e avere come solo riferimento le istituzioni e il bisogno di memoria”. La memoria, appunto. Come con la creazione dell’allora “Museo della `ndrangheta” (oggi Osservatorio) a Reggio Calabria. La costruzione di un nuovo pezzo di società civile e una incredibile vicenda giudiziaria contro di lui inabissatasi nel nulla, ma che lo ha segnato molto. Poi la Germania, il lavoro in fondazioni impegnate nella prevenzione del razzismo. Fino alle Nazioni Unite. A Vienna e dal 2017 in Messico, con la scelta di dedicarsi ai luoghi di frontiera con gli Usa, quelli in cui si fa oggi, e non solo simbolicamente, la storia del mondo. Le ricerche nel Guerrero. Sognando di trasformare il modello italiano di lotta alla criminalità in un esempio per l’America Latina, nella giustizia come nella scuola. Uno così lo fai raccontare per ore e ore, talmente grande è il mondo che si porta dentro. Finché il discorso cade sulla sua Calabria. E gli scappa la frase terribile di Corrado Alvaro: “ad andar via da questa terra ce l’hanno insegnato i nostri padri”. L’occhio si perde, la voce anche, mentre sussurra “quella terra infelice”. Sentirlo dire in Messico da chi si misura con le tragedie del mondo, vi assicuro che mette una malinconia senza confini. Messico. Un altro sacerdote ucciso, la Chiesa chiede giustizia vaticannews.va, 26 agosto 2019 C’è un’altra vittima nel clero messicano: si tratta di padre José Martín Guzmán Vega, assassinato nella notte di giovedì. La Chiesa chiede che sia fatta giustizia. “Con profondo dolore partecipiamo alla tragica morte del sacerdote José Martín Guzmán Vega: le autorità competenti hanno già avviato le indagini per chiarire i fatti e rendere giustizia. Nel frattempo, esprimiamo le nostre condoglianze alla famiglia Guzmán Vega e alla comunità parrocchiale di Cristo Rey de la Paz, Ejido Santa Adelaida, e invitiamo tutti a unirsi in preghiera per chiedere a Dio l’eterno riposo di padre Martin”. Con questo breve comunicato, la diocesi di Matamoros, Tamaulipas, in Messico, ha informato la comunità dell’assassinio del sacerdote José Martín Guzmán Vega, accaduto la sera di giovedì 22 agosto. Il comunicato porta la firma del vescovo, mons. Eugenio Lira Rugarcia. Padre Martin, di 55 anni, come riferisce l’Agenzia Fides, è deceduto presso l’Ospedale Generale “Dr. Alfredo Pumarejo”, dove era stato trasportato dopo essere stato ferito gravemente con un’arma. Negli ultimi 6 anni sono stati 26 i preti uccisi e due scomparsi nel Paese latinoamericano: lo riporta il Centro cattolico multimediale di Città del Messico, l’osservatorio che si dedica a rilevare vittime e intimidazioni tra il clero, specificando che si tratta di crimini rimasti impuniti. Messico. Un altro giornalista ucciso: è il dodicesimo da inizio anno La Repubblica, 26 agosto 2019 La violenza contro i giornalisti in Messico non si ferma. Il corpo senza vita di Nevith Condés Jaramillo, direttore del portale web “El observatorio del sur”, è stato trovato nella cittadina di Cerro de Cacalotepec con almeno quattro ferite da taglio: è il quarto reporter messicano ucciso nell’ultimo mese. Nelle ultime settimane aveva ricevuto diverse minacce ma nessuna protezione. L’organizzazione Articolo 19 che controlla la violenza contro i professionisti dell’informazione, ha idiffuso informazioni sul caso: Condés Jaramillo, 42 anni, viveva a Tejupilco, un comune di 7 mila abitanti nel sud del Paese. Sulla sua pagina Fb si occupava di un’area conosciuta come Tierra Caliente, caratterizzata disordini civili, diventata epicentro per la produzione di droga, in particolare papavero da oppio, e per traffico di droga.