Un governo per difendere la Costituzione di Luigi Ferrajoli Il Manifesto, 25 agosto 2019 Il dovere delle forze democratiche è quello di dar vita a un governo che ripari i guasti prodotti proprio da chi quelle politiche velenose contro la vita e la dignità delle persone ha praticato e intende riproporre con più forza ove vincesse le elezioni. C’è una ragione di fondo che impone alla sinistra la formazione di un governo giallo-rosso: la necessità, prima di porre termine alla legislatura, di disintossicare la società italiana dai veleni in essa immessi da oltre un anno di politiche ferocemente disumane contro i migranti. La Lega di Salvini intende “capitalizzare il consenso” ottenuto a tali politiche pretendendo nuove elezioni e chiedendo al popolo “pieni poteri”. L’idea elementare della democrazia sottostante a questa pretesa - poco importa se per analfabetismo istituzionale o per programmatico disprezzo delle regole - è la concezione anticostituzionale dell’assenza di limiti alla volontà popolare incarnata dalla maggioranza e, di fatto, dal suo capo: dunque, l’esatto contrario di quanto voluto dalla Costituzione, cioè la negazione del sistema di vincoli, di controlli e contrappesi da essa istituito a garanzia dei diritti fondamentali delle persone e contro il pericolo di poteri assoluti e selvaggi. Non dimentichiamo quanto scrisse Hans Kelsen contro questa tentazione del governo degli uomini, e di fatto di un capo, in alternativa al governo delle leggi: “la democrazia”, egli scrisse, “è un regime senza capi”, essendo l’idea del capo al tempo stesso non rappresentativa della complessità sociale e del pluralismo politico, e anti-costituzionale perché in contrasto con la soggezione alla legge e alla Costituzione di qualunque titolare di pubblici poteri. Di fronte a queste pretese, il dovere delle forze democratiche - di tutte quelle che si riconoscono non già nell’idea dell’onnipotenza delle maggioranze ma in quella dei limiti e dei vincoli ad esse imposte dalla Costituzione - è quello di dar vita a un governo che ripari i guasti prodotti proprio da chi quelle politiche velenose contro la vita e la dignità delle persone ha praticato e intende riproporre con più forza ove vincesse le elezioni. Dunque un governo di disintossicazione dall’immoralità di massa generata dalla paura, dal rancore e dall’accanimento - esibito, ostentato - contro i più deboli e indifesi. Non un governo istituzionale o di transizione, che si presterebbe all’accusa di essere un governo delle poltrone, ma al contrario un governo di esplicita e dichiarata difesa della Costituzione che ristabilisca i fondamenti elementari della nostra democrazia costituzionale: la pari dignità delle persone, senza differenze di etnia o di nazionalità o di religione, il diritto alla vita, il rispetto delle regole del diritto internazionale, prima tra tutte il dovere di salvare le vite umane in mare, il valore dei diritti umani e della solidarietà, il rifiuto della logica del nemico, come sempre identificato con i diversi e i dissenzienti e immancabilmente accompagnato dal fastidio per la libera stampa e per i controlli della magistratura sull’esercizio illegale dei poteri. Su questa base non ha nessun senso condizionare il governo di svolta a un no a un Conte-bis o alla riduzione del numero dei parlamentari. L’alternativa possibile è un governo Salvini, preceduta dalla riduzione dei parlamentari ad opera di una rinnovata alleanza giallo-verde, e poi chissà quante altre e ben più gravi riforme in tema di giustizia, di diritti e di assetto costituzionale. Una probabile maggioranza verde-nera eleggerebbe il proprio capo dello Stato e magari promuoverebbe la riforma della nostra repubblica parlamentare in una repubblica presidenziale. Di fronte a questi pericoli non c’è spazio per calcoli o interessi di partito. Sorpresa: la paura in politica è una virtù di Marco Pollini L’Espresso, 25 agosto 2019 Su quanto conti nell’avventura politica il coraggio, e quanto invece la paura, si potrebbe discutere a lungo. Tanto più in un passaggio in cui la faccia feroce e i consigli miti (e magari furbi) si sono andati intrecciando tra loro con nodi quasi inestricabili. Si direbbe che di tutta questa paura (vera) e di tutto questo coraggio (finto) Salvini sia stato l’eroe eponimo. Nei mesi scorsi era apparso un po’ come una tigre di carta. In questi giorni, a dire il vero, si è vista più la carta che la tigre. È partito all’assalto di tutti, ma non appena tutti sono sembrati coalizzarsi contro di lui la sua temerarietà si è affogata in un mare di inedita e confusa cautela. Se ne potrebbe trarre la conclusione che ha avuto quel che si merita, e che la maldestra evocazione dei pieni poteri, oltre che una pazzia istituzionale si è rivelata come una maldestra mossa politica. E se appunto poi, al dunque, tutta questa baldanza si stempera e il ruggito finisce per assomigliare a un belato c’è da rallegrarsene per le sorti della nostra democrazia che fino a qualche ora fa sembrava minacciata da un nuovo 1922. Ma forse invece si potrebbe essere più generosi di così. E salutare nella improvvisa cautela del leader leghista, accanto all’opportunismo di cui ovviamente nessuno è mai del tutto privo, il segno che il nostro sistema politico e istituzionale ha pur sempre un senso. A cui forse neppure lui è in grado davvero di fare obiezione. Per fortuna, verrebbe da dire. Anche se non proprio per virtù. Naturalmente il “ravvedimento” di Salvini - chiamiamolo così, generosamente - si presta anche a letture assai meno encomiastiche. Se per un attimo è sembrato scendere dalla consolle del Papeete non si può certo dire che sia salito sul podio delle istituzioni. È chiaro che la sua natura, e la sua ambizione, restano sempre quelle. C’è in lui una bulimia di comando che non si placa di sicuro con la dieta a cui i rapporti di forza a questo punto sembrano costringerlo. E tuttavia, c’è sempre qualcosa di buono quando la paura si riprende il suo posto sulla scena politica. Un po’ perché in democrazia chi sbaglia per difetto in genere fa meno danno di chi sbaglia per eccesso. E un po’ perché, come ammoniva Shakespeare nell’Enrico V “la parte migliore del coraggio è la prudenza”, in quanto “morire è una finzione” ma “fingere di morire, quando con ciò un uomo vive, non è essere una finta, ma la vera, perfetta immagine della vita, questo sì”. Ora, sia chiaro, Salvini non diventerà virtuoso per essersi fatto pavido in uno dei tornanti della crisi che pensava di utilizzare come un trampolino elettorale. E d’altronde, lo svolgimento tortuoso di questa stessa crisi può portare da molte parti sfidando le molte contraddizioni di chi la opera e di chi la interpreta. Ma quella paura che d’un tratto sembra averlo preso e indotto a una sorta di inopinata cautela ricorda un po’ a tutti che dietro il passo di carica dei condottieri apparentemente più impavidi si nasconde sempre un calcolo astuto dei rapporti di forza che si producono su una scacchiera più ampia. E se per l’appunto quei rapporti di forza inducono a una certa pavidità, se ne può gioire e non solo dileggiare. Insomma, Salvini non merita particolari elogi per essersi fatto più prudente, e più confuso, di com’era apparso nelle prime ore di questa bislacca crisi di governo. Ma perfino quella confusione, e tanto più quella prudenza, servono a ricordare che siamo pur sempre una democrazia parlamentare e rappresentativa. Dove la manovra politica dà voce al nostro spirito bizantino, forse. Ma di sicuro rende anche più vano il trambusto di alcuni di quei corni di guerra che risuonavano così forti appena qualche ora fa. La prossima volta che li ascolteremo può darsi che ci faranno meno impressione. Forse perché la paura che è caduta addosso a Salvini sembra essersi nel frattempo sollevata dalle spalle degli altri. Abusi, furbetti, appalti truccati. Ecco l’Italia dei whistleblower di Giuseppe Latour Il Sole 24 Ore, 25 agosto 2019 Un presunto curriculum falso, compilato da un “incaricato di posizione organizzativa” in Friuli Venezia Giulia. Irregolarità nel sistema di rilevazione delle presenze e dei congedi della polizia locale di Napoli. Furbetti del cartellino all’agenzia delle Entrate. Attività diverse dal lavoro, svolte durante l’orario di servizio all’Inps. La violazione del divieto di fumo negli uffici del Comune di Milano. E, ancora: tangenti, abusi edilizi, appalti truccati o semplici conflitti di interesse. L’Italia disegnata dalle segnalazioni dei whistleblower, analizzate dal Quarto rapporto annuale dell’Anac sul tema, aiuta a comporre una mappa dei molti comportamenti scorretti e degli illeciti diffusi oggi nella pubblica amministrazione italiana. Si tratta - va specificato chiaramente - di semplici segnalazioni, in qualche caso anonime, che poi vanno verificate nel merito dai soggetti competenti: Autorità anticorruzione, Corte dei conti e Procure della Repubblica. A volte, insomma, sono solo falsi allarmi. Il whistleblower è, per definizione, una persona che viene a conoscenza di attività illecite sul proprio luogo di lavoro. La legge Severino (articolo i, comma 51 della legge 190/2012) ha introdotto in Italia tutele a protezione dei dipendenti pubblici che segnalano illeciti. Attivando un sistema che, negli anni, è stato affinato, dando un ruolo centrale all’Anac: dal 2014 l’Autorità guidata da Raffaele Cantone è uno dei soggetti competenti a ricevere le segnalazioni, insieme ai responsabili della corruzione e trasparenza delle diverse amministrazioni. Così, proprio dal 2014, ogni anno l’Authority fa il punto sull’andamento delle segnalazioni, in aumento continuo. Nel 2018 sono state 783,65 al mese, più del doppio rispetto al 2017, e nel 2019 sono ancora in crescita: 73 al mese, in media oltre due al giorno. Più dell’8o% delle denunce arriva utilizzando un applicativo sviluppato dall’Anac, che rende le comunicazioni con il whistleblower cifrate e non intercettabili. Grazie a questo strumento, nessuno all’interno dell’Authority può avere accesso al nome del “segnalante”, se non attivando una procedura speciale e richiedendo l’accesso a un responsabile. Al di là dei numeri, però, dicono molto i contenuti delle segnalazioni. Nella relazione Anac un capitolo è dedicato a quelle arrivate direttamente all’Autorità, mentre un’altra sezione riguarda quaranta tra amministrazioni e società pubbliche che ogni anno compilano un monitoraggio sullo stato di applicazione dello strumento nei loro uffici. In queste pagine si parla di appalti illegittimi, corruzione, concorsi truccati, cattiva gestione delle risorse pubbliche e conflitti di interesse. In diversi casi 1’Anac ha girato le carte a Procure e Corte dei conti. È accaduto per un concorso pubblico che si sospettava fosse truccato, in un’Asl del Sud. In un’amministrazione regionale del Centro Italia sono state segnalate pressioni per la riammissione di un concorrente che era stato escluso (apparentemente in modo legittimo) da una gara. Mentre in un Comune del Nord è stato denunciato il casti della nomina illegittima del comandante del corpo di Polizia municipale, “senza selezione pubblica, senza titoli e con stipendio maggiorato”, spiega l’Autorità. Ma anche tra le segnalazioni arrivate direttamente dai dipendenti alle amministrazioni si scoprono cose interessanti. Al ministero dell’Economia sono stati denunciati casi di abusi d’ufficio e di fermi amministrativi eseguiti in maniera illecita. All’agenzia delle Entrate sono stati riportati favoritismi nei confronti di soggetti terzi, false attestazioni di presenze in ufficio (mancate timbrature, ritardi non sanzionati), accessi abusivi ai sistemi informatici in dotazione agli uffici. Tutti casi, ovviamente, che le autorità competenti hanno poi verificato e che, magari, sono finiti in nulla. Ci sono, poi, Regioni e Comuni. In Friuli Venezia-Giulia ci sono presunti curriculum falsi e utilizzo abusivo di auto di servizio. In Basilicata segnalazioni di condotte illecite nella fase istruttoria di pratiche di autorizzazione. Nel Comune di Milano, assenze dal servizio non autorizzate, utilizzo improprio dei permessi 104, anomalie nell’erogazione di contributi comunali. In quello di Roma, disapplicazione di leggi e regolamenti in materia di commercio in aree private. A Torino, violazioni in materia di privacy e conflitti di interesse. Anche se, analizzando le denunce, non tutto rientra nella disciplina del whistleblowing, riservata a violazioni ai danni dell’interesse pubblico. In qualche caso lo strumento viene usato come uno sfogatoio per raccontare situazioni personali. Nel Comune di Trieste è stato segnalato un dipendente solo perché aveva uno stile di vita non compatibile con le sue entrate da impiegato pubblico. n perimetro molto ampio. Che tiene dentro quasi tutto: Ordini professionali, Autorità indipendenti, società partecipate (in qualche caso), società in house, dipendenti, ma anche collaboratori e semplici consulenti. L’Autorità anticorruzione, nella sua ultima analisi in materia di whistleblowing, tende a dare una definizione elastica dell’istituto, in modo da allargare al massimo l’applicazione dei suoi benefici. Premessa: la legge sul whistleblowing (legge 179/2017) ha allargato, nelle definizioni generali, la platea dei soggetti ai quali sono riservate le tutele della legge Severino. Non si parla più solo di dipendenti pubblici, ma vengono introdotte altre categorie, collegate in diverse maniere al perimetro della Pa. E questo ha riflessi anche sugli enti tenuti a garantire tutele ai whistleblower. L’Autorità anticorruzione, con l’aggiornamento (appena messo in consultazione) delle sue linee guida in materia, approfitta per fare il punto su tutte le situazioni dubbie. E stabilisce che tutte le amministrazioni tenute ad applicare le norme sulla prevenzione della corruzione nella Pa sono coinvolte dal whistleblowing. Quindi, anche Autorità portuali e Ordini professionali. Stesso discorso per le Autorità indipendenti e per tutti gli enti pubblici economici. Ancora, applicano le tutele a beneficio dei segnalatori anche le società in controllo pubblico e le società in house in “controllo analogo” (quelle nelle quali la Pa ha un controllo analogo a quello esercitato sui propri servizi). Sono fuori, nel silenzio della legge, le società quotate. Le partecipate, invece, ricadono solo se fornitrici di beni o servizi o esecutrici di opere in favore della Pa. Infine, qualche indicazione viene riservata ai soggetti tutelati: in linea di massima, le tutele riguardano dipendenti pubblici, ma anche lavoratori e collaboratori di imprese fornitrici. I consulenti non sono esclusi: anche per loro c’è la protezione della legge Severino. Per la magistratura, infine, la competenza delle segnalazioni è riservata al Csm. Reggio Calabria: quando in carcere bisogna affidarsi alla Madonna larivieraonline.com, 25 agosto 2019 Intervista a Gianpaolo Catanzariti, responsabile nazionale Osservatorio Carcere Ucpi. Si è svolta anche quest’anno l’iniziativa “Ferragosto in carcere”, promossa in tutta Italia dal Partito Radicale e dall’Osservatorio Carcere dell’Unione Camere Penali Italiane. L’iniziativa ha lo scopo di incontrare i detenuti e il personale dell’Amministrazione penitenziaria e di polizia per conoscere meglio le condizioni di ogni struttura carceraria. A capo della delegazione calabrese, che ha fatto visita alla Casa circondariale di Arghillà, Gianpaolo Catanzariti, responsabile nazionale Osservatorio Carcere Ucpi. Lo abbiamo intervistato per conoscere più da vicino le criticità della struttura reggina. La Casa circondariale di Arghillà avrebbe dovuto rappresentare il fiore all’occhiello della reclusione calabrese. Oggi in che condizioni versa? Drammatiche. Alle deficienze strutturali originarie, che hanno fatto di Arghillà il simbolo della fallimentare politica penitenziaria, si è aggiunto l’aumento esponenziale della popolazione detentiva senza aumento del personale operante e senza un servizio sanitario all’altezza delle gravità riscontrate. Con una capienza di 302 posti, oggi vi sono 365 detenuti, 213 definitivi e 93 in attesa di primo giudizio, 51 stranieri, ma nessun mediatore culturale. Pochi svolgono attività lavorative e solo tre all’esterno. Un numero esiguo per una struttura che avrebbe dovuto rappresentare un modello di reclusione al Sud Italia. La maggior parte delle celle ospita tra 7 e 8 detenuti su letti posti l’uno sull’altro, sino al terzo livello. Una condizione intollerabile che calpesta la dignità umana di chi è costretto a scontare una pena detentiva, condividendo un unico bagno senza bidet, attendendo il proprio turno per i bisogni fisiologici o per potersi sciacquare, quando l’acqua, dopo ore di assenza, esce improvvisamente dai rubinetti. Altro che spazio tollerabile sbandierato dal Ministero della Giustizia! La polizia penitenziaria, con 112 effettivi su una pianta organica di 160, fa quel che può. E anche loro vivono in condizioni di degrado. Gli alloggi loro destinati sembrano “luoghi della memoria” del secondo dopoguerra. Assurda è, poi, la situazione dell’area sanitaria con un’assistenza infermieristica garantita dalle 7 alle 22. Di notte, Morra permettendo, ci si affida alla Madonna! Esistono strumenti e gabinetti medici attrezzati, ma le prestazioni specialistiche, per ragioni tutte interne all’azienda sanitaria provinciale e da noi sconosciute, sono estremamente dilatate nel tempo. Nei mesi scorsi vi erano oltre 390 prestazioni specialistiche richieste e ancora inevase. La salute in carcere ad Arghillà sembra paragonabile alla ruota della fortuna che si gioca in locali neppure presi in carico formalmente dall’ASP. È valsa la pena sottrarre alle sue ferie alcune giornate per il “Ferragosto in carcere”? Girare le nostre carceri, visitare i detenuti è un’esperienza altamente formativa, dal punto di vista umano e professionale. Ad Arghillà, in una cella, con altri 7, vi era un detenuto, affetto da disabilità motoria alle gambe, su sedia a rotelle. Nell’osservare il bagno ammuffito di quella cella, privo di accessori per disabili, lo abbiamo immaginato sostenuto dai suoi compagni per potersi sedere sul WC e, sinceramente, ci siamo vergognati noi per tutti. Un settantacinquenne si è avvicinato con uno schizzo su carta che raffigurava dei corpi umani rinchiusi in una scatoletta di carne. E là ti rendi conto che, alla fine, sottrarre alle tue ferie alcune giornate per il “Ferragosto in carcere” ne è valsa davvero la pena soprattutto per non “marcire dentro”. Ti rendi conto della condizione disperata e intollerabile dei detenuti, che ti ringraziano comunque per essere “i soli che venite a trovarci”, che allungano una mano e che afferri, senza più parole, per ritrovare l’umanità smarrita, da tempo, nei luoghi in cui si esercita l’autorità dello Stato. Le è stata rivolta una richiesta in particolare da parte di qualche detenuto? Tante le richieste, infinite le lamentele. I detenuti di Alta sicurezza, con pene lunghe da espiare, trascorrono le loro giornate senza alcuna attività specifica, chiedendo, invano, di andare altrove. Un giovanissimo ergastolano, costretto a stare in cella con altri sette, si lamentava per il mancato trasferimento presso una struttura, anche fuori regione, ove poter espiare l’isolamento diurno residuo, in atto sospeso. Per non parlare degli stranieri che non hanno contatto con i familiari da 9 mesi e più, perché la matassa burocratica tra il loro paese e l’Italia, per la verifica del nucleo familiare d’origine, impedisce di poter svolgere anche una telefonata. La situazione del carcere di Locri, invece, desta le stesse preoccupazioni? Locri, stavolta, non siamo riusciti a visitarla anche se ultimamente avevamo visto una struttura con elementi positivi come i lavori di falegnameria destinati all’esterno o la predisposizione di una sezione in via sperimentale per lo svolgimento delle detenzione con una maggiore apertura delle celle, consentendo una più ampia socialità tra i detenuti. Certo, in Calabria l’apporto, istituzionale e non, della società esterna al carcere è del tutto assente. Quando sente espressioni del tipo “marcire in galera”, “buttare la chiave”, cosa pensa? Penso che la nostra coscienza si è spenta al pari della ragione! Penso a una società che si avvicina sempre più al branco degli animali e che allontana con violenza ogni segnale di umanità. Penso a uno Stato che tradisce se stesso, che risponde al delitto commesso dai singoli con il mancato rispetto della Costituzione. Con il governo giallo-verde si è contribuito alla morte della pietà nelle carceri oppure eravamo impietosi già da prima? Il governo giallo-verde ha proseguito, estremizzandolo, il percorso dei governi precedenti, insensibile dinanzi alle condizioni delle nostre carceri. Non dimentichiamoci che il lavoro interessante degli Stati generali dell’esecuzione penale è stato gettato in mare dal governo Gentiloni e dal Ministro Orlando per paura di perdere il consenso elettorale. Una mossa che non ha certo impedito il crollo nelle urne. La solita miopia politicante. Per paura di essere impopolari, si agisce da antipopolari. La Lega e soprattutto i 5 Stelle hanno accelerato lungo la via dell’oscurantismo giudiziario e penitenziario, dimostrando che si può fare sempre peggio di chi li ha preceduti. Il futuro, purtroppo, non mi pare per nulla roseo. A far visita alla casa circondariale di Arghillà, nel 2014, Marco Pannella che, riferendosi anche ad altre carceri italiane, parlò di un disastro antropologico che andava arrestato al più presto, perché - aggiunse - “dove c’è strage di legalità, lì c’è strage di persone”. Quale potrebbe essere un ottimo inizio per rimediare a questo disastro? Prendere atto che la risposta penale non può essere la risposta generalizzata del potere ai disagi e alla crisi della nostra società. Capire che la risposta carcerocentrica del governo alle incertezze e alle paure, spesso sollecitate, dei cittadini, non produce sicurezza e civiltà. Comprendere che abbiamo una Costituzione che meriterebbe solo di essere applicata. L’art. 27 non a caso utilizza il plurale “pene” che non possono essere contrarie al senso di umanità e devono tendere alla risocializzazione del condannato. Quindi non solo carcere, ma modalità di esecuzione e sanzioni alternative a un carcere che è, in atto, criminogeno. Ogni risposta in grado di reinserire socialmente chi sta espiando una pena, è utile alla società esterna, riducendo la recidiva delinquenziale. Massa: vandali contro Sophia, la statua anti-femminicidi di Giusi Fasano Corriere della Sera, 25 agosto 2019 Eretta per Cristina Biagi. La famiglia: meglio il silenzio. Il sindaco leghista: “Siamo sempre stati vicini a loro, volevano illuminare l’opera e lo faremo. Non abbiamo sospetti”. Magari ci riesce il silenzio. Se non è servito il messaggio, se non è bastato il ricordo, se è stato ignorato l’ideale che Sophia rappresenta, allora può darsi che amore e rispetto si possano trasmettere anche senza voce. Alessio ci ha pensato e ripensato e alla fine si è convinto che, sì, “credo che il vero segnale di rivoluzione, di rottura e cambiamento, sia proprio rimanere in silenzio”. E così questo 25 agosto non sarà com’è sempre stato dal 2013. Stavolta non ci sarà nessuno sui gradini del duomo di Massa a ricordare sua sorella, Cristina Biagi, nel giorno del suo compleanno. Niente poesie, canzoni o messaggi per Cristina che oggi avrebbe compiuto 44 anni e che invece fu uccisa da suo marito il 28 luglio di sei anni fa. O almeno: niente in senso fisico, ma chi vorrà potrà dedicare a lei un pensiero sulla pagina Facebook di Viva, l’Associazione culturale di cui suo fratello Alessio è vicepresidente. La scultura - Meglio ancora sarebbe se la folla che gli altri anni era davanti al duomo oggi si raccogliesse muta di fronte a Sophia, amica postuma di Cristina e di tutte le donne che hanno vissuto o vivono situazioni di violenza domestica. Sophia - che deve il suo nome al significato di quella parola in greco: sapienza - è una piccola scultura che dall’8 ottobre del 2017 abita, diciamo così, accanto a una panchina nella piazza monumentale di Massa, Piazza Aranci. Voluta e finanziata dalla famiglia Biagi, nei desideri di Alessio quella donna minuscola e discreta all’ombra degli aranci avrebbe dovuto ispirare dolcezza. E invece è diventata lei stessa vittima di maltrattamenti. Cinque atti vandalici - In meno di due anni mani sconosciute ne hanno smontato delle parti saldate, hanno rimosso elementi della struttura portante, l’hanno imbrattata con una sostanza collosa, hanno spostato due volte il basamento mettendone a rischio la stabilità. Sophia è stata vandalizzata e risistemata cinque volte, l’ultima poche settimane fa. Ed è anche per questo continuo “mancarle di rispetto” che Alessio e il direttivo di Viva hanno annullato la settima edizione delle manifestazioni per il Cristina. “Clima distante” - “Come abbiamo riparato la scultura - dice lui - allo stesso modo proviamo a riparare con il silenzio questo periodo di grida”. Nel post di Facebook con il quale si annuncia che è tutto annullato si parla della “nostra amatissima città” che vive un “clima distante da ciò che noi esprimiamo”, cioè “unione, condivisione”. Si comunica la rinuncia, poiché “lo spirito che ci accompagnava è oggi colpito duramente assieme alla nostra Sophia, con la quale condividiamo un destino pressoché incerto”. Il sindaco: “Non capisco” - “Spirito e clima distante? Non capisco” si stupisce Francesco Persiani, leghista e sindaco eletto l’anno scorso. “Siamo sempre stati vicini alla famiglia, li ho abbracciati dedicando a Cristina una targa in Comune. Vorrebbero illuminare la statua e lo faremo, per loro ho grande rispetto ma non posso accettare che qualcuno pensi che io favorisca percorsi di odio”. Sospetti sull’identità dei vandali? “Assolutamente no. Posso solo dirle che non se la prendono solo con Sophia...”. “Difficile pensare che sia un caso colpire cinque volte lo stesso obiettivo. Garibaldi - per dire - non lo rompe nessuno” considera Francesca Rivieri, dell’associazione antiviolenza Arpa. “Sapere che offendono Sophia è ogni volta un sacrilegio, uno schiaffo a quello che lei rappresenta e il presupposto di quello schiaffo è la mancanza di cultura contro la violenza di genere”. Memoria collettiva - Quando morì per mano dell’uomo dal quale si stava separando, Cristina Biagi aveva una bimba di tre anni e un bimbo di dieci. Lui le sparò dopo aver ferito l’uomo che credeva suo amante, poi si uccise. In questi due anni Sophia ha tenuto accesa la memoria collettiva per quella donna e per tutte le altre Cristine d’Italia. È diventata “un faro che serve a illuminare l’indifferenza, e quando passo le dico “ciao”, scrive una donna vittima di violenza in una lettera pubblicata in forma anonima dal consigliere comunale Paolo Menchini. “So per esperienza personale cos’è la violenza, soprattutto quella psicologica, e Sophia mi ricorda che devo volermi bene” la ringrazia Valentina, barista al vicino Arpagus. I turisti scattano fotografie, qualcuno si siede accanto a lei a leggere. Chissà se i vandali sono nei dintorni. Chissà se gli arriverà, oggi, il rumore del silenzio. Milano: le detenute di San Vittore si raccontano nel docu-film di Jo Squillo Il Messaggero, 25 agosto 2019 Le detenute raccontano la loro storia, si confidano davanti alla telecamera e fanno le riprese. Protagoniste e anche registe del docu-film “Donne in prigione si raccontano”, diretto da Jo Squillo, che verrà presentato alla Mostra del cinema di Venezia giovedì 29. Barbara, Claudia, Elena, Elisa, Hasna, Josephine, il film parla di loro e delle altre detenute della sezione femminile del carcere di San Vittore, dove è stato interamente girato. Il progetto si inserisce all’interno delle iniziative della Onlus Wall of Dolls a sostegno dei progetti culturali al femminile contro la violenza sulle donne e la violenza di genere. Il video-racconto, all’interno dell’istituto di pena, ripercorre il percorso di queste donne che hanno commesso un reato, sono cadute ma che affrontano la risalita. Un percorso che le ha portate anche a imparare una professione, quella delle cine-operatrice. Perché sono state loro stesse, dopo un corso all’interno del carcere a filmare le loro interviste, a immortalare sensazioni e immagini, a diventare registe delle loro storie. Cosa ha portato le protagoniste del docufilm a tanta violenza? Quale trascorso di sofferenza portano con loro in quelle celle? Come può il carcere aiutarle a rinascere? Interrogativi ai quali “Donne in prigione” cerca di dare delle risposte, proprio tramite la voce delle detenute, che con coraggio e lealtà si sono messe in gioco, raccontando le loro vite. Penultimi contro migranti, la frattura dei cattolici di Dario Di Vico Corriere della Sera, 25 agosto 2019 Quante probabilità di successo ha l’Opa che la Lega ha avviato sull’elettorato che frequenta le parrocchie e su quello non praticante? Il meeting di Comunione e Liberazione si è chiuso - con un rinnovato successo - mentre la crisi di governo è ancora aperta e di conseguenza viene facile porsi domande di connessione. A cominciare da questa: quante probabilità di successo ha l’Opa (ostile?) che Matteo Salvini ha avviato da tempo sull’elettorato cattolico? Prendendo i dati di una ricerca Ipsos sul voto europeo sappiamo che i consensi per la Lega sono stati del 30,1% tra i “cattolici praticanti ed impegnati” ma crescono via via che cala la frequentazione di parrocchie e riti fino a lambire il 40% tra i non praticanti. Per avere un termine di raffronto tra i praticanti/impegnati il Pd è al 28,1% ma tra i non praticanti arriva solo al 18%. Il dato ancor più interessante riguarda la penetrazione della narrazione salviniana in tema di migranti: la linea intransigente dei porti chiusi è condivisa dal 51% dei cattolici, praticanti o meno. Ho ricordato questo dato a un dirigente di Cl e mi ha confessato che avrebbe sospettato una cifra più elevata. Ma come è possibile che ciò avvenga quando il Papa in prima persona non perde occasione per contrastare la linea sovranista in materia di sbarchi? La risposta c’è: il conflitto con Salvini è una scelta del Vaticano che non si trasmette in automatico alle strutture sul territorio. L’episodio del parroco di Sora che nell’omelia di pochi giorni fa attacca i migranti fa il paio con un altro episodio di un parroco del lecchese che sosteneva invece le ragioni umanitarie ed è stato contestato dai fedeli che hanno abbandonato la messa. A Salvini è riuscito un colpo da biliardo: far passare la contrapposizione tra gli ultimi e i penultimi. Una significativa fetta del popolo cattolico non si indigna per l’uso strumentale del rosario ma contesta la priorità assegnata dalla Chiesa ai migranti a scapito di una maggiore attenzione al disagio del ceto medio italiano. Da qui un’adesione all’Opa leghista con doppia valenza: Salvini è visto come un sindacalista dei penultimi e aderendo al suo storytellingsi fa sapere al Vaticano di non condividere quella gerarchia dei problemi. Naturalmente il leader leghista ha dalla sua anche altri vantaggi (ereditati): agli occhi dei cattolici si presenta come il difensore della famiglia tradizionale e delle culle piene contro la sinistra delle unioni civili, dell’ideologia gender e dei gay pride. Che poi Salvini non abbia varato policy per la famiglia/demografia conta poco. I ciellini che hanno affollato i dibattiti del meeting vivono anch’essi con queste contraddizioni ma gli organizzatori hanno scelto di non farle venire allo scoperto. Del resto da sempre il format riminese evita di istruire dibattiti in contraddittorio, la dirigenza non crede alla dialettica degli opposti (giudicata tardo-illuminista) ma pensa che sia più utile procedere per testimonianze ed esempi. Nell’attesa che il metodo possa venir riconsiderato le larghe platee dei dibattiti mostrano un evidente invecchiamento anagrafico. Al meeting manca quasi del tutto la generazione dei 35-40enni ma l’annotazione più interessante da un punto di vista antropologico-culturale riguarda proprio gli over 65: non sono molto differenti da quelli che 40 anni fa erano i loro avversari, gli ex giovani di sinistra che ancora oggi frequentano festival ed eventi del Pd o delle altre sigle. Coltivano la stessa tensione ad imparare, anche da anziani, e nutrono la comune volontà di trasmettere conoscenze e valori alle giovani generazioni. Ma riuscirà questa tensione cognitiva e pedagogica a trasformarsi in una proposta politico-culturale capace di respingere l’Opa ostile? La risposta più intrigante ascoltata a Rimini è venuta sorprendentemente da Giancarlo Giorgetti, il sottosegretario leghista di palazzo Chigi che però fa parte da anni dell’intergruppo parlamentare per la sussidiarietà. Ai più Giorgetti è sembrato ancora legato alla cultura “varesina” del Carroccio (Salvini è milanese, non un leghista di territorio) che vedeva nelle autonomie, nel federalismo e nella sussidiarietà lo strumento per avvicinare politica e popolo. Ma proprio in virtù di questa sua posizione - eccentrica nella stagione della Bestia - ha sfidato i colleghi parlamentari: posso anche dire che sono con voi sui principi della buona politica, della società di mezzo e dei corpi intermedi ma sappiate che oggi sono armi spuntate. Non riescono più a fare da filtro “con la piazza”. La partecipazione politica è stata sostituita dai social come i sacerdoti hanno ceduto il passo agli psicologi. O create e creiamo “qualche altro luogo” capace di reintermediare o tutti i discorsi che fate suoneranno come un disco rotto. Non si torna indietro, la democrazia si reinventa o si deteriora. Che un discorso così venga da uno dei principali collaboratori di Salvini è un’altra delle italiche bizzarrie che non riuscirei mai a spiegare a un collega straniero. Migranti. La buona accoglienza può salvare i borghi di Roberto Saviano L’Espresso, 25 agosto 2019 La propaganda di destra non lo dice, ma ci sono modelli diversi con cui gestire chi sbarca. Alcuni pessimi. Altri invece che fanno bene all’Italia. Mi scrive Serena Romano mandandomi un suo interessante articolo su come funziona il sistema dell’accoglienza degli immigrati in Italia: “Ti segnalo questo mio articolo (riportato sulla mia pagina Facebook)”: Ritengo che al di là della solidarietà, l’umanità e il rispetto della vita umana che ci dovrebbe spingere ad accogliere i migranti, c’è anche quello della convenienza per noi italiani, mai sottolineata, eppure ben più efficace per vincere resistenze e diffidenze alimentate ad arte”. Serena Romano ha ragione, ci abbiamo provato a raccontare l’accoglienza come una prassi che non è solo giusta e umana, ma che ci conviene anche. E ci conviene davvero non perché, come dice qualcuno, da schiavisti potremmo usufruire di manodopera a basso costo alimentando un sistema criminale verso cui i governi che si susseguono si guardano bene dal prendere provvedimenti. Ci conviene perché l’Italia e l’Europa stanno morendo. A morire sono le piccole città, i piccoli paesi, le aree rurali, quelle montane che si sono, negli ultimi decenni, drammaticamente spopolate e dove bastano poche famiglie di immigrati perché si ripristino i servizi essenziali che rendono un gruppo di persone che vivono in un territorio comunità. Serena Romano sottolinea come gli ultimi governi non hanno affatto lavorato per rendere virtuoso il sistema dell’accoglienza migranti criminalizzando l’unico sano e in grado di avere un effetto positivo sia su chi viene accolto che su chi accoglie. “La maggioranza degli italiani non sa che dietro una generica “accoglienza ai migranti”, in realtà ci sono sigle - Sprar, Cas, Cpr - che rendono i tipi di accoglienza diversi come il giorno e la notte. Non sa”, scrive Serena Romano, “che dietro sigle come Cas e Cpr ci sono i “centri di accoglienza” gestiti dai privati che lucrano sui migranti, dopo averli accatastati in luoghi inospitali, creando insicurezza e insofferenza nei territori dove sorgono: come rivelano gli scandali svelati dalla magistratura. E che invece, sigle come Sprar, sono sinonimo di un’accoglienza diffusa gestita dall’ente pubblico, che conviene prima di tutto agli italiani perché, nei Comuni in cui viene applicata, produce sicurezza, ricchezza e nuovi posti di lavoro a spese dell’Europa”. La criminalizzazione del sistema paese e di Minimo Lucano, vero e proprio pioniere, iniziata con Minniti e continuata con Salvini, serviva proprio a fare bassa propaganda, ad attaccare l’unico sistema di accoglienza che non portava ricchezza a privati ma al territorio, che difficilmente poteva essere infiltrato dalla criminalità a causa dei numeri limitati (e dei limitati guadagni) e del monitoraggio costante. L’unico sistema di accoglienza che, peraltro, utilizzava risorse europee: ma come, non è l’aiuto dell’Europa che costantemente populisti e sovranisti invocano? “Di conseguenza, per colpa di una propaganda fatta di bugie e disinformazione, la maggioranza degli italiani ignora che c’è una accoglienza buona che “conviene” a tutti gli italiani, e c’è una accoglienza cattiva che Convieni solo a malavitosi e trafficanti di vite umane. E la più grave conseguenza di questo castello di falce news è che la maggioranza dei cittadini non sa che il Decreto Sicurezza ha eliminato solo l’accoglienza buona gestita dagli enti pubblici con gli Sprar, mentre ha intensificato l’accoglienza cattiva gestita dai privati attraverso Cas e Cpr innescando nuove fonti di violenza, speculazione e conflitto sociale”. Sarebbe lecito domandarsi il perché, ma è chiaro che è più facile fare propaganda colpendo le persone, le storie, i percorsi. Facile colpire Minimo Lucano, difficile smantellare la rete di caporali che tra Puglia, Lazio, Campania e tutte le aree a vocazione agricola del nostro Paese hanno bisogno di manodopera a costo bassissimo e che sono disposti a votare per chi chiude non un occhio, ma tutti e due. Occorre che manchino trasporti, che manchino luoghi d’accoglienza che rispettino standard minimi di decenza perché si possa avere su chi arriva potere di vitae di morte. Ma esiste un’altra Italia, un’Italia che guarda al futuro e non ai voti, che non fa propaganda ma lavora. Lavora per la sopravvivenza del nostro Paese e per la sua sicurezza e la rete di “Comuni Welcome”. Salvini ha fatto un post sul Palio di Siena decantando la bellezza dell’Italia “delle tradizioni e dei campanili”; ebbene a difendere “tradizioni e campanili” che muoiono di emigrazione (e non di immigrazione, che paradosso, no?), non c’è lui, Ministro della Mala Vita attaccato al potere e alla poltrona, ma chi sul territorio lotta perché vi sia umanità e quindi integrazione e quindi sicurezza e quindi vita. Diffidate da chi urla più forte, in genere è quello che meno ha voglia di fare. Migranti. Jerry Masslo, 30 anni fa la morte di Fausta Chiesa Corriere della Sera, 25 agosto 2019 Il suo omicidio commosse l’Italia e spinse il governo a emanare i primi provvedimenti per i migranti. Oggi alle 17 l’omaggio alla sua tomba con la Comunità di Sant’Egidio. Esattamente 30 anni fa moriva ucciso nella baracca dove abitava Jerry Essan Masslo, il profugo sudafricano arrivato in Italia per fuggire alla violenza dell’Apartheid che fu ucciso per rapina nel casertano, dove si trovava per la raccolta dei pomodori. La sua morte allora non passò nell’indifferenza generale, anzi. Commosse l’Italia e diede il via alle prime grandi manifestazioni antirazziste nazionali e all’approvazione di leggi sulla protezione dei rifugiati e al riconoscimento e alla tutela dei diritti dei lavoratori stranieri. La Comunità di Sant’Egidio che lo accolse a Roma ha invitto a ricordare degnamente Masslo. Oggi, sabato 24 agosto alle 17, al cimitero di Villa Literno è in programma un omaggio alla sua tomba. Jerry Masslo era fuggito dal Sudafrica lasciando due figli vivi dopo che gli avevano ucciso il padre e un figlio di 7 anni. Arrivato a Fiumicino il 20 marzo 1988 chiede asilo, ma in quel periodo l’Italia riconosce lo status di rifugiato solo a chi arriva dall’Europa dell’Est. Jerry chiede aiuto ad Amnesty International e dopo quattro settimane passate in aeroporto ottiene il permesso di entrare in Italia. Amnesty International contatta la Comunità di Sant’Egidio e Jerry è accolto nella Tenda di Abramo, la prima casa di accoglienza della Comunità a Roma. Jerry vuole lavorare e con altri quattro compagni va nl casertano e alloggia in una baracca. Ogni mattina all’alba è nella “rotonda degli schiavi” ad aspettare la chiamata. La notte tra il 24 e il 25 agosto arrivano in quattro con lo scooter per rubare ai neri i soldi della misera paga. Jerry e i suoi amici sono aggrediti da alcuni giovani del luogo che volevano rubargli i soldi. Jerry si oppone e gli sparano: avrebbe dovuto compiere 30 anni in dicembre. La sua morte sconvolge l’Italia. Per la prima volta i funerali di un nero sono trasmessi dalla Rai: alle esequie è presente anche il vicepresidente del Consiglio dei ministri Claudio Martelli e altre autorità. “Grazie” alla morte di Jerry Masslo nacque la legge Martelli, che eliminò la clausola geografica: da quel momento in Italia si poté chiedere asilo provenendo da qualsiasi Paese del mondo. Allo stesso tempo si regolarizzarono i lavoratori stranieri presenti, da cui emersero dalla clandestinità circa 220mila immigrati, quasi tutti africani. In suo nome nacquero in Italia e soprattutto in Campania varie associazioni. Tora, il buco nero d’Egitto: Hossam morto di tortura di Chiara Cruciati Il Manifesto, 25 agosto 2019 La denuncia di Amnesty: un detenuto ucciso dopo un mese di isolamento nel famigerato carcere di massima sicurezza per prigionieri politici. Lì è detenuto da due mesi anche Ramy Shaath, esponente della sinistra egiziana ed ex consigliere di Arafat. Ma il mondo resta in silenzio: Macron invita al-Sisi come special guest al G7. Il carcere egiziano di massima sicurezza di Tora è un buco nero. Chi varca la soglia, sparisce. “È stata designata di modo che chi ci entra dentro non ne esce che da morto”, così un ex guardia carceraria descrisse a Human Rights Watch la sezione Scorpion, o al-Aqrab, struttura di Tora dedicata all’isolamento. Il destino di Hossam Hamed: anche lui, da quel buco nero, ne è uscito da morto. A denunciarne il decesso è stata Amnesty International: il giovane egiziano era in isolamento dal 3 agosto scorso e sarebbe stato torturato. Come migliaia di prigionieri prima di lui: la tortura allo Scorpion è pratica usuale, quotidiana. Da decenni Tora cancella le persone dal mondo esterno: nessuna visita della famiglia o dei legali per mesi, a volte anni, assenza pressoché totale di cure mediche e condizioni igieniche basilari, senza materassi per dormire ma tante botte che tengono svegli. Come quelle che, dice Amnesty, ha preso Hossam, picchiato fino a morirne. Ora l’organizzazione internazionale chiede alle autorità egiziane un’inchiesta veloce e indipendente, sulla base di tre diverse testimonianze che raccontano di pestaggi mentre Hamed si trovava nella cosiddetta “cella di disciplina”. Lo si sentiva urlare, dicono le fonti, battere alla porta. Ha un certo punto è calato il silenzio. La cella è stata aperta, il prigioniero era morto. In Egitto il trattamento disumano dei detenuti, soprattutto se politici, è il segreto di pulcinella. Nel mondo arabo il mukhabarat egiziano, i servizi segreti, sono noti per la loro ferocia. L’Italia lo ha scoperto con l’omicidio di Giulio Regeni, ucciso dalla violenza di Stato. Eppure era proprio qui, al Cairo, che l’Onu aveva pensato di tenere la sua conferenza sulla tortura, per poi cambiare idea qualche giorno fa sulla scia di proteste globali e locali. “Le forze di sicurezza egiziane hanno una spaventosa storia di scioccante brutalità e totale impunità”, dice Magdalena Mughrabi, vice direttrice di Amnesty per Medio Oriente e Nord Africa. Impunità condivisa con i vertici politici che, a fronte del più violento regime della storia recente egiziana, restano pienamente parte del consesso internazionale. Hossam non è il solo: sono tre i prigionieri morti in custodia da luglio, l’ultimo Omar Adel dopo soli cinque giorni di detenzione. Sparito nel buco nero di Tora. Ed è a Tora che da quasi due mesi è detenuto Ramy Shaath. Ieri la procura ha chiesto altri 15 giorni di detenzione. È stato arrestato con altri noti esponenti della sinistra egiziana (giornalisti, avvocati, ex deputati) nelle retate che hanno decapitato il neonato movimento Speranza. Per Il Cairo - è così che l’ha spacciato - una rete di sostegno economico ai Fratelli musulmani. Ma i suoi riferimenti politici sono opposti: un movimento laico, di sinistra e ispirazione nasseriana. Tra loro c’era anche Ramy Shaath, portato via in un violento raid il 5 luglio scorso. Palestinese-egiziano, 48 anni, figlio di Nabil, ex ministro dell’Olp, Ramy è stato consigliere di Arafat. Si dedica da decenni della promozione del diritto all’autodeterminazione palestinese e nel 2011 ha aderito alla rivoluzione di Tahrir, prendendo parte alla creazione del partito el-Dostour. Fondatore del Bds Egitto, la campagna per il boicottaggio di Israele, non può che rappresentare una minaccia alle politiche del presidente al-Sisi. Laico, di sinistra, denuncia i rapporti costanti e acritici del Cairo con Tel Aviv come la repressione istituzionalizzata del regime. Pochi giorni fa la famiglia ha lanciato un appello: racconta della brutalità dell’arresto, della deportazione della moglie Celine, francese, della detenzione con altri 30 prigionieri in una cella di 30 metri quadrati. “Fino al rilascio di Ramy riterremo le autorità egiziane responsabili della sua incolumità”, scrive la famiglia. Ma la sua voce rimbalza sul muro di cemento intorno Tora e su quello di gomma della comunità internazionale: mentre Celine è tenuta lontana dal marito, il presidente francese Macron ha invitato al-Sisi al G7 che si apre oggi a Biarrit come special guest. Il buco nero di al-Aqrab fa sparire le persone e la dignità del mondo. Assad, la Siria e il fantasma della vittoria di Vivian Yee La Repubblica, 25 agosto 2019 Camminando attraverso le macerie di Douma, un piccolo centro alla periferia di Damasco, ci siamo accorti che mancava qualcosa. Intorno a noi, donne portavano la spesa, vecchi scorrazzavano su motociclette e bimbi emaciati trascinavano brocche piene d’acqua, ma c’erano pochissimi giovani uomini: la ragione è che la maggior parte dei giovani siriani sono morti in guerra, sono rinchiusi in carcere o vivono ormai lontano dai confini siriani. A fare le spese della loro assenza sono i sopravvissuti come Umm Khalil, 59 anni: tre dei suoi figli sono morti in guerra. Un altro è stato torturato in una prigione dei ribelli e di un quinto non si hanno più notizie da quando è sparito nelle carceri governative. Le nuore hanno dovuto trovare un lavoro, mentre lei - vedova dopo un bombardamento aereo - deve tirar su cinque nipoti. “Mi chiedo come sia potuto accadere - dice - la vita era normale, ma all’improvviso ho perso i miei figli. Avevo un marito e ho perso anche lui. Non ho risposte. Dio perdoni chi è responsabile di tutto questo”. Le macerie e la ricostruzione Dopo otto anni di guerra civile, il governo controlla buona parte del Paese e sta conducendo un’offensiva per Idlib, ultimo territorio in mano ai ribelli. Che il presidente Bashar al-Assad abbia vinto la guerra non è da tempo in discussione: siamo venuti in Siria per raccontare che aspetto ha questa vittoria. Abbiamo visitato per 8 giorni 5 città e cittadine sotto il controllo del governo e abbiamo scoperto che la sofferenza e il dolore non sono stati distribuiti in modo equo, ma hanno colpito maggiormente le aree più arretrate del Paese e quelle che erano in mano ai ribelli. E che anche la ricostruzione ha tempi diversi in località diverse. A Damasco, la capitale, in uno scintillante centro commerciale costato 310 milioni di dollari e costruito durante la guerra risuona il ticchettio di chi va a fare acquisti con i tacchi alti. Nella vicina Douma, rimasta sotto il controllo dei ribelli, non c’è acqua corrente. Nella roccaforte governativa di Latakia, sulla costa del Mediterraneo, le madri piangono accanto alle foto dei figli morti combattendo per Assad. Non sono soltanto le infrastrutture a dover essere ricostruite. La Siria che abbiamo visto è priva di ceto medio. Chi faceva parte della classe media è scappato o è sceso nella piramide economica: oggi in Siria 8 abitanti su 10 vivono in povertà. Quando poco alla volta tornano, i giovani uomini sono ancora costretti a entrare nell’esercito mentre i dissidenti, o chi è collegato a loro, scompaiono nelle carceri del governo. La popolazione continua a fuggire, anche se meno rispetto al passato. Senza aiuti per la ricostruzione da donatori internazionali, i siriani che abbiamo incontrato hanno fatto tutto il possibile per chiudere i buchi lasciati dai proiettili, sfamare i figli e trovare un lavoro. Con così tanti giovani scomparsi, spesso il compito di portare a casa il pane ricade sugli anziani o sui giovanissimi, e soprattutto sulle donne, comprese quelle appartenenti a famiglie conservatrici che prima non avevano mai lavorato. “Non avevo mai pensato che avrei lavorato, ma è sempre meglio che chiedere l’elemosina”, dice Umm Akil, una signora di 40 anni di Aleppo Est. Per le strade di tutta la Siria sono appesi striscioni con il volto di Assad. I funzionari siriani impediscono l’accesso ai giornalisti che, secondo loro, ha dato una copertura troppo critica della guerra. Noi abbiamo impiegato sei mesi per avere il visto per entrare in Siria. E comunque questo non significa avere libertà di movimento. Ovunque andassimo, eravamo accompagnati da rappresentanti del governo, soldati, agenti segreti in borghese. Parlare con i siriani è stato difficile per noi e pericoloso per loro. I funzionari governativi erano impazienti di mostrarci che la vita in Siria sta tornando alla normalità. A Damasco era facile da notare perché la capitale ha evitato i danni più gravi. A soli due minuti di macchina da Damasco, sulla strada per Douma, invece, il paesaggio cambia radicalmente: le ceneri della guerra sono sparse per chilometri e chilometri. A distanza di più di un anno da quando il governo ha sconfitto i ribelli con un assedio che ha costretto la popolazione a nutrirsi di erba, buona parte della città resta inabitabile. Un bambino ci ha presentato i nonni, Ali Hamoud Tohme e sua moglie Umm Fares. La coppia ha fatto ritorno nel suo appartamento di Douma a maggio, trovandolo saccheggiato e dato alle fiamme e ha scoperto che venti parenti erano morti. Ora deve tirare su 11 nipoti rimasti orfani. Arabia Saudita. 50mila richiedenti asilo entro dieci anni parstoday.com, 25 agosto 2019 L’attenzione verso i dissidenti è probabilmente aumentata dopo l’omicidio del giornalista dissidente saudita Jamal Khashoggi, ucciso nel consolato saudita a Istanbul. Il regime saudita ha un problema con gli emigrati, con chi cioè lascia il paese per andare a vivere altrove. Nel 2016, il Consiglio della Shura (una sorta di Parlamento con funzioni esclusivamente consultive) aveva avvertito che un milione di sauditi vivevano all’estero. Tra di loro, anche i dissidenti del regime, gli oppositori della famiglia Al Saud, quella che governa Riad da quasi un secolo. Secondo il Financial Times (FT), che ha dedicato un lungo articolo al tema, la questione preoccupa il regime saudita al punto da convincere Riad a commissionare uno studio per valutare la portata del fenomeno. Sembra che il numero di richiedenti asilo politico sauditi raggiungerà i 50.000 entro il 2030. Cinquantamila persone è un numero considerevole, soprattutto considerato che le domande, nel 2017, erano state 815, un dato comunque in notevole crescita rispetto ai poco più di duecento casi registrati nel 2012. L’attenzione verso i dissidenti è probabilmente aumentata dopo l’omicidio del giornalista dissidente saudita Jamal Khashoggi, ucciso nel consolato saudita a Istanbul, in Turchia lo scorso autunno, una morte per la quale anche l’Onu nutre forti sospetti verso il principe ereditario saudita Mohammed Bin Salman. Brasile. La Chiesa alza la voce per i poveri e l’ambiente vocedeiberici.it, 25 agosto 2019 Un “liberismo esasperato” che svuota la Stato, lo sfruttamento delle terre indigene, diritti sociali e diritti umani che vengono meno, aumento delle disuguaglianze e della disoccupazione, la corruzione strisciante e la violenza crescente. Il Brasile di oggi preoccupa i Vescovi del più grande Paese sudamericano che, in un messaggio rivolto al popolo brasiliano pubblicato durante la recente assemblea di Aparecida, hanno preso posizione sulle principali questioni di attualità sociale. “L’opzione per un liberismo esasperato e perverso, che svuota lo Stato quasi al punto di eliminarlo, ignorando così le politiche sociali d’importanza vitale per la maggior parte della popolazione, favorisce l’aumento della disuguaglianza e la concentrazione di reddito a livelli intollerabili, rendendo i ricchi sempre più ricchi a spese dei poveri, che diventano sempre più poveri”. Così i Vescovi, che si sono scagliati contro la corruzione, definendola “una delle cause della povertà e dell’esclusione sociale”, e hanno richiamato l’attenzione sulla disoccupazione, “un’altra piaga sociale”. Infine, la violenza: “Alle nostre orecchie di pastori - hanno scritto i Vescovi - arriva il grido delle madri che seppelliscono i loro giovani figli assassinati, le famiglie che hanno perso i loro cari e tutte le vittime di un sistema che sfrutta e disumanizza le persone, nel dominio dell’indifferenza. I femminicidi, la situazione delle carceri e la criminalizzazione di coloro che difendono i diritti umani richiedono azioni vigorose a favore della vita e della dignità umana”. La denuncia dei Vescovi - I Vescovi brasiliani sono preoccupati anche per la riforma previdenziale proposta dal governo. Già lo scorso marzo, in un comunicato della Conferenza episcopale brasiliana si leggeva che i cambiamenti proposti “sacrificano i più poveri, penalizzano le donne e i lavoratori rurali puniscono le persone con disabilità e creano scoraggiamento per la sicurezza sociale, specialmente tra i disoccupati e le generazioni più giovani”. Sempre da Aparecida è arrivato anche un allarme per la situazione dell’Amazzonia e della gente che vi abita. “Probabilmente i popoli originari dell’Amazzonia non sono mai stati così minacciati nei loro territori come lo sono ora; l’Amazzonia è una terra disputata su più fronti”, ha detto mons. Roque Paloschi, arcivescovo metropolita di Porto Velho, intervenendo durante la seduta plenaria dell’assemblea. I missionari vicentini - Nello Stato di Roraima nel Nord del Brasile, dove operano i missionari fidei donum vicentini e le suore Orsoline di Vicenza, tutte queste problematiche si toccano con mano. Con, in più, la crisi dei profughi in fuga dal vicino Venezuela, in cerca di cibo e medicine. “Qui da noi la gente è povera, racconta don Enrico Lovato, missionario vicentino che si trova a Boa Vista assieme a don Attilio Santuliana - per cui tutte le misure che il governo di Bolsonaro sta mettendo in campo hanno una ripercussione maggiore. Ci sono famiglie di dieci persone che vivono con una sola pensione. Se anche quella viene tagliata, sarà la fame. Qui ci accorgiamo subito dei tagli al sociale, all’istruzione e alla salute pubblica”. Recentemente, racconta don Enrico, il Roraima ha dichiarato lo stato di calamità “per poter richiedere maggiori risorse al governo centrale. Con l’arrivo dei profughi venezuelani le richieste di cure sono aumentate ma non il personale medico. Mancano medicine e i tempi di attesa sono interminabili”. Un fatto che sta facendo crescere un’ondata anti immigrati nell’opinione pubblica, anche cattolica. “Si tratta però di una guerra tra poveri - afferma don Enrico. La tensione si tocca con mano, perché i profughi sono costretti a dormire per strada, non hanno abitazioni. I Vescovi sono schierati dalla parte dei poveri, ma è difficile convincere anche i brasiliani”. Il Sinodo, speranza per i poveri - “Mi sembra di essere tornata indietro di trent’anni, quando sono arrivata in Brasile per la prima volta - racconta invece suor Renata Gonzato delle Orsoline di Vicenza -. In pochi mesi c’è stato un impoverimento grave di diritti sociali e diritti umani acquisiti. Il carcere femminile dove operiamo dieci anni fa era un modello, puntava sul reinserimento, il lavoro, lo studio… ora le donne rimangono ventiquattr’ore al giorno a far niente. Visitiamo il carcere ogni settimana, le carcerate sono almeno una sessantina, distribuite in quattro o cinque stanze sovraffollate”. Anche nelle carceri brasiliane la tensione è altissima. Sempre di recente, gli scontri tra fazioni rivali in quattro carceri dello Stato di Amazonas, a sud di Roraima, hanno causato 55 morti. Anche in questo caso, la reazione dei Vescovi attraverso una nota della Pastorale carceraria nazionale è stata durissima. Quello avvenuto nelle carceri di Amazonas, si legge nella nota, è stato “un massacro frutto di una detenzione di massa, trascuratezza verso vite di scarto, avidità di compagnie private e genocidio di cui è responsabile lo Stato brasiliano”. In questo quadro, “un segno di speranza sarà sicuramente il Sinodo panamazzonico di ottobre - afferma suor Renata -, perché proporrà alla Chiesa di assumere un volto amazzonico e indigeno. Per le popolazioni della foresta, infatti, la vita è unità tra Dio, la natura e il prossimo”. “I poveri hanno sempre speranza, lottano sempre, pensano sempre che si possa migliorare - conclude don Enrico Lovato. Grazie al cielo, questa speranza in Brasile è forte”. Brasile. Incendi Amazzonia, Bolsonaro invia l’esercito e teme le sanzioni internazionali La Repubblica, 25 agosto 2019 Primi provvedimenti del presidente che definisce la foresta “parte essenziale della storia del Brasile”. Trump: “Gli Stati Uniti pronti ad aiutare”. I vescovi brasiliani: “alzare la voce per fermare le depredazion. La pressione internazionale su Jair Bolsonaro per spingere il presidente brasiliano a prendere provvedimenti seri sugli incendi della foresta amazzonica sta avendo i primi effetti. Bolsonaro ha deciso di inviare l’esercito nella regione ed ha detto in diretta televisiva, che “la foresta amazzonica è parte essenziale della storia del Brasile”. Bolsonaro, oltre ad una comunità internazionale preoccupata, deve dare risposte anche a molti cittadini brasiliani che durante il suo discorso televisivo hanno protestato in piazza contro la politica ambientale del governo. Ed ora anche i vescovi brasiliani alzano la voce per chiedere lo stop dei roghi e la protezione della foresta. Quello di cui ha paura il presidente brasiliano sono eventuali sanzioni visto che il problema sarà affrontato, per volere del presidente francese Emmanuel Macron, dal G7 che si riunisce oggi in Francia. “Gli incendi forestali avvengono in tutto il mondo - ha osservato il presidente brasiliano - e non possono essere utilizzati come pretesto per sanzioni internazionali”. Bolsonaro ha dunque dichiarato che la foresta amazzonica “è parte essenziale” della storia del Brasile e che proteggerla è un dovere. “Ne siamo consapevoli e stiamo agendo per combattere la deforestazione illegale”, ha affermato, dopo aver autorizzato il dispiegamento delle forze armate contro gli incendi. “Siamo un governo di tolleranza zero contro la criminalità e il settore ambientale - ha ammonito - non è differente”. Vescovi brasiliani: “In corso criminose depredazioni, servono provvedimenti seri” - “Alzare la voce per l’Amazzonia è ormai indispensabile”. La Conferenza episcopale brasiliana scende in campo per l’Amazzonia in fiamme e, rivolgendosi ai governi, lancia un accorato appello affinché vengano messe in campo azioni concrete: “È urgente che i Governi dei Paesi amazzonici, specialmente il Brasile, adottino provvedimenti seri per salvare una regione determinante per l’equilibrio ecologico del pianeta, l’Amazzonia appunto”. I vescovi brasiliani si rivolgono anche al presidente Bolsonaro, avvertendo che non è il momento di “deliri e debacle nei giudizi e nei discorsi”. Intanto, di fronte al dramma ambientale, il presidente boliviano Evo Morales ha chiesto ieri una riunione urgente dei ministri degli Esteri dei Paesi che integrano l’Organizzazione del Trattato di cooperazione amazzonica (Otca), la cui convocazione sembra però essere difficile perché alcuni dei membri si rifiutano di partecipare per non trovarsi accanto ai rappresentanti del governo del Venezuela. Mentre il capo indigeno Raoni ha chiesto aiuto alla comunità internazionale per “far andar via Bolsonaro il più presto possibile”. In aiuto al leader brasiliano arriva Donald Trump pronto ad aiutare il collega. “Ho appena parlato con il presidente Jair Bolsonaro - ha twittato il capo della Casa Bianca - Le nostre prospettive commerciali sono entusiasmanti e il nostro legame è forte, forse più di sempre. Gli ho detto che se gli Usa possono aiutare il Brasile con gli incendi dell’Amazzonia, siamo pronti ad assisterli”.