Colazione, pranzo e cena per ciascun recluso costano 3 euro e 90 cent di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 24 agosto 2019 Costretti al sopravvitto che costa anche il doppio. In diversi istituti penitenziari rimane ancor il problema che ogni bene del sopravvitto costa in media il doppio del normale acquistabile in un supermercato. Ma che cos’è? Per orientarsi dentro il carcere va detto che il suo ingresso comporta il ritiro, durante la perquisizione in casellario, del denaro e degli oggetti di valore, come collane, orologi, nonché di quelli non consentiti. Quanto prelevato alla persona viene depositato e custodito in cassaforte. Quindi la quantità di denaro posseduta al momento dell’ingresso è trascritta su di un libretto di conto corrente, che terrà traccia di tutte le future voci di entrata e uscita di denaro, ricevute o effettuate dalla persona reclusa. È utilizzando il denaro depositato sul libretto di conto corrente che la persona detenuta può procedere ad effettuare gli acquisti di beni all’interno dell’istituto, il cosiddetto sopravvitto. In tutte le sezioni dei padiglioni è infatti affisso in bacheca, il Modello 72, un elenco di prodotti (generi alimentari, detersivi, cartoleria, sigarette, etc.) che possono essere acquistati presso l’impresa all’interno dell’istituto. La cifra spesa, sarà addebitata sul conto corrente personale. Per la richiesta dei generi non elencati dal modello 72 è necessaria l’autorizzazione del Direttore dell’istituto il quale darà parere favorevole solo per giustificati motivi. Il problema del ricorso al sopravvitto, come è emerso da alcune sentenze del Tar che hanno sospeso alcune gare relativo all’affidamento del servizio di mantenimento dei detenuti e internati degli istituti penitenziari, è da ricercarsi nel fatto che con tre euro e 90 viene garantita la colazione, pranzo e cena a ciascun detenuto. Viene da sé immaginare che nessuno di loro riesca a sfamarsi con quello che offre lo Stato. Motivo per il quale i detenuti sono costretti a ricorrere al cosiddetto “sopravvitto”. I prodotti in vendita sono gestiti di solito dalla stessa ditta appaltatrice che fornisce anche i generi alimentari per la cucina. Il problema è che i prodotti in vendita hanno cifre alte e non tutti i detenuti hanno la possibilità di acquistarli. Da anni i detenuti segnalano che i prezzi sono troppo cari, e da anni i volontari che provano a fare una verifica nei supermercati della zona hanno verificato che i prezzi interni al carcere sono uguali a quelli dei negozi. Apparentemente quindi sembrerebbe che il costo del “sopravvitto” rispetti l’ordinamento penitenziario, il quale recita: “I prezzi non possono essere superiori a quelli comunemente praticati nel luogo in cui è sito l’Istituto”. Ma non è esattamente così. La regola dell’ordinamento è vecchia e andrebbe aggiornata. Era l’epoca in cui non esistevano i discount, e i prezzi erano accessibili. Oggi, soprattutto con la crisi economica, molte persone non possono permettersi di fare spesa nei negozietti e quindi ricorrono ai discount, oppure fanno acquisti nei mercati a Km zero dove hanno tagliato i costi del trasporto e distribuzione. Ma per i detenuti non è così. Per loro vale la dittatura del prezzo unico. Petto di pollo scaduto da tre mesi in vendita ai detenuti di Bologna Nel carcere bolognese della Dozza, i detenuti si sono ritrovati ad acquistare alimenti scaduti da mesi. Parliamo del cosiddetto sopravvitto, gli alimenti e beni di necessità da acquistare negli empori interni agli istituti. A denunciare l’incredibile situazione è Nicola D’Amore, il segretario del sindacato della polizia penitenziaria Sinappe. Sono già due gli episodi riscontrati. “Qualche giorno fa - spiega D’Amore - è stata trovata una partita di carne bianca scaduta da due mesi, così come, a novembre, è accaduto un episodio analogo con delle merendine”. Il segretario del Sinappe, sottolinea come questi fatti gravissimi, “non fanno altro che alimentare il malcontento tra i detenuti della casa circondariale, già costretti a condividere celle sovraffollate e, in questi mesi estivi, di caldo insopportabile”. D’altronde, a proposito del caldo, sempre lo stesso sindacato ha denunciato che, in mancanza di ventilatori a batteria, i detenuti utilizzano recipienti pieni di acqua per immergere i piedi o si bagnano la fronte con pezze umide. Una situazione che si ripercuote anche agli agenti penitenziari. Ma ritorniamo ai generi alimentari scaduti del sopravvitto. Ad accorgersi delle fettine di pollo scadute da maggio, è stato un detenuto quando le acquistate e si è rivolto agli agenti penitenziari incaricati al sopravvitto, i quali hanno subito informato i detenuti della Dozza a non acquistarle. La ditta appaltatrice, di conseguenza, ha ritirato la partita marcia. Subito è scattata la protesta che si è tradotta in un esposto alla procura e per conoscenza alla magistratura di sorveglianza, con oltre cento firme. Il Sinappe ricorda come il servizio di sopravvitto viene appaltato a ditte esterne ed è la direzione del carcere che dovrebbe vigilare. Il segretario Nicola D’Amore denuncia che ciò accade perché le ditte potrebbero puntare la risparmio, magari acquistando partite di alimenti vicini alla data di scadenza, pagandoli quindi di meno. Ma è solo un sospetto e sarà eventualmente la procura ha vederci chiaro. Resta però il dato oggettivo che è già il secondo episodio, il primo a novembre quando furono trovate le merendine scadute e venne informata Antigone perché in quel momento l’associazione stava effettuando una visita. Ma non è la prima volta che si verificano problemi simili. Sempre alla Dozza, fino a qualche tempo fa, c’era stato un problema circa la gestione del caseificio “Liberiamo i sapori”, inaugurato lo scorso anno. Tale attività è stata inaugurata grazie alla Legge Smuraglia che concede alle imprese, che investono nelle strutture penitenziarie, o che assumono detenuti, dei benefit fiscali. Il Sinappe ha spiegato che tale progetto per la realizzazione del suddetto caseificio è stato realizzato anche grazie al cospicuo investimento del Ministero della Giustizia. Ma nello specifico delle problematiche che caratterizzano il lavoro dei poliziotti, il Sinappe aveva denunciato che spessissimo il casaro (persona non detenuta) lavora da solo, senza detenuti, e il personale di Polizia penitenziaria era costretto comunque a vigilare sulla attività lavorativa del medesimo. Secondo quanto ha rivelato il sindacato, l’impresa accede in Istituto, spesso, senza dare la preventiva comunicazione per email (come sarebbe da prassi), che consentirebbe la giusta programmazione del servizio. A causa di ciò, il personale era costretto ogni volta a fermarsi oltre l’orario di lavoro, e sovente a coprire più posti di servizio. Ma non solo. Il personale di Polizia penitenziaria era chiamato a gestire e contenere gli effetti del malcontento crescente dei detenuti che lamentavano da mesi la mancata firma del contratto di lavoro, il mancato pagamento degli stipendi, l’effettuazione di numerose ore di straordinario. “Se tutto ciò fosse rispondente al vero - ha scritto il Sinappe in una lettera rivolta alla direzione del carcere - ci verrebbe da chiederci come sia possibile che all’interno di una struttura detentiva, istituzione statale e presidio di legalità, possano tollerarsi simili gravissime inadempienze”. Ora l’azienda è fallita, e il Sinappe si augura che “si possa immediatamente voltare pagina rispetto a tale esperienza e avviare nuove attività lavorative per le persone detenute, tali da poter interessare un numero sempre maggiore di reclusi e rasserenare gli animi, a volte, fin troppo agitati, che si riscontrano, soprattutto, nelle sezioni detentive”. Testimoni di giustizia nella p.a.. Assunzione in alternativa all’assegno Italia Oggi, 24 agosto 2019 Dopo il via libera del Consiglio di stato pronto il regolamento che attua la legge 6/2018. Testimoni di giustizia con diritto all’assunzione in una pubblica amministrazione. E se loro non intendono fruirne, tale diritto scatta nei riguardi del coniuge e dei fi gli ovvero, in subordine, dei fratelli stabilmente conviventi, purché essi siano a carico ed ammessi alle speciali misure di protezione. Lo prevede il regolamento del ministero della giustizia emanato ai sensi articolo 7, comma 1, lett. h) della legge 11 gennaio 2018, n. 6, recante “Disposizioni per la protezione dei testimoni di giustizia”, su cui il Consiglio di stato ha espresso parere positivo con alcune richieste di correzione. L’articolo 7, rubricato “Misure di reinserimento sociale e lavorativo”, riconosce al testimone di giustizia il diritto ad accedere a un programma di assunzione in una pubblica amministrazione con qualifica e con funzioni corrispondenti al titolo di studio e alle professionalità possedute, “fatte salve quelle che richiedono il possesso di specifici requisiti”. Il testimone di giustizia può accedere al programma, in alternativa alla capitalizzazione del costo dell’assegno periodico e qualora non abbia altrimenti riacquistato l’autonomia economica, nei limiti dei posti vacanti e nel rispetto delle disposizioni limitative in materia, per chiamata diretta nominativa, sulla base di intese tra il ministero dell’interno e le amministrazioni interessate. L’assunzione è possibile anche qualora il testimone di giustizia non sia più sottoposto ad uno speciale programma o a speciali misure di protezione. Il regolamento su cui i giudizi di Palazzo Spada si sono espressi, ha il compito primario di chiarire, in fase attuativa, la portata precettiva dell’art. 7, con particolare riguardo agli aspetti che tale articolo ha lasciato privi di chiara definizione. Il Consiglio di stato chiede dunque che il regolamento proceda a delineare con precisione l’ambito di applicazione della deroga contemplata e quindi la portata della espressione “fatte salve quelle che richiedono il possesso di specifici requisiti”, indicando quali siano quelle professioni che, per la loro particolarità (come quelle professioni che comportano l’esercizio di pubblico potere), sfuggono al meccanismo di assunzione, “non rientrando evidentemente nell’intento del Legislatore consentire, attraverso lo speciale iter assunzionale contemplato nella predetta norma, l’inserimento del testimone di giustizia, ad esempio, nei ruoli della magistratura o della carriera prefettizia, o della carriera diplomatica o nei ruoli delle forze armate”. Non solo. Poiché la normativa prevede una sorta di penalizzazione per il testimone di giustizia che rifiuti il posto, con retrocessione nella graduatoria, i giudici chiedono che egli abbia la possibilità di rappresentare gravi ragioni a sostegno del rifiuto o del mancato assenso all’assegnazione del posto disponibile presso una pubblica amministrazione: qualora tali gravi ragioni vengano positivamente riscontrate dall’amministrazione, il testimone di giustizia non dovrebbe più essere penalizzato. Quel male oscuro che attraversa l’Arma di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 24 agosto 2019 Il preoccupante aumento dei suicidi preoccupa i vertici dei Carabinieri. “Una situazione del genere non è accaduta neppure durante il periodo del terrorismo”, racconta un carabiniere. Dall’inizio dell’anno in 12 si sono tolti la vita. “Neppure durante il periodo del terrorismo”, dichiara un maresciallo dei carabinieri, negli anni di piombo collaboratore del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, a proposito dell’aumento esponenziale dei suicidi nelle forze di polizia. Trentasette dall’inizio dell’anno, di cui dodici nell’Arma. “Solo nell’ultima settimana si sono tolti la vita tre carabinieri”, prosegue il maresciallo che preferisce restare anonimo. Eppure il contesto è molto cambiato dagli anni Settanta dove, oltre ai pericoli della lotta armata, la disciplina era ferrea e la pur minima trasgressione dei regolamenti comportava il trasferimento dalla sede di servizio. “Tantissimi - aggiunge il maresciallo - erano i carabinieri inviati in servizio provvisorio a centinaia di chilometri di distanza, dalla sera alla mattina, per violazioni che oggi farebbero sorridere”. Sul perché, allora, di questo malessere diffuso che spinge a gesti estremi nessuno dei vertici si sbilancia, preferendo optare per la “rimozione” del problema. Le forme di associazionismo sindacale, pur recentemente autorizzate, non sembrano aver riscosso al momento grande fiducia fra il personale: il mese scorso si è dimesso da presidente del Sindacato italiano militare (Sim) il capitano Ultimo, alias colonnello Sergio De Caprio, in polemica con il comandante generale dell’Arma, generale Giovanni Nistri, che ostacolerebbe l’attività del sindacato nelle caserme. In questo scenario, è tornato a farsi sentire il Cocer, il consiglio di rappresentanza militare, che fra i compiti statutari ha quello di interessarsi del “benessere del personale”. Il Cocer ha però limitate capacità di incidere, essendo molto attento alle sensibilità dei comandanti militari. Le Commissioni d’inchiesta sui suicidi in divisa non sarebbero trasparenti essendo “costituite da ufficiali individuati attraverso scelte non condivise con gli organismi di rappresentanza”, si legge in una nota diramata l’altro ieri da alcuni delegati della rappresentanza. Fra i motivi di forte disagio, la diffusione di video sui social che farebbero scattare nei superiori reazioni e provvedimenti “inadeguati e ben più afflittivi e dannosi di quelli emessi eventualmente da un Tribunale”. Uno degli ultimi casi riguarda il maresciallo di Castel Volturno (Ce) che il giorno di Ferragosto, durante la visita di Matteo Salvini, cercava di allontanare i contestatori del ministro dell’Interno intenti a lanciare palloncini pieni d’acqua. “Almeno mirate bene”, aveva detto ai manifestanti che colpivano i carabinieri e non il capo del Viminale. Una frase ripresa dalla telecamere e diventata subito virale sul web. Parole pronunciate, chiaramente, per stemperare gli animi sovraeccitati ma che hanno determinato l’apertura di procedimento disciplinare, dalle conseguenze non prevedibili, nei confronti del maresciallo. Mimmo Lucano, quando l’esilio uccide la pietà di Gino Dato Gazzetta del Mezzogiorno, 24 agosto 2019 Siamo nel paese dei diritti? O del rovescio? Può essere che il paese dove il diritto risuona neghi a un suo cittadino la dignità dell’umana pietas, quell’esercizio di ricongiungimento rituale di un figlio all’abbraccio del padre prima che spiri? Tu non chiedi di fuggire con il vecchio Anchise sulle spalle, né sei nella flagranza di un reato. Ma dimori in un paese crudele nel quale, come a un bandito, ti viene di fatto impedito di raggiungere la dimora dove tuo padre, superata la soglia dei novant’anni, sta morendo di una grave forma di leucemia, aggravata da un infarto. E ti viene negato questo diritto agli ultimi giorni di intimità, non perché tu sia un delinquente di fama internazionale, perseguito dalle polizie di tutto il mondo, né perché tu sia in detenzione per scontare una grave pena. Ti viene inibita semplicemente perché un Tribunale ti ha sottoposto a un provvedimento restrittivo della libertà personale, che ti impedisce di tornare nella tua città. Non stiamo parlando di un serial killer o di uno stalker, che, appena riconquistata la libertà di movimento, potrebbero ricadere nell’antico vizio, ma del sindaco di Riace per tre mandati e ormai ex, Domenico Lucano. Dal 4 ottobre, come è noto, non può rientrare nella sua città perché, per richiesta della Procura della Repubblica presso il Tribunale di Locri, è stato sottoposto agli arresti domiciliari prima e al divieto di dimora nel comune di Riace poi. “Non voglio carità, ma giustizia” dichiara mentre la petizione a Mattarella per superare il divieto di dimora ha raccolto più di 25 mila firme. “Anche se mio padre non dovesse farcela, non chiederò il permesso di tornare a Riace”. L’ex sindaco è accusato di aver favorito l’immigrazione clandestina attraverso la celebrazione di matrimoni fittizi e di avere affidato direttamente la raccolta di rifiuti a cooperative sociali. Ma oggi che, dopo le elezioni del 26 maggio, non è più stato rieletto sindaco, quale potrebbero essere la tentazione e la pericolosità di Mimmo nel reiterare i comportamenti contestati che hanno condotto alle misure cautelari? Il “Comitato Undici Giugno”, che lo difende, definisce la situazione “un esilio politico non giustificato da alcuna ragione giuridica”. E si rivolge al presidente della Repubblica chiedendo “il Suo intervento affinché, con qualunque strumento a Sua disposizione e considerata la Sua posizione di Garante dei diritti costituzionali, si consenta a Domenico Lucano di poter tornare nel comune di Riace a far visita ed assistere il proprio anziano padre”. Nella petizione si fa notare come “è pendente dinnanzi al Tribunale di Locri un processo a carico, tra gli altri, di Domenico Lucano, in cui verrà accertata la fondatezza delle accuse e rispetto al quale lo stesso ha sempre dichiarato piena fiducia nella magistratura. Si aggiunga che lo scorso mese di marzo 2019, a seguito del ricorso presentato dagli avvocati difensori di Lucano, si è pronunciata la Suprema Corte di Cassazione che - in buona sostanza - ha ritenuto insussistenti le ragioni che hanno portato all’applicazione della misura restrittiva della libertà personale”. Amare le conclusioni cui giunge Mauro Palma, Garante Nazionale dei diritti delle persone detenute: “Il divieto di dimora ha un sapore punitivo che, in qualche modo, non corrisponde al modo in cui i provvedimenti sono stati pensati e istituiti, come il confinamento. Sono preoccupato di questa distorsione... Quando alcuni provvedimenti raggiungono dei livelli così forti, tanto da toccare uno dei principi della Convenzione europea dei diritti dell’uomo nell’ambito del diritto al mantenimento dei rapporti affettivi, acquistano una fisionomia diversa e un significato diverso rispetto a quello che dovrebbero avere”. Campania: cambio al vertice delle carceri, Antonio Fullone è il nuovo provveditore di Luigi Nicolosi anteprima24.it, 24 agosto 2019 Il “super direttore” torna a Napoli. Un anno fa era andato via tra gli applausi di polizia penitenziaria e detenuti. Tutti avevano infatti apprezzato il suo impegno nel migliorare le condizioni di vivibilità della casa circondariale “Giuseppe Salvia” e il numero di detenuto al suo interno ristretti. Accantonato l’incarico di direttore del carcere di Poggioreale, e dopo alcuni mesi trascorsi lontano da Napoli, Antonio Fullone rientra adesso dalla porta principale. Il 52enne dirigente generale dell’amministrazione penitenziaria è infatti il nuovo provveditore regionale della Campania. Il manager tarantino ha preso possesso del suo nuovo ufficio di via Nuova Poggioreale lunedì mattina e senza perdere tempo ha subito effettuato una prima visita ispettiva nell’istituto di Ariano Irpino, nell’Avellinese. Il neo provveditore sarà certamente chiamato a un impegno gravoso da qui ai prossimi mesi. Nella sua competenza ricadono infatti ben quindici penitenzieri e su tutti spicca, neanche a dirlo, la casa circondariale di Poggioreale, ormai da mesi alle prese con l’ennesima recrudescenza dell’emergenza sovraffollamento: al suo interno sono attualmente ristretti oltre 2.100 detenuti, di cui 750 condannati in via definitiva e ancora in attesa di trasferimento in casa di reclusione. Vale la pena ricordare che proprio sotto la sua direzione il carcere “Giuseppe Salvia” era per un certo periodo tornato ad avere un numero di detenuti quantomeno sostenibile: ma quelle cifre oggi sembrano essere diventate soltanto un lontano ricordo. Fullone, tarantino con un curriculum che lo ha visto girare negli istituti di tutta Italia, da Lecce a Foggia, Bari, Verona, Perugia fino alla Calabria e alla Sardegna, aveva lasciato nel 2018 dopo tre anni la direzione del carcere di Poggioreale: un valzer scaturito proprio dalla nomina di dirigente dell’Amministrazione penitenziaria. Il decreto di nomina controfirmato dal presidente della Repubblica era arrivato il 27 aprile e ne aveva determinato la promozione a un incarico più alto e prestigioso, cioè quello di provveditore regionale, in una sede che però non era ancora stata definita. Tre anni vissuti intensamente da Antonio Fullone a Poggioreale, dove si è impegnato e messo in luce nel delicato processo di apertura del carcere napoletano verso la città, attraverso iniziative-ponte tra dentro e fuori le mura, dopo essersi adoperato per i lavori di ristrutturazione dei padiglioni interni al fine di rendere la struttura di inizio Novecento, ormai obsoleta, il più vicino possibile e aderente ai parametri imposti dalla legge e soprattutto da quelli necessari per il rispetto della dignità umana. La sua ultima iniziativa erano stati i quattro “corner dedicati” per i colloqui con i minori nella casa circondariale. Ma il tempo per pensare al passato è già finito, una nuova sfida, forse quella più difficile della sua carriera, è già iniziata. Catania: la direttrice di Piazza Lanza “il carcere come osservatorio sulla città” di Roberta Fuschi livesicilia.it, 24 agosto 2019 Una città nella città. All’interno delle mura di cinta della fortezza che si staglia su Piazza Lanza c’è tutto un mondo da scoprire. Storie di uomini e donne che ogni giorno si misurano con regole ad hoc e, non di rado, si relazionano con il mondo esterno. Volontari e non solo. Qui ogni giorno l’idea astratta si fa carne. Così il sistema delle garanzie trova una sua espressione e il valore rieducativo della pena cerca di farsi strada sfidando contingenze temporali e logistiche di ogni ordine e grado. Una casa circondariale, del resto, è un mondo nel mondo delle carceri soprattutto se situata in una città complessa come Catania. Elisabetta Zito, direttrice della struttura, fa il punto sulla vita quotidiana a Piazza Lanza dal rapporto con il mondo esterno passando per la prova della convivenza fino alla sinergia con altri attori istituzionali. Dottoressa Zito, in carcere ci sono tanti volontari che prestano la loro opera. Questo dipende anche da una mancanza di personale dell’area dipartimentale? In questo momento abbiamo un numero inferiore rispetto a quello previsto dalla pianta organica sostanzialmente per effetto dei pensionamenti previsti e anticipati. Quindi l’attività che fanno i volontari è anche di riempimento, l’attività che svolgono però è un’attività che giustamente concorre all’area di attività trattamentale. Non c’è un impegno dei volontari legato solamente alla carenza di organico, diciamo una funzione di supplenza. In che senso? La partecipazione all’esecuzione penale da parte della comunità esterna è una scelta del legislatore. Quindi è una rivendicazione giusta che il mondo esterno fa di entrare in carcere per concorrere all’attività e una rivendicazione che dovrebbe fare l’istituzione penitenziaria perché esiste un obbligo di carattere generale. Anche il rapporto con il mondo esterno diventa determinante... Certo, diventa fondamentale. Dobbiamo fare insieme questo percorso, diversamente, se così non fosse, lavoreremmo in un mondo astratto. Qualcuno potrebbe considerare questo processo utopico, però è un processo di responsabilizzazione del mondo esterno mentre noi parliamo sempre di responsabilizzazione del reo. Il legislatore ha voluto chiamare in causa tutti i soggetti che circondano l’autore del reato. E secondo me l’insuccesso del trattamento è spesso legato alla carenza di presenza del mondo esterno. In che senso? Noi sappiamo che in alcuni casi in chi commette alcuni reati c’è una componente legata ai contesti sociali, alla discriminazione, alla difficoltà di vivere in certe zone della città. Non è un affare che riguarda soltanto l’amministrazione penitenziaria. Noi per mission istituzionale dobbiamo definire il percorso trattamentale tenendo conto sì delle direttive del Ministero, ma anche dei bisogni dell’utenza. Noi stiliamo un progetto di istituto calibrato sulle caratteristiche della struttura e dell’utenza non seguendo una direttiva. Considerando che la vostra è una casa circondariale è più complesso fare questo tipo di previsione? Sì. In primo luogo perché l’utente non è statico ma variabile. Provo a fare un esempio che può sembrare banale, ma rende bene l’idea. È come un negozio che deve seguire la moda, non può comprare ora per i prossimi due o tre anni perché deve aspettare. Il paragone sembra banale ma serve a fare capire qual è la dinamicità a noi richiesta. E l’andamento degli ingressi e quindi dei bisogni noi li analizziamo in retrospettiva, ma in realtà noi subiamo tutti gli effetti di quella che è l’inasprimento di una pena, la modifica di un reato in un ambito piuttosto che in un altro e quindi l’immagine cambia in maniera incredibile. Ad esempio, tre anni fa ci siamo preparati ad ospitare chi proveniva dagli sbarchi e oggi siamo di fronte a un cambiamento. Questa è una caratteristica comune ad alcune case circondariali che esistono in territori particolari e che hanno un’utenza estremamente variabile. Al momento quanti utenti ci sono? Circa 350 persone. Che tipo di utenza si registra a Catania? Abbiamo un certo numero di stranieri, un numero che rimane esiguo rispetto alle presenze registrate negli istituti del Nord, e un’utenza legata allo spaccio di droga. Il nostro è un centro di media sicurezza: ci sono detenuti che hanno collegamenti con la criminalità organizzata ma non ricoprono ruoli di comando. Pusher e vedette? Sì, manovalanza. Ma non di tipo indipendente perché viviamo in un territorio cui, nonostante l’azione di contrasto delle forze dell’ordine, c’è una presenza endemica della criminalità. Qui ci sono tantissimi soggetti che entrano in carcere per reati di violenza domestica o in ambito familiari, ma spesso legati a situazioni di disagio e dipendenza da alcol e droghe. Noi ospitiamo una larghissima fetta di persone, quasi un terzo, che sono in trattamento psichiatrico. Il reato spesso è un’espressione di disagio e poi nel caso del problema psichico in tanti non si rivolgono ai servizi preposti soprattutto se non c’è un gruppo di sostegno affettivo o familiare. C’è chi inizia la terapia ma poi la abbandona o va via e si ritrova a stare fuori casa. Ad esempio, ospitiamo tante persone senza fissa dimora. Il carcere sembra una sorta di osservatorio sulle criticità legate al territorio: racconta molto bene la città... Certo. Da questo punto di vista, l’aspetto positivo è che proprio partendo da qui si potrebbero definire gli interventi esterni, ad esempio se servono le case alloggio o le strutture per donne maltrattate o persone dipendenti dalle droghe. Noi dovremmo essere guardati dagli enti locali. Esiste qualche strumento in grado di creare questa sinergia tra attori istituzionali? Esiste un tavolo perché la norma lo prevede: si tratta del tavolo di zona a livello comunale, istituito presso il distretto socio sanitario di Catania che comprende anche i comuni di Motta e Misterbianco. E va a fare confluire nei così detti piani di zona tutte quelle che sono le risorse per interventi di vario tipo. Il ministero della Giustizia è uno degli organismi che partecipa a questo tavolo per legge, poi ci sono figure varie come quelle legate al terzo settore. Immagino ci sia un “però”... Il problema di attuazione è legato, secondo me, agli aspetti amministrativi. In Sicilia e a Catania questa esperienza è stata fallimentare: è un sistema che si muove troppo lentamente. Uno strumento complesso inter-istituzionale difficile da gestire, rimesso interamente alla macchina amministrativa del Comune, per cui, anche se ci troviamo tutti d’accordo su come spendere questi fondi (che in passato erano tanti), poi tutto ricade sulle spalle del Comune che deve gestire le gare d’appalto e i bandi: obiettivamente è un sovraccarico. Servirebbe nella parte esecutiva un gruppo di lavoro dedicato. Con quali conseguenze? Li abbiamo enormi difficoltà a fare emergere il bisogno. Si potrebbe partire dalla nostra analisi dei bisogni per fare una radiografia della città. Spesso qualche lettore commenta i nostri articoli scrivendo “chiudeteli in cella e buttate la chiave”. C’è invece un aspetto importante legato alle carceri e alla loro funzione rieducativa che passa in secondo piano. A tale proposito volevo chiedere come monitorate l’evoluzione degli utenti? La regola che noi seguiamo è evitare di “chiuderli in cella e buttare la chiave” perché questo vuol dire non gestire il loro tempo. I lettori lo dicono animati da fastidio. Noi dobbiamo seguire una logica diversa: evitare che ci sia un tempo totalmente perso che potrebbe anche diventare un tempo controproducente pensiamo al disagio e a istinti anticonservativi. Ma fermiamoci a questo: un tempo perso tenendo conto che ognuno di noi ha un vincolo cioè non possiamo educato chi non è condannato secondo il sistema della giustizia italiana. Per cui la persone è fortemente indiziata di un fatto criminoso però al tempo stesso c’è una presunzione di innocenza. La nostra regola è che non ci sia un tempo perso. Faccio un esempio anche se il paragone può sembrare banale. Prego... Immaginiamo di rimanere bloccati in casa e avevamo delle cose importantissime da fare. Che cosa facciamo? Cose come eliminare le mail arretrate, ad esempio. Ecco la nostra logica è utilitaristica e anche motivante per la persona. Quali sono le richieste più frequenti? La richiesta principale è quella di lavorare. Noi abbiamo il vincolo che essendo una casa circondariale possiamo pensare al lavoro all’interno perché quello all’esterno è molto difficile da gestire, non per nostra volontà. Perché? Il perché è molto semplice: se una persona è in custodia cautelare perché c’è il pericolo di fuga e io lo devo mandare a lavorare c’è una norma che lo consente, ma il magistrato ovviamente deve bilanciare questa risposta con l’esigenza che c’è a monte di tenerlo dentro perché gli deve dar il nulla osta. Se lo ritiene meritevole lo manda a lavorare ma con scorta: ma cosa abbiamo ottenuto? Nulla, perché se le attività che si svolgono devono essere attività fiduciarie devono essere a bassa incidenza di controllo anche perché noi non possiamo permettercele. Non possiamo consentire che escano dieci detenuti più la scorta che li accompagna. Questa attività è praticabile qui in questo momento, e noi abbiamo delle donne che lo fanno: escono e vanno a lavorare perché abbiamo una reclusione quindi questa misura l’abbiamo studiata e sperimentata perché abbiamo ottenuto una trasformazione di un piano detentivo perché altrimenti, ripeto, anche se noi su alcune donne puntavamo anche da imputate ci saremmo scontrati con l’esigenza dei nostri fratelli giudici: l’altro ramo della giustizia. Insomma cercate di bilanciare le varie esigenze... Certo, quindi la richiesta principale è di accedere al lavoro. Qui ospitiamo spesso un’utenza che vive spesso un forte disagio economico e che ha vissuto una situazione di forte deprivazione da tanti punti di vista che trova qui dentro le cure e le informazioni necessarie per curarsi. Qui la coercizione impone loro di fare cose che fuori non farebbero. No? Esatto. Intento c’è la presenza fisica del medico. Siccome la persona è in carico a noi, fosse anche una semplice infezione, il detenuto va dal medico. Ci sono tantissimi detenuti che hanno scoperto qui di avere malattie gravissime e hanno ottenuto delle cure che fuori non otterrebbero per un semplice motivo: la sanità prevede un canale giustamente privilegiato per i detenuti, dico io e lo faccio da cittadina. La persona non è libera di curarsi o meno: lo Stato ha una responsabilità enorme e quindi è giusto che ci sia un’attenzione particolare perché non si potrà mai stabilire se fregarsene del colesterolo alto è stata una libera scelta della persona oppure no. Lo Stato nel momento in cui priva della libertà una persona ha una responsabilità enorme e la comunità tutta. Certo può dare fastidio: se penso che se avessi un problema di salute dovrei aspettare mesi mentre che possibilmente se fossi in carcere sarei visitata da un primario. Del resto se esiste una patologia, esiste per lo Stato, versante magistratura, l’obbligo di compiere determinate cose. Tutto questo non si può ignorare è un sistema fatto di pesi e contrappesi. I giornalisti dovrebbero fare capire questi altri aspetti. Quali? Perché io non posso prevedere una lista d’attesa di mesi per una persona detenuta? Perché da una malattia che mi conduce alla morte nel mio letto di casa per quella persona può significare che quella persona il giudice ha l’obbligo di mandarlo a casa per farlo morire nel suo letto. Se così non fosse, e si accertasse un’inadempienza o un ritardo, noi come collettività pagheremmo un costo, al di là dell’aspetto etico. È un concetto complesso, ma non lo si può ignorare. Bisogna fare capire alle persone che il nostro sistema giuridico è fatto di garanzie, pesi e contrappesi, che hanno un utile per la collettività e non sono “in danno di”. Alla gente dobbiamo spiegare che il sistema delle garanzie non è un tema che diminuisce la sicurezza della collettività né un sistema che fa sì che i detenuti non rispettino le regole e si comportino male. Vigevano (Pv): manca l’assicurazione, il Comune rinuncia al lavoro dei detenuti di Selvaggia Bovani La Provincia Pavese, 24 agosto 2019 Mozione del Pd: “Tagliavano l’erba e svuotavano i cestini due euro al mese a carcerato, ma la giunta non li versa”. Il Comune rinuncia al lavoro volontario dei detenuti per risparmiare 2 euro al mese a testa per l’assicurazione. Ieri mattina il consigliere regionale Giuseppe Villani e la consigliera comunale Arianna Spissu hanno visitato la casa di reclusione dei Piccolini, poi hanno annunciato che il Pd farà una mozione per chiedere al Comune di pagare l’assicurazione e consentire ai detenuti di svolgere lavori socialmente utili. “Tempo fa - spiega Spissu - il Comune, l’Agenzia provinciale per l’orientamento, il lavoro, la formazione (Apolf) e la casa di reclusione avevano firmato un protocollo triennale grazie al quale i detenuti potevano uscire dal carcere per tagliare l’erba, raccogliere le foglie, svuotare i cestini dei rifiuti e tinteggiare le strutture comunali. Tutto su base volontaria e senza ricevere uno stipendio. A luglio 2017, però, il vicesindaco Andrea Ceffa, che si era detto favorevole a questo progetto, rispondendo a un’interrogazione in consiglio comunale aveva comunicato che non c’era denaro per la copertura assicurativa e che quindi quel progetto sarebbe stato rinviato. Ci risulta che l’assicurazione costi sui 2 euro mensili a detenuto e che i detenuti coinvolti fossero una quindicina, a rotazione. Non è un costo esorbitante, il Comune deve far ripartire il progetto”. Per quanto riguarda la struttura penitenziaria, gli esponenti Pd hanno segnalato alcune infiltrazioni e qualche muro scrostato. “Ma nel complesso - dicono - abbiamo visto degli spazi ben curati. Ci sono al massimo due detenuti per cella e, nell’area femminile, si vede l’intervento di associazioni come “Gli angeli colorati” che hanno “affrescato” le pareti della ludoteca e che accolgono i bambini che vengono a trovare la mamma. In cucina lavorano i detenuti, che pare siano grandi cuochi, poi ci sono tante progetti per la rieducazione. C’era il progetto della digitalizzazione, di trasformare cioè archivi cartacei in digitali, ma nessuna azienda vigevanese si è fatta avanti”. Il vero problema della casa di reclusione è quello sanitario. Per 400 detenuti circa, ci sono solo 6 medici generici che garantiscono il servizio sulle 24 ore e un solo psichiatra. Gli infermieri sono 7, di cui uno “in partenza”. “Serve personale medico - concludono i due consiglieri. - Non ci sono cardiologi e avere un solo psichiatra è inammissibile. Più del 50% dei detenuti maschi è tossicodipendente. Poi ci sono i detenuti cosiddetti “psichiatrici”, basta non poter somministrare una pastiglia per il mal di testa per scatenare un putiferio. Il problema del personale deve essere risolto”. Padova: dagli artisti venezuelani un concerto per i detenuti del Due Palazzi di Luisa Morbiato Il Gazzettino, 24 agosto 2019 Gli artisti venezuelani dell’associazione Trabajo e Persona hanno dedicato un concerto ai detenuti del Due Palazzi: è il frutto della collaborazione decennale con la cooperativa Giotto in progetti di assistenza e solidarietà internazionale. “Venezuela il popolo il canto il lavoro”: è il titolo del concerto organizzato in prima mondiale, al carcere Due Palazzi, grazie alla collaborazione tra la cooperativa sociale Giotto e l’associazione venezuelana Trabajo y Persona di Caracas. Due realtà che operano nel sociale e, tra le quali, una decina di anni fa è nata un’amicizia poi trasformata in collaborazione tra persone impegnate, in maniera diversa, ad affrontare le difficoltà della vita. Le attuali condizioni del popolo venezuelano sono ormai al limite della sopravvivenza e si fatica a lavorare ma la vicinanza con i detenuti di Trabajo y Persona è reale, come sottolinea Nicola Boscoletto presidente della Giotto. “Il concerto che il gruppo, dopo essersi esibito al Meeting di Rimini, ha voluto offrire ai detenuti ha anche un risvolto benefico: una raccolta di fondi a offerta libera, ma anche comprando il cd come noi abbiamo già fatto acquistandone 500 che regaleremo a Natale a dipendenti e clienti - spiega Boscoletto - spesso alcuni detenuti dicono che in fin dei conti si trovano in carcere, luogo di sofferenza e difficoltà, perché qualcosa di brutto nella loro vita hanno combinato, mentre gli amici venezuelani si trovano a vivere una situazione peggiore senza aver fatto nulla per meritarla”. “É molto difficile lavorare in Venezuela ma il lavoro è libertà, da noi manca tutto, dalle medicine ai trasporti ai generi di prima necessità, ma quando si trova un lavoro è un’opportunità per risvegliarsi alla vita - afferma Alejandro Marius di Trabajo y Persona - della nostra situazione però preferiamo vedere le positività e sottolineare la tanta solidarietà che esiste nel Paese perché la durissima realtà quotidiana ci sfida continuamente a riconoscere ed affermare il senso della vita”. Il direttore artistico del gruppo musicale, che comprende musicisti e cantanti di primo piano del paese sudamericano, è Aquiles Baez che rileva “La musica è libertà, abbiamo deciso di esibirci in carcere per offrire ai detenuti un po’ di libertà”. Il disco che canta l’anima di un popolo e vede brani come canto della mungitura, il fruttivendolo o “Tu sei il fiore del cacao” è stato realizzato tra grandissime difficoltà ed è stato pubblicato in un cofanetto comprensivo di un volumetto con i testi dei brani, in collaborazione con Itaca Edizioni. Il ricavato andrà a sostegno delle attività dell’associazione. “Una bella iniziativa che collega la musica al lavoro, siamo sempre disponibili ad avvenimenti per l’integrazione: laboratori di musica, teatro, la squadra di calcio e tante altre attività per la popolazione carceraria come questa che porta l’amicizia tra i popoli - commenta il direttore del Due Palazzi Claudio Mazzeo - abbiamo raggiunto molti obbiettivi con una popolazione che attualmente è di 600 detenuti anche se in qualche periodo abbiamo raggiunto i 900. Ora servirebbe un miglioramento della struttura: entro l’anno dovrebbero partire i lavori per dotare ogni camera di doccia e servizi separati”. Il concerto, tenuto in un auditorium affollatissimo, è stato preceduto da alcuni video nei quali una bambina ed un anziano aiutati dall’associazione hanno portato i saluti del Venezuela agli amici italiani. Un altro video ha illustrato i momenti salienti dell’amicizia tra le due associazioni. Durante l’iniziativa è stato consegnato un omaggio a Linda Arata, giudice dell’Ufficio di Sorveglianza a Venezia. La mattinata si è chiusa con l’applauditissimo concerto. Rimini: Meeting 2019, Cevoli racconta storie di riscatto di Milena Castigli interris.it, 24 agosto 2019 Il comico ha fatto da presentatore alla Comunità Educante con i Carcerati della Papa Giovanni XXIII. Fuoriprogramma d’eccezione ieri al meeting di Rimini con il comico Paolo Cevoli che ha fatto da presentatore sul palco della Cec, la Comunità Educante con i Carcerati, il progetto della Comunità Papa Giovanni XXIII che si occupa degli uomini che finiscono dietro le sbarre. Sul palco, insieme a Cevoli, quattro giovani portano la loro testimonianza di caduta e rinascita, ragazzi molto diversi per età e provenienza che nelle strutture della Cec hanno compiuto il salto che li ha restituiti alla vita. E con loro non poteva mancare Giorgio Pieri, il responsabile del progetto. Un sogno realizzatosi tanti anni fa quando don Oreste Benzi, fondatore della APGXXIII invitò Giorgi ad andare in Brasile a conoscere le Apac, le carceri senza guardie dove la recidiva è a livelli minimi. E quindi la nascita della prima Comunità educante con i carcerati (Cec) della quali Pieri parlò in una approfondita intervista a In Terris lo scorso marzo. “Noi - scandisce Giorgio dal palco di Rimini, ripreso da Sempre.it - non lavoriamo per i carcerati ma con i carcerati. Noi stessi siamo coinvolti come loro nel processo educativo”. Cosa hanno in comune Daniele, Riccardo, Gustavo, Alfredo, i quattro ragazzi che hanno raccontato le loro storie incalzati da Paolo Cevoli, anceh grazie a qualche sua simpatica battuta? Sono ragazzi diversi, provenienti da realtà diverse - Milano, Roma, la Puglia, Cuba e Napoli - ma di fondo c’è sempre lo stesso problema: una famiglia che si sfascia, un padre violento o assente, ovvero una carenza di amore dalla quale scaturisce una rabbia che cova nell’anima e porta spesso a delinquere. C’è un’amicizia ed un coinvolgimento di Cevoli con la Cec: presto l’attore uscirà sul web con una serie che si chiama Capriole, come quella compiuta da Dante nel suo viaggio nell’aldilà: sprofondato negli inferi e poi risalito. Capriole, storie di fallimenti e di rinascite. Come quelle dei ragazzi del Cec. Terremoto ad Amatrice. Quello che la propaganda non dice: le Ong al lavoro di Mario Di Vito Il Manifesto, 24 agosto 2019 Da Emergency ad Acion Aid. Da tre anni sul territorio, sempre presenti anche le Brigate di Solidarietà Attiva. Il paragone tra la situazione dei migranti e quella dei terremotati è uno dei cardini della propaganda della destra italiana. Basta pochissimo, però, per rendersi conto di quanto il paragone non abbia senso e di come, spesso e volentieri, chi lotta per i migranti lotta anche per i terremotati. Viceversa sarebbe corretto sostenere che a chi non importa nulla dei migranti, in realtà, non importa nulla neanche dei terremotati. Chi abita nel cratere lo sa, e ricorda bene la mattina del 24 agosto del 2016, quando tra i primi ad arrivare ad Arquata del Tronto ci fu una pattuglia di richiedenti asilo del Gus (Gruppo di Umana Solidarietà) guidati dal sindaco di Monteprandone Stefano Stracci. Per il resto, le ong coinvolte a vario titolo nel salvataggio dei migranti nel Mediterraneo o in progetti umanitari sparsi per il mondo possono fornire dati molto precisi sui loro interventi nelle zone terremotate. Emergency, per esempio, dal 2017 ha offerto 4.246 prestazioni mediche, tra assistenza psicologica e infermieristica. “Il nostro team è composto da uno psicologo-psicoterapeuta, un infermiere e un logista - spiegano - e fornisce assistenza gratuita in un territorio in cui i bisogni sono molteplici e i servizi di assistenza sanitaria sono in difficoltà”. Save the Children, dal canto suo, ha offerto assistenza a un totale 1.861 persone, di cui circa 1.300 bambini. “La generosità dei nostri sostenitori - raccontano dalla ong - ci ha permesso di raccogliere oltre 2 milioni di euro per portare soccorso immediato ai bambini e alle famiglie colpite e per restare al loro fianco nel lungo periodo, nell’altrettanto delicata seconda fase post terremoto”. E ancora: “Pur non essendo uno dei nostri obiettivi primari, ci siamo occupati anche della realizzazione di opere strutturali come la fornitura e messa in opera di un modulo prefabbricato ad uso scuola nel comune di Corridonia che ha permesso a circa 80 bambini di proseguire l’attività scolastica, e la ristrutturazione della scuola per l’infanzia di Loro Piceno”. Stesso discorso per Medici Senza Frontiere, che si attivò subito nella fase di emergenza e mandò i suoi medici nel cratere: l’intervento più incisivo fu fatto dopo le scosse del 30 ottobre 2017 a Norcia. Action Aid, invece, per il sisma ha messo in piedi una vera e propria piattaforma informativa chiamata “Terremoto Centro Italia” che negli anni ha raccolto 2.900 segnalazioni. Attualmente Action Aid si occupa di trasparenza nella ricostruzione e sul loro sito internet sono disponibili diversi report sulla situazione. Da segnalare, tra le altre, le attività del collettivo Terre in moto Marche, nato in seno al centro sociale Sisma di Macerata e motore di diverse iniziative e manifestazioni per combattere la strategia dell’abbandono dell’Italia Terremotata. Ancora sul territorio si muovono gli attivisti delle Brigate di Solidarietà Attiva, che non smettono di presidiare i paesi da tre anni a questa parte. Sono decine, infine, le ong e le associazioni più piccole che operano nei centoquaranta comuni terremotati: su tutti da segnalare l’iniziativa dei cattolici di We World che nel 2017 elargì a 29 famiglie di Amatrice aiuti economici tra i 2.500 e i 5.000 euro. Migranti. Sfruttamento senza fine nei campi del casertano di Adriana Pollice Il Manifesto, 24 agosto 2019 Trent’anni dall’omicidio di Jerry Masslo: oggi alle 17 nel cimitero di Villa Literno, in provincia di Caserta, la Cgil con associazioni e istituzioni del territorio deporranno una corona fiori per ricordare il ragazzo trentenne che fuggiva dal Sudafrica dell’Apartheid ma a cui l’Italia negò lo status di richiedente asilo. Rimase chiuso una settimana in una cella nell’aeroporto di Fiumicino, solo grazie alle pressioni dell’Alto commissariato Onu per i rifugiati venne liberato: gli fu consentito di rimanere nel paese ma senza status giuridico definito. Aveva chiesto il visto per il Canada, in attesa lavorava come stagionale nei campi e cercava di organizzare i migranti reclutati nel quadrivio di Villa Literno, ribattezzato dai locali “piazza degli schiavi”. Era la prima volta che i braccianti migranti si organizzavano così apparvero dei volantini: “È aperta la caccia permanente al nero”. La notte tra il 24 e il 25 agosto del 1989 un gruppo di ragazzi locali fece irruzione nel capannone dove una ventina di braccianti dormiva per rapinarli. Masslo non cedette alle minacce, lo spararono all’addome. Da allora è diventato il simbolo della ribellione allo sfruttamento. “La situazione è in parte cambiata - racconta Tammaro Della Corte, segretario provinciale della Flai Cgil Caserta - ma lo sfruttamento è rimasto lo stesso. Trent’anni fa venivano soprattutto dall’Africa sub sahariana, con il crollo del Muro di Berlino sono arrivati anche i lavoratori dell’Est Europa, che possono passare periodi qui e poi tornare a casa. La comunità africana, nel frattempo, è diventata stanziale. Vivono in appartamenti, spesso sovraffollati, ma comunque con parenti e amici. I ghetti sono quasi tutti spariti, ma qualcuno resiste. Come quello creatosi nell’ex fabbrica di mattonelle vicino al cimitero di Villa Literno per circa 50 persone”. In base alle norme, dovrebbero guadagnare tra i 55 e i 70 euro per sei ore e mezzo più gli straordinari e Tfr. Ma il lavoro si divide essenzialmente in due categorie: nero e grigio. “Si comincia alle 7 e si va avanti per 10, 11 ore con la sosta di un’ora - prosegue Della Corte -. La paga è di 25/35 euro al giorno. Poi c’è la trattenuta per il caporale: 3/5 euro che include il trasporto nelle campagne. Ma c’è anche una forma differente di caporale, il capo squadra. Si tratta di un bracciante che recluta altri braccianti e tutti insieme vanno al lavoro in bici. Non mette a disposizione il furgone ma il contatto con il padrone bianco e gestisce i ritmi di lavoro. Per il proprietario dell’azienda ha il vantaggio di confondersi con gli altri e sfuggire ai controlli”. Poi c’è il lavoro grigio: “Ti fanno un contratto per 3 mesi, dovrebbero versarti contributi per almeno 51 giornate lavorative ma in realtà ne versano massimo 6 e non riesci a maturare la disoccupazione. Così l’azienda sembra formalmente in regola per le ispezioni anche perché difficilmente viene controllata a termine contratto”. Le condizioni sono brutali: ad esempio, per raccogliere le fragole bisogna stare piegati in serra per ore, con la temperatura che sale a 40 gradi. “Soffrono alle mani, alla schiena, alle articolazioni - spiega ancora. Le donne hanno spesso problemi ai genitali perché, costrette a fare i bisogni in campagna, si puliscono con le foglie. Sono quelle che hanno la vita più dura: gli stessi compiti degli uomini più quelli che richiedono precisione. Oltre a subire abusi sessuali”. La Flai da dieci anni fa sindacato in camper: “Li andiamo a intercettare per spiegare a cosa avrebbero diritto così, almeno, possono provare a chiedere condizioni migliori. Purtroppo facciamo poche vertenze: hanno paura che, denunciando, poi perdano l’accesso al “mercato delle braccia”. Il sindacato è spesso il loro unico tramite con le istituzioni: la sanità, la scuola per i figli, la pubblica amministrazione”. Svizzera. Una morte dignitosa anche per i detenuti di Marcela Aguila Rubín swissinfo.ch, 24 agosto 2019 In Svizzera, le prigioni sono state concepite pensando soprattutto a autori di reati tra 20 e 30 anni, che vengono rilasciati dopo l’esecuzione della pena. Ma il numero di detenuti anziani è in aumento, mentre gli istituti carcerari non dispongono delle infrastrutture necessarie per loro. Per alcuni, il carcere non è solo un luogo in cui vivere, ma anche in cui concludere la vita. “Nessuno dovrebbe morire in prigione contro la sua volontà”, ritiene l’antropologo Ueli Hostettler. La questione della morte è qualcosa che, in un certo senso, unisce le persone. Ci sono persone che pensano di essere diverse, perché hanno compiuto qualcosa. “Ma nell’ora della morte siamo tutti uguali”. Ricercatore presso l’Istituto di diritto penale e criminologia dell’Università di Berna, Ueli Hostettler ha condotto il progetto “Fine della vita in carcere - contesto giuridico, istituzioni e attori”. Lo studio ha rivelato che le carceri svizzere, concepite per i detenuti tra i 20 e i 30 anni, non sono pronte a soddisfare le esigenze degli ultrasessantenni, una popolazione in crescita e con esigenze diverse. Laboratori per le prigioni del futuro - In alcuni penitenziari sono state progettate sezioni speciali per i detenuti anziani. Il carcere di Lenzburg esterno (Canton Argovia) è stato un pioniere con la sua unità “60 plus”, con 12 posti, mentre il carcere di Pöschwies esterno (Zurigo) può ospitare fino a 30 detenuti nella sua unità “Età e salute”. “Questi spazi rappresentano un primo passo verso un trattamento umano dell’invecchiamento e della morte dei detenuti più anziani. Sono una sorta di laboratorio per lo sviluppo futuro delle carceri svizzere”, sottolinea Ueli Hostettler. Tuttavia, la popolazione carceraria in età avanzata è in aumento. Nel 1984 c’erano 212 detenuti di età superiore ai 50 anni. Secondo l’Ufficio federale di statistica esterno, nel 2015 questo numero è più che triplicato (704) e nel 2017 è salito a 828, di cui 56 di età superiore ai 70 anni. Una tendenza destinata a continuare: il numero di detenuti anziani dovrebbe triplicare entro il 2030 (rispetto al 2015) e decuplicare entro il 2050. Questo nuovo profilo demografico è dovuto in parte all’invecchiamento generale della popolazione e all’aumento della criminalità nella vecchiaia, ma anche all’inasprimento delle leggi, all’applicazione di pene più severe e alla riluttanza nel concedere la libertà condizionale. “Ci sono persone per le quali non c’è quasi nessuna speranza di liberazione. E ce ne sono sempre di più. Davanti ai nostri occhi, le prigioni si stanno riempiendo, soprattutto le sei prigioni di alta sicurezza in Svizzera, con persone che non hanno futuro”, rileva Ueli Hostettler. Ciò implica un conflitto tra la tradizionale logica carceraria basata sulla punizione e la riabilitazione, ma non sui bisogni dei detenuti, e la logica dell’attenzione e dell’assistenza imposta da una popolazione carceraria di età avanzata. Il personale carcerario stesso non ha la formazione necessaria per soddisfare le nuove esigenze, per le quali non esistono linee guida specifiche. “Le carceri mancano di infrastrutture adeguate e di personale qualificato, non ci sono sezioni appositamente adattate per i prigionieri morenti e, oltretutto, la morte naturale non è riconosciuta nei regolamenti, nei processi e nelle pratiche carcerarie”, spiega Ueli Hostettler. “Non esiste una legislazione specifica sulla fine della vita in prigione”, aggiunge l’esperto. Molti prigionieri temono che la loro ultima ora possa arrivare nella solitudine delle loro celle o durante gli spostamenti tra l’ospedale e la prigione. Ciò non è dignitoso”. Requisiti di sicurezza - Esistono possibilità legali per rilasciare i detenuti alla fine della loro vita (articoli 80 e 92 del codice penale), ma “le autorità responsabili preferiscono non correre rischi. La società esige sicurezza totale e nessuna recidiva, ma queste non esistono al 100%”, prosegue l’antropologo. Hostettler fa notare che l’assistenza medica per i detenuti in età adulta risponde principalmente ai casi di incidenti, che vengono trattati in regime ambulatoriale. Per quanto riguarda i decessi, essi sono dovuti principalmente a omicidi o suicidi e rappresentano un fallimento nel sistema carcerario. Ma tra i detenuti più anziani i problemi di salute sono spesso di altro tipo, più acuti, cronici e mortali. Ci sono prigioni con medici sul posto. Altri usano medici locali. Gli ospedali universitari di Ginevra, Losanna e Berna dispongono di unità protette per il trattamento e la convalescenza dei detenuti. Tuttavia, coloro che sono considerati pericolosi non sono in grado di accedere a trattamenti specifici, quali le cure palliative, come il resto della popolazione. Principio di equivalenza - “La norme legali svizzere stabiliscono che l’unica cosa limitata ai detenuti è la libertà di circolazione, ma che tutto il resto deve essere equivalente, compreso il sistema sanitario”, dice Ueli Hostettler. Tuttavia, sia dal punto di vista medico che in altri settori, la prevalenza della sicurezza impone restrizioni significative, cosicché i detenuti ritenuti pericolosi non vengono rilasciati per trascorrere gli ultimi giorni a casa o trasferiti in case di riposo per anziani o in altri istituti appropriati. “Se, per motivi di sicurezza, i prigionieri non possono essere seguiti alla fine della loro vita in unità specifiche fuori dal carcere, queste unità devono essere create all’interno”, dice Ueli Hostettler. Dibattito pubblico necessario - Secondo l’antropologo vi è quindi un’urgente necessità di formare il personale carcerario, di definire orientamenti chiari e, soprattutto, di sensibilizzare l’opinione pubblica. “Se il bisogno di sicurezza porta ad un aumento del numero di persone che invecchiano e muoiono in prigione, questa responsabilità deve essere assunta”, sottolinea Hostettler. A tal fine, l’esperto ritiene urgente organizzare un dibattito pubblico: “Questo dibattito riguarda i nostri valori umanitari. Una società responsabile e democratica deve trovare una risposta. Non si possono inasprire le leggi senza reagire alle conseguenze”. Studio “Fine della vita in carcere” - Il progetto “Fine della vita in carcere - contesto giuridico, istituzioni e attori” è stato realizzato con metodi etnografici, studi di casi e analisi giuridiche da ricercatori delle Università di Berna e Friburgo (U. Hostettler, I. Marti, M. Richter, S. Bénard e N. Quelioz). Questo studio rientra nel Programma nazionale di ricerca Nrp67 “Fine della vita” (2012-2016) del Fondo nazionale svizzero per la scienza. Oltre a 60 interviste con autorità giudiziarie, detenuti e personale carcerario, sono state esaminate le condizioni di vita nelle carceri di Lenzburg e Pöschwies per un periodo di tre mesi. Egitto. Morte di un detenuto in carcere. Testimoni: è stato torturato amnesty.it, 24 agosto 2019 Amnesty International ha sollecitato le autorità egiziane a chiarire, attraverso un’inchiesta approfondita, rapida, indipendente e imparziale, le circostanze della morte di Hossam Hamed, 30 anni, detenuto nel carcere di massima di sicurezza di al-Aqrab (“Lo scorpione”) e in isolamento almeno dal 3 agosto. Hossan Hamed era stato trasferito ad al-Aqrab quattro mesi prima e da allora non aveva mai potuto vedere i familiari, in violazione dei regolamenti carcerari. Secondo tre testimoni, durante il periodo di isolamento in una “cella di disciplina”, Hossan Hamed era stato ripetutamente aggredito dai secondini. Per giorni aveva urlato e picchiato sulle porte della cella fino a quando non è pervenuto più alcun rumore. Quando i secondini hanno aperto la porta, lo hanno trovato morto. Aveva il volto gonfio, pieno di ferite e di sangue. “Le forze di sicurezza egiziane vantano un triste primato in termini di brutalità e restano quasi sempre impunite. Nelle prigioni la tortura è frequente e nessuno teme di subire conseguenze”, ha dichiarato Magdalena Mughrabi, vicedirettrice per il Medio Oriente e l’Africa del Nord di Amnesty International. Da luglio 2019 almeno altri tre detenuti sono morti nelle prigioni egiziane, per sospetti maltrattamenti e torture o per diniego di cure mediche adeguate. Le condizioni detentive nella prigione di al-Aqrab sono notoriamente pessime. A luglio circa 130 detenuti hanno avviato uno sciopero della fame per protestare contro il trattamento subito e il divieto di ricevere visite familiari. Secondo una dichiarazione dei detenuti in sciopero, la direzione del carcere ha disposto punizioni equivalenti a tortura. Israele. Prigionieri palestinesi ancora in sciopero della fame di Gianni Sartori Ristretti Orizzonti, 24 agosto 2019 L’annuncio risale alla sera del 21 agosto. La sezione penitenziaria del Fronte popolare per la Liberazione della Palestina informava che altri prigionieri entravano in sciopero della fame per tre giorni in sostegno di Huzaifa Halabiya e degli altri palestinesi in sciopero della fame illimitato. Al momento, 24 agosto, Hazaifa (imprigionato in “detenzione amministrativa” senza accuse e senza processo dal 10 giugno 2018) è ormai al 56° giorno di digiuno. La sua salute già precaria (è sopravvissuto alla leucemia e da bambino ha subito gravi ustioni) richiede cure mediche urgenti e specialistiche. Al momento dell’arresto sua moglie era incinta e lui non ha mai avuto la possibilità di incontrare la figlioletta Majdal. Altri otto detenuti stanno mettendo in pratica la medesima protesta e in oltre cinquanta hanno preso parte a scioperi temporanei di solidarietà. Già il 30 luglio una ventina di prigionieri si erano uniti alla protesta di quelli in “detenzione amministrativa”. Questo gruppo di 20 era coordinato da Wael Jaghoub, esponente del Fplp. Come ritorsione le forze di sicurezza avevano perquisito e devastato le sezioni 10 e 13 in cui sono rinchiusi i militanti del Fplp, minacciandoli di ulteriori trasferimenti. Dall’inizio della protesta si sono già tenute diverse manifestazioni,. In particolare a Gaza nell’ufficio dell’Alto Commissariato ai diritti umani e davanti alla prigione di Ofer. Uno sciopero generale (soprattutto tra i commercianti) si era invece svolto a Eizariya e Abu Dis (Gerusalemme). Qui in precedenza c’era stata anche una manifestazione a cui avevano partecipato centinaia di persone. Ma veniva duramente repressa con gas lacrimogeni, granate assordanti e proiettili di gomma (in realtà di metallo e solo rivestiti di gomma). Un ulteriore comunicato dei prigionieri chiamava “tutti gli abitanti della Cisgiordania, di Gerusalemme, di Gaza, della Palestina occupata dal 1948 e dei campi dei rifugiati della diaspora a testimoniare che noi conduciamo insieme una battaglia, quella della libertà e della vittoria”. Si chiedeva inoltre che il ministro per la sicurezza pubblica - Gilad Erdan - e altri funzionari israeliani responsabili delle ingiuste “detenzioni ammnistrative”, siano sottoposti al giudizio di una corte internazionale “per i loro crimini contro i prigionieri e contro l’intero popolo palestinese”. Il comunicato proseguiva con una richiesta precisa, ossia che “ il Comitato internazionale della Croce Rossa e altri organismi internazionali si assumano le loro responsabilità nei confronti dei prigionieri”. Tali istituzioni infatti “non possono rimanere in silenzio”. Oltre a Huzaifa Halabiya sono in sciopero della fame illimitato: Ahmad Ghannam, anch’egli sopravvissuto alla leucemia e ovviamente in “detenzione amministrativa”; De Dura, padre di due figli; Ismail Ali, ugualmente padre di due figli e arrestato - sempre senza accuse - nel gennaio di quest’anno; Sultan Khallouf, proveniente da Burqin, un villaggio nei pressi di Jenin; il ventenne Wajdi al-Awawdeh in prigione dall’aprile 2018; Tareq Qa’adan di Jenin, già incarcerato per 11 anni; Nasser al-Jada e Thaer Hamdan. Tutti loro - ripeto - sono in “detenzione amministrativa”, una pratica introdotta in Palestina all’epoca del mandato coloniale britannico e poi mantenuta da Israele. In base a tale norma i palestinesi possono essere condannati a sei mesi di detenzione senza accuse e senza processo. Inoltre tale ordinanza è rinnovabile, praticamente all’infinito, per anni. Su un totale di circa 5mila prigionieri palestinesi attualmente sono circa 500 quelli in tale condizione. I prigionieri in sciopero della fame vengono sottoposti a repressione, angherie di vario genere: continui trasferimenti, isolamento, privazione del sonno. E ovviamente le loro condizioni di salute sono peggiorate con perdita di peso, vomito, difficoltà nei movimenti, dolori articolari, problemi respiratori e alterazione della frequenza cardiaca. Samidoun, rete internazionalista di solidarietà con i prigionieri palestinesi, ha chiesto a tutti coloro che si sentono solidali con il popolo palestinese di intraprendere manifestazioni, sit in, conferenze e petizioni per esprimere adeguatamente la vicinanza nei confronti di questi coraggiosi prigionieri in lotta per la giustizia e la libertà. Russia. Navalny liberato sfida Putin: “le proteste cresceranno” di Giuseppe Agliastro La Stampa, 24 agosto 2019 Aleksey Navalny esce dal carcere e sfida subito Putin. L’oppositore russo è tornato in libertà ieri mattina dopo aver trascorso 30 giorni dietro le sbarre. Il motivo della condanna è palesemente politico: ha spronato i suoi sostenitori a manifestare in nome di elezioni libere. La reclusione, l’ennesima per Navalny, non ha però di certo spento lo spirito battagliero del blogger anti-Putin. Anzi. Non appena messo piede fuori dal centro di detenzione, Navalny ha subito promesso che “l’onda delle proteste continuerà a crescere e il regime si pentirà di quello che ha fatto”. Navalny è uscito dal carcere col sorriso sulle labbra, salutato dall’”urrà” di un gruppo di fedelissimi. Durante il periodo di detenzione ha passato 18 ore in ospedale per una misteriosa “allergia” che alcuni sospettano sia stato un avvelenamento. Le manifestazioni in piazza È ormai da un mese e mezzo che la gente scende in piazza a Mosca contro l’esclusione dei dissidenti dalle elezioni comunali del prossimo 8 settembre. Da otto anni in Russia non si vedevano proteste così massicce. Ma la risposta delle autorità è sempre la stessa: repressione. Navalny è stato arrestato proprio per aver incitato i moscoviti a prendere parte a una di queste manifestazioni: quella del 27 luglio, poi soffocata dalla polizia a manganellate e con una caterva di arresti. Nonostante le violenze degli agenti, gli investigatori russi hanno preso di mira i dimostranti e hanno aperto un’inchiesta per “disordini di massa”. Una decina di persone è finita in carcere e rischia ora fino a otto anni di reclusione. Anche il Fondo Anticorruzione di Navalny sta avendo guai con la giustizia che puzzano di vendetta politica: i conti dell’ente sono stati infatti congelati nell’ambito di una misteriosa inchiesta per riciclaggio di denaro. Secondo il trascinatore delle proteste, c’è un motivo ben chiaro se le autorità hanno deciso di ricorrere al pugno di ferro: “Non hanno il sostegno della gente, lo sentono e hanno paura”, ha spiegato Navalny ai giornalisti fuori dal carcere. Il Cremlino - ha proseguito - cerca di strozzare il dissenso con “atti intimidatori e di terrore”, e questo dimostra che siamo nella “fase finale di degrado di questo regime che si basa su menzogne e falsificazioni”. I problemi economici stanno facendo crescere il malcontento, abbattendo la popolarità di Putin. Il rating di approvazione del presidente russo resta alto, sopra il 60 per cento, ma è ormai ben lontano dall’86 per cento toccato nel 2015. Hong Kong. T-shirt nere e maschere color lillà, così ci si veste per la rivoluzione di Valeria Palumbo Corriere della Sera, 24 agosto 2019 L’esito è drammaticamente incerto. Ma una cosa è sicura: i giovani ribelli di Hong Kong hanno già cambiato l’estetica e il linguaggio delle rivolte. Lasciano la strada più pulita di come l’hanno trovata: dietro a ogni corteo, a Hong Kong, ci sono volontari che raccolgono eventuali cartacce, bottigliette di plastica o rifiuti. Può sembrare un dettaglio. Ma non lo è. Perché su una cosa i giovani che in questo periodo sfidano il gigante cinese nel nome della democrazia non hanno dubbi: amano la loro città-stato e vogliono salvaguardarla per il futuro. In barba a quello che sostengono i loro detrattori. Anche le barricate sembrano ordinate: le costruiscono con le transenne e i bambù usati per le impalcature (perfino dei grattacieli), allineati ai lati delle strade. Poi si mettono a deviare il traffico, offrendo spiegazioni gentili agli automobilisti, che non sempre la prendono benissimo. Le divise come gli abiti delle bambole di carta. Il giorno dello sciopero generale, il 5 agosto, ci sono stati tafferugli con i pendolari nelle stazioni della metropolitana bloccate. In generale però nelle mobilitazioni del fine settimana gli abitanti di Hong-Kong partecipano con tutta la famiglia alle proteste per la cancellazione della legge sull’estradizione in Cina, le dimissioni della governatrice Carrie Lam, l’istituzione di una commissione sull’operato della polizia e libere elezioni. Così, con l’ironica creatività che li caratterizza, in occasione di un raduno a Victoria Park, alcuni volontari hanno distribuito anche insoliti volantini con tutte le istruzioni su come andare vestiti “alla rivoluzione”, poliziotti e provocatori compresi. I modellini sono costruiti come gli abiti delle bambole di carta, seguendo un’estetica un po’ retro che rivela un gusto e una sapienza grafica che sono un altro segno distintivo di questa coraggiosa ribellione. Consapevoli, non solo in apparenza - Nell’indicare come ci si veste per la ribellione, i giovani di Hong Kong sembrano riecheggiare il titolo di un celebre monologo italiano del 1973 di Umberto Simonetta: Sta per venire la rivoluzione e non ho niente da mettermi. Lo recitava Livia Cerini, che interpretava Paola Sangalli, una giovane approdata a Milano che provava una seduta psicoanalitica. Tra dialetto e slang giovanile, il testo metteva alla berlina vizi e manie della gioventù “fricchettona”, un po’ impegnata e un po’ snob. In realtà, a parte che, pur nella loro cultura cosmopolita è ben difficile che i manifestanti abbiano in mente l’opera, di “fricchettone” hanno ben poco. I rischi che corrono sono reali. E ne sono consapevoli. A differenza dei loro coetanei della Cina “Mainland”, con cui pure hanno scambi frequenti perché il confine è a due passi e i passaggi frequenti, conoscono bene la storia. “Siamo la prima linea” - Non solo sanno come andò a finire ai manifestanti di piazza Tienanmen, massacrati nella notte tra il 3 e il 4 giugno 1989. Ma sanno tutto della caduta del Muro di Berlino e del successivo crollo del sistema sovietico e del Patto di Varsavia. E non si fanno troppe illusioni: “Allora l’Unione Sovietica era in pieno declino, è bastata una spallata”, ci spiega una coppia di ragazzi, bellissimi, che aspetta seduta su una panchina dell’H.K. Cultural Center, sulla punta di Kowloon, la carica della polizia. “La Cina è ancora al suo apice. Ma verrà la crisi economica. Magari tra dieci anni. Noi siamo la prima linea”, aggiungono coraggiosi e un po’ tristi. Montando gli scudi colorati di gomma - “Finora la Cina ha dimostrato che gli Stati Uniti avevano torto o avevano bleffato: esportare il capitalismo non significa esportare democrazia. Anzi: il capitalismo convive benissimo con i regimi autoritari”. Poi sorridono: “Avete paura?”. Rispondiamo che no, anche in Occidente, alle manifestazioni, la polizia non fa tanti sconti. Intorno però sembra tutto tranquillo: perfino i compagni che intorno allestiscono le barricate e montano gli scudi colorati di gomma sembrano sereni. “Come fate a sapere che caricheranno?”, chiediamo. “Lo fanno sempre: magari quando voi stranieri andate a letto, così evitano troppi problemi”. La grafica della Rivoluzione - Eppure perfino i turisti più sbadati che magari sbarcano a Hong Kong soltanto per andare a giocare nei casino di Macao, non possono non accorgersi che la città è tappezzata di manifesti, post-it, foglietti, volantini, ironici e colorati che uniscono, alla bellezza degli ideogrammi, delle foto e dei disegni, slogan ironici ma anche battaglieri. Gli stessi che vengono gridati durante le manifestazioni. Tipo “Rivoluzione, ora!”, che suona comunque sconvolgente se gridata in faccia a quei cinesi che almeno fino al 1976, anno della morte di Mao, hanno ripetuto il suo slogan sulla “Rivoluzione permanente”. L’utopia ordinata - Se dunque l’esito di queste proteste è quanto mai incerto, nell’osservare la determinazione, la compostezza e perfino l’eleganza di questi ragazzi viene davvero da pensare che la democrazia non è un abito logoro, né la libertà uno slogan vintage o tanto meno sgangherato. Così alla domanda che un cartellone pubblicitario, involontariamente, pone ai manifestanti che ce lo indicano (A che cosa assomiglia la tua rivoluzione?), i ragazzi di Hong Kong sanno che cosa rispondere. Sotto i loro ombrelli colorati, tra ginocchiere in tinta con le t-shirt nere, elmetti gialli, maschere antigas lillà, cellulari onnipresenti dalle suonerie improbabili e una marea di foglietti colorati, appiccicati con incredibile “sense of humour” un po’ ovunque (perfino lungo le mura del più frequentato tempio di Hong Kong, quello taoista di Wong Tai Sin, dove si predice e si augura la buona fortuna), questi giovani ribelli appaiono anni luce lontani dai loro predecessori occidentali degli anni Sessanta e Settanta. E invece ne condividono un principio fondamentale: a volte le utopie cambiano la storia. Hong Kong. Il mistero del consolato apre la crisi Londra-Pechino di Filippo Santelli La Repubblica, 24 agosto 2019 Dipendente della sede britannica arrestato dai cinesi: veri reati o pressione sugli inglesi? Prigioniero politico o frequentatore di prostitute? A due settimane dalla sua misteriosa sparizione, dopo le proteste della famiglia e delle autorità britanniche, Pechino ha dato un motivo per l’arresto di Simon Cheng. Il 28enne cittadino di Hong Kong, dipendente del Consolato inglese in città, è stato preso in custodia perché lo scorso 8 agosto, durante una trasferta di lavoro a Shenzhen, appena oltre il confine con la Cina continentale, avrebbe pagato per fare sesso. Ma la notizia diffusa ieri, anziché chiarire, agita ancora di più i sospetti. Perché la prostituzione è usata spesso dalle autorità comuniste per incastrare personaggi sgraditi, corrotti o oppositori vari, adescati o del tutto innocenti. E il sospetto di molti a Hong Kong è che questo arresto sia un doppio avvertimento: ai manifestanti e a Londra, che ha espresso loro (un timido) supporto. Lo pensa la famiglia di Cheng, che ha definito l’accusa “fabbricata”. Alcuni amici lo descrivono a Repubblica come un ragazzo “puro”, “molto cauto nell’esprimere le proprie posizioni” ma pro-democrazia, quindi un potenziale bersaglio. Cheng ha inviato l’ultimo messaggio alla fidanzata, la prima a denunciarne la sparizione, sul treno di ritorno verso Hong Kong. Un messaggio di paura: “Pronto a passare il confine. Prega per me”. Se la versione cinese fosse vera, contestano molti, perché arrestarlo alla frontiera e non a Shenzhen? Secondo Hu Xijin invece, acuminato direttore del quotidiano di Rohingya, a due anni dalla pulizia etnica la minaccia del ritorno in Myanmar di Riccardo Noury Corriere della Sera, 24 agosto 2019 Domani, domenica 25 agosto, ricorre il secondo anniversario dell’avvio delle operazioni militari dell’esercito di Myanmar nello stato di Rakhine contro i rohingya, uno delle decine di gruppi etnici del paese, di religione musulmana e, caso unico, privo di cittadinanza. La campagna militare fu caratterizzata da atrocità tali che le Nazioni Unite hanno parlato di crimini contro l’umanità e di possibile genocidio. La purga omicida di centinaia di villaggi abitati dai rohingya nel nord dello stato di Rakhine nella seconda parte del 2017 ha causato, secondo una Missione di accertamento dei fatti delle Nazioni Unite, l’uccisione di almeno 10.000 uomini, donne e bambini rohingya e l’esodo di oltre 740.000 persone in Bangladesh, dove tuttora si trovano. Nel giugno 2018 un rapporto di Amnesty International ha fatto i nomi di 13 ufficiali delle forze di sicurezza fino al vertice della catena di comando rappresentata dall’alto generale Min Aung Hlaing che dovrebbero essere processati per crimini contro l’umanità. L’Unione europea ha imposto sanzioni mirate su 11 di questi 13 militari. Ciò nonostante, i generali che ordinarono gli attacchi contro i rohingya sono ancora al loro posto. I rohingya rimasti in Myanmar vivono sotto un regime di apartheid, confinati in campi sovraffollati e in villaggi che di fatto sono delle prigioni a cielo aperto, privati della libertà di movimento e fortemente limitati nell’accesso all’istruzione e alle cure mediche. Le terre di quelli fuggiti sono state in buona parte confiscate dall’esercito. In Bangladesh si trovano attualmente oltre 900.000 rohingya (il numero comprende quelli fuggiti a seguito di precedenti ondate di violenza), che vivono in campi per rifugiati dove subiscono forti restrizioni: ad esempio non possono lavorare né muoversi liberamente e i bambini non possono andare a scuola. Sin dalla fine del 2017 Bangladesh e Myanmar hanno annunciato di aver raggiunto accordi per il rimpatrio dei rohingya. Queste dichiarazioni hanno seminato il panico tra i rifugiati. Il ricordo degli omicidi, degli stupri e degli incendi dei villaggi è ancora fresco. In Myanmar non vi sono le minime condizioni per un ritorno in sicurezza e in dignità dei rifugiati. Le loro terre sono state devastate, i loro villaggi e campi incendiati e tutti gli aguzzini sono ancora al loro posto.