Il percorso educativo con i carcerati del progetto Cec di Giorgio Paolucci Avvenire, 23 agosto 2019 Sentirsi amati e perdonati, così il riscatto è possibile. Un uomo non è il suo errore. Paolo Cevoli aveva diciassette anni quando sentì pronunciare questa frase dal suo insegnante di religione al liceo scientifico di Riccione, don Oreste Benzi. Quarant’anni dopo ha riletto queste parole nella Casa Madre del perdono di Rimini, dove i figli spirituali del prete romagnolo accolgono detenuti che stanno finendo di scontare la pena e cercano un riscatto personale. E da quel giorno è iniziata un’amicizia con i figli di Benzi, i volontari della Comunità Papa Giovanni XXIII, che l’altra sera è andata in scena al Meeting di Rimini, in un incontro dove i ricordi e le esilaranti gag del comico hanno accompagnato con leggerezza le testimonianze di alcuni ospiti della Casa. Esistenze cambiate da un incontro, come è accaduto ad Andrea e Giovanni al Lago di Tiberiade, e poi a Zaccheo, alla Samaritana, alla Maddalena e a milioni di persone fino a oggi. Volti che si illuminano perché qualcuno li guarda con amore, scommettendo sulla loro volontà di cambiamento. Davanti a un pubblico commosso si è declinato il titolo del Meeting, ispirato a una poesia di Wojtyla: “Nacque il tuo nome da ciò che fissavi”. Daniele, figlio di genitori separati, se ne va di casa e si arruola nella criminalità, cercando le gratificazioni che non aveva trovato in famiglia. Riccardo, abbandonato dal padre alla nascita, sfoga la rabbia che cresce in corpo facendo rapine. Adolfo sceglie il guadagno facile e procura morte a decine di giovani spacciando eroina a Scampia. Per tutti la fine della storia sembra scritta nel buio di una cella. Finché incontrano la possibilità di accendere la luce aderendo al progetto Cec (Comunità educante con i carcerati), nata per dare corpo alle parole di don Benzi, che di vite fallite e poi rifiorite ne aveva viste tante: l’uomo non è il suo errore. Ai detenuti viene proposta una ospitalità in strutture comunitarie dove, accompagnati da volontari, possono sperimentare una convivenza sul modello familiare e momenti di formazione professionale, dentro un’esperienza di fede con cui liberamente misurarsi. “Sentirsi amati e perdonati è la molla del cambiamento - chiosa Cevoli. Non è così anche per tutti noi?”. Rimosso il divieto di ricevere stampa locale per il detenuto al 41bis ilpenalista.it, 23 agosto 2019 Con sent. n. 35766/2019, la Prima Sezione della Cassazione ha ribadito il seguente principio: “il diritto a ricevere pubblicazioni della stampa periodica costituisce declinazione del più generale diritto a essere informati, a sua volta riconducibile alla libertà di manifestazione del pensiero, di cui costituisce una sorta di precondizione; sicché esso trova una diretta copertura costituzionale negli artt. 2 e 21 Cost. (così Corte cost., n. 112/1993; Corte cost., n. 826/1988; Corte cost., n. 148/1981) e, a livello convenzionale, nell’art. 10 Cedu”. Le relative restrizioni, sancita ai sensi dell’art. 18-ter ord. pen., applicabili anche al regime differenziato di cui all’art. 41bis ord. pen., per evidenti ragioni preventive: con riguardo alla stampa locale, la ratio del divieto si muove nella direzione di evitare che il detenuto possa continuare a mantenere il proprio status sociale all’interno della consorteria criminale attraverso l’aggiornamento e messaggi più o meno criptati provenienti dall’esterno, contenuti nella cronaca nera locale. Per quanto legittime, trattandosi comunque di provvedimenti che incidono su diritti fondamentali, deve escludersi, che le limitazioni in questione possano essere basate sulla ricorrenza di una situazione di “mero sospetto”, essendo necessario che ricorrano concreti elementi di valutazione idonei a conferire un adeguato coefficiente di oggettività alle ragioni poste alla base del richiesto controllo. Sulla mancata comparizione in udienza dell’imputato detenuto di Tullio D’Elisiis diritto.it, 23 agosto 2019 Corte di Cassazione - I sez. pen. - Sentenza n. 26704 del 17.06.2019. La mancata comparizione in udienza dell’imputato detenuto, che abbia rinunciato ad essere presente, non dà luogo a contumacia ma a mera assenza. Il Tribunale di Pistoia, in funzione di giudice dell’esecuzione, rigettava l’istanza proposta nell’interesse di C. G. con cui si chiedeva la sospensione dell’ordine di esecuzione emesso con riferimento alla condanna alla pena di anni uno e mesi due di reclusione ed euro 300 di multa. Secondo il Giudice, esattamente non era stato notificato all’imputato l’estratto contumaciale della sentenza di condanna poiché l’imputato, già dichiarato contumace, non era comparso all’udienza fissata dopo la richiesta di rinvio per legittimo impedimento, condotta che equivaleva ad una rinunzia a partecipare al processo. In particolare, all’udienza del 15/1/2013, C. risultava detenuto per altra causa e la difesa aveva ottenuto il rinvio dell’udienza per legittimo impedimento mentre successivamente era stato scarcerato in conseguenza della concessione della misura alternativa dell’affidamento in prova al servizio sociale e, quindi, si trovava in regime di libertà ma non era comparso all’udienza fissata, all’esito della quale, era stata pronunciata la sentenza. I motivi addotti nel ricorso per Cassazione - Ricorreva per cassazione il difensore di C. G. deducendo violazione di legge e vizio di motivazione con riferimento al rigetto dell’istanza di restituzione nel termine per impugnare. Il ricorrente osservava a tal riguardo che, alla data dell’udienza del 15/1/2013, lo stesso era detenuto e, quindi, esattamente era stato riconosciuto il legittimo impedimento a comparire seppure lo stato di detenzione fosse stato comunicato informalmente dal difensore mentre, all’udienza successiva del 14/5/2013, nella quale era stata pronunciata la sentenza, si trovava in affidamento in prova al servizio sociale presso una Comunità. Ciò posto, si faceva altresì presente come non emergeva da alcun atto che l’imputato avesse avuto conoscenza dell’udienza di rinvio fissata cosicché non era giustificabile la revoca della dichiarazione di contumacia e la dichiarazione di assenza. A fronte di tale stato delle cose, il ricorrente, una volta richiamava la norma dell’art. 175, comma 2 bis cod. proc. pen. sulla restituzione nel termine per proporre impugnazione ad una sentenza, sottolineandosi al contempo l’inversione dell’onere della prova relativa alla conoscenza del processo, sosteneva che l’estratto contumaciale avrebbe dovuto essere notificato all’imputato che non aveva mai rinunciato ad intervenire nel processo. Le valutazioni giuridiche formulate dalla Cassazione - Il ricorso veniva ritenuto fondato sebbene per un motivo differente ed assorbente rispetto a quello esposto in ricorso che a sua volta comportava l’annullamento con rinvio dell’ordinanza impugnata. Si osservava a tal proposito prima di tutto come l’incidente di esecuzione promosso nell’interesse di G. C. avesse ad oggetto la contestazione della irrevocabilità della sentenza di condanna ai sensi dell’art. 670, comma 1, cod. proc. pen. in ragione del mancato decorso del termine per l’impugnazione a sua volta dipendente dall’omessa notifica dell’estratto contumaciale e, pertanto, le deduzioni concernenti l’applicazione dell’art. 175 cod. proc. pen. svolte dal ricorrente erano ritenute dalla Corte estranee all’oggetto del procedimento stante il fatto che, in realtà, la difesa di C. non chiedeva di essere restituita nel termine per impugnare (istanza che avrebbe presupposto l’esistenza di un termine già scaduto) ma deduceva la mancata decorrenza del termine per l’impugnazione in ragione del mancato rispetto del dettato dell’art. 548, comma 3 cod. proc. pen. e, quindi, la non irrevocabilità della sentenza di condanna. Premesso ciò, gli ermellini rilevavano come non apparisse convincente l’argomentazione dell’ordinanza impugnata in ordine all’esattezza della qualificazione dell’imputato come “assente”, e non più contumace, adottata all’udienza dibattimentale del 14/5/2013 fermo restando che tale diversa qualificazione risultava essere decisiva poiché in tale udienza venne pronunciata la sentenza di condanna nei confronti dell’imputato e il cancelliere non eseguiva la notifica dell’estratto contumaciale prevista dall’art. 548, comma 3 cod. proc. pen. previgente dato che l’intera vicenda processuale ricade sotto il vigore della normativa anteriore alla disciplina introdotta dalla legge n. 67 del 2014. Chiarito tale aspetto processuale, i giudici di piazza Cavour evidenziavano - una volta fatto presente che, ai sensi dell’art. 420 quater, comma 3, cod. proc. pen., se l’imputato dichiarato contumace compare in udienza, il giudice revoca l’ordinanza che ha dichiarato la contumacia - come, nel caso in esame, l’imputato era stato dichiarato contumace mentre, all’udienza del 15/1/2013, era stato dichiarato il legittimo impedimento in quanto costui era detenuto mentre, all’udienza successiva, lo stesso, non più detenuto, ma in stato di affidamento in prova al servizio sociale, non era comparso e, di conseguenza, l’imputato non era mai comparso in udienza ma il Tribunale di Pistoia aveva revocato la dichiarazione di contumacia ritenendo che la mancata comparizione all’udienza fissata dopo la richiesta di rinvio per legittimo impedimento equivalesse ad una rinuncia a presenziare al processo. Detto questo, si denotava inoltre che, per confermare tale conclusione, il giudice dell’esecuzione avesse richiamato il principio secondo cui, all’imputato già dichiarato contumace che, indipendentemente dalla revoca formale dell’ordinanza dichiarativa della contumacia, risulti, alle successive udienze, rinunciante a comparire non è dovuta la notifica dell’estratto della sentenza, neanche nel caso in cui questa indichi erroneamente come attuale lo stato di contumacia (Sez. 1, n. 20463 del 27/01/2015 - dep. 18/05/2015, omissis, Rv. 263569) specificandosi altresì che, come ben si comprendeva dalla motivazione di quella sentenza, la pronuncia concerneva un imputato, già dichiarato contumace, che risultava essere stato detenuto per altra causa e che aveva fatto pervenire rinuncia a comparire per le udienze successive e, in effetti, ai sensi dell’art. 420 quinquies cod. proc. pen., non si applicano le disposizioni sulla contumacia se l’imputato detenuto rifiuta di assistere all’udienza posto che la rinuncia a comparire dell’imputato detenuto equivale alla sua assenza volontaria a norma dell’art. 420 quinquies cod. proc. pen., nel testo vigente al tempo del processo in esame e, quindi, giustifica la revoca della dichiarazione di contumacia; in altri termini, la revoca della contumacia interviene non solo nel caso di successiva comparizione in udienza dell’interessato ma anche in quello di espresso rifiuto di assistervi da parte dell’imputato detenuto. Del resto, a sostegno di quanto appena esposto, il Supremo Consesso metteva in risalto il fatto come anche recentemente fosse stato ribadito che la mancata comparizione in udienza dell’imputato detenuto, che abbia rinunciato ad essere presente, non dà luogo a contumacia ma a mera assenza con la conseguenza che, in tal caso, non sussiste alcun obbligo di notifica dell’avviso di deposito della sentenza previsto solo per l’imputato contumace (Sez. 4, n. 22079 del 12/04/2018). Orbene, declinando tale principio di diritto rispetto al caso di specie, i giudici di legittimità ordinaria osservavano come lo stesso giudice dell’esecuzione avesse dato atto che, alla data del 14/5/2013, data di celebrazione dell’ultima udienza, l’imputato non era più detenuto essendo sottoposto alla misura alternativa dell’affidamento in prova al servizio sociale rilevandosi al contempo che l’ordinanza de qua avesse richiamato la giurisprudenza costante della Suprema Corte secondo cui non costituisce legittimo impedimento dell’imputato a comparire il fatto che egli, essendo sottoposto ad affidamento in prova al servizio sociale, non abbia ottenuto, pur avendone fatto richiesta, l’autorizzazione a partecipare all’udienza atteso che l’affidamento in prova al servizio sociale è una modalità del trattamento in regime di libertà e non già una misura restrittiva della libertà personale per cui il soggetto che vi è sottoposto non deve chiedere alcuna autorizzazione per comparire ad un’udienza essendo solo tenuto a darne tempestiva notizia al servizio sociale (Sez. 1, n. 19216 del 30/11/2015; Sez. 2, n. 13493 del 18/03/2005). Tal che se ne faceva conseguire che - anche prescindendo dalla mancata prova della conoscenza da parte dell’imputato della data dell’udienza - l’assenza dell’imputato all’udienza del 14/5/2013 non poteva portare alla revoca (espressa o tacita) della dichiarazione di contumacia perché non ne ricorrevano le condizioni: l’imputato non era comparso, non era detenuto e quindi non aveva espresso il rifiuto di assistere all’udienza, né aveva chiesto o consentito che l’udienza avvenisse in sua assenza. In sostanza, se il giudice dell’esecuzione sembra ritenere che la richiesta di rinvio per legittimo impedimento, avanzata all’udienza precedente in forza dello stato di detenzione dell’imputato, avesse la valenza di richiesta di partecipare al processo e, quindi, sortisse l’effetto di rendere inefficace la dichiarazione di contumacia in precedenza adottata, invece, il mutamento dello stato dell’imputato, da contumace ad assente, aveva fatto venire meno l’obbligo di notificargli l’estratto contumaciale della sentenza e tale valutazione non poteva che essere formale non essendo possibile ampliare i casi di revoca della dichiarazione di contumacia previsti dal codice di rito sulla base di un’argomentazione sostanziale. Conclusioni - La sentenza in commento è assai interessante nella parte in cui si afferma che la rinuncia a comparire dell’imputato detenuto equivale alla sua assenza volontaria a norma dell’art. 420 quinquies cod. proc. pen., nel testo vigente al tempo del processo in esame, vale a dire quello in vigore prima della riforma introdotta con la legge n. 67 del 2014, e, quindi, giustifica la revoca della dichiarazione di contumacia essendo stato per l’appunto postulato che la revoca della contumacia interviene non solo nel caso di successiva comparizione in udienza dell’interessato ma anche in quello di espresso rifiuto di assistervi da parte dell’imputato detenuto. Tale criterio ermeneutico, tra l’altro, non rappresenta una novità nello scenario giurisprudenziale in quanto, come evidenziato in questa stessa pronuncia, già in precedenza la Corte di Cassazione aveva parimenti asserito che la mancata comparizione in udienza dell’imputato detenuto, che abbia rinunciato ad essere presente, non dà luogo a contumacia ma a mera assenza con la conseguenza che, in tal caso, non sussiste alcun obbligo di notifica dell’avviso di deposito della sentenza previsto solo per l’imputato contumace (Sez. 4, n. 22079 del 12/04/2018). Di talché ne discende che questa decisione non può non essere presa nella dovuta considerazione allorché si verifichino situazioni processuali analoghe a quella trattata in questo provvedimento. Omessi versamenti, il penale si evita dimostrandosi incapiente di Laura Ambrosi e Antonio Iorio Il Sole 24 Ore Omessi versamenti sempre con rilevanza penale salvo il contribuente non sia in grado di dimostrare l’impossibilità di reperire le risorse necessarie per eseguire il puntuale pagamento delle somme e il concreto personale impegno in tal senso. È questo, in estrema sintesi, l’orientamento ormai consolidato dei giudici di legittimità in tema di omessi versamenti di imposte, espresso anche nella sentenza numero 36378 del 21 agosto scorso. Si tratta di un tema particolarmente attuale in questo periodo di dichiarazioni e versamenti, tenendo peraltro presente che solo l’omesso versamento dell’Iva e delle ritenute - al superamento di determinate soglie - può costituire reato, mentre le omissioni relative all’Irpef, all’Ires e all’Irap dichiarata non assumono alcuna rilevanza penale. Omesso versamento di ritenute - La scadenza dell’invio del 770 (31 ottobre 2019) segna la data di consumazione del reato di omesso versamento delle ritenute dell’anno precedente (2018) se superiori a 150mila euro. È prevista così la reclusione da sei mesi a due anni per chi non versi entro questo termine le ritenute dovute sulla base della stessa dichiarazione oppure risultanti dalla certificazione rilasciata ai sostituiti, per un ammontare superiore a 150mila euro per ciascun periodo d’imposta. Questa fattispecie ha subito un’importante modifica nel corso del 2015. In passato la rilevanza penale era collegata all’omesso versamento, sempre entro il termine previsto per la presentazione della dichiarazione annuale di sostituto di imposta, delle ritenute risultanti dalle certificazioni rilasciate ai sostituiti. Dal 2015, invece, il delitto scatta a prescindere dal fatto che le omissioni risultino dalle certificazioni rilasciate ai sostituiti, essendo sufficiente che siano dovute in base alla dichiarazione. In tale contesto, le Sezioni unite della Corte di cassazione (sentenza 24782/2018) hanno chiarito che per gli illeciti consumati fino al 21 ottobre 2015 per provare il reato di omesso versamento delle ritenute di acconto per importi superiori a 150mila euro è necessario produrre le certificazioni rilasciate ai sostituiti non essendo sufficiente la sola dichiarazione 770. Per gli illeciti consumati successivamente (22 ottobre 2015), per provare il reato è invece sufficiente produrre anche la sola dichiarazione 770 che riporta le ritenute non versate. Reato omesso versamento Iva - La consumazione del delitto di omesso versamento Iva se di importo superiore a 250mila euro è rappresentata dalla scadenza per il pagamento dell’acconto Iva (normalmente il 27 dicembre). L’articolo 10 ter del Dlgs 74/00 sanziona con la reclusione da sei mesi a due anni, chiunque ometta tale versamento. I calcoli - Per esemplificare: se entro il 27 dicembre 2019 il contribuente versa una somma parziale del debito Iva 2018 così da scendere al di sotto dei 250mila euro non commette reato. Così per un’omissione di 280mila euro, versando entro il prossimo 27 dicembre la somma di 30.001 euro si scende sotto la soglia penale e quindi il reato non è commesso. Quindi entro il 27 dicembre di ciascun anno occorre versare il debito risultante dalla dichiarazione presentata per l’esercizio precedente normalmente indicato nel rigo VL32 e in tale valore, secondo la Corte di cassazione (sentenza n. 46953/2018), non devono essere considerati gli eventuali interessi dovuti. Nel caso di pagamenti successivi a tali scadenze si ottiene la non punibilità solo ove il debito tributario venga completamente estinto prima dell’apertura del dibattimento (sul punto si veda l’altro articolo in pagina). No al beneficio della tenuità del fatto per datore che non rispetta le norme antinfortunistiche Il Sole 24 Ore, 23 agosto 2019 Corte di cassazione - Sezione III penale - Sentenza 22 agosto 2019 n. 36319. Esclusa al tenuità del fatto per il datore di lavoro incensurato che non rispetta le norme antinfortunistiche, anche se è stato egli stesso esecutore materiale delle opere edili poste in essere sul tetto di un edificio senza i presidi di sicurezza e se ha adempiuto alle prescrizioni dell’organo di controllo, ma senza pagare la multa comminata al momento. Lo hanno affermato i giudici della terza sezione penale della Corte di cassazione con al sentenza n. 36319 di oggi. Il caso. La vicenda riguardava un imprenditore del settore edilizio condannato dal tribunale a pagare una ammenda di tre mila euro “per la violazione dell’articolo 159, comma 2, lettera a) del decreto legislativo 81/2008 in quanto pur avendo ottemperato alle prescrizioni impartitegli dall’organo di controllo conseguenti a violazioni delle normative antinfortunistica, non aveva provveduto al pagamento della relativa oblazione”. Esclusa al tenuità del fatto per il datore di lavoro incensurato che non rispetta le norme antinfortunistiche, anche se è stato egli stesso esecutore materiale delle opere edili poste in essere sul tetto di un edificio senza i presidi di sicurezza e se ha adempiuto alle prescrizioni dell’organo di controllo, ma senza pagare la multa comminata al momento. Lo hanno affermato i giudici della terza sezione penale della Corte di cassazione con la sentenza n. 36319 di oggi. Il ricorso del lavoratore. In sede di ricorso in Cassazione l’imprenditore “lamentava l’omessa motivazione in ordine alla richiesta di applicazione dell’articolo 131-bis del codice penale”, cioè il mancato riconoscimento dell’istituto della non procedibilità per fatto tenue, introdotto dal Dlgs 16 marzo 2015 n. 28. Nella sostanza, la misura prevista dall’articolo 131-bis del codice penale è finalizzata “a escludere dal circuito penale fatti che, proprio in quanto bagatellari, si palesano, in concreto, non meritevoli del ricorso alla pena” (si veda sul punto come precedente la Cassazione penale, sezioni Unite, 25 febbraio 2016, n. 13681, in Ced Cassazione, n. 266593). Nel caso specifico, infatti, il datore sosteneva che per l’ottenimento del beneficio egli aveva ottemperato alle prescrizioni impartitegli dall’organo di controllo. Ed inoltre egli contestava il trattamento sanzionatorio fissato in misura superiore al minimo edittale da parte del tribunale di primo grado. Le motivazioni della Cassazione. Per i giudici della Suprema corte - secondo quanto previsto dall’articolo 24 del Dlgs 758/1994 - “il mancato pagamento della somma prescritta in sede amministrativa non elimina, per effetto di un successivo adempimento, la contravvenzione già perfezionatasi in tutti i suoi elementi costitutivi al momento della contestazione, coincidente con il sopralluogo eseguito nel cantiere del competente organo di controllo”. Di conseguenza - per la terza sezione penale - “il tardivo adempimento alle prescrizioni dell’organo amministrativo resa un post factum del tutto neutro rispetto al disvalore anche in termini di offensività dell’illecito penale”. Alla luce della carente motivazione del ricorso dell’imputato - anche in relazione alla valutazione dell’assenza di precedenti penali - i magistrati hanno rigettato il ricorso. Reati tributari: la riduzione del debito non blocca il sequestro dei beni sottratti al fisco di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 23 agosto 2019 Corte di cassazione - Sezione III - Sentenza 22 agosto 2019 n. 36346. La riduzione del debito tributario da parte della commissione, non incide sul sequestro, e dunque sulla confisca, dei rami d’azienda alienati al solo scopo di sfuggire al fisco. La Corte di cassazione, con la sentenza 36346, respinge la richiesta di riesame, presentata dalla ricorrente sia in proprio sia in qualità di legale rappresentante di una Srl, che quale erano stati trasferiti quattro supermercati, messi sotto sequestro. Una misura adottata dopo aver verificato che l’alienazione era stata fatta con il fine di permettere alla società “cessionaria” di sottrarsi al pagamento delle maggiori imposte sui redditi e sul valore aggiunto accertati per un anno d’imposta dall’Agenzia delle entrate. Il passaggio di mano era avvenuto in favore della società della quale era legale rappresentante la ricorrente, madre degli indagati per i reati tributari. La donna aveva, a sua volta, stipulato due contratti di affitto con altre due Srl, entrambe amministrate dalla sorella degli indagati. La difesa chiedeva di rivedere la decisione sulla misura cautelare in virtù di un verdetto, con il quale la Commissione tributaria di Salerno, aveva accolto, parzialmente, il ricorso della società cessionaria in liquidazione, contro l’avviso di accertamento relativo alla sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte, facendo così venire meno la pretesa del Fisco. In ogni caso il tribunale avrebbe dovuto perlomeno rimodulare l’entità e il valore del sequestro tarandolo sulla minor somma rimanente del credito verso l’erario. Per la Cassazione non è così. I giudici della terza sezione penale ricordano che i beni immobili che appartengono ad un soggetto indagato per sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte, alienati per “far venire meno le garanzie di un’efficace riscossione dei tributi da parte dell’Erario, sono suscettibili di sequestro preventivo per la successiva confisca ai sensi dell’articolo 240, comma primo del Codice penale”. I beni sono, infatti, lo strumento con il quale è stato commesso il reato: ed è ininfluente la loro quantificazione anche come prezzo o profitto del delitto. Il profitto del reato non coincide, infatti, con l’importo delle somme non pagate ma con il valore del bene a garanzia dell’amministrazione finanziaria. Nello specifico i giudici chiariscono che la riduzione del credito nei confronti dell’erario non blocca la confisca di beni usati per commettere il reato contestato. A questo va aggiunta la considerazione che la sentenza della commissione tributaria, non definita, non ha annullato l’avviso di accertamento ma ne ha solo ridotto l’ammontare. La società che ha messo in atto la cessione fraudolenta resta dunque debitrice verso l’erario, che può attivare la procedura di riscossione che si era cercato di evitare con l’alienazione simulata. Scegliere l’altro. Una riflessione su Kundalini yoga e meditazione in carcere di Roberto Cagliero Ristretti Orizzonti, 23 agosto 2019 La pratica dello yoga in carcere risponde a varie necessità fisiche e mentali che la quotidianità dello stato di reclusione difficilmente riesce a soddisfare. Ci sono ovviamente problematiche ambientali, ad esempio l’abitudine a vivere in spazi ristretti, che finiscono per limitare un uso libero del movimento fisico. Chi vive in carcere sa che oltre una certa estensione ci sono ostacoli fisici che non permettono di andare. Non sono insoliti i casi di spaesamento tra gli allievi di un corso di yoga in carcere. Trovandosi improvvisamente in un contesto nel quale la libertà di movimento è garantita da spazi più ampi, non riescono comunque ad esprimersi se non frenando ad esempio gli arti. Vi è un’abitudine a contenersi per non colpire pareti, suppellettili o compagni di cella. In questi casi il kundalini yoga e la meditazione possono fornire strumenti molto efficaci per produrre nell’allievo un senso di espansione, evidentemente benefico sotto vari punti di vista. A partire da questa premessa l’insegnante di yoga in carcere deve rieducare alla libertà di movimento, modificando la sensazione dello spazio. Sempre sul piano del rapporto con l’ambiente circostante, gli allievi manifestano una polarità che si alterna tra una allerta e una distrazione egualmente eccessive. Ciò è dovuto da una parte all’impossibilità di vivere in modo rilassato, senza controllare continuamente il proprio contesto spaziale per anticipare eventuali pericoli o situazioni potenzialmente minacciose; e dall’altro dall’impossibilità altrettanto forte di concentrarsi su un presente traumatico e in grado di riattivare traumi passati, che spinge l’individuo nella direzione di una distrazione falsamente liberatrice. Anche qui le meditazioni del Kundalini Yoga possono contribuire a ridurre la polarità concentrazione/distrazione, attivando il sistema nervoso fino al punto in cui un comportamento positivo, contrassegnato da una maggiore apertura del cuore e da uno stato di allerta più basso, non sia più percepito come pericoloso o semplicemente dannoso. Tra i vari atteggiamenti che assumono gli allievi nelle prime lezioni si nota soprattutto la necessità di proteggersi, di non abbassare la guardia, il che non favorisce la pratica e tantomeno il riconoscimento dei suoi effetti benefici. In un universo potenzialmente problematico, chiedere a un allievo di rilassarsi, o iniziare una lezione con un semplice rilassamento, non è necessariamente una buona scelta: bisogna essere consapevoli dello stato emozionale in cui si muovono queste persone, tra l’altro molto abili a dissimulare disagi o paure. Un atteggiamento sicuro è infatti considerato fondamentale per la sopravvivenza in carcere, anche nel caso di istituti con un livello di violenza molto bassa (la violenza è soltanto uno degli elementi problematici nei rapporti tra detenuti). Chi vive in carcere è costantemente attento a quello che fa e a quello che dice, e alle possibili conseguenze delle sue parole e delle sue azioni. Esiste un regolamento invisibile, interiore, e dare l’impressione che possa essere fruttuosamente abbandonato nel contesto di una lezione di meditazione o di yoga è una delle prime cose da fare. Alcuni allievi faticano a togliersi le scarpe o a mettersi in posizioni rilassate, in cui si sentono indifesi. Inoltre si osserva spesso un sentimento nascosto di vergogna. Nell’immaginario del carcere (e non solo, ma qui di più), le pratiche yogiche sembrano studiate per signore annoiate o depresse, in ogni caso non per uomini e non per uomini che vivono in condizioni così particolari. Alcuni praticano “a metà” poiché sentono la necessità di non entrare in conflitto con la presunta impressione generalizzata che si tratti di pratiche demascolinizzanti. Un altro elemento potenzialmente problematico è la visione religiosa: in una classe si trovano tipicamente cattolici, protestanti, cristiani ortodossi e musulmani. Sono persone che possono in alcuni casi percepire nella pratica yogica, o in alcune sue espressioni come ad esempio l’uso dei mantra, un elemento religioso in conflitto con le loro credenze. L’insegnante di yoga in carcere deve avere presente la necessità di fare capire che non è un missionario e che non ha da vendere alcun pensiero religioso. I mantra vanno introdotti soltanto quando il gruppo riesce ad affidarsi a chi insegna. Bisogna poi tenere sempre in considerazione quello che potremmo chiamare effetto iceberg. Chi viene alla lezione arriva sorridente, riconoscente per la possibilità che gli viene offerta. Questo l’ho sempre constatato e non ho mai avuto un’impressione di falsità nell’atteggiamento dei partecipanti. Ma come arriva alla lezione? Quello che l’insegnante vede è soltanto la punta dell’iceberg. L’allievo potrebbe essere reduce da una comunicazione negativa dell’avvocato, da una udienza andata storta, da uno scontro con altri abitanti del carcere o con il personale, da una lettera che comunica un lutto o un problema che da dentro non si può affrontare. Oppure può essere in preda ai postumi dell’uso di sonniferi e calmanti, a cui la popolazione penitenziaria tende spesso a ricorrere. Giustificate o meno che siano, le emozioni che ne scaturiscono sono l’effetto di un trauma. L’insegnante di yoga non può credere totalmente a quello che vede, e questo non tanto per fare lo psicologo (pessima idea) ma per capire meglio come si muove la mente del gruppo che ha davanti a sé. Contemporaneamente bisogna evitare di trattare gli allievi come porcellane preziose: chi vive in carcere fa di tutto per avere e dare l’impressione di condurre una vita normale, e vedersi trattato con attenzione gli toglie questo piccolo piacere. Un’altra difficoltà (ce ne sono molte di più, che intendo affrontare con una argomentazione più articolata) è quella di assumersi la responsabilità del reato e a uscire dal loop colpa/rabbia. La resilienza parte di qui, e nonostante vari tentativi siano in corso anche in Italia (ad esempio con la giustizia riparativa), è difficile trovare in carcere allievi pronti a riconoscere quanto hanno attraversato, con tutte le sue componenti traumatiche. La parola d’ordine è “minimizzare”, fingere indifferenza per il proprio vissuto per poi cadere magari in un inutile e ininterrotto senso di colpa che schiaccia la responsabilità, sostituendola con un vittimismo a volte collerico. Con queste brevi note si vuole qui fare capire che un gruppo di meditazione o di yoga in carcere è da una parte uguale a un gruppo esterno, in cui ognuno porta le sfaccettature più diverse del proprio assetto psichico, fisico ed emozionale. Ma è anche molto diverso da un gruppo esterno poiché qui, nel carcere, tutto ciò che si manifesta è amplificato e contenuto in una cappa di pesantezza inequivocabile. Di fronte a tante varianti l’insegnante di yoga deve trovare a mio avviso un minimo comun denominatore che serva a fare funzionare il gruppo: qualcosa che tutti fanno. Non sarà necessario andare a cercare pratiche specifiche o manuali che spieghino come fare yoga in carcere. Una cosa che tutti fanno è respirare. Per questo credo che una lezione di yoga e di meditazione in carcere debba dedicare molto spazio ai pranayama. Sono efficaci, semplici, riproducibili in genere anche in cella, praticabili anche da chi è sovrappeso o presenta dolori articolari. Per arrivare a 11 minuti di pranayama a volte occorrono settimane. Ma lo spazio contemplativo di chi vive in carcere, forse perché strappato ai ritmi altrettanto insensati della vita all’esterno, è stranamente profondo e immediatamente accessibile. Forse è la sete di silenzio, in un luogo dove voci e rumori regnano sovrani, che favorisce il passaggio a uno spazio immediatamente stabile. E quando questo spazio è riconosciuto, quando supera e azzera risate nervose, segni di distrazione o di insofferenza, i risultati sono immediatamente visibili, accompagnati da un senso di riconoscenza nel quale non bisogna crogiolarsi. Si può sempre migliorare, come insegnanti. Gli allievi sono già perfetti. Sardegna: corsi di agricoltura a Isili e Is Arenas, i detenuti al lavoro nei campi castedduonline.it, 23 agosto 2019 La Regione promuoverà la formazione professionale per i detenuti delle colonie penali sarde. L’iniziativa, di alto valore sociale, ha una dotazione finanziaria di 1 milione e 171mila euro, è tesa a avviare attività formative e lavorative nel settore agricolo. La Regione promuoverà la formazione professionale per i detenuti delle colonie penali sarde. A Mamone, Is Arenas e Isili i detenuti potranno frequentare corsi di formazione che consentiranno loro di accedere più facilmente al mondo del lavoro una volta scontata la pena. La Giunta Regionale, riunita nel pomeriggio sotto la presidenza di Christian Solinas, ha infatti deliberato l’adesione al progetto PON Inclusione Sociale 2014-2020 “Modelli sperimentali di intervento per il lavoro e l’inclusione attiva delle persone in esecuzione penale”. L’iniziativa, di alto valore sociale, ha una dotazione finanziaria di 1 milione e 171mila euro, è tesa a avviare attività formative e lavorative nel settore agricolo. Napoli: Poggioreale, la direttrice risponde ai rilievi del Garante dei detenuti di Marco Belli gnewsonline.it, 23 agosto 2019 Che il carcere napoletano di Poggioreale soffra di condizioni “preoccupanti”, per sovraffollamento e strutture “in generale inadeguate e, in alcuni casi, decisamente fatiscenti”, non è una novità; ma che se ne evidenzino “puntigliosamente tutte le carenze e le deficienze strutturali” senza dare atto di tutto quello che si sta facendo ha lasciato l’amaro in bocca tanto alla dirigenza dell’istituto quanto al personale che vi lavora ogni giorno con professionalità e abnegazione, nonostante i disagi. È del 19 luglio la dettagliata Relazione, completata da 15 allegati, che la direttrice Maria Luisa Palma ha inviato ai vertici del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria per rispondere ai rilievi messi nero su bianco dal Garante nazionale dei detenuti nel suo Rapporto sulla visita effettuata a inizio dello scorso maggio, diffuso ieri alla stampa. E, paradossalmente, il primo effetto virtuoso delle iniziative intraprese dalla Direzione dell’istituto, di concerto col Dap, per fronteggiare sovraffollamento e problemi strutturali, lo rende noto proprio il comunicato stampa del Garante, alle prime righe: “ai primi di maggio, durante la visita, erano 2.373; (…) oggi i detenuti sono 2.085”. Quasi trecento in meno, spostati in altri istituti dentro e fuori distretto negli ultimi mesi, secondo un piano concordato col Dipartimento che puntava a ridurre il numero dei presenti al fine di migliorare le condizioni di detenzione nell’istituto e permettere, al tempo stesso, di avviare e svolgere i lavori di ristrutturazione programmati e necessari in diversi padiglioni. E così è stato per quanto riguarda gli interventi alla struttura, come riporta la direttrice nella sua Relazione: “oltre al risanamento del Padiglione Genova e quello del Padiglione Venezia (come riconosce anche il Garante), anche la ristrutturazione del 2° piano del Padiglione ‘Roma, l’avvio del risanamento del Padiglione S. Paolo, e la creazione di stanze per la socialità al Padiglione Avellino, dei quali il Garante tralascia la segnalazione”. Altri tre padiglioni (Milano, Italia e Salerno), saranno inoltre oggetto di un programma di interventi del Ministero delle Infrastrutture, già finanziato ma non ancora avviato: nell’attesa, la direzione del carcere ha fatto partire dei lavori di risanamento da parte della squadra di Manutenzione Ordinaria del Fabbricato (Mof), composta da detenuti e che quindi comporta una maggiore possibilità di lavoro per loro. Proprio in merito alle critiche sul lavoro penitenziario, la relazione ricorda che sono 366 i ristretti lavoranti, rispetto ai 283 di due anni fa; a questi vanno aggiunti alcuni ammessi al lavoro all’esterno o assunti da una ditta esterna che ha un’officina nell’istituto. Quanto invece alle attività trattamentali, la direttrice spiega come sia aumentata per quantità e qualità, negli ultimi due anni, la partecipazione della comunità esterna a molti momenti della vita del carcere: “è un dato di fatto - ed è stato da più parti ampiamente riconosciuto - che (le attività trattamentali, ndr” hanno significato molto sia per i detenuti che per gli operatori coinvolti”. Nella sua Relazione la direttrice si sofferma su ciascuno dei rilievi sollevati nel report dal Garante, fornendo risposte, informazioni e dati relativi alla situazione dell’istituto da lei diretto e, in particolare, in tema di colloqui, tipologia dei detenuti e di istituto, ufficio matricola, cubicoli e stanze di differenti reparti, palestra, detenuti disabili, dotazioni di oggetti, arredi, docce, turnazione per utilizzo ambienti, sicurezza impianti, cucina dei detenuti, cortili di isolamento, sistemazione detenuti stranieri, telefonate, orari chiusura stanze, televisori, sanità e presunte discriminazioni nei confronti di detenuti omosessuali. Quanto infine agli episodi descritti nel Rapporto del Garante e relativi, rispettivamente, al trasferimento di un detenuto dal reparto isolamento ad altro istituto e a due casi di presunto rischio di maltrattamento, la Relazione della direttrice fa chiarezza sulla situazione, spiegando che per tutti i suddetti episodi “vi sono state puntuali comunicazioni da parte della Direzione alla locale Procura della Repubblica, oltre che nell’applicativo eventi critici”. E, nel caso del trasferimento del detenuto in isolamento, “già prima del Garante ed indipendentemente dal suo intervento”. Barcellona Pozzo di Gotto (Me): i Radicali in visita al carcere messinaora.it, 23 agosto 2019 Nel quadro dell’iniziativa “Ferragosto in carcere 2019” una delegazione del Partito Radicale e dell’Unione delle Camere Penali Italiane ha visitato la Casa circondariale “Vittorio Madia” di Barcellona Pozzo di Gotto. Nell’istituto di pena, accolti dalla direttrice Romina Taiani, dalla comandante della Polizia penitenziaria Stefania Greco e dal funzionario Michele Pizzino, sono entrati l’ex parlamentare radicale Rita Bernardini, l’avvocato Carmelo Occhiuto della giunta nazionale dell’Unione delle Camere Penali, l’avvocato Rocco Bruzzese (responsabile dell’Osservatorio Carceri dell’Ucpi per la Sicilia), l’avvocato Antonella Marchese (consigliere segretario della Camera Penale di Patti), il professor Antonio Matasso (docente universitario nonché “doppia tessera” radicale e socialista), unitamente ai militanti radicali Donatella Corleo, Gianmarco Ciccarelli, Saro Visicaro e Silvia De Pasquale, con la praticante avvocato Grace Palmeri. Al termine del lungo giro dei vari reparti, si è svolta una conferenza stampa, trasmessa su Radio Radicale, in cui è stato fatto il punto sulla situazione complessiva dei detenuti, che presenta diverse criticità ma appare comunque migliore rispetto alla media delle carceri siciliane, come rilevato dalla stessa Rita Bernardini. Ferrara: l’ergastolo ostativo nel dialogo tra le Corti di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 23 agosto 2019 Il 27 settembre un seminario promosso dall’ateneo. Il 22 ottobre ci sarà l’udienza pubblica della Corte Costituzionale che deciderà sulla legittimità o meno del 4bis, in particolare la parte di questo articolo dell’ordinamento penitenziario che nega l’accesso del permesso premio all’ergastolano che non abbia collaborato con la giustizia. Un tema cruciale per chi si batte contro l’illegittimità dell’ergastolo ostativo. Per questo, a Ferrara, per il prossimo 27 settembre ci sarà un seminario promosso dal gruppo di costituzionalisti del Dipartimento di Giurisprudenza dell’Ateneo estense, dal titolo “Per sempre dietro le sbarre? L’ergastolo ostativo nel dialogo tra le Corti”. Si discuterà non solo della pronuncia della Consulta relativa a quella del 22 ottobre, ma anche su un’altra questione distinta ma non distante da quella già calendarizzata. A sollevarla - come già riportato da Il Dubbio - è il Tribunale di Sorveglianza di Perugia, che dubita della stessa disposizione legislativa in relazione agli stessi parametri, ma in un caso differente: qui, il condannato all’ergastolo è un vero e proprio affiliato alla criminalità organizzata. Comune ai due atti di promovimento è il nodo costituzionale: la dubbia legittimità di una pena detentiva perpetua, riducibile solo attraverso una collaborazione esigibile ed utile con la giustizia, in assenza della quale, precluso qualsiasi beneficio penitenziario e misura alternativa (liberazione condizionale compresa) e sterilizzati gli effetti concreti dell’unico beneficio accessibile (gli sconti di pena a titolo di liberazione anticipata), l’ergastolo torna ad essere, de jure e de facto, un “fine pena: mai”. È il cosiddetto ergastolo ostativo, sul quale - nel frattempo - si è pronunciata per la prima volta, il 13 giugno scorso, la Prima Sezione della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, nel caso Viola c. Italia. Il ricorso era stato promosso da un ergastolano ostativo cui i giudici italiani avevano negato l’accesso alla misura della liberazione condizionale in ragione della sua mancata collaborazione con la giustizia, ritenuta possibile e rilevante nel caso di specie, e nonostante la sua reiterata professione di innocenza. Ad aprire il seminario ci sarà Giuditta Brunelli, ordinario di istituzioni di diritto pubblico dell’università di Ferrara. Tra i relatori c’è la presenza di Vladimiro Zagrebelsky, giurista e accademico italiano, giudice della Corte europea dei diritti dell’uomo dal 2001 al 2010. Così come l’emerito di diritto penale Francesco Palazzo e il professore Paolo Veronesi. Tutta la documentazione predisposta per il seminario è disponibile sul sito amicuscuriae.it, dedicato all’approfondimento di “casi” (quaestio, ricorso, conflitto, quesito referendario) pendenti davanti alla Corte costituzionale, scelti per la sua rilevanza e il carattere inedito, preferibilmente se di natura interdisciplinare. I lavori del seminario saranno video registrati da Radio Radicale e gli atti saranno pubblicati da forumcostituzionale.it San Luca (Rc): lettera dal carcere a Klaus Davi “lotta anche per noi detenuti” lameziainstrada.com, 23 agosto 2019 Vincenzo Crisafi, detenuto nel carcere di alta sicurezza di Prato, ha preso carta e penna e scritto al consigliere comunale di San Luca, Klaus Davi. Crisafi, condannato per narcotraffico e ritenuto vicino alle cosche Romeo e Giorgi di San Luca, ha vergato una lunga lettera all’indirizzo del massmediologo: “È da parecchio tempo che seguo incuriosito questo suo interesse per San Luca e la sua recente candidatura a sindaco” è l’inizio della missiva, che poi si focalizza sulla situazione del noto comune aspromontano e dei suoi cittadini, ritenuti da Crisafi “un popolo con altissimo tasso di laureati e di emigrati, ma anche di pregiudicati”, a causa delle possibilità di studiare e lavorare rasenti allo zero. Il detenuto, a cui mancano pochi esami per conseguire una laurea in scienze motorie, esprime poi un giudizio positivo sull’operato di Davi: “Lei potrebbe risollevare le sorti di un posto che pare destinato alla deriva, perché spiegare all’Italia un paese come il nostro, visto con gli occhi di chi non è concittadino, per noi rappresenta una grande occasione.[…] Io credo nella possibilità che lei sta offrendo al mio popolo e spero che i miei concittadini la pensino come me e la sostengano”. Klaus Davi per tutta risposta si è detto commosso per la lettera di Crisafi e ha annunciato che lo incontrerà a breve, continuando a cercare il dialogo anche con tutti gli ex detenuti e condannati di San Luca. Proprio negli scorsi giorni, infatti, Davi si è recato da un altro ex detenuto, Gianluca Nirta, ritenuto boss dell’omonimo clan coinvolto nella faida di San Luca: “Come sono andato da Nirta andrò da tutti gli altri. Voglio ascoltare tutti e parlare con tutti. Mi interessa soprattutto dare un’opportunità ai giovani”, la dichiarazione del massmediologo. “Parole di vita nuova”, quando il carcere diviene luogo di riscatto di Orazio La Rocca sanfrancescopatronoditalia.it, 23 agosto 2019 La cultura può fare miracoli? Forse. Il sapere è in grado di indicare la direzione che porta alla retta via? Può darsi. La conoscenza è un volano di trasformazione? A volte capita. Interrogativi, quesiti, dubbi, certezze a cui nessuno è mai sfuggito nel corso della vita. Senza tuttavia riuscire a rispondere con parole in grado di sciogliere il minimo dubbio. Ma c’è un luogo dove, in modo del tutto particolare, simili domande possono trovare quasi immediate risposte, anche se possono apparire all’ascoltatore più distratto e lontano limitate e parziali. Questo luogo è il carcere, parola bruttissima che evoca strutture di espiazioni di ieri e di oggi, a volte senza speranze, ambiti dove chi sbaglia - specialmente nell’immaginario collettivo degli anni passati - è condannato a pagare il suo debito con la giustizia dentro quattro mura, trattato come un corpo estraneo dalla società cosiddetta civile. Eppure, questi posti di detenzione - che è certamente più corretto chiamare “Istituti” - possono diventare luoghi di riscatto, di cambiamento, di trasformazione personale per chi, per cause più disparate (uno sbaglio, un momento di debolezza, un periodo di crisi...), dopo un regolare processo vi è costretto a trascorrere periodi più o meno lunghi. Una prova in tal senso la può fornire questo libro, intitolato non a caso “Parole di vita nuova”, dedicato ai lavori intellettuali (tesi di laurea, poesie, racconti, disegni) di 14 detenuti, in prevalenza in regime di 41bis per reati di mafia, camorra o ‘ndrangheta. Lo ha pubblicato la casa editrice Marcianum Press del gruppo Edizioni Studium fondata il 19 giugno 1927 dal giovanissimo monsignore Giovanni Battista Montini, futuro Paolo VI, nella sua veste di Assistente Ecclesiastico della Fuci (Federazione universitaria cattolici italiani), con lo scopo di offrire ai giovani laureati la possibilità di pubblicare tesi, scritti, ricerche, elaborati. Una iniziativa editoriale lungimirante destinata - su precisa e profetica volontà del futuro pontefice - a dare vita e sostanza ai lavori intellettuali partoriti dalle menti (ma anche dal lavoro, dal sacrificio e dalla voglia di riscatto) di generazioni di giovani universitari, neolaureati, professionisti in procinto di compiere il grande passo nella società, ma privi di adeguate risorse. Una casa editrice dalle radici saldamente ancorate nella parte più viva e feconda della cultura cattolica, che a 92 anni dalla nascita continua ancora a guardare al mondo dei giovani universitari e della cultura in genere, allargandosi anche ad altre realtà intellettuali, senza badare ad etichette, bandiere, appartenenze politiche o correnti culturali di moda. “Parole di vita nuova” è frutto di queste radici montiniane, alle quali idealmente, con forza e passione, sono stati “ancorati” 14 autori molto particolari, essendo persone ospitate “forzatamente” in altrettanti Istituti di pena distribuiti in varie carceri italiane. Uomini come tanti, italiani e stranieri, che hanno avuto l’intelligenza di trasformare il loro periodo detentivo in momenti di evoluzione e di crescita - e soprattutto di cambiamento - attraverso la cultura e lo studio, conseguendo titoli accademici, riconoscimenti, attestati, ma rivelando - soprattutto a loro stessi - sorprendenti capacità intellettuali, narrative, poetiche e artistiche. Un bagaglio intellettuale portato alla luce grazie soprattutto alla loro costanza, unitamente all’aiuto e alla sensibilità dei direttori responsabili dei vari Istituti dove risiedono e a quanti li hanno affiancati nei loro studi (docenti, volontari, assistenti sociali...), attraverso i quali hanno realizzato i 14 elaborati che hanno partecipato al premio nazionale “Sulle ali della libertà” indetto dall’associazione “L’Isola Solidale”, sulla base di una intuizione del giornalista Gianluca Scarnicci, direttore di “Comunicatio”, agenzia di informazione religiosa e del mondo del volontariato. Dei 13 partecipanti all’edizione 2019 (il quattordicesimo è il vincitore della prima edizione del 2018), uno solo ha vinto, Francesco Argentieri, con la tesi di laurea in Sociologia “La sfera pubblica: il carcere come progetto sociale”. Gli altri 12 lavori tutti secondi a pari merito, anche se parlare di classifica in questo caso è riduttivo, perché tutti idealmente hanno vinto e a tutti loro va il nostro riconoscimento, come attesta la Medaglia con cui il presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha voluto insignire il premio, insieme ai riconoscimenti istituzionali dei ministeri della Giustizia, della Sanità, dell’Istruzione, di Roma Capitale, del Vicariato e di altri enti. Il libro presenta anche in sintesi la tesi di laurea in Sociologia “Rieducazione, formazione e reinserimento sociale dei detenuti” di Alessandro Limaccio, il primo detenuto ad essere stato premiato da “L’Isola Solidale” nel 2018, da cui poi ha preso forma e vita l’idea di istituire la rassegna “Sulle ali della libertà” facendone un appuntamento annuale aperto a tutti i reclusi degli Istituti di pena interessati all’iniziativa e affascinati dall’idea di accedere ad una vita nuova attraverso la forza della parola e della cultura. “Un’idea più grande di me”. Punzo e il teatro che entra in carcere di Massimo Marino Corriere di Bologna, 23 agosto 2019 Trent’anni di teatro dentro il carcere. La sfida di una vita tra crisi, successi e premi in una conversazione a due che si fa romanzo autobiografico. Come si fanno a raccontare trent’anni di bellissimi, intensi spettacoli, nati in un carcere, quello di Volterra? Come si fa a far conoscere le ragioni del lavoro artistico profondo, sull’uomo, di Armando Punzo, autore e regista della Compagnia della Fortezza, un ensemble con detenuti attori che conquista i luoghi dove recita, come è avvenuto a Bologna all’Arena del Sole in marzo, con Beatitudo? Ci prova (e ci riesce) Rossella Menna, studiosa, ricercatrice, “dramaturg” e soprattutto elegante, efficace scrittrice, in “Un’idea più grande di me”, libro conversazione con Punzo pubblicato da Luca Sossella, editore con più di un piede sotto le Due Torri. Rossella Menna, quando ha incontrato Punzo? “È accaduto in un laboratorio teatrale a Bologna. Ero appena arrivata dalla Campania per iscrivermi alla laurea magistrale del Dams. Ero incuriosita dal fatto che fosse un maestro campano”. E andò tutto bene? “Per nulla. La classe in pochi giorni si dimezzò. Perché lui aveva un modo di lavorare inusuale. Ci aveva raccontato il progetto su Mercuzio, ispirato a Romeo e Giulietta. Non ci chiedeva di “recitare”, ma di contribuire con apporti personali. La maggior parte di quelli che frequentavano il seminario rimasero sconcertati: si aspettavano forse un laboratorio di training, indicazioni su come diventare attori. Io entrai in un’idea di teatro che mi avrebbe cambiato la vita”. Addirittura? “Venivo da scene tradizionali, con copioni, testi mandati a memoria, personaggi. E invece Punzo interrogava su come, con il teatro, cambiare l’essere umano e il mondo. Il suo era un teatro di metafore, di poesia. Imponeva di lavorare su sé stessi”. E il libro, come nasce? “Dopo quella prima esperienza ho lavorato con lui per otto anni, a Volterra, in carcere, fuori. Sossella ad un cero punto ha chiesto a Punzo se voleva scrivere un libro. E lui era piuttosto recalcitrante, diffidente nel fermare un’esperienza in continuo movimento in una forma chiusa. Ne abbiamo parlato, e con un lavoro di due anni abbiamo trovato un metodo. È diventato una specie di romanzo, con due personaggi che dialogano, un’allieva che chiede al maestro e questi che si rivela”. Come racconterebbe il libro? “È la storia di un eroe, piena di peripezie. È una chiamata all’avventura, al rischio, da una vita ordinaria iniziata in un quartiere periferico di Napoli, proseguita in varie esperienze teatrali, fino alla fondazione della Compagnia della Fortezza, con le sue cadute, le sue crisi, le sue difficoltà, i suoi momenti esaltanti. È la storia di un uomo che decide di investire tutto su un’idea, che è quella della trasformabilità del mondo. Che entra in carcere per un progetto breve e ci rimane per 1.500 ore solo il primo anno. Che sceglie di lavorare con attori non professionisti, in una situazione dura ma vergine, per mettere alla prova le capacità del teatro di abbattere ruoli che sembrano fissati e muri. È la storia di un artista senza maestri, che scopre facendo, fino ai grandi successi, alle tournée e ai premi, sempre in mezzo a mille ostacoli. Spero sia una storia in cui il lettore possa riconoscersi”. In che senso? “Oggi tutto sembra alla portata di mano senza difficoltà, e tutto sfugge, lasciando l’impressione di non riuscire a stringere nulla, generando depressione. Eleggere come proprio uno spazio circolare, concentrato, e cesellarlo, renderlo fertile con la poesia e la metafora, è una grande lezione”. Cos’altro fa lei? “Provo a scrivere, saggistica, critica teatrale. Con i Motus sto preparando l’edizione dei 50 anni del Festival di Santarcangelo. Ho il ruolo di “dramaturg”. Per ora stiamo facendo ecologia della mente, ci confrontiamo su quello che vogliamo e che non vogliamo fare. Siamo solo sicuri che non sarà una rievocazione di ciò che è stato. Cercherà di guardare avanti, al presente e soprattutto al futuro”. “Pugni Chiusi”: il documentario sul pugilato in carcere arriva su Infinity di Cristiano Ogrisi movieplayer.it, 23 agosto 2019 Il docu-film “Pugni Chiusi”, co-finanziato da Infinity, racconta del riscatto sociale dei detenuti del carcere milanese di Bollate attraverso la boxe. Il progetto, selezionato nell’ambito della call “Games”, lanciata da Infinity sulla community di crowdfunding Produzioni dal Basso, ha raggiunto l’obiettivo del 50% del budget complessivo grazie alla raccolta fondi, ottenendo così il co-finanziamento da parte di Infinity per il restante 50% e l’inserimento nel palinsesto della piattaforma. Il documentario “Pugni Chiusi - Il pugilato in carcere”, della durata di 30 minuti, racconta l’omonimo progetto di pugilato attivo all’interno del carcere di Bollate, struttura modello in tutta Italia per le iniziative organizzate al fine di favorire la riabilitazione sociale dei detenuti. Riscattarsi grazie allo sport - in questo caso la boxe - è un’occasione importante per dimostrare che, anche dopo aver commesso un errore, ci si può rialzare, costruendosi una nuova vita e ritrovando il proprio posto all’interno della società. Alessandro Best, ideatore di Pugni Chiusi ha dichiarato: “Tramite questo documentario vorrei avvicinare i cittadini alle questioni legate alla detenzione e alla riabilitazione, mi piacerebbe che Pugni Chiusi diventasse un manifesto per le tante iniziative volte al reinserimento dei detenuti nella società. Il carcere deve essere un luogo non solo di detenzione, ma soprattutto di riabilitazione: tutti possiamo sbagliare e tutti possiamo affrontare i nostri errori e ripartire con una nuova vita”. Una giornata delle Nazioni Unite per tutte le vittime delle violenze religiose Avvenire, 23 agosto 2019 Ieri si è celebrata la prima Giornata di commemorazione per le vittime di atti di violenza basati sulla religione e sul credo istituita dall’Onu. Un momento di riflessione che secondo le Nazioni Unite si è reso necessario proprio per segnalare quanto il fenomeno sia in crescita. E un modo, ha spiegato il segretario generale dell’Onu Antonio Guterres, “per riaffermare il nostro fermo sostegno alle vittime, facendo tutto ciò che è in nostro potere per prevenire gli attacchi e chiedendo che i responsabili vengano puniti”. E obiettivo, ha ricordato l’Osservatore Romano, è “condannare fermamente la violenza e gli atti di terrorismo, in nome della religione o delle convinzioni personali, nei confronti di appartenenti a diverse religioni, comprese quelle di minoranza”. L’istituzione della Giornata è stata approvata dall’Assemblea Generale dell’Onu lo scorso maggio in seguito all’escalation di violenza di matrice religiosa. Si registrano attacchi in tutti i Paesi, anche se quelli in cui si evidenzia il più altro tasso di episodi sono, secondo le ultime rilevazioni del Pew Research Center (accreditato think tank Usa che conduce ricerce demografiche e analisi), il Bangladesh, l’India - dove il 18 agosto 40 pellegrini cattolici in marcia verso il santuario mariano di Velankanni, nel Tamil Nadu, sono stati aggrediti, insultati e percossi da un gruppo di militanti radicali induisti la Repubblica Centrafricana, l’Egitto, l’Iraq, Israele, la Nigeria, il Pakistan, la Siria e lo Yemen. Gli stessi Paesi compaiono nella World Watch List di Open Doors, il report annuale che presenta la mappa dei 50 Paesi al mondo dove è più difficile vivere come cristiani. L’edizione del 2019 riporta che, tra il primo novembre 2017 e il 31 ottobre 2018, sono stati più di 4.100 i cristiani uccisi per motivi legati alla loro fede. “Per un giorno alziamo gli occhi verso coloro che non godono della libertà di esprimere la propria fede e con coraggio prendiamo posizione in loro favore”, ha detto ieri Cristian Nani, direttore di Open Doors Italia. Migranti. È ora di riaprire la stagione dei diritti di Filippo Miraglia Il Manifesto, 23 agosto 2019 L’argomento principale sul quale le destre hanno costruito il loro radicamento sociale e gran parte del loro consenso è indubbiamente l’immigrazione. Per riequilibrare il loro forte investimento su questo terreno, servono forze politiche democratiche che, in maniera altrettanto determinata, investano sui diritti e sui fondamenti della nostra Costituzione. È utile quindi provare a ragionare su quali proposte avanzare in quest’ambito per un’alternativa praticabile. La prima cosa da fare è abolire la legge Bossi Fini, che ha reso gli stranieri presenti in Italia più deboli socialmente e ricattabili, nonché i due recenti “decreti sicurezza” di stampo salviniano, ripristinando così il permesso di soggiorno per ragioni umanitarie e ristabilendo la centralità dei comuni nelle politiche d’accoglienza (Sprar). L’esperienza di questi anni consiglierebbe inoltre di partire dagli errori commessi durante l’esperienza del centro sinistra, troppo spesso rivendicati con orgoglio da alcuni suoi esponenti, per cercare di non ripeterli e per individuare le priorità sulle quali investire. La chiusura di Mare Nostrum, per mancanza di coraggio, è stato un errore grave. L’Italia dovrebbe promuovere un programma europeo di ricerca e salvataggio in mare, con la conseguente ripartizione dei naufraghi salvati con gli altri Paesi dell’Ue disponibili, anche promuovendo la riforma del regolamento Dublino, già votata dall’Europarlamento. Le politiche di esternalizzazione delle frontiere, con la firma da parte dell’Ue, dell’accordo con la Turchia, così come quello con le milizie libiche siglato da Minniti, rappresentano una pagina vergognosa per l’Ue e l’Italia, da cancellare al più presto. Allo stesso modo il ricorso ai Fondi fiduciari per l’Africa (avviati con il summit de La Valletta), sottratti alle risorse destinate alla cooperazione internazionale e destinate a fermare i flussi migratori anche a costo, in alcuni casi, di finanziare terribili dittature e regimi antidemocratici, è da interrompere immediatamente. È necessario fermare la criminalizzazione della solidarietà (avviata con il Codice Minniti), riconoscendo il ruolo centrale delle ong. Va abrogata la legge 46 del 2017 (cd. Orlando-Minniti), la prima legge dal dopo guerra ad oggi che cancella le garanzie giurisdizionali per una categoria sociale tra le più deboli, ovvero i richiedenti asilo. Infine la mancata approvazione della legge sullo ius soli, lasciata colpevolmente ferma al Senato per più di due anni, dopo che era già sta approvata alla Camera, andrebbe sanata al più presto. Questo cambio di direzione, andrebbe consolidato con alcune scelte urgenti che diano un segnale politico chiaro di alternativa all’esperienza di governo più razzista della storia repubblicana appena conclusa, per una gestione giusta ed efficace dell’ingresso e del soggiorno degli stranieri. Garantire canali d’accesso legale con: quote per lavoro a tempo indeterminato e ricerca di lavoro attraverso il decreto flussi; corridoi umanitari (con numeri molto più ampi), finora gestiti e pagati da organizzazioni religiose, gestiti dagli Stati, con risorse e procedure pubbliche; politiche di reinsediamento dei rifugiati, quantitativamente rilevanti, in un quadro di ripartizione europea. Predisporre infine una procedura stabile di regolarizzazione personalizzata, laddove ci siano le condizioni per il rilascio di un permesso di soggiorno. In definitiva si tratta di abbandonare le politiche proibizioniste e la retorica pubblica anti immigrazione, che ha fatto la fortuna della destra xenofoba, per dedicarsi a governarne i processi, a proporre un’idea di società giusta e solidale. La paura di sbagliare e di perdere consensi, ha, di fatto, spalancato la porta al governo della destra: quando gli elettori hanno dovuto scegliere tra l’originale e la copia, come sempre, hanno preferito l’originale. È arrivato il momento di prenderne atto e provare a cambiare: seppelliamo la stagione del razzismo provando a inaugurare quella dei diritti. Migranti. Sgombero del ghetto di Felandina, LasciateCIEntrare ricorre al Tar di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 23 agosto 2019 Nella struttura a 30 km da Matera il 7 agosto è morta una bracciante nigeriana di 28 anni. Sopravvivere nei campi, finire nel bruciarsi vivi dagli incendi e infine essere sgomberati e riversati per strada, senza alternative. È il destino dei braccianti del “ghetto di Felandina”, una struttura abbandonata fatta di prefabbricati a 30 km da Matera, in Basilicata. Sono circa 500 nigeriani, sudanesi, maliani, senegalesi, gambiani, eritrei, burkinabè, darfuriani e livoriani a vivere nell’immenso campo di baracche in legno, plastica, cartoni, ricavato all’esterno ed all’interno delle strutture di quello che doveva essere uno dei poli manifatturieri della Basilicata. Così, al degrado produttivo si è aggiunto altro degrado, quello vissuto da persone in carne ed ossa, con i loro bisogni inevasi, con la loro sete di vita più giusta, in quell’Italia che, sinora, ha tradito le loro attese. Il sette agosto scorso, la tragedia annunciata. Tra le sei e le sette del mattino è scoppiato un incendio all’interno del vecchio prefabbricato ed è morta arsa viva una bracciante nigeriana di 28 anni, giunta in Italia nel 2015, quando presentò domanda per il permesso di soggiorno alla Questura di Padova che però la respinse, costringendola, due figli a carico, a fare ricorso. Ora il sindaco del comune di Bernalda ha trovato la soluzione: ordinanza di sgombero, senza però trovare una sistemazione alternativa per i migranti. Ad opporsi tramite vie legali è la campagna Lasciate-CIEntrare. Il 19 agosto, l’avvocato Angela Maria Bitonti, ha notificato e iscritto al ruolo il preannunciato ricorso al Tar di Basilicata avverso l’ordinanza n. 21 del 21 maggio 2019 emessa dal sindaco del comune di Bernalda, avente ad oggetto: “Ordinanza Sindacale, contingibile e urgente, adottata per fronteggiare emergenza sanitaria o di igiene pubblica a carattere esclusivamente locale”. E si sta preparando anche un ricorso alla Cedu. LasciateCIEntrare, tramite il suo sito, ha fatto sapere che assieme all’avvocato, si sono recati nuovamente nell’area occupata dell’Ex Felandina, nei giorni scorsi, per verificare le condizioni dei braccianti agricoli dopo lo scoppio dell’incendio del 7 agosto. E così si viene a sapere che le condizioni in cui versano i braccianti continuano ad essere pessime, malgrado i piccoli aiuti che arrivano di tanto in tanto nell’area occupata. Cumuli di immondizia ovunque mai rimossi dall’amministrazione comunale (che ha addotto a pretesto il fatto che i braccianti non pagherebbero la Tari in quell’area), un’autobotte che porta l’acqua necessaria per tutte le attività quotidiane che è appena sufficiente, cibo portato dalla Croce Rossa che consiste per la maggior parte del tempo in panini e pezzi di focaccia. Tutti i braccianti hanno problematiche legate ai rinnovi dei permessi in scadenza e all’assenza di una residenza, per non parlare dei tanti documenti persi e bruciati nel rogo. “Tutte problematiche importanti che sono state sbrigativamente e irresponsabilmente rinviate al mittente anche dalla Questura locale”, denuncia Lasciate-CIEentrare. Sempre secondo gli attivisti il sindaco avrebbe erroneamente e semplicisticamente fondato la propria ordinanza su una nota del Dipartimento di Protezione e Salute dell’Asm Matera. Tale ordinanza appare generica e carente di motivazione. In effetti, non è specificato in alcun modo in cosa consista il “pericolo” e l’”emergenza sanitaria insorgente” né di quale “epidemia” si stia parlando e per quale ragione possa essere talmente grave da giustificare lo sgombero di oltre cinquecento persone. Nel ricorso, si contesta l’illegittimità e l’infondatezza dell’ordinanza, che pertanto andrebbe annullata. Viene innanzitutto richiamata la violazione dell’art. 11 della Convenzione Internazionale per i Diritti Economici, Sociali e Culturali (New York, 16 dicembre 1966), ovvero quello relativo al diritto ad un alloggio adeguato, nel quale si evidenzia anche che gli sgomberi forzati non devono lasciare gli individui senza alloggio né violare altri diritti umani. Inoltre, tale sgombero forzato potrebbe violare l’articolo 8 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà Fondamentali (Cedu), che stabilisce il diritto al rispetto della vita privata e famigliare e che limita l’ingerenza dell’autorità pubblica ai soli casi tassativamente previsti dalla legge. Al pari della Cedu, anche la Carta Sociale Europea Riveduta è annoverabile tra le fonti di diritto internazionale in materia di sgomberi forzati, con le previsioni di cui agli articoli 31 (diritto all’alloggio), e 30 (povertà ed esclusione sociale). Infine, la Convenzione per l’eliminazione di tutte le forme di discriminazione razziale, all’art. 5 prevede che “in base agli obblighi fondamentali di cui all’art. 2 della presente Convenzione, gli Stati contraenti si impegnano a vietare e ad eliminare la discriminazione razziale in tutte le forme ed a garantire a ciascuno il diritto alla eguaglianza dinanzi alla legge senza distinzione di razza, colore od origine nazionale o etnica”. Si contesta anche la violazione dell’art. 32 della Costituzione (chiamato in causa dalla stessa ordinanza), perché l’esecuzione dello sgombero porrebbe in serio pericolo gli occupanti dell’area dell’Ex Felandina, e perché gli stessi si troverebbero inevitabilmente a vivere per strada in una situazione di totale abbandono che aumenterebbe la loro condizione di emarginazione e vulnerabilità e che sfocerebbe inevitabilmente in un attuale e concreto pericolo per la vita e la incolumità degli stessi. Migranti. Ocean Viking: “noi bloccati con 356 a bordo da 13 giorni” di Francesca Spasiano Il Dubbio, 23 agosto 2019 La barca umanitaria naviga tra Italia e Malta. Le scorte scarseggiano. La vita è in pausa a bordo della Ocean Viking. La nave battente bandiera norvegese che da quasi due settimane naviga a rilento al centro del Mediterraneo, tra la Sicilia e Malta. A bordo 356 persone, di cui 103 minori, tratte in salvo al largo della Libia nel corso di quattro operazioni coordinate da Medici Senza Frontiere e SOS Mediteranée tra il 9 e il 12 agosto. La maggior parte dei sopravvissuti viene dal Sudan e porta sul corpo i segni di un viaggio da incubo costellato di abusi, torture e detenzione arbitraria. “Vergognoso e disumano lasciare in mezzo al mare 356 persone. Chiediamo al più presto un porto sicuro perché i sopravvissuti a bordo della Ocean Viking possano finalmente toccare terra e trovare una condizione di sicurezza e umanità”. Lo scrive su Twitter Medici senza Frontiere, che da giorni si appella alle autorità europee perché offrano una soluzione al più presto. “Abbiamo pasti per appena 5 giorni, prima di intaccare le scorte di emergenza. Ci sono persone le cui condizioni di salute potrebbero presto diventare critiche, fino al punto di dover richiedere un’evacuazione”, spiega Luca Pigozzi, uno dei medici a bordo che denuncia il deteriorarsi della salute fisica e psichica dei suoi pazienti, di cui un terzo minori di 18 anni, vittime delle più atroci violenze: ferite di guerra, percosse e scariche elettiche subite durante la permanenza in Libia. “Si tratta dell’ennesima situazione di stallo” spiega il Garante delle persone private della libertà persona, Mauro Palma, che è intervento sul caso della Viking con una lettera rivolta ai suoi omologhi di Malta e Norvegia, in cui si invitano le autorità europee a un’azione comune per l’assegnazione di un luogo sicuro di sbarco a persone soccorse in mare. “In questo contesto, che richiede reti di cooperazione non solo tra le autorità responsabili, ma anche tra gli organi indipendenti di garanzia dei diversi Paesi coinvolti, il Garante nazionale ha spesso registrato l’assenza della voce dei propri omologhi”, aggiunge Palma, sottolineando il “verificarsi di una nuova privazione “de facto” della libertà delle persone soccorse, dalla durata imprecisata”. Intanto da Lampedusa arriva la chiusura a nuove accoglienze in seguito all’evacuazione degli 83 migranti rimasti a bordo della Open Arms: l’hotspot dell’Isola lamenta condizioni di soggiorno molto precarie per i 206 migranti al suo interno, considerata la disponibilità di soli 96 posti. Si attende ora la convalida da parte del gip per il sequestro della nave spagnola, emesso dal Procuratore capo di Agrigento Luigi Patronaggio martedì pomeriggio. Dalle prime verifiche alla nave “sono emerse una serie di gravi anomalie relative alla sicurezza della navigazione”, ha riferito la Guardia Costiera, che ha disposto “l’immediato fermo amministrativo dell’unità a Porto Empedocle”. Fonti del Viminale fanno sapere intanto che la Spagna è disposta ad accogliere soltanto 15 dei migranti ora fermi a Lampedusa, mentre i restanti 110 potrebbero essere ricollocati tra Francia, Germania, Portogallo e Lussemburgo, soltanto dopo che saranno concluse le procedure di identificazione previste dalla normativa. Il Garante nazionale scrive ai suoi omologhi di Malta e Norvegia La nave Ocean Viking si trova attualmente in acque internazionali con a bordo 356 migranti (tra cui 103 minori stranieri, la maggior parte dei quali non accompagnati), tratti in salvo con quattro interventi effettuati tra il 9 e il 12 agosto. Si tratta dell’ennesima situazione di stallo riguardante l’assegnazione di un luogo sicuro di sbarco a una nave con persone soccorse in mare, situazione nella quale insorgono conflitti di competenza fra Paesi europei. In questo contesto, che richiede reti di cooperazione non solo tra le autorità responsabili, ma anche tra gli organi indipendenti di garanzia dei diversi Paesi coinvolti, il Garante nazionale ha spesso registrato l’assenza della voce dei propri omologhi, i Meccanismi nazionali di prevenzione (Npm) europei ai sensi del Protocollo Onu alla Convenzione contro la tortura o altri trattamenti crudeli, inumani o degradanti (Opcat). Di fronte alla prospettiva del verificarsi di una nuova privazione ‘de facto’ della libertà delle persone soccorse, dalla durata imprecisata, il Garante nazionale ha preso un’iniziativa per coinvolgere due NPM europei, con l’obiettivo di rafforzare la tutela dei diritti delle persone a bordo. In particolare, il Garante nazionale ha inviato una lettera al Parliamentary Ombudsman della Norvegia, Aage Thor Falkanger, alla Presidente del NPM norvegese, Helga Fastrup Ervik, e al Presidente del Board of Visitors for Detained Persons of Malta, Andre Camilleri (e, per conoscenza, a Malcom Evans, Presidente del Sottocomitato Onu per la prevenzione della tortura, a cui è affidato il coordinamento dei diversi NPM nazionali), ovvero alle autorità indipendenti, rispettivamente, dello Stato di bandiera della nave che ha giurisdizione sulle persone a bordo e dello Stato con il quale è insorto un conflitto di competenza sul soccorso da prestare. Nella lettera il Garante nazionale li invita a un’azione comune urgente (sotto forma di una lettera, di un esposto all’Autorità giudiziaria o azioni similari) presso le rispettive Autorità nazionali. Tale proposta intende dare avvio a iniziative coordinate tra NPM, con l’obiettivo di sensibilizzare e responsabilizzare contemporaneamente le diverse Autorità nazionali circa il rispetto degli obblighi internazionali cui sono in egual misura vincolate. Da oltre un anno, il Garante nazionale ha tenuto sotto attenta osservazione la questione della tutela di persone migranti dapprima soccorse, poi bloccate per giorni a bordo dell’imbarcazione che le ha tratte in salvo: lo ha fatto anche con una visita a bordo nel noto caso della nave “Ubaldo Diciotti” e con informazioni alle Procure competenti. Ciò sulla base di una valutazione delle situazioni di fatto determinatesi, indipendentemente da valutazioni di ordine politico o relative ai comportamenti delle persone responsabili delle operazioni. Poiché è indubbio che nessuna persona può rimanere in un limbo privo di diritti, a rischio di essere respinta e in condizioni materiali che ogni giorno peggiorano. Tale situazione, configurabile come una privazione ‘de facto’ della loro libertà personale, le ha implicitamente esposte al rischio di subire respingimenti. Inoltre, il suo prolungarsi, a volte per settimane, può determinare una violazione del diritto alla dignità che attiene in modo assoluto a ogni persona. Migranti. Jerry Masslo, trent’anni dopo l’omicidio di Antonio Mattone Il Mattino, 23 agosto 2019 Sulla tomba una mano ignota accende un lumino, forse è uno degli assassini. Da qualche tempo nel cimitero di Villa Literno una mano ignota accende un cero sulla tomba di Jerry Essan Masllo. Il giovane sudafricano venne ucciso nella notte tra il 24 e il 25 agosto 1989 durante un assalto nel capannone dove dormiva assieme ad altri immigrati, nel tentativo di rubargli i pochi soldi guadagnati con la raccolta dei pomodori nei campi. Non si conosce l’autore di questo gesto di pietà, ma qualcuno sostiene che si tratti di uno degli artefici di quella scellerata rapina, tornato in libertà dopo aver scontato numerosi anni di prigione. Jerry era scappato dal suo paese dopo la morte dei genitori e di un figlio di sette anni, uccisi dalla polizia durante una manifestazione contro l’apartheid. La sua permanenza in Sudafrica avrebbe messo a repentaglio anche la sua vita. Dopo varie peripezie era giunto a Roma, dove avrebbe voluto chiedere asilo politico per raggiungere il Canada e per ricongiungersi con sua moglie e gli altri due figli. Ma questo non fu possibile perché in quel periodo l’Italia riconosceva lo status di rifugiato solo a coloro che arrivavano dall’Europa dell’Est. Intanto si sparse la voce dell’arrivo di un esule dal Sudafrica, un paese al centro dell’attenzione della pubblica opinione internazionale per le leggi razziste e il regime di segregazione, così Amnesty International e l’Alto commissariato dell’Onu per i rifugiati cominciarono ad occuparsi di lui. E così, dopo essere stato trattenuto per quattro settimane nell’area di transito dell’aeroporto di Fiumicino, Jerry venne ospitato dalla Comunità di Sant’Egidio in attesa di ottenere i documenti per andare in Canada. Per guadagnare qualche soldo d’estate si recava a Villa Literno dove era possibile lavorare per la raccolta del pomodoro, un’attività massacrante e sottopagata che però rappresentava l’unica fonte di guadagno per gli immigrati neri, tanto che in quegli anni nella cittadina liternese se ne contavano oltre quattromila. Le durissime condizioni di vita gli fecero tornare alla mente la realtà degli slum del suo paese. Molti braccianti africani vivevano nel “ghetto”, una bidonville alle porte del paese, alcuni dormivano persino nei loculi in costruzione del cimitero, altri in casolari abbandonati, senza acqua e luce, distanti dal centro. Il lavoro nei campi poteva durare anche quindici ore al giorno con una piccola pausa per bere un po’ d’acqua e mangiare pane e conserva. Poi ci fu quella maledetta notte che interruppe la vita e i sogni di Masllo. All’improvviso quattro giovani incappucciati armati di pistole e spranghe di ferro fecero irruzione nella baracca dove dormiva con altri immigrati, chiedendo che gli venissero consegnati tutti i soldi che avevano addosso. La situazione sfuggì di mano, partirono dei colpi di pistola e Jerry fu colpito a morte. L’uccisione di Masllo destò un grande sconcerto e una forte emozione in tutto il Paese. L’Italia si scoprì razzista e cominciò a rendersi conto dei sentimenti xenofobi che albergavano in una parte della popolazione. Le esequie, a cui partecipò il vicepresidente del consiglio Claudio Martelli, vennero trasmesse in diretta dalla Rai. In tutto il Paese ci fu una grande mobilitazione che culminò in una grande manifestazione a Roma a cui parteciparono oltre 200.000 persone. Qualche mese dopo venne emanata la cosiddetta legge Martelli nella quale l’Italia recepirà del tutto la Convenzione di Ginevra e dove vennero riconosciuti e garantiti i diritti dei lavoratori stranieri. Quest’anno cadono trent’anni da quell’orribile omicidio. Cosa è cambiato da allora? La predicazione dell’odio verso gli immigrati utilizzata come propaganda politica sta creando un clima di ostilità e disprezzo che colpisce in modo indiscriminato chi ha la pelle nera, come ha raccontato qualche giorno fa in una lettera a Repubblica la mamma adottiva di due bambini africani. E mentre in Italia sembra ritornare un rigurgito razzista, una nuova stagione di intolleranza resta ancora aperta la domanda su come sia possibile realizzare una vera e proficua integrazione. E resta anche il mistero di una mano ignota che tiene accesa una fiammella sulla tomba di Jerry. Probabilmente per rischiarare le tenebre e per scacciare i fantasmi di quella terribile notte di oblio. La crisi climatica diventa business di Massimo Gaggi Corriere della Sera, 23 agosto 2019 Il mondo della finanza non solo è da tempo convinto che il clima sta davvero cambiando, ma ha scoperto che grazie a ciò può fare un sacco di soldi. Duemila e cento miliardi di dollari, una cifra pari al Pil dell’Italia: è il valore del business delle catastrofi ambientali stimato (per difetto) dalle società come Cdp, che analizzano i rischi legati ai mutamenti climatici. In America, mentre Donald Trump e gran parte del mondo conservatore continuano a parlare del global warming come di una burla (secondo alcuni inventata dai cinesi per mettere i bastoni tra le ruote della crescita Usa), il mondo della finanza non solo è da tempo convinto che il clima sta davvero cambiando, ma ha scoperto che grazie a ciò può fare un sacco di soldi. Come? Disinvestendo dalle aree e dalle attività maggiormente a rischio di incendi, desertificazioni, allagamenti, dissesti idrogeologici, o puntando sui nuovi business: dal rafforzamento delle infrastrutture più vulnerabili alla costruzione di nuove protezioni, allo sviluppo agricolo di aree rese coltivabili dall’aumento delle temperature. Ragionamenti di questo tipo circolano da anni, ma c’era una certa reticenza a proporre pubblicamente affari basati su eventi catastrofici che impoveriscono milioni di persone. Tutto è cambiato nel 2017 con tre uragani disastrosi e gli incendi che hanno devastato la California. Morte e distruzione, ma anche la formazione di nuovi, giganteschi business: soccorsi, assistenza, sgombero delle macerie, ricostruzione. In pochi anni sono sorte e si sono moltiplicate società di ricerca che analizzano i rischi ambientali e vendono i loro studi alle imprese. La consacrazione di questo nuovo filone è avvenuta qualche settimana fa quando l’agenzia di rating Moody’s ha comprato Four Twenty Seven, il maggior centro di analisi delle conseguenze economiche dei mutamenti climatici creato a Berkeley, nei pressi della celebre università. Insomma Moody’s, che dà i voti alle imprese così come alla solvibilità degli Stati appesantiti da un forte debito pubblico (lo sappiamo bene noi italiani, da anni nel suo mirino), sta incorporando anche la variante clima nel rating delle aziende valutate. Anziché battersi per arrestare il deterioramento del clima, dunque, ci stiamo rassegnando a convivere con eventi disastrosi, provando a trasformarli addirittura in occasioni di crescita del Pil. Idea che piace a chi è convinto che la molla del boom della seconda metà del Novecento sia stato il secondo conflitto mondiale. Stati Uniti. I bambini soli del Mississippi: genitori (clandestini) in carcere di Marilisa Palumbo Corriere della Sera, 23 agosto 2019 Centinaia si offrono di aiutarli. Gli adulti arrestati durante i raid nelle fabbriche. Solidarietà per i piccoli. Parenti, vicini, amici, preti, è una catena di solidarietà che si allunga anche fuori dallo stato quella messa in piedi in Mississippi per aiutare le centinaia di bambini rimasti senza uno o entrambi i genitori dopo il più grande raid della polizia contro immigrati illegali della storia recente degli Stati Uniti. Era la mattina del 7 agosto quando gli agenti dell’Ice hanno fatto irruzione in sette fabbriche per la lavorazione del pollame arrestando in poche ore oltre 68o persone in due contee a Nord e a Est della capitale Jackson. A Morton, 3.600 anime, oltre il 10% della popolazione è stata incarcerata o licenziata. Manuel Ramirez ha raccontato al sito Slate che quella mattina una sua vicina di casa, mamma single di tre bambini di 12, lo e 5 anni, l’ha chiamato mentre la polizia perquisiva la sua fabbrica: “Manuel, non posso uscire. Ho fede, e ti affido i miei figli”. Da quel giorno Manuel li accudisce con passione, ma oppresso dalla paura che gli agenti arrivino anche da lui, irregolare come tantissimi ispanici in queste zone. Per le strade di questi paesini si vedono suore venute da lontano, maestre che girano con una dozzina di bambini, uno sforzo comune di una intera comunità per attutire lo choc dei ragazzi. Ma tutti hanno paura. Un papà, è sempre Slate a raccontarlo, ha lasciato il motore acceso nel parcheggio della scuola temendo che andando a prendere il figlio potesse cadere in una trappola. E per i nuclei familiari che hanno perso una o entrambe le entrate le conseguenze economiche saranno pesantissime. Chi è stato rilasciato - 300 nei giorni successivi ai raid - dovrà affrontare un processo che potrebbe concludersi con l’espulsione, e cosa ne sarà delle case comprate con anni di risparmi e sopra ogni cosa, dei figli nati qui e quindi cittadini americani secondo quello ius soli iscritto nel 14esimo emendamento della Costituzione che Trump definisce “ridicolo” e di cui vorrebbe sbarazzarsi? Intanto funzionari americani sostengono di aver fatto il possibile per rilasciare alcuni dei genitori in modo che i bambini potessero avere a casa almeno la mamma o il papà, ma non tutti i detenuti, spaventati dal loro status di irregolari, potrebbero aver comunicato alle autorità di avere dei bambini. Brian Cox, portavoce dell’Ice, non sembra preoccuparsene più di tanto. “La realtà è che adulti con minori vengono arrestati dalla polizia ogni giorno - ha detto alla Cnn - e ciascun arresto, per definizione, separa una persona dalla famiglia”. Intanto i servizi sociali si pongono il problema di come affrontare i casi più gravi. “È facile per parenti e vicini prendersi cura di questi bambini nel breve termine - ha spiegato Anne Brandon, portavoce del Mississippi Department of Child Protection Services - ma quando l’assenza diventa di mesi, persino anni, a seconda di quello che succede, è molto più difficile: questa per la nostra comunità è una maratona, non uno sprint”. Stati Uniti. Trump: “Valutiamo di togliere lo Ius soli” di Francesco Giambertone Corriere della Sera, 23 agosto 2019 Ma come funziona nel mondo? Gli Stati Uniti concedono la cittadinanza ai figli di stranieri nati sul territorio, ma il presidente vorrebbe cancellarlo. Tra diritto “di suolo” (in Brasile e Canada) e “di sangue” in Italia e Giappone, esistono anche molte vie di mezzo. È uno dei capisaldi della storia americana, ma ora Donald Trump vuole abbatterlo. O almeno questa è l’idea del presidente sullo Ius soli, ossia il “diritto del suolo” vigente in alcuni Paesi che permette a chi vi nasce di ottenere la cittadinanza sin dalla nascita, indipendentemente da quella dei genitori: “Stiamo valutando seriamente di toglierlo - ha detto Trump ai giornalisti - questo diritto è una cosa ridicola”. Ma come funziona e quali sono i Paesi che lo applicano? Ius soli e Ius sanguinis - Lo Ius soli è stato introdotto storicamente dal sistema giuridico britannico, al contrario dello Ius sanguinis, che deriva dall’ordinamento romano. Lo Ius soli incondizionato (senza restrizioni) esiste in quasi tutti i Paesi del continente americano, mentre è raro altrove. Quasi tutti gli Stati d’Europa, Asia, Africa e Oceania basano il diritto di cittadinanza sullo Ius sanguinis, secondo il quale viene trasmessa dai parenti e non dal luogo di nascita, oppure su versioni “temperate” dello Ius soli, che danno la cittadinanza alla nascita in modo automatico solo a determinate condizioni. Chi applica lo Ius soli incondizionato: Brasile, Canada e Usa - Lo Ius soli senza restrizioni è applicato - tra gli altri - in Argentina, Brasile, Canada, Cile, Ecuador, Messico, Pakistan, Perù, Uruguay, Venezuela, e appunto Stati Uniti, terra d’immigrati, dove lo Ius soli è un cardine storico. La “clausola sulla cittadinanza” nel 14esimo emendamento della costituzione Usa, approvato allo scopo di garantire i diritti degli ex schiavi, dice che “tutte le persone nate o naturalizzate negli Stati Uniti (...) sono cittadini degli Stati Uniti”. Una decisione della Corte Suprema permette al governo di negare la cittadinanza solo in caso in cui si tratti di figli di diplomatici o di bambini nati da genitori facenti parte di forze nemiche d’occupazione. Le forme di Ius soli “ristretto”: dalla Francia alla Germania - Sono molti i Paesi dove viene applicato uno Ius soli “ristretto”, che richiede che almeno uno dei due genitori del neonato sia cittadino o abbia ottenuto la residenza permanente nello Stato in questione al momento della nascita del bambino. In Francia, ad esempio, serve che almeno un genitore sia cittadino oppure nato in Francia (o in un territorio d’oltremare), ma il figlio può acquisire la cittadinanza ai 18 anni se dagli 11 in poi ne ha vissuti almeno 5 nel Paese. In Germania, dove fino al 2000 vigeva un pieno Ius sanguinis, ora si può ottenere la cittadinanza alla nascita se almeno un genitore ha un permesso di soggiorno permanente. E funziona in modo simile (con molte varianti) in Spagna, Regno Unito, Portogallo, Irlanda, Grecia, Iran, Australia e altri Paesi. L’India e Malta, dove esisteva lo Ius soli, lo hanno entrambe abolito. Mentre Israele fa storia a sé: a Tel Aviv la cittadinanza, regolata da atti dei primi anni Cinquanta come la Legge del Ritorno, può essere ottenuta appunto per “ritorno” (per tutti gli ebrei stranieri intenzionati a trasferirsi), per residenza (per gli arabi dell’ex mandato britannico), per discendenza (Ius sanguinis) e anche per Ius soli (purché il bambino non abbia un’altra cittadinanza). L’Italia e la cittadinanza per discendenza - L’Italia, dove a lungo si è dibattuto sull’introduzione dello Ius soli, nell’articolo 1 della legge 91/92 stabilisce che è cittadino per nascita il figlio di padre o madre cittadini italiani. Si tratta dello Ius sanguinis, anche se in Italia esiste una forma particolare di Ius soli: uno straniero nato in Italia che vi abbia risieduto legalmente senza interruzioni fino ai 18 anni, può richiedere la cittadinanza italiana per naturalizzazione (ne è un esempio Mario Balotelli, nato a Palermo da genitori ghanesi, ma il cui affido non fu mai tramutato in adozione e perciò dovette aspettare). Lo Ius sanguinis è spesso applicato anche nei Paesi dove sono in vigore forme di Ius soli (i due diritti non si escludono) e anche per la nascita fuori dal territorio dello Stato. Il Regno Unito, ad esempio, li ha entrambi: un cittadino britannico (non per discendenza ma ad esempio naturalizzato) passa la cittadinanza al figlio nato all’estero, per una generazione. Lo applicano in via esclusiva - tra i tanti - il Giappone, la Corea del Sud, l’Austria e la Russia. Brasile. Amazzonia devastata dai roghi. Bolsonaro: “Sono state le Ong” di emiliano guanella La Stampa, 23 agosto 2019 Il presidente incolpa le organizzazioni ambientaliste: “Hanno perso i finanziamenti, così seminano il panico”. Sui social e in piazza scatta l’indignazione: accuse false. I “fazendeiros”: pronti a occupare le terre bruciate. Mentre l’Amazzonia sta bruciando il presidente brasiliano Jair Bolsonaro sa già a chi dare la colpa. “Non chiedetemi le prove, ma ci sono forti indizi che a provocare gli incendi di questi giorni siano state le Ong ambientaliste. Hanno perso i fondi statali e per questo stanno seminando il panico, danneggiando così l’immagine del nostro Paese”. Nessuna prova, nessun documento, ma le accuse partono lo stesso. “Potrebbero essere stati anche gli agricoltori? Certo, tutti sono sospettabili, anche gli indios: ma secondo me, vi ripeto, le Ong sono in cima alla lista”. Dichiarazioni che hanno suscitato forti proteste sui social e nelle piazze, mentre l’unico dato certo è che la foresta continua a bruciare. Secondo l’Inpe, l’istituto nazionale incaricato di monitorare attraverso i satelliti e gli aerei radar tutta l’Amazzonia, da gennaio ad oggi sono stati bruciati 320.000 ettari di foresta, 80% in più rispetto allo stesso periodo del 2018. Non basta la consueta metafora dei campi di calcio per disegnare l’entità del disastro; meglio pensare a 3 volte la superficie del comune di Roma o a tutta la Val d’Aosta. A preoccupare, poi, è la curva crescente di agosto, che coincide con uno dei periodi più secchi dell’anno. L’Amazzonia è enorme e ovunque sono arrivate le fiamme: Rondonia, Acre, Amazonas, Mato Grosso, e infine lo strategico stato del Parà, epicentro da tempo dei conflitti più violenti per la terra. Nel municipio di Altamira, uno dei più estesi di tutto il Brasile, sabato 10 agosto c’è stato il “dia do fogo”; sono stati registrati 194 incendi in poche ore, molti dei quali sono partiti all’interno delle riserve indigene dove, in teoria, non dovrebbe entrare nessuno. A smentire la tesi anti-Ong di Bolsonaro sono arrivate le dichiarazioni di alcuni “fazendeiros”, che sui social hanno pubblicato immagini degli incendi ammettendo che si è trattato di una grande mobilitazione per dichiarare al governo che sono pronti a occupare nuove terre. Che vogliono, insomma, lavorare. Il ciclo della deforestazione in Amazzonia inizia quasi sempre così; alle fiamme seguono le ruspe per portare via i resti di alberi, poi si installano gli animali al pascolo e infine le coltivazioni. Tutto secondo calendario: si brucia quando non piove, si pianta prima dell’arrivo delle piogge, entro ottobre e novembre. La soia cresce velocemente e regala profitti straordinari; il Sud Parà è tra le regioni più produttive del Paese, soia e mais. I ricercatori sono preoccupati. “Per 50 anni - spiega Robert Muggah, dell’Istituto Igarapé - il Brasile ha ottenuto risultati importanti per diminuire gli incendi e la successiva deforestazione. Da 5 anni a questa parte questa curva è cambiata e negli ultimi 12 mesi abbiamo registrato un aumento del 50%”. La lobby agroindustriale, che conta su 250 parlamentari oltre alla ministra dell’agricoltura Tereza Cristina, non prende posizione, mentre nel Congresso si stanno discutendo leggi d’amnistia per le invasioni di terre demaniali in Amazzonia. Ibama e Icmbio, i due principali organi pubblici di controllo, funzionano con meno della metà dell’organico dopo i tagli decisi dal governo. “Le dichiarazioni del presidente - dicono a Greenpeace - sono un atto di grande vigliaccheria. Bolsonaro non accetta la responsabilità di quello che semina e accusa le uniche istituzioni che cercano di fermare questa tragedia”. Sono diverse le manifestazioni in programma. “Dal governo - sostiene Wwf - si dovrebbe fomentare il dibattito e l’azione concreta per bloccare tutto questo. E invece si cerca di deviare l’attenzione con discussioni sterili, basate su accuse false”. A schierarsi con gli attivisti sono anche i calciatori della Juve, Cristiano Ronaldo e Paulo Dybala: “La foresta Amazzonica produce oltre il 20% dell’ossigeno del mondo. È nostra responsabilità aiutare a salvare il pianeta”, ha twittato il primo. Il secondo ha ribadito: “L’Amazzonia non è solo del Sud America, appartiene a tutti. La foresta sono i polmoni della Terra”. Parole e polemiche, mentre la terra e la foresta continuano a bruciare. Medio Oriente. Gli Stati Uniti ammettono: “Israele sta bombardando l’Iraq” di giordano stabile La Stampa, 23 agosto 2019 Gli Stati Uniti ammettono per la prima volta che Israele ha condotto “svariati attacchi” in Iraq. I raid hanno colpito basi delle milizie sciite alleate di Teheran, dove si sospettava fossero nascosti missili ad alta precisione forniti dall’Iran, destinati a essere spostati in Siria. La conferma dei raid è arrivata da funzionari del governo americano, che sono voluti restare anonimi, al New York Times. Ieri il premier israeliano Benjamin Netanyahu ha alluso ai bombardamenti, senza però specificare che gli obiettivi erano in Iraq. “Stiamo operando - ha detto- in molte aree contro uno Stato che ci vuole annientare. Naturalmente ho dato carta bianca alle forze di sicurezza perché facciano qualsiasi cosa per stroncare i piani dell’Iran”. A partire dal 19 luglio quattro basi e depositi delle milizie sciite irachene, conosciute con il nome di Hashd al-Shaabi, cioè forze di mobilitazione popolare, sono stati colpi e distrutti. In funzionari si sono riferiti soprattutto al raid del 19 luglio, a Nord di Baghdad, che avrebbe colpito una base usata dai Pasdaran “per trasferire armi in Siria” e avrebbe spazzato via una fornitura di missili ad alta precisione “con una portata di 200 chilometri”. Sono armi che le Guardie rivoluzionarie vogliono piazzare vicino al confine con Israele per tenerla sotto scacco. Israele ha condotto “oltre 200 raid” in Siria a partire dal 2013, quando la milizia sciita libanese Hezbollah è intervenuta nella guerra civile siriana al fianco di Bashar al-Assad. I raid sono stati ammessi ufficialmente soltanto l’anno scorso dal capo di Stato maggiore e dall’ex ministro della Difesa Avigdor Lieberman. Ma ora il fronte si è spostato in Iraq. Gli alti ufficiali israeliani hanno detto di considerare quel settore “il più minaccioso in questo momento”, perché le milizie sciite e i consiglieri militari dei Pasdaran stanno costruendo un’infrastruttura militare sempre più estesa e sofisticata. Le milizie sciite irachene contano in totale su 200 mila uomini. Circa la metà hanno stretti legami con Teheran e rispondono al comandante delle forze speciali dei Pasdaran, generale Qassem Soleimani. Papua. Rivolta antirazzista degli studenti, il governo blocca il web di Emanuele Giordana Il Manifesto, 23 agosto 2019 Trattati da “scimmie” a Giava e altrove, gli studenti di Papua protestano da quattro giorni. Ma oltre alle discriminazioni pesa il crescente divario di ricchezza con gli indonesiani. Farfak, Mimika, Manokwari, Sorong, Jayapura sono i nomi di alcune località delle province indonesiane di Papua e Papua Barat (un tempo Irian Jaya) dove da lunedì la piazza protesta contro il trattamento razzista riservato a Surabaya (Giava) ad alcuni studenti in trasferta nell’isola che ospita la capitale Giacarta. È li che venerdì scorso folla e polizia hanno circondato un dormitorio studentesco dove una quarantina di papuasi erano accusati di aver oltraggiato la bandiera nazionale. I video dell’incidente di Surabaya hanno fatto il giro dei social, molto diffusi in Indonesia, e a poco sono serviti gli inviti del presidente Jokowi a “perdonare” i concittadini accusati di aver apostrofato gli studenti con slogan razzisti chiamandoli “scimmie”. Tra la folla di Surabaya c’erano anche agenti di polizia e soldati accusati di aver spalleggiato i dimostranti che se la prendevano con gli studenti. Tra l’alto la polizia, dopo aver sparato gas lacrimogeni nel dormitorio aveva arrestato gli studenti per poi rilasciarli dopo poche ore senza aver trovato alcuna prova del fatto che fossero responsabili di oltraggio alla bandiera. La più orientale delle province indonesiane è non solo la più povera (pur ospitando la più grande miniera d’oro del mondo, proprietà dell’americana Freeport McMoran) ma è abitata da gente il cui colore della pelle è diventato un elemento di emarginazione che ha fatto infuriare una popolazione che da sempre si sente cittadina di serie B nel grande arcipelago. Per tutta risposta il governo ha deciso di bloccare Internet per tentare di limitare l’uso dei social, alimentando una rabbia contenuta solo con l’invio a Papua di oltre mille agenti e l’arresto di decine di attivisti. Solo ieri finalmente il presidente Jokowi ha detto pubblicamente di aver chiesto alla polizia il pugno di ferro contro episodi razzisti ammettendo di fatto ciò che in un primo tempo aveva sottovalutato. La protesta a Papua si era intanto estesa anche a Giava in diverse città dove papuasi e giavanesi hanno manifestato solidarietà agli studenti di Surabaya: “Stop Rasis” (Stop al razzismo) e “Kami bukan monyet” (Non siamo scimmie) stava scritto sui cartelli agitati dai dimostranti in diverse città indonesiane. “I disordini sono l’accumulo di molti problemi che non sono stati ancora risolti”, sostiene Adriana Elisabeth, ricercatrice dell’Istituto indonesiano delle scienze (Lipi) che è anche coordinatrice del Papua Peace Network, una rete per facilitare il dialogo col governo. Intervistata dal Jakarta Globe, Adriana sostiene che continua a crescere il divario di ricchezza tra i locali e i tanti indonesiani che, provenienti da altre parti dell’arcipelago, si insediano nell’area: “L’identità locale è stata umiliata verbalmente e se lo associamo ai problemi economici ciò provoca anche invidia sociale. Numerosi siti commerciali sono stati danneggiati durante i disordini e ciò dimostra l’antipatia per i migranti. Sebbene le interazioni quotidiane siano relativamente tranquille, il problema di fondo non viene risolto e una piccola scintilla può innescare disordini di massa”, conclude la ricercatrice, che punta l’indice su questioni relative ai diritti umani mai risolte e sottovalutate con discriminazione razziale ed emarginazione. La notizia della chiusura di Internet intanto ha fatto il giro del Paese sollevando reazioni: la rete per la libertà di espressione del Sudest asiatico (Safenet) sta usando l’hashtag “keep it on” per spingere il governo a revocare il divieto mentre Veronica Koman, avvocatessa per i diritti umani, ha detto ad Al Jazeera che il suo team sta presentando una denuncia per il blocco al relatore speciale delle Nazioni Unite sulla libertà di espressione. Il governo non nasconde la preoccupazione per la presenza nelle manifestazioni di attivisti dell’Organisasi Papua Merdeka (Opm), la più antica organizzazione indipendentista dell’area. Nei mesi scorsi tre gruppi separatisti armati hanno annunciato la creazione di una West Papua Army coordinata dall’United Liberation Movement for West Papua (Ulmwp). I nodi vengono al pettine e non è detto che la protesta - ieri al suo quarto giorno consecutivo - rientri.