L’isolamento in cella che uccide: tanti i suicidi da Nord al Sud di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 22 agosto 2019 L’ultima vittima: un ragazzo iracheno di vent’anni nel carcere di Trieste. La settimana scorsa è morto un ragazzo iracheno di vent’anni nel carcere di Trieste. Era uno dei ristretti in cella di isolamento in un’area dedicata a vari detenuti affetti da disagio psichico. A denunciare il tragico evento è stato Alessandro Giadrossi, il presidente della camera penale triestina che ha partecipato all’iniziativa “Ferragosto in carcere” promossa dal Partito Radicale. Le cause della morte sono però ancora da accertare. D’altronde, nello stesso carcere, nel mese di ottobre, si era impiccato sempre in cella di isolamento un detenuto soprannominato “Tarzan”, un uomo, 46enne, di origini bosniache e arrestato per rapina. Soffriva di problemi psichiatrici, per questo non era un tipo tranquillo e quindi punito in isolamento. Ma questo avviene nelle patrie galere del Nord, come quelle del Sud. In Sicilia c’è stato il caso di Samuele Bua. Aveva ventinove anni e si è ucciso, il 4 novembre, in una cella del carcere Pagliarelli, a Palermo. Soffriva di allucinazioni, manie di persecuzione. La diagnosi di schizofrenia e turbe comportamentali aveva preceduto il riconoscimento di una invalidità all’ottanta per cento. Era stato ricoverato, in una occasione, per le ferite ai polsi che si era inflitto da solo. Pino Apprendi, presidente di Antigone Sicilia, aveva espresso indignazione con parole dure: “Ormai è routine, non fa più notizia, tanto il detenuto è considerato un rifiuto. Il ministero non penserà nemmeno di fare una ispezione, sarebbe una perdita di tempo inutile secondo qualcuno. Io dico basta, non è giusto che avvengano tanti suicidi nel carcere, qualcosa non funziona. Questo ragazzo ha ricevuto tutte le cure necessarie? Gli psicologi e gli educatori lo hanno incontrato? Ci sono le relazioni quotidiane dei medici che avevano l’obbligo di visitarlo? Quanti giorni è stato in isolamento e perché non era nel reparto di psichiatria? Possibile che non ci siano responsabili della vita di un uomo o di una donna che entra nel carcere?”. Il problema dell’isolamento come sanzione disciplinare è stato molto discusso nel passato, soprattutto in merito all’utilizzo delle cosiddette “celle lisce”. Si chiamano così perché dentro non c’è nulla: non ci sono brande né sanitari (i detenuti sono costretti a fare i loro bisogni sul pavimento), né finestre o maniglie, nessun tipo di appiglio. Viene utilizzata per sedare i detenuti che danno in escandescenza, oppure che compiono più volte atti di autolesionismo o tentativi di suicidio. Un rimedio che molto spesso, però, risulta anche deleterio visto i casi di suicidio proprio all’interno di queste celle. Come denunciato da Antigone anche attraverso il recente rapporto di metà anno sullo stato delle nostre carceri, molto spesso gli atti estremi si registrano nei reparti di isolamento. Proprio allo scopo di prevenire i suicidi in carcere, Antigone ha presentato nei mesi scorsi una proposta di legge che puntasse, tra le altre cose, a una riforma complessiva del regime dell’isolamento. Secondo Antigone la prevenzione dei suicidi richiede l’approvazione di norme che assicurino maggiori contatti con l’esterno e con le persone più care, un minore isolamento affettivo, sociale e sensoriale. Il carcere, in sintesi, deve riprodurre la vita normale. “Nella vita normale si incontrano persone, si hanno rapporti affettivi ed intimi, si telefona, si parla, non si sta mai soli per troppo tempo”, spiega Antigone, aggiungendo che “va rinforzato il sistema delle relazioni affettive, vanno aumentate le telefonate, va evitato l’isolamento forzato dal mondo”. L’associazione evidenza, appunto, che l’isolamento penitenziario fa male alla salute psichica del detenuto. “Durante l’isolamento è più frequente che ci si suicidi. Vanno posti limiti di tempo. Va abolita la norma obsoleta che prevede l’isolamento diurno per i pluri- ergastolani”, conclude Antigone. Carcere ingiusto, risarcimento agli assolti. Petrilli: presto una nuova manifestazione Il Centro, 22 agosto 2019 “Sto organizzando a breve un’altra manifestazione davanti al parlamento per spingere il nuovo governo, che spero troverà compimento, affinché tra i vari temi possa affrontare anche quello del diritto al risarcimento per ingiusta detenzione a tutti gli assolti”. Così Giulio Petrilli del Comitato per il diritto al risarcimento per ingiusta detenzione a tutti gli assolti. “Cercherò di spingere affinché nel patto programmatico di un eventuale prossimo governo, sul tema della riforma della giustizia, possa essere inserito questo punto”, riprende Petrilli, “dopo la risposta di pochi giorni fa della Commissione europea sulle petizioni, che riconosceva la giustezza della mia battaglia, sei anni di reclusione in tredici carceri speciali, con l’accusa di banda armata Prima Linea, poi assolto e non risarcito. Nella risposta hanno asserito di non poter far nulla in quanto non esiste una legge europea sul tema, ma hanno riconosciuto che la legge andrebbe fatta al più presto visto che è un tema importante quello del diritto al risarcimento per coloro i quali hanno subìto ingiustamente l’inviolabilità della libertà personale”. E Petrilli ricorda che “attualmente in Italia l’ottanta per cento delle domande per il risarcimento da ingiusta detenzione viene rigettato per una norma anticostituzionale”. Petrilli si dice pronto a organizzare “una nuova manifestazione davanti al parlamento sperando che lo stesso vari una legge che garantisca a tutti gli assolti il diritto al risarcimento per ingiusta detenzione”. Giustizia, la grande assente. Una situazione drammatica e comatosa di Valter Vecellio lindro.it, 22 agosto 2019 Sulla crisi di governo che si consuma in questi giorni si dice e si scrive di tutto, e il suo contrario. In tutti gli interventi, sia di quelli che sostengono l’operato dell’ormai ex Presidente del Consiglio Giuseppe Conte, sia di quelli che l’osteggiano, un grande assente: la situazione comatosa e drammatica in cui versa la giustizia. Non costituisce motivo di urgenza e di allarme per nessuno, in quel Parlamento, in quei “Palazzi”. Eppure è di qualche giorno fa il tour nelle carceri del Partito Radicale; le relazioni che sono state puntualmente fatte al termine delle ispezioni, costituiscono un documento eccezionale e terrificante. Nulla di nuovo, per chi si occupa di queste cose. È questa la cosa terrificante: il nulla di nuovo che si coniuga con una indifferenza inquietante e grave. Alcuni casi: a Tolmezzo sovraffollamento, carenze igieniche, mancanza di personale: “234 persone, di cui 198 in alta sicurezza, a fronte di una capienza regolamentare di 149 unità”. A Palermo, l’Ucciardone è una “struttura monumentale che va chiusa: un centinaio di stranieri sono senza un mediatore culturale”. A Taranto “condizioni igieniche al limite”. A Bari “serve un nuovo carcere”. In tre giorni, Partito Radicale, Unione delle Camere Penali e Garanti dei Detenuti, hanno “ispezionato” una settantina di carceri. Innumerevoli, i problemi riscontrati. Per esempio, una questione di cui si parla poco e pochissimo si sa: la vera e propria pioggia di psicofarmaci. Il carcere da una parte ha il problema di una parte della sua popolazione che necessita di una coazione, seppur benigna; dall’altra, di quella coazione non ha necessità, ma la ricerca. La risposta è quasi esclusivamente farmacologica: il biperidene (farmaco antiparkinsoniano con effetti euforici); quietiapina (un antipsicotico); il clonazepam (una benzodiazepina che ad alte dosi ha effetti disinibenti) sono la scorciatoia chimica alle contraddizioni del carcere. L’alternativa, la terapia psichiatrica, è quasi inesistente: la copertura medica dello psichiatra è riconosciuta come una necessità, ma il monte ore degli specialisti è di 105.751 ore: per 54 mila detenuti significa meno di due ore all’anno. A un certo punto il detenuto, ormai soggiogato, chiede all’infermiere dosi maggiori e pur di ottenerle fa rumore di notte, si taglia, ingoia oggetti, aggredisce agenti e compagni di cella. Nascono anche così i 261 suicidi avvenuti nell’ultimo quinquennio e i 6.000 casi di autolesionismo che si registrano ogni anno. Molti detenuti, in astinenza, fanno uso del gas dei fornellini, quelli che l’amministrazione penitenziaria dovrebbe sostituire da anni, per evitare che su 50 suicidi l’anno, dieci siano involontari e dovuti all’inalazione con un sacchetto infilato in testa. Merita di essere segnalato un libro di recente pubblicazione: “Bisogna aver visto. Il carcere nella riflessione degli antifascisti”, a cura di Patrizio Gonnella e Dario Ippolito, edizione dell’Asino. Si tratta di un’antologia di testi raccolti da Piero Calamandrei su “Il Ponte” nel 1949. I testi sono di personaggi di grande spessore: Vittorio Foa, Emilio Lussu, Ernesto Rossi, Gaetano Salvemini, Carlo Levi, Leone Ginsburg e altri. Tra loro, Altiero Spinelli: arrestato il 3 giugno 1927 a Milano; dieci anni in carcere tra Lucca, Viterbo e Civitavecchia; poi cinque anni al confino, a Ponza e Ventotene. “A pensarci bene”, scrive Spinelli, “credo che, per quanto si voglia trasformare e perfezionare il carcere, non lo si può modificare in termini sostanziale. Naturalmente è possibile migliorare il cibo, rendere più igieniche le celle e le camerate, dare più svaghi e più lavori e simili. Ma ciò non altera il dato essenziale, che consiste nel tenere degli uomini in gabbia, nella impossibilità di sviluppare una vita normale, privi quasi completamente di una tutela giuridica. Vorrei perciò parlarti non già di questo o quel difetto da correggere nel sistema carcerario, ma del suo significato profondo. Se non erro, il carcere è concepito comunemente come uno strumento di pena e di rieducazione alla vita civile. Per quel che possono valere le mie osservazioni ed esperienze, ti assicuro che si tratta di due grossolane mistificazioni. Chi pensa che il carcere, comunque modificato, possa essere uno strumento di redenzione morale e sociale è vittima non di una illusione, ma di una ipocrisia. In realtà, se si ha un’idea di quel che sia la dignità umana, bisogna dire che nessuno ha il diritto di giudicare sulla redenzione di un altro essere umano, perché chi è obbligato a cercare che un tal giudizio sia reso su lui è con ciò stesso obbligato a dannarsi”. Legalità, umanità e Governo possibile. Ritorniamo al buon diritto di Maurizio Ambrosini Avvenire, 22 agosto 2019 Finalmente, dopo venti giorni, i naufraghi della Open Arms sono potuti sbarcare, grazie a un provvidenziale intervento della magistratura. Il sospiro di sollievo è legittimo e anche doveroso, ma c’è un aspetto della questione che merita un approfondimento. Per giorni si è discusso su quanti e quali profughi stessero abbastanza male da convincere le autorità a lasciarli scendere a terra. La contesa politico-umanitaria si è trasferita su un terreno che dovrebbe essere relativamente obiettivo, quello medico, sulla base di diagnosi contrapposte sulle condizioni delle persone trattenute a bordo. Il punto è che le questioni dei salvataggi in mare e dell’asilo sono state dislocate dal piano dei diritti a quello della compassione. Non si tratta più di diritti umani incoercibili, e quindi di doveri inderogabili per uno Stato democratico che quei diritti ha liberamente riconosciuto e incorporato nella propria Costituzione e in svariati Trattati internazionali. Sono stati ridotti a situazioni da prevenire e da tenere a distanza il più possibile, e poi eventualmente da esaminare caso per caso ancora prima che gli interessati richiedano eventualmente la protezione internazionale. I criteri surrettiziamente introdotti sono quelli dell’età (i minorenni soli, ma non quelli che hanno un fratello a bordo), del genere (le donne, specialmente se incinte o accompagnate da bambini in tenera età), o appunto delle condizioni di salute (ma con riserve, soprattutto quando il problema riguarda la sfera psichica, e non è quindi facilmente diagnosticabile). Uno scivolamento analogo si constata nel ricorso ad altri due argomenti anti-accoglienza abbondantemente utilizzati dalla rumorosa propaganda nazional-populista, di fronte ai quali i difensori dei diritti umani mostrano spesso un certo imbarazzo. Uno è il preteso benessere dei richiedenti asilo, dotati - si dice - di cellulari ultramoderni, catenine d’oro e monili vari. Anche in questo caso, i rifugiati dovrebbero far compassione per essere accolti, recitare la parte dei miserabili privi di tutto per suscitare la nostra pietà. Altrimenti non sarebbero meritevoli di accoglienza. Riecheggia la perniciosa idea che la causa delle migrazioni in generale sia la povertà assoluta, la fame, l’incapacità di provvedere a se stessi, ma l’idea è ancora più sbagliata quando si tratta dell’asilo: un tempo i rifugiati in Europa erano soprattutto persone colte, intellettuali, artisti o voci dissenzienti che appartenevano alle élite dei Paesi di origine. “Io piddino difendo il forzista Tatarella, in cella senza processo” di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 22 agosto 2019 L’abuso della custodia cautelare in carcere torna a far discutere la politica, scatenando una insolita solidarietà bipartisan. È il caso di Pietro Tatarella, ex consigliere comunale a Palazzo Marino ed ex vice coordinatore lombardo di Forza Italia, arrestato lo scorso 7 maggio dalla Dda di Milano nell’ambito della maxi inchiesta denominata “Mensa dei poveri”. Inizialmente detenuto nel carcere di Opera (Mi), il 14 agosto Tatarella era stato trasferito in quello di Busto Arsizio senza cha familiari e avvocati fossero stati avvisati. L’abuso della custodia cautelare in carcere torna a far discutere la politica, scatenando una insolita solidarietà bipartisan. È il caso di Pietro Tatarella, ex consigliere comunale a Palazzo Marino ed ex vice coordinatore lombardo di Forza Italia, arrestato lo scorso 7 maggio dalla Dda di Milano nell’ambito della maxi inchiesta denominata “Mensa dei poveri”. Per i magistrati milanesi, Silvia Bonardi, Luigi Furno e Adriano Scudieri, coordinati dall’aggiunto Alessandra Dolci, Tatarella sarebbe stato al centro di un’associazione per delinquere finalizzata alla corruzione e al finanziamento illecito. Insieme a lui era stato arrestato anche Fabio Altitonante, coordinatore di Forza Italia a Milano e sottosegretario in Regione Lombardia. L’indagine aveva terremotato gli azzurri proprio alla vigilia delle ultime elezioni europee dove Tatarella, 36 anni, candidato nella circoscrizione Nord Ovest, doveva essere il simbolo del rinnovamento del partito. Inizialmente detenuto nel carcere di Opera (Mi), il 14 agosto Tatarella era stato trasferito in quello di Busto Arsizio (Va). Non più nel regime di alta sorveglianza, come nei primi mesi di detenzione quando i giudici avevano disposto l’isolamento stretto (un’ora d’aria al giorno da solo, nessun contatto con gli altri detenuti), ma in quello di media sorveglianza. Il trasferimento a Busto Arsizio era stato comunicato ai suoi avvocati e familiari solo dopo Ferragosto. A sollevare ‘ dubbi’ sulla gestione dell’inchiesta, in particolare sui tempi e sul trasferimento tenuto nascosto agli avvocati e ai familiari di Tatarella, sono stati questa settimana alcuni esponenti dem. Il primo ad intervenire è stato il consigliere comunale milanese Alessandro Giungi. “Pietro Tatarella è in carcere da tre mesi - scrive il consigliere del Pd - senza che vi sia stato neppure l’inizio del processo. Tre mesi di cui uno in completo isolamento. Dove siete garantisti a corrente alternata? Dove siete per le migliaia di persone detenute nelle stesse condizioni di Tatarella? Il carcere come strumento di pena “preventiva” a me fa orrore”. A seguire, Pietro Bussolati, consigliere regionale lombardo, recentemente nominato nella segreteria nazionale del Pd con delega alle imprese e alle professioni da Nicola Zingaretti, il quale, stigmatizzando il fatto che “il trasferimento di Tatarella è stato comunicato alla famiglia dopo che è avvenuto”, ha ricordato come l’esponente di Forza Italia sia in carcere da oltre tre mesi e che “questo è inaccettabile perché sia che Tatarella sarà ritenuto colpevole che innocente si tratta di una detenzione preventiva senza che il processo sia nemmeno iniziato”. Questa vicenda, prosegue poi Bussolati, “richiama ad un garantismo doveroso” anche “verso gli altri carcerati meno noti nelle stesse condizioni”. A rincarare la dose, infine, l’avvocato Mirko Mazzali, delegato del sindaco di Milano Beppe Sala alle periferie. “A proposito di custodia cautelare e di carcere, che una persona detenuta venga trasferita senza che nessuno si preoccupi, neanche a trasferimento avvenuto, di avvisare i familiari è una cosa vergognosa”, sottolinea Mazzali. Sul tema dei trasferimenti dei detenuti nascosti ai legali e ai familiari si segnala anche la dichiarazione del presidente dell’Ordine degli avvocati di Milano, Vinicio Nardo. Questa prassi, ricorda Nardo, è la “normalità”. “Il difensore per evitare viaggi a vuoto, se ha sentore che il suo assistito possa essere spostato, effettua sempre una telefonata di verifica all’ufficio matricola”, puntualizza Nardo. “Questi trasferimenti - aggiunge - vengono motivati per ragioni di sicurezza dal Dap e dall’autorità giudiziaria. Ma sono fonte di grande disagio, soprattutto per i familiari che spesso apprendono dello spostamento solo il giorno in cui si recano in carcere per il colloquio”. Tornado all’inchiesta, Altitonante è tornato in libertà all’inizio del mese dopo che il riesame ha smontato gran parte delle accise nei suoi confronti. Anche Tatarella è in attesa della pronuncia del riesame. L’udienza si è tenuta ieri. Il Garante dei detenuti: “Lucano deve poter vedere il padre” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 22 agosto 2019 Il genitore dell’ex Sindaco di Riace è gravemente malato. Il papà di Mimmo Lucano, l’ex sindaco di Riace, sta consumando gli ultimi giorni della sua vita a causa della leucemia. Ma l’ex primo cittadino non può abbracciarlo per l’ultima volta. Lo scorso ottobre è stato accusato dalla procura di Locri di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e illeciti nell’affidamento diretto del servizio di raccolta dei rifiuti. Lucano è attualmente sottoposto al divieto di dimora. È di fatto, privato della libertà. E quando una persona è sottoposta a limitazioni e, soprattutto, vengono intaccati i diritti umani, c’è il garante nazionale Mauro Palma che interviene. Così è accaduto eri. “Il divieto di dimora che ha impedito all’ex sindaco di Riace Mimmo Lucano di vedere il padre, 93 anni e malato di leucemia, ha un sapore punitivo che, in qualche, modo non corrisponde al modo in cui i provvedimenti sono stati pensati e istituiti, come il confinamento”, ha detto Mauro Palma, esprimendo preoccupazione di questa distorsione. “Quando alcuni provvedimenti raggiungono dei livelli così forti, tanto da toccare uno dei principi della Convenzione europea dei diritti dell’uomo nell’ambito del diritto al mantenimento dei rapporti affettivi, acquistano una fisionomia diversa e un significato diverso rispetto a quello che dovrebbero avere”, aggiunge il Garante. Le parole del Garante Nazionale dei diritti delle persone private della libertà a sostegno di Mimmo Lucano non sono le sole arrivate in questi giorni, da quando si è diffusa la notizia che il divieto di dimora impedisce all’ex sindaco di Riace di salutare il padre morente. Oltre a Roberto Saviano, che nelle scorse ore si era unito agli appelli di migliaia di persone comuni che invocavano l’intervento del presidente della Repubblica Sergio Mattarella affinché fosse consentito a Lucano di salutare di tornare a Riace per visitare il padre, c’era stato anche un tweet polemico di Beppe Fiorello sul fatto che mentre i mafiosi sono ai domiciliari, Mimmo Lucano invece “non può nemmeno stringere la mano del padre nel momento più duro dell’esistenza umana, l’addio alla vita. Vergogna”. I mafiosi in realtà in carcere ci sono. Ma perfino quelli in 41 bis, com’è giusto che sia, hanno la possibilità di usufruire - a discrezione della magistratura - un permesso di necessità per poter abbracciare l’ultima volta i proprio cari morenti. Quindi, va da sé pensare, che anche l’ex sindaco di Riace ha il diritto di poter usufruire di un permesso speciale. L’affettività è un principio salvaguardato, appunto, da tutti gli organismi internazionali che si occupano dei diritti umani. Nel frattempo, dall’esilio di Caulonia, dove vive ospite in un appartamento dallo scorso ottobre, l’ex sindaco di Riace fa sapere che “anche se mio padre non dovesse farcela, non chiederò il permesso di tornare a Riace”, perché “chiedo giustizia, non pietà”. Se l’avvocato è in sciopero la sentenza è da annullare di Michele Damiani Italia Oggi, 22 agosto 2019 Se il giudice non concede il rinvio della trattazione in presenza di una dichiarazione del difensore di adesione allo sciopero, si determinerà la nullità per la mancata assistenza dell’imputato. La proclamazione di una sentenza avvenuta quando l’avvocato incaricato ha aderito ad uno sciopero determina la nullità della sentenza stessa. In particolare, se il giudice non concede il rinvio della trattazione in presenza di una dichiarazione del difensore di adesione allo sciopero, si determinerà la nullità per la mancata assistenza dell’imputato. È la conclusione a cui è giunta la quinta sezione penale della Corte di cassazione nella sentenza 35102/2019. La vicenda riguarda una condanna per bancarotta fraudolenta confermata dalla Corte d’appello di Napoli in relazione a un fallimento avvenuto nel 2008. Contro questa sentenza è stato presentato ricorso in Cassazione, in particolare perché l’avvocato dell’imputato aveva depositato il 12 maggio 2017 presso la cancelleria della Corte d’appello la dichiarazione di adesione allo sciopero per le udienze dal 22 al 25 maggio 2017 deliberato dall’Unione delle camere penali. Ciò nonostante, la Corte d’appello napoletana fissava l’udienza per il 22 maggio e, non tenendo conto della dichiarazione di adesione allo sciopero da parte del legale, emetteva sentenza in sua assenza. Per il ricorso, quindi, la sentenza doveva considerarsi nulla per la mancata assistenza dell’imputato ai sensi dell’art. 178, comma 1, lettera c) del codice di procedura penale. Secondo la Corte, il ricorso è fondato. Questo perché “in tema di dichiarazione di adesione del difensore alla iniziativa dell’astensione dalla partecipazione delle udienze legittimamente proclamata dagli organismi rappresentativi di categoria, la mancata concessione da parte del giudice del rinvio della trattazione dell’udienza camerale in presenza di una dichiarazione effettuata o comunicata dal difensore determina una nullità per la mancata assistenza dell’imputato”. Perché l’udienza sia rinviata, si legge nella sentenza, è sufficiente che il difensore comunichi, nelle forme previste, la volontà di astenersi “in quanto con tale comunicazione, sia pure implicitamente, manifesta la propria volontà di essere presente all’udienza”. Cassazione: carcere per il militare che insulta lo Stato su Facebook di Annamaria Villafrate studiocataldi.it, 22 agosto 2019 Per la Suprema Corte merita chi pubblica sul proprio profilo Facebook la foto di una nave da guerra accompagnata da una frase offensiva in danno dello Stato italiano commette reato di vilipendio. Integra il reato di vilipendio ai danni dello Stato pubblicare sul proprio profilo Facebook la foto di una nave di guerra accompagnata da una frase offensiva per l’Italia. Queste le conclusioni della sentenza n. 35988/2019 della Cassazione, che respinge il ricorso di un militare, condannato a un anno e quattro mesi di reclusione in sede di merito. La vicenda processuale - La Corte militare di appello di Roma conferma la sentenza del Tribunale militare di Napoli che ha dichiarato C.P.C colpevole del reato di vilipendio della Repubblica, aggravato ai sensi degli artt. 81 e 47, primo comma n. 2, cod. pen. mil. pace, condannandolo alla pena di anni uno e mesi quattro di reclusione militare. Per i giudici di merito, l’imputato, tenente di vascello pilota della Marina Militare Italiana, in data 27.12.2015, per aver pubblicato sul proprio profilo Facebook, la foto di una nave da guerra e la scritta “Fincantieri: collaborazione con l’India per sette fregate Stealth Imola Oggi”, commetteva reato di vilipendio alla repubblica scrivendo sulla pagina una frase offensiva per l’Italia, indicata come “uno Stato di merda”. Ricorrevano quindi in Cassazione i difensori dell’imputato lamentando: l’assenza dell’elemento materiale e psicologico del reato, previsti dall’art. 81 cod. pen. mil., l’erronea applicazione degli artt. 181 e 191 cod. proc. pen. e 54 cod. pen; la violazione dell’art. 51 cod. pen poiché l’imputato non ha potuto esercitare il proprio diritto di difesa, visto che non è stata effettuata alcuna verifica per accertare la paternità della frase incriminata. La Corte di Cassazione, con sentenza n. 35988/2019 dichiara il ricorso inammissibile, ritenendo infondati i motivi sollevati in difesa dell’imputato. Gli Ermellini prima di tutto ricordano che: “Il reato di vilipendio della Repubblica, delle istituzioni costituzionali e delle forze armate consiste nel disprezzare, tenere a vile, ricusare qualsiasi valore etico, sociale o politico alle istituzioni predette, considerate nella loro entità astratta ovvero concreta, ossia nella loro essenza ideale oppure quali enti concretamente operanti. L’elemento soggettivo del delitto di vilipendio della Repubblica, delle istituzioni costituzionali e delle forze armate consiste nel dolo generico, con conseguente irrilevanza dei motivi particolari che possano aver indotto l’autore a commettere consapevolmente il fatto vilipendioso addebitato. È stato chiarito, inoltre, che il diritto di esprimere liberamente il proprio pensiero (art. 21 Cost.) e, correlativamente, quello di associarsi liberamente in partiti politici (art. 49 Cost.) per manifestare determinate ideologie, al fine di concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale, trovano un limite non superabile nella esigenza di tutela del decoro e del prestigio delle istituzioni, per cui l’uso di espressioni di offesa, disprezzo, contumelia costituisce vilipendio punibile ex art 290 cod. pen. Il diritto di critica e libera manifestazione del pensiero supera il suo limite giuridico costituito dal rispetto del prestigio delle istituzioni repubblicane e decampa, quindi, nell’abuso del diritto, cioè nel fatto reato costituente il delitto di vilipendio, allorché la critica trascenda nel gratuito oltraggio, fine a se stesso. In riferimento al requisito di pubblicità del messaggio, la giurisprudenza della Corte di legittimità è ormai costante nel ritenere che la diffusione di un messaggio diffamatorio attraverso l’uso di una bacheca Facebook integra un’ipotesi di diffamazione aggravata ai sensi dell’art. 595, comma terzo, cod. pen., poiché trattasi di condotta potenzialmente capace di raggiungere un numero indeterminato o comunque quantitativamente apprezzabile di persone”. Il fatto poi che l’imputato abbia utilizzato nello specifico il termine “Stato” rende la condotta non riconducibile al reato di cui all’art. 82 del cod. pen. mil. sul vilipendio della Nazione Italiana. Il commento riguarda infatti un “articolo sui rapporti commerciali tra l’Italia e l’India, quindi non può essere riferito alla Nazione, ossia alla comunità di individui, ma allo Stato, cioè al soggetto inquadrabile e riconoscibile proprio in quegli organi indicati dalla lettera dell’art. 81 cod. pen. mil. pace, quali, ad esempio, il Governo e le Assemblee legislative”. Stalking: la volontà della vittima di riprendere la relazione non evita il carcere al persecutore di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 22 agosto 2019 Corte di cassazione - Sezione III - Sentenza 21 agosto 2019 n. 36307. La presunta volontà della persona offesa di riallacciare la relazione “sentimentale” con lo stalker e di rimettere la querela, non fa venire meno l’esigenza del carcere cautelare per il persecutore violento. La Corte di cassazione, con la sentenza 36307, accoglie solo in parte il ricorso dell’uomo, accusato di violenza sessuale e di stalking, che chiedeva la revoca dell’ordinanza. I giudici della terza sezione penale, accolgono il punto relativo alla violenza sessuale, in virtù della ritrattazione della sua ex, che aveva ammesso di aver avuto un rapporto consenziente con il suo “persecutore”, mentre c’era stato un solo approccio sgradito al quale si era sottratta. Una dichiarazione di “peso” non considerata dal Tribunale del riesame. Per ottenere i domiciliari non serve invece la circostanza che la parte lesa si fosse riappacificata con il ricorrente, che avesse più volte espresso agli agenti la volontà di rimettere la querela, benché il passo indietro non sia previsto e che avesse avuto un colloquio in carcere con il suo “aguzzino”. Per i giudici, infatti, la presunta volontà di cancellare la “denuncia” e di riprendere la relazione con lo stalker, non incide sull’esigenza cautelare a fronte della persistenza di un rischio di reiterazione del reato. Un pericolo considerato concreto e attuale in virtù dell’indole dell’indagato “possessiva, violenta e totalmente incapace di frenare i propri impulsi”. L’uomo, anche dopo l’allontanamento della compagna dall’abitazione comune, non avrebbe desistito dall’aggredirla fisicamente e verbalmente. Ad avviso della Suprema corte non potevano dunque essere considerate adeguate le misure meno severe, come il divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla vittima, o la restrizione domiciliare con il braccialetto elettronico. Sistemi che, visto il tasso di aggressività e il rancore manifestati in più occasioni, non garantivano la spontanea osservanza delle prescrizioni “connesse a una misura gradata rispetto a quella della custodia cautelare in carcere attesa la gravità dei fatti commessi”. Sequestro preventivo, rimane se la sentenza non è definitiva di Laura Ambrosi e Antonio Iorio Il Sole 24 Ore, 22 agosto 2019 Corte di cassazione - Sentenza 36309/2019. La sentenza non definitiva della commissione tributaria che annulla per vizio formale la cartella relativa ad omessi versamenti iva non fa venir meno la pretesa erariale con la conseguenza che il sequestro preventivo operato in sede penale è legittimo. Solo un provvedimento di sgravio dell’ente impositore, infatti, rappresentando la rinuncia al tributo, può giustificare l’annullamento della misura cautelare. A ribadire questo principio è la Corte di Cassazione, sezione 3 penale, con la sentenza n. 36309 depositata ieri. Nella vicenda oggetto della pronuncia, il Tribunale del riesame confermava il sequestro preventivo disposto dal Gip nei confronti del rappresentante legale di una società per omesso versamento Iva (articolo 10 ter Dlgs 74/00). Avverso il predetto provvedimento, l’interessato ricorreva in Cassazione, evidenziando l’annullamento da parte della commissione tributaria, ancorché non in via definitiva e per vizio formale, della cartella di pagamento. In buona sostanza era venuta meno la pretesa fiscale e, di conseguenza, il sequestro non poteva essere mantenuto. La Suprema corte ha respinto il ricorso. In sintesi, secondo i giudici di legittimità, occorre operare una netta distinzione, ai fini del sequestro, tra sgravio da parte dell’ente impositore e giudizio tributario di annullamento (non definitivo). Lo sgravio è un provvedimento dell’ente impositore necessario per formalizzare la cancellazione della propria pretesa. Si tratta di un atto pubblico fidefacente ed è costitutivo dell’effetto di estinzione del debito erariale. La Cassazione ha precisato che il mantenimento del sequestro non avrebbe giustificazioni in presenza di sgravio: venendo meno la pretesa erariale, infatti, la misura cautelare sarebbe illegittima poiché sarebbe finalizzata alla confisca di un profitto in realtà inesistente (annullato dall’ente impositore). Le sentenze della commissione tributaria invece non sono automaticamente rilevanti nel processo penale. Nella specie, l’Ufficio non aveva sgravato la pretesa a seguito del giudizio della Ctp. La pronuncia conferma un orientamento già espresso in precedenza dai giudici di legittimità e induce a qualche riflessione sotto il profilo operativo in presenza di casi analoghi a quello esaminato della Cassazione. Infatti, sebbene nella sentenza non sia precisato, sembra potersi dedurre che sarebbe stato sufficiente, per la revoca del vincolo, lo sgravio dell’ufficio. In altre parole, non pare si possa far riferimento esclusivamente ad una rinuncia definitiva della pretesa da parte dell’ente. In questi termini, peraltro, si è recentemente espressa la Suprema corte con la sentenza 355/2019 che ha confermato un precedente orientamento (Cassazione 19994/2017 e 39187/2015). Poiché, di norma, l’ente impositore, a seguito della sentenza tributaria favorevole al contribuente, provvede allo sgravio della pretesa, potrebbe essere opportuno, in queste ipotesi, non tanto allegare ai giudici penali la sentenza tributaria favorevole all’interessato ma il successivo sgravio operato dall’ente impositore (in esito alla medesima sentenza). Napoli: carcere di Poggioreale, tra cameroni, “cubicoli” e maltrattamenti di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 22 agosto 2019 La relazione del Garante nazionale dei detenuti dopo la visita “non annunciata” di maggio. Un edificio vecchio che presenta condizioni materiali che non soddisfano quello che richiede l’ordinamento penitenziario. Le stanze di pernottamento delle persone detenute sono estremamente disomogenee. Si va dai cosiddetti “cubicoli” con i servizi igienici a vista, ai cameroni da 14 persone. Particolarmente degradate alcune sezioni, come quella per persone malate o disabili, con letti a castello anche a tre piani. Condizioni che possono essere facilmente considerate in violazione dell’articolo 3 della Convenzione europea per la tutela delle libertà fondamentale e dei diritti umani che inderogabilmente vieta “trattamenti o pene inumane o degradanti”, secondo l’interpretazione che di tale precetto è data dall’elaborazione giurisprudenziale della Corte di Strasburgo. A tutto questo si aggiungono casi che potrebbero profilare il rischio maltrattamento. Parliamo del cosiddetto “mostro di cemento” del carcere di Poggioreale, a Napoli. Ad esporre tutte queste osservazioni è il Garante nazionale delle persone private della libertà che ha svolto la visita non annunciata in carcere suddivisa in due tappe. La prima, durata quattro giorni (dal 2 al 4 maggio 2019), è stata condotta da una delegazione composta dall’intero Collegio del Garante - Mauro Palma, Daniela de Robert ed Emilia Rossi - due componenti dell’Ufficio - Giovanni Suriano e Raffaele De Filippo - e da un’esperta del Garante nazionale - Silvia Talini. La seconda tappa è consistita invece in una visita ad hoc all’Istituto di Santa Maria Capua Vetere per verificare le condizioni di un detenuto che potrebbe essere stato vittima di maltrattamento e trasferito dalla Casa circondariale di Poggioreale il 2 maggio, in coincidenza con l’arrivo della delegazione del Garante. Nella relazione, l’autorità del Garante premette che il primo aspetto che colpisce è la tipologia degli stessi detenuti. Infatti, pur trattandosi di una Casa circondariale, destinata quindi alle persone in attesa di giudizio o condannate a pene inferiori ai cinque anni (o con un residuo di pena inferiore ai cinque anni), sono oltre 1.000 le persone detenute con una sentenza definitiva o mista su una popolazione totale di 2.370 persone. Il Garante sottolinea che tale fattore è un elemento destabilizzante, soprattutto quando ha più volte avuto sentore di pressioni che soggetti in esecuzione di pena esercitano su soggetti più deboli, spesso con frequenti ingressi e successive uscite, secondo una modalità tipica di una criminalità di strada caratterizzata da intrinseca reiterazione dei reati. “Spesso - si legge nella relazione tali condotte criminali ad alta recidiva discendono da soggettivi stili di vita, condizioni sociali degradate, povertà culturale, ricorso a forme di manovalanza microcriminale connessa a taluni territori”. Alcuni reparti hanno ancora i ballatoi, come il reparto “Roma”, altri hanno grandi cameroni, pochissimi spazi comuni per le attività. Il Garante denuncia che “i reparti comunicano - quasi nella loro totalità - il senso di abbandono di uno Stato che sembra non investire realmente nella possibilità di realizzare quanto affermato nella sua Carta e nelle sue leggi”. Infine, sul rischio di maltrattamento, il Garante nazionale ha riscontrato alcuni episodi che sono stati oggetto di approfondimento. In particolare, il caso di una persona che, a seguito di crisi di natura psichica, è stata sottoposta a sorveglianza a vista e trasferita il giorno della visita del Garante in un altro Istituto per generici motivi “disciplinari”, senza consentire al Garante stesso di incontrarla. Per tale motivo, una parte della delegazione si è recata all’istituto dove tale persona si trovava e ha constatato direttamente i visibili segni di lesioni che aveva su varie parti del corpo. Tale situazione, sulla quale il Garante ha fatto una serie di approfondimenti, è stata oggetto di un esposto alla Procura della Repubblica di Napoli. Napoli: Poggioreale, la denuncia del Garante nazionale “detenuto trasferito al mio arrivo” di Piero Rossano Corriere del Mezzogiorno, 22 agosto 2019 Un rapporto corposo, di oltre 20 pagine, sulle condizioni di vita dei detenuti e sulla struttura del carcere di Poggioreale. Un dossier elaborato dal Garante Nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale, che lascia non pochi dubbi sullo stato della vivibilità all’interno della Casa Circondariale di Napoli, considerata, in alcuni suoi reparti, in palese “violazione dell’articolo 3 della Convenzione europea per la tutela delle libertà fondamentali e dei diritti umani che inderogabilmente vieta ‘ trattamenti o pene inumane o degradanti’”. Il documento è frutto della visita specifica alla Casa circondariale di Napoli organizzata lo scorso maggio dal Garante nazionale dei detenuti, finalizzata a verificare alcune situazioni e le generali condizioni di affollamento e di dignità delle condizioni detentive e di cui si è avuta notizia solo ieri per una particolare circostanza: la scoperta di presunte violenze in danno di un detenuto con problemi psichici. Il sovraffollamento - “Nel giorno della visita - si legge nel dossier - l’Istituto, a fronte di una capienza effettiva di 1.515, ospitava 2.373 persone”. Numeri che raccontano di una situazione difficile e che evidenziano un sovraffollamento vicino al 50 %. “Il primo aspetto che colpisce, insieme al pesante sovraffollamento - spiega Daniela de Robert, Garante Nazionale dei Detenuti - è la tipologia degli stessi detenuti. Infatti, pur trattandosi di una Casa circondariale, destinata quindi alle persone in attesa di giudizio o condannate a pene inferiori ai cinque anni, sono oltre 1.000 quelle detenute con una sentenza definitiva o mista su una popolazione totale di 2.370 persone”. Struttura inadeguata Quella di Poggioreale è definita nel report una struttura “inadeguata in cui mancano gli spazi comuni per le attività lavorative, culturali o ricreative e le sale per la socialità di reparto”. Difficile anche la situazione di alcune le stanze di pernottamento, definite “disomogenee”. Il caso scoperto - Una corposa parte del dossier è riservata ad “alcuni episodi che sono stati oggetto di approfondimento. In particolare - viene alla luce - il caso di una persona che, a seguito di crisi di natura psichica, è stata sottoposta a sorveglianza a vista e trasferita il giorno della visita del Garante in un altro Istituto per generici motivi “disciplinari”, senza consentire al Garante stesso di incontrarla”. Per il caso specifico, prosegue la nota, “una parte della delegazione si è recata all’istituto dove tale persona si trovava e ha constatato direttamente i visibili segni di lesioni che aveva su varie parti del corpo”. Denuncia ai magistrati Dopo gli approfondimenti e le valutazioni del caso il Garante ha presentato un esposto alla Procura della Repubblica di Napoli, presso cui è stato istituito il gruppo specializzato intersezionale per i reati commessi in luoghi di custodia o di detenzione e comunque in danno di soggetti privati della libertà personale. I punti a favore - Tra tante criticità riscontrate, c’ è però qualche se medi speranza. “A Poggioreale abbiamo il più alto numero di volontari carcerari in Italia - spiega Samuele Ciambriello, Garante dei detenuti della Regione Campania - un esercito di persone che quotidianamente offre il loro supporto alle persone recluse in diversi ambiti. Da non sottovalutare anche la presenza dei frigoriferi nelle celle. Sembra una cosa banale per chi vive fuori da quelle mura, ma avere la possibilità di conservare alla giusta temperatura cibi e bevande specie nella stagione calda è davvero importante”. Reggio Calabria: svolta l’iniziativa “Ferragosto in carcere” ad Arghillà ildispaccio.it, 22 agosto 2019 Si è svolta la visita in carcere all’istituto di Arghillà nell’ambito della iniziativa “Ferragosto in carcere” promossa dal Partito Radicale e dall’Osservatorio Carcere dell’Unione delle Camere Penali Italiane. La delegazione, guidata dall’Avv. Gianpaolo Catanzariti, responsabile nazionale Osservatorio Carcere UCPI, composta dagli Avv.ti Paolo Tommasini (Cons. Camera Penale RC), Katia Siclari (ref. terr. Osservatorio carcere RC), Elisabetta Spanò e Carmen Pezzimenti (Comm carcere Camera Penale RC), e dallo psicologo Santo Cambareri (Partito Radicale), ha avuto modo di toccare con mano le criticità dell’intera struttura reggina, che, in origine, avrebbe dovuto rappresentare il fiore all’occhiello della reclusione calabrese. Lo rende noto Gianpaolo Catanzariti, Resp. Osservatorio Carcere Ucpi. “La visita si è svolta, per oltre cinque ore, alla presenza del direttore, dott. Calogero Tessitore, del Vice Comandante di Polizia Penitenziaria, Iolanda Mercurio, e del funzionario area pedagogica, il dott. Lorenzo Federico. Alle deficienze strutturali originarie che hanno fatto di Arghillà il simbolo della fallimentare politica penitenziaria praticata negli anni, inaugurata - dopo 25 anni dalla posa della prima pietra - in pompa magna dall’allora ministro Cancellieri nonostante l’assenza, fra le altre, di un campo da calcio, di un teatro e di una cappella, si è aggiunto l’aumento esponenziale della popolazione detentiva senza un corrispondente aumento del personale operante e senza un servizio sanitario all’altezza delle gravità riscontrate. Con una capienza regolamentare di 302 posti e 89 “camere di pernottamento”, Arghillà ha in carico 365 detenuti (di cui 53 in Alta Sicurezza, 213 definitivi e 93 in attesa di primo giudizio, 51 stranieri, ma nessun mediatore culturale). Sono 64, di cui tre all’esterno, coloro che svolgono attività lavorativa. Pochissimi per una struttura che avrebbe dovuto rappresentare un modello di reclusione al Sud Italia. La maggior parte delle celle ospita tra 7 ed 8 detenuti su letti posti sistematicamente l’uno sull’altro sino al terzo livello. Una condizione intollerabile che calpesta la dignità umana di chi è costretto a scontare una pena detentiva, condividendo un unico bagno senza bidet, attendendo il proprio turno per i bisogni fisiologici o per potersi sciacquare, quando l’acqua, dopo ore di assenza, esce improvvisamente dai rubinetti. La maggior parte dei bagni presenta pareti invase dalla muffa che ammorba l’aria irrespirabile sotto il telefono della doccia. Lo spazio disponibile non rispetta gli standard previsti dal Ministero in nessuna delle celle, da 6, da 7 o da 8 persone. Il personale di polizia penitenziaria, con 112 effettivi su una pianta organica di 160, è costretto ad usufruire di una caserma, posta all’interno della struttura, in condizioni di degrado assoluto, con stanze e bagni che sembrano “luoghi della memoria” del secondo dopoguerra. Sette sono gli educatori ed uno è lo psicologo presente una volta a settimana, oltre ad un esperto ad ore, nonostante numerosi siano i detenuti problematici e l’ultimo suicidio di pochi giorni addietro. Assurda è, poi, l’area sanitaria con un’assistenza infermieristica garantita dalle 7 alle 22, confidando, così, nella benevolenza della notte. Circa 20 sono i detenuti che presentano disturbi di natura psichiatrica, mentre 43 sono in carico al Sert per le tossicodipendenze. Nonostante vi siano strumenti e gabinetti medici attrezzati, le prestazioni specialistiche, per ragioni tutte interne all’azienda sanitaria provinciale, sono estremamente dilatate nel tempo. Nei mesi scorsi vi erano oltre 390 prestazioni specialistiche richieste ed ancora inevase, affidando il detenuto alla buona sorte o al ricovero ospedaliero d’urgenza. La salute in carcere ad Arghillà sembra paragonabile alla ruota della fortuna che si gioca in locali neppure presi in carico formalmente dall’ASP. Il personale penitenziario ha messo in piedi una equipe multidisciplinare che si occupa, da subito, dei nuovi giunti, anche per prevenire e monitorare situazioni irreversibili. L’area trattamentale si sforza, con sacrificio, di offrire una offerta formativa e laboratoriale adeguata alle numerose presenze detentive con corsi scolastici, di base e di grado superiore (per media ed alta sicurezza), che, però, non vengono garantiti ai 33 detenuti ristretti nella sezione c.d. protetti (sex offender), ed attività culturali e artistiche (canto, cineforum, biblioteca, yoga, catechesi). Manca, però, l’apporto esterno al carcere che, in Calabria, è davvero inesistente. Alcuni detenuti di Alta sicurezza, con pene lunghe da espiare, trasferiti ad Arghillà per il sovraffollamento delle sedi di assegnazione, trascorrono le loro giornate senza alcuna attività specifica. Girare nei corridoi di Arghillà, entrare dentro le celle sovraffollate, è come un pugno sordo sullo stomaco. Ti rendi conto della condizione disperata ed intollerabile dei 365 detenuti, che ti ringraziano comunque per essere “i soli che venite a trovarci”, che allungano una mano e che afferri, senza più parole, per ritrovare l’umanità smarrita, da tempo, nei luoghi in cui si esercita l’autorità dello Stato. E quando un settantacinquenne si avvicina con uno schizzo su carta che raffigura dei corpi umani rinchiusi in una scatoletta di carne, ti accorgi che, alla fine, sottrarre alle tue ferie alcune giornate per il “Ferragosto in carcere” ne è valsa davvero la pena per crescere umanamente e professionalmente e soprattutto per non “marcire dentro”. Più volte abbiamo denunciato le condizioni in cui si trova la struttura di Arghillà che offende la dignità dei detenuti e quella dei “detenenti” al punto che un agente si lascia scappare una frase “Avvocato, dovete fare le visite fuori da qui, perché è là che c’è necessità di recuperare un po’ di umanità” Il giorno dell’inaugurazione (2013) di Arghillà l’allora provveditore regionale così dichiarò: “L’apertura rientra in un progetto del Governo che riguarda altri istituti calabresi e che punta a raggiungere condizioni adeguate e coerenti con le indicazioni della Corte Europea, con i principi della nostra Costituzione e delle nostre leggi, nel rispetto delle quali va l’impegno del personale che spende la propria vita per garantire la presenza dello Stato ed il rispetto delle condizioni di vita del detenuto. Il nuovo carcere è un presidio di legalità concreto che sorge in un territorio particolarmente segnato dalla criminalità. La presenza dell’istituto segna la scelta di affermare la legalità, ha un’importanza simbolica. Rappresenta la vittoria dello Stato, resa ancora più significativa dall’intitolazione della strada alla memoria del giudice Antonino Scopelliti. Una intitolazione che forse il magistrato avrebbe proprio rifiutato”. Salerno: “Reparti riservati ai detenuti anche negli Ospedali di Nocera e Vallo” La Città di Salerno, 22 agosto 2019 Reparto detenuti all’Ospedale “Ruggi”, c’è ancora da fare; va decisamente peggio al carcere di Vallo della Lucania. Con la visita di ieri del Partito radicale e del tribunale dei diritti del malato si conclude l’iniziativa “Ferragosto in carcere” per verificare le condizioni in cui vivono i detenuti ma anche gli agenti della polizia penitenziaria. Donato Salzano del Partito Radicale ha ricordato i passi in avanti fatti dal reparto detenuti dell’ospedale di via San Leonardo: “Con nuovo commissario, il dottor D’Amato ci siamo intesi sulle modalità per collaborare. Bisogna stabilire i percorsi per le visite specialistiche e gli interventi chirurgici. Il sistema carcerario deve rientrare nelle legalità e nella nostra provincia questo passa anche attraverso l’apertura di reparti per detenuti agli ospedali di Nocera e di Vallo”. E Margaret Cittadino: “Abbiamo riscontrato alcune criticità al Ruggi per la carenza dei medici e infermieri ma anche di guardie carcerarie. Non ci sono bagni nelle camere, costringendo un agente ad accompagnare il detenuto, attenderlo e ricondurlo nella cella, con umiliazione del paziente. Manca un sistema di chiamata del personale sanitario nella stanza, non ci sono televisori”. Per quanto riguarda il carcere di Vallo, dove sono ospitati i detenuti accusati di reati sessuali, ha colpito l’allocazione delle celle, al di sotto del piano stradale: “Nelle stanze a mezzogiorno c’è la luce accesa con e mezzanotte - ha sottolineato Salzano - Anche questi detenuti, considerati ultimi tra gli ultimi, hanno diritto a un percorso di riabilitazione che certamente non può esserci se per 55 detenuti c’è un solo psichiatra e un solo psicologo nonostante abbiano bisogno di assistenza psicologica”. L’avvocato Florinda Mirabile ha ribadito la necessità di assicurare una riabilitazione a questi detenuti, con percorsi personalizzati. Il militante Gaetano Cucino inoltre farà partire un’associazione di ex detenuti per consentire a chi vuole lavorare di poter uscire dal carcere. Andria (Bat): il progetto “Senza sbarre” sostenuto da Scamarcio, Sinisi e don Agresti di Piergiacomo Oderda vocepinerolese.it, 22 agosto 2019 Don Riccardo Agresti e il magistrato Giannicola Sinisi dialogano con Riccardo Scamarcio, originario di Andria (Bat). L’incontro organizzato nella parrocchia di San Luigi nei pressi di Castel del monte ha la finalità di sostenere il progetto diocesano “Senza sbarre” volto ad attuare misure alternative al carcere. Si parte dal termine greco “pistis”, il senso della fede, “fidarsi, fondare l’esistenza su qualcuno”. Scamarcio intende la fede come qualcosa di privato, “facendo l’attore devo avere questo rapporto con l’energia, il mistico, il mistero; a teatro mi è capitato di avere un’esperienza mistica!”. “L’atto è qualcosa che facciamo al di là di noi stessi”, come l’amore per cui “si è mossi da qualcosa di più forte della nostra volontà: la fede è questo”. Un atto inconsulto, “abbandonarsi verso qualcosa di irrefrenabile”. Per lui è estremamente importante “mantenere viva la parte spirituale”, altrimenti non riuscirebbe ad interpretare i suoi personaggi. Don Riccardo chiede se andasse al catechismo. Scamarcio ricorda l’esperienza all’oratorio salesiano, alle 19 don Mario invitava tutti alla preghiera mentre lui scappava da una porticina. “Ho avuto un rapporto difficile con il rigore, con l’ordine; ho recuperato quando mi sono messo a studiare per fare l’attore”. Le domande di don Riccardo diventano più difficili: “come mai lo scoraggiamento, il male, la sofferenza?”. Scamarcio non si tira indietro: “Bisogna mantenere un rapporto vivo con la propria spiritualità. Non è semplice, tutti siamo portati a nascondere più che a manifestare noi stessi. Ci costringiamo a recitare una parte che non ci appartiene”. La paura è un campanello d’allarme, “ci blocca, ci rende subalterni, è la porta del male”. “La sofferenza cambia le persone” riprende don Riccardo ricordando il padre dell’attore, Emilio, scomparso nel 2017. “Il rapporto con la perdita del padre è un avvenimento importante”, riflette Scamarcio, “la presa di coscienza vera, empirica con la morte cambia la prospettiva dell’esistenza”. “Come vivi il rapporto col divismo?” lo punzecchia don Riccardo. “Essere divi è una grande responsabilità. Ho scelto di fare l’attore, se questo ha generato attenzione alla mia persona è una conseguenza. In un’età molto giovane, ventidue, ventitré anni, può metterti in pericolo”. “Senza l’ego non faremmo niente, saremmo come delle amebe”. L’ego è il motore, bisogna “lasciarlo andare ma non troppo altrimenti si spacca”, si creano “strappi al tessuto armonico della realtà”. È importante per un lavoro sempre in bilico tra reale e irreale, il rapporto con la natura, la terra, la campagna, il mare. Durante l’incontro riceve una telefonata da un valente bio agricoltore. Scamarcio era presente a inizio maggio all’inaugurazione della masseria di San Vittore, dove s’incentra l’attività dell’associazione “Senza sbarre”. L’attore pugliese individua un problema nella società contemporanea, “la mancanza di empatia, la cosa più importante da coltivare, da insegnare”. La società con l’intento di creare condizioni migliori per il vivere comune si è data una Costituzione. Aldo Moro convinse Calamandrei sull’anteriorità del concetto di persona rispetto all’essere cittadini. Tocca a Sinisi interrogare Scamarcio, “quanto ha contato Andria, la Murgia, l’educazione familiare?”. Pur avendo viaggiato tantissimo, Scamarcio ricorda tra i momenti più belli “fare i funghi con mio padre”, in un silenzio rotto da impercettibili espressioni dialettali (“facciamoci un caffè”, “andiamo di qua, di là”), sotto il cielo plumbeo della Murgia. Sinisi nota che Scamarcio non è sui “social”. L’ha aiutato Pasolini a “inquadrare i valori dell’Italia rurale”, la semplicità, l’onestà degli intenti, a scoprire “la sapienza empirica, le connessione con il tutto, con il cosmo da persone che non si sono mai spostate”. Accanto a Pasolini, cita Godard, il regista Silvano Agosti, Lucio Dalla. Sinisi accenna all’esperienza poco entusiasmante dell’attore a scuola. “Ho recuperato dopo in modo empirico. Tutti mi spingevano a dire che al Sud si sta male”. Notava una “discrasia” tra il legame con la sua terra e il pensiero comune sul Mezzogiorno da recuperare. “Non mi tornavano i conti, allora ho imparato ad approfondire”. “In tanti film hai scelto o ti vengono assegnati ruoli criminali”, osserva Sinisi. “Il cinema è a caccia di figure che vivono una vita estrema” replica Scamarcio. “Guardo dal punto di vista umano, anche di fronte a persone che commettono crimini efferati”. Cerca di capire come hanno fatto ad arrivare a fare certe cose, si mette nei loro panni. Sinisi chiede un’opinione sul progetto “Senza sbarre”, “ambizioso, difficile, mi sono coinvolto da subito. Riuscire a riaprire un dialogo, la vera reintroduzione di chi ha sbagliato, passare attraverso un processo di riconciliazione, questa è la rivoluzione!”. Teatro in carcere, al via un network internazionale di Teresa Valiani redattoresociale.it, 22 agosto 2019 Promosso dal Teatro universitario Aenigma di Urbino, il nuovo organismo nasce sotto gli auspici dell’Iti Unesco. Minoia: “Sarà un luogo di confronto e di qualificazione per le esperienze teatrali degli istituti penitenziari di tutto il mondo”. Un luogo di confronto e di qualificazione per le esperienze teatrali che arrivano dagli istituti penitenziari di tutto il mondo, un organismo in grado di offrire progettazione, relazione e che sia un riferimento per i molti operatori di un settore in continua crescita nell’ambito di un fenomeno nato più di 60 anni fa. Sono questi i caratteri dell’International network of theatre in prison, il nuovo organismo internazionale promosso dal Teatro universitario Aenigma di Urbino, con la rivista europea ‘Catarsi-teatri delle diversità’, che tra il 2009 e il 2011 ha dato vita al Coordinamento nazionale teatro in carcere. Il progetto sarà presentato nel corso del XX Convegno di Urbania in programma dal primo al 3 novembre prossimi. “Il nuovo Network internazionale nasce sotto gli auspici dell’Iti Unesco, World Organization of Performing Arts - spiega Vito Minoia, presidente del Coordinamento nazionale teatro in carcere, dopo la celebrazione ufficiale della 57ma Giornata mondiale del teatro che si è svolta in primavera nella casa circondariale di Pesaro, alla presenza del direttore generale ITI Tobias Biancone, del drammaturgo cubano Carlos Celdran e di una delegazione internazionale che ha portato il proprio saluto simbolicamente a tutte le persone che fanno teatro in carcere con umanità e necessità”. L’evento marchigiano aveva aperto la sesta Giornata nazionale del teatro in carcere, promossa dal Coordinamento nazionale con il ministero della Giustizia nell’ambito del protocollo d’intesa che coinvolge il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, il Dipartimento per la giustizia minorile e di comunità e l’università Roma Tre. Una giornata celebrata con 103 eventi in 64 istituti penitenziari e altri contesti di 16 regioni italiane, in concomitanza con il World Theatre Day. “L’interesse dei delegati Iti Unesco - prosegue Minoia - è cresciuto dopo i nostri interventi sull’Etica e l’Estetica del teatro in carcere al 35mo congresso di Segovia, in Spagna, e al convegno di Hainan, in Cina. Oltre al Coordinamento nazionale italiano le prime adesioni sono giunte da Cile, Polonia, Stati Uniti, Argentina e Spagna e ne stanno arrivando molte altre grazie al grande interesse scaturito a livello internazionale per l’iniziativa”. Il lavoro del Network proseguirà a Saluzzo (Cuneo) in occasione della sesta edizione della Rassegna nazionale di teatro in carcere “Destini Incrociati” in programma dal 12 al 14 dicembre, per la quale proprio in questi giorni scadono i termini per la presentazione di proposte per la partecipazione con spettacoli (20 agosto) e con video (31 agosto). “Molte e di alto livello le proposte che stanno pervenendo anche dal sud del Paese - conclude Vito Minoia. A settembre saranno vagliate dalla direzione artistica dell’evento, con il solito spirito di grande apertura, confronto e condivisione che ha contraddistinto i primi dieci anni, ormai alle porte, di vita del Coordinamento nazionale”. L’ipocrisia religiosa del Palazzo di Alex Zanotelli Il Manifesto, 22 agosto 2019 Dal rosario al Vangelo. Il vangelo è talmente esigente che impone di stare lontano dai Palazzi. L’unica volta che Gesù è entrato nel Palazzo è stato quando l’hanno condannato a morte. Martedì il leader leghista, Matteo Salvini, in Senato ha baciato il rosario, ha citato San Giovanni Paolo II e si è affidato alla protezione della Madonna. Salvini è da un pezzo che utilizza i simboli religiosi. E non è il solo. È in atto a livello mondiale, in Europa come negli Stati Uniti, nel Brasile e in Australia, un utilizzo massivo dei simboli cristiani da parte della destra. Dopo 500 anni in cui la “tribù bianca” è prosperata economicamente sulle spalle delle altre popolazioni, trincerandosi dietro l’ideologia di essere l’unica portatrice della Cultura, della Civiltà e della Religione, adesso la tribù si sente minacciata, ha paura di perdere i propri privilegi e si rinchiude nei propri confini, cercando di ritrovare un’identità forte. Il cristianesimo e i suoi simboli offrono identità ma anche un mezzo per appellarsi alle masse. Quando Salvini, il giorno della conversione in legge del decreto Sicurezza bis, ringrazia la Madonna di Medjugorje sa di richiamare un luogo di culto popolarissimo, dove moltissime persone vanno in pellegrinaggio. Soprattutto fedeli delle regioni del Nord est, dove l’elettorato della Lega è più radicato. Perciò quel tipo di appello ha un significato identitario preciso per il popolo del Carroccio. Evidentemente a Salvini non interessa che il richiamo alla Madonna porti con sé un messaggio esattamente opposto a quello dei decreti Sicurezza uno e due, come insegna il culto della Madonna di Porto Salvo, molto cara ai marittimi e ai pescatori in particolare del Mezzogiorno. Salvini capovolge il messaggio per la sua base elettorale. E infatti parlare di Porto salvo a lui non interessa. Quello che è grave è l’appoggio che ha ricevuto da alcuni settori della Chiesa che dovrebbero chiedersi che razza di Vangelo abbiano annunciato. Ma l’Italia è mai stata evangelizzata? Qualcuno, anche martedì in Senato, si è chiesto se Salvini, quando bacia il rosario, richiama i riti della ndrangheta e della mafia. Li ho studiati per anni, in Calabria ad esempio si brucia l’immaginetta di San Michele durante il rito di iniziazione. I simboli religiosi sono parte fondante anche della struttura dei gruppi mafiosi in Sicilia. Ma non vedo molte analogie con quello che fa Salvini. Piuttosto, il leader della Lega si richiama a una tradizione religiosa molto radicata al Sud per cercare di conquistarne i voti, sottraendoli ai 5Stelle. Non va meglio neppure con lo spettacolo offerto da Matteo Renzi in Senato: dopo tutte le politiche razziste dei governi Pd, fino all’appoggio alla linea sui migranti dettata dall’ex ministro dell’Interno Marco Minniti, è davvero grave usare il Vangelo di Matteo, in particolare il capitolo 25, quando lo si è disatteso politicamente. Questa è piuttosto ipocrisia religiosa. Il vangelo è talmente esigente che impone di stare lontano dai Palazzi. L’unica volta che Gesù è entrato nel Palazzo è stato quando l’hanno condannato a morte. La Chiesa può solo essere minoranza, vivere in modo alternativo e diventare coscienza critica di questo tipo di società. Papa Francesco chiede la purificazione della Chiesa, chiede cioè che passi da Chiesa ricca a povera, che cammini accanto alle persone. Dobbiamo uscire dalla “bolla coloniale”, come ci ha insegnato il vescovo di Orano Pierre-Lucien Claverie ucciso nel 1996, per lavorare a una umanità plurale. Invece ci stiamo scomunicando gli uni con gli altri. In conclusione, i politici la smettano di strumentalizzare il cristianesimo e i suoi simboli. Con questa parodia della religione si guadagnano voti oggi, ma le persone finiscono poi per perdere la fede nelle istituzioni. I rischi (e le responsabilità) dell’emarginare la storia di Giovanni Belardelli Corriere della Sera, 22 agosto 2019 In Italia la denuncia del crescente disinteresse verso lo studio del passato si è focalizzata sull’eliminazione del tema agli esami di maturità, ma in realtà il fenomeno accomuna le democrazie contemporanee. Si moltiplicano gli allarmi per un’emarginazione della storia che va facendosi sempre più marcata, fino al punto di configurarsi come una trasformazione epocale della nostra cultura. In Italia la denuncia del crescente disinteresse verso lo studio del passato si è focalizzata sull’eliminazione del tema di storia agli esami di maturità, che ha provocato un manifesto-appello di storici e intellettuali, ma in realtà il fenomeno accomuna le democrazie contemporanee. Spesso, però, denunce del genere si limitano a criticare gli effetti (appunto, la marginalizzazione della storia) senza mettere bene a fuoco le cause di ciò che vanno denunciando. È chiaro ad esempio che l’eliminazione del tema di storia dalla maturità non è altro che la conseguenza ultima di una emarginazione di quella disciplina in atto da almeno due decenni (su questo fa acute considerazioni E. Galli della Loggia nel suo recente L’aula vuota. Come l’Italia ha distrutto la sua scuola, Marsilio). Dispiace dirlo, ma ha avuto buon gioco il ministro Bussetti a far notare che ormai il tema storico non lo sceglieva praticamente nessuno. Le cause del declinante interesse, non per il passato genericamente inteso - si pensi al successo di libri e serie tv ambientate in un medioevo più o meno fantastico - ma per la storia come forma di conoscenza strutturata e attendibile di quel passato, sono tante. Dall’annullamento della dimensione del tempo operato dalla Rete, in cui tutto diventa virtualmente compresente, al politically correct che, soprattutto nel mondo anglosassone, si scaglia contro Cristoforo Colombo perché responsabile di un genocidio (dimenticando che viveva nel suo tempo, non nel nostro). Vi ha concorso indubbiamente anche quell’uso politico della storia che nel ‘900 è stato praticato un po’ da tutti i regimi politici, non escluse le democrazie. Ma in realtà anche gli storici, almeno in Italia, hanno avuto non poche responsabilità nel favorire la marginalizzazione della storia che ora (giustamente) lamentano. Mi chiedo ad esempio quanti dei firmatari dell’appello che condannava la soppressione del tema storico alla maturità non abbiano bruciato il loro grano d’incenso al conformismo progressista che imponeva di criticare il ministro Salvini non per le ragioni per le quali meritava d’essere criticato, ma per il nuovo fascismo di cui sarebbe stato portatore. Certe denuncie della montante onda nera, del fascismo eterno che è in noi, ecc., cos’altro sono state se non un formidabile esempio di strumentalizzazione politica della storia che certo non ha contribuito a risollevare il declinante credito di questa disciplina? E ancora, gli storici - non solo in Italia per la verità - hanno generalmente accettato che la storia venisse identificata, fin quasi ad esservi risucchiata, con quel dovere della memoria che domina da alcuni anni il discorso pubblico delle democrazie contemporanee. Ma memoria e storia sono cose assai diverse, per molti motivi e principalmente per uno: a differenza delle ricostruzioni del passato operate dagli storici, nel discorso pubblico sulla memoria si dà spazio soprattutto, se non esclusivamente, agli episodi negativi, ai crimini commessi da una collettività (la persecuzione e lo sterminio degli ebrei, la violenza nelle colonie, le foibe, ecc.). Eppure sono stati pochi gli storici che hanno criticato gli eccessi di questa deriva memoriale, mentre la maggioranza si è forse illusa che ne avrebbe ricavato maggior spazio e credito per le proprie discipline. Si è trattato di un clamoroso errore di valutazione, che fa il paio - nel caso italiano - con l’entusiasmo con cui venne accolta vent’anni fa l’enfasi sul ‘900 imposta dal ministro Berlinguer: un’enfasi che, assegnando l’intero ultimo anno delle superiori al XX secolo, provocò l’approvazione dei contemporaneisti e di gran parte dell’establishment politico-culturale del Paese, ignari del fatto che così lo studio della storia riceveva invece un colpo gravissimo: cosa c’è di meno corrispondente alla logica di uno studio storico del passato di questa idea di estrarne una parte e considerarla più rilevante solo perché cronologicamente più vicina? Sul Financial Times Edward Luce si è chiesto di recente quanto il disinteresse per la storia che si è affermato negli Stati Uniti (ribattezzati con amara ironia United States of Amnesia) non metta a rischio gli stessi regimi democratici, la cui affermazione ha in effetti coinciso con la codificazione della storia quale disciplina volta allo studio del passato (e non più come grande serbatoio di exempla, tratti per lo più dall’antichità classica, utilizzati per giustificare questa o quella decisione presente). Se il suo discorso ha un fondamento, dovremmo cominciare a vedere nel disinteresse per la storia (ma anche nel suo uso spregiudicatamente piegato all’attualità politica) un pericolo sul quale riflettere seriamente. Migranti. Open Arms, lite Salvini-Trenta. “Inciuci” “Falso” di Erica Dellapasqua Corriere della Sera, 22 agosto 2019 L’attacco del Viminale e la dura replica della Difesa sui compiti affidati a chi svolge pattugliamenti in mare. “Roba da matti. Non hanno perso tempo, i nuovi ordini della Difesa sono stati formalizzati ieri. Prime prove tecniche di inciucio Pd-5 Stelle sulla pelle degli italiani, riaprendo i porti e chiudendo un occhio sulle Ong?”. È Matteo Salvini, ieri su Twitter, a riaprire la campagna elettorale sui migranti attaccando la collega di governo - almeno ancora formalmente - Elisabetta Trenta, responsabile della Difesa, che secondo questa notizia fatta circolare dal Viminale col suo ministero avrebbe “modificato unilateralmente i compiti affidati a coloro che intervengono nelle operazioni di pattugliamento”. Subito sui social monta il caso. Salvini, per dimostrare l’inciucio con la sinistra, getta in Rete un fotomontaggio che accosta Trenta e Laura Boldrini, deputata di Leu apertamente ostile alla politica dei porti chiusi. Trenta gli risponde su Facebook, che già aveva utilizzato per replicare a chi le scriveva critiche sulla Open Arms: “Trentadue minori, due di nove mesi, onde di due metri e mezzo, da sedici giorni in mare: ma che uomo è lei?”. A Salvini, invece, dice che “il tuo tentativo di screditare non solo me ma l’intera Difesa è inqualificabile. In una riunione in cui eri presente ho disposto di intensificare l’attività di polizia marittima. Le navi della Marina non hanno scortato la Open Arms per far sbarcare a Lampedusa i migranti; bensì come da sollecitazione del Tribunale dei minori di Palermo erano pronte a intervenire in favore dei minori. Sei stato bravo a piegare ogni cosa a tuo vantaggio ma questo metodo non funziona più. Impara a rispettare il ruolo delle istituzioni e a non appropriartene”. Per il ministero dell’Interno le nuove indicazioni, formalizzate martedì, per gli assetti militari in azione nel Mediterraneo centrale, “denotano un chirurgico ma significativo arretramento rispetto a quanto concordato per il contrasto dell’immigrazione clandestina”. Tutto falso, fanno invece filtrare dal ministero della Difesa, chiarendo che “nessun indebolimento è stato apportato al dispositivo Mare Sicuro”. Semmai, continuano sempre dal ministero, il 17 luglio - quindi quando ancora la crisi era nell’aria ma non ufficialmente aperta - la ministra Trenta ha inviato al capo di Stato maggiore della difesa Enzo Vecchiarelli una lettera in cui tra l’altro “si dispone di intensificare le attività di polizia marittima”. Lettera ribaltata, nel suo significato, dal Viminale, che a questo punto fa circolare anche la risposta del 19 luglio: “Corre l’obbligo di trasmetterti la preoccupazione - scriveva il capo di Gabinetto del Viminale al suo omologo della Difesa - che l’ipotizzato incremento del pattugliamento aeromarittimo in acque internazionali possa fungere da fattore di attrazione per le partenze dalle coste libiche”. Così si arriva ad agosto. Per la Difesa le novità additate da Salvini sarebbero in realtà solo modifiche assolutamente non sostanziali, solo definizioni - contenimento, contrasto, dissuasione - che non implicherebbero cambiamenti numerici delle missioni, né di uomini né di mezzi. Ma la polemica è ormai accesa e investe anche l’Open Arms e la Spagna: “Nave spagnola, Ong spagnola - scrive il Viminale: è corretta la decisione del governo Sanchez di inviare una nave militare verso l’Italia, la linea dura ha pagato nonostante i dubbi del premier e di alcuni ministri, ora Madrid si faccia carico anche degli sbarcati”. Cannabis. La corsa all’oro verde è partita anche in Europa Italia Oggi, 22 agosto 2019 Il vecchio continente terra di conquista per le società del settore. Gruppi come Carrefour e Monioprix hanno già mostrato il loro interesse. La corsa all’oro verde è partita anche nel Vecchio continente. E la startup Emmac, fondata nel 2018 e con sede a Londra, spera di trarre profitto dalla fase di test per crescere sul mercato europeo della cannabis terapeutica. “Non c’è un leader europeo nel mercato della cannabis”, ha detto a Le Figaro Antonio Costanzo, il cofondatore e ceo italo-francese del gruppo. “Ci sono dei leader mondiali, ma l’Europa resta ancora da conquistare”. Dopo la legalizzazione della cannabis a uso medico in Germania nel 2017 e l’avvio di una fase di test in Danimarca nel 2018, il mercato europeo diventa attrattivo, anche se ancora nelle mani dei colossi canadesi e statunitensi. Come il numero uno mondiale Canopy Growth, che lo scorso maggio ha acquisito la tedesca C. Mentre la canadese Aurora Cannabis ha annunciato a dicembre che la sua filiale europea era stata designata come fornitore ufficiale di cannabis medica dal ministero della salute del Lussemburgo. Di fronte a questi concorrenti, Emmac spera di moltiplicare per sette il suo fatturato (mantenuto segreto) nel 2020 e sostiene di aver coinvolto già otto paesi europei nella propria catena di produzione e distribuzione. Nel frattempo la startup ha acquisito la società svizzera Blossum, che commercializza oli e tè a base di Cbd (cannabidiolo, la sostanza chimica della cannabis non psicotropa, ndr) nei negozi bio e su Internet. “La domanda della grande distribuzione per commercializzare prodotti per il benessere a base di cannabis è forte”, assicura François-Xavier Nottin, direttore generale di Emmac Francia e Benelux. Stati Uniti. Niente più vaccini ai detenuti nei campi per migranti al confine con il Messico ilfattoquotidiano.it, 22 agosto 2019 In questi centri, nell’ultimo anno sono morti tre bimbi a causa di infezioni non controllate. I dottori avevano chiesto di aumentare gli sforzi, visto che le condizioni di affollamento facilitano la diffusione di malattie infettive: “Dobbiamo fermare tutto questo e dare una risposta urgente”, ha dichiarato Jonathan Winickoff, docente di Pediatra all’Harvard University. Al confine tra Stati Uniti e Messico nell’ultimo anno sono morti tre bambini a causa di infezioni non controllate. Ma nonostante i medici abbiano chiesto di aumentare gli sforzi, il governo americano ha deciso che non fornirà più i vaccini antinfluenzali alle famiglie di migranti che sono bloccate nei campi di detenzione alla frontiera. “Le morti infantili per influenza sono eventi rari - afferma alla Cnbs Jonathan Winickoff, docente di Pediatra all’Harvard University - Il tasso di mortalità negli Stati Uniti è di circa 1 su 600 mila casi. Finora, tre bambini sono morti su 200 mila persone detenute nelle strutture lungo il confine. Dobbiamo fermare tutto questo e dare una risposta urgente”. Winickoff, insieme ad atri medici ed esperti, ha firmato un appello al Governo. Secondo il docente, “le attuali condizioni in cui si trovano le persone in questi centri di detenzione, molto affollati, facilitano la diffusione di malattie infettive. Contrarre l’influenza indebolisce il sistema immunitario di un bambino rendendo più difficile combattere altre malattie”. “Se le condizioni non migliorano - spiega Julie Linton, presidente dell’American Academy of Pediatrics Council on Immigrant Child and Family Health - molti bambini moriranno inutilmente”. I dati sui decessi - Nel 2019, 514 persone sono morte durante il loro viaggio migratorio nelle Americhe. E la metà dei decessi, 247 al 15 agosto, è stata registrata al confine tra Stati Uniti e Messico. A denunciarlo è l’Oim, l’agenzia Onu per le migrazioni. Le donne (67 decessi) e i bambini (40) hanno costituito poco più di un quinto di tutte le morti registrate nelle Americhe nel 2019, anche se in diversi casi l’età e il genere delle vittime non sono ancora stati determinati. Tragico record - L’Oim sottolinea che si tratta di un “tragico record”, in quanto negli ultimi sei anni i 500 morti erano stati superati solamente in mesi successivi ad agosto. Negli anni scorsi, il dato di 500 morti era stato raggiunto a settembre (2016), ottobre (2017, 2018) o dicembre (2015), o, nel caso del 2014, non era stato raggiunto, poiché erano stati registrati solo 495 decessi di migranti in transito nelle Americhe. Le voci inascoltate che arrivano dalla Siria di Lorenzo Cremonesi Corriere della Sera, 22 agosto 2019 Oltre tre milioni di civili sfollati a Idlib paventano l’irruzione imminente delle truppe lealiste assieme ai soldati russi e le milizie sciite. Quasi 70.000 sono adesso in fuga. C’è poco di nuovo nelle dinamiche della terrificante operazione lanciata dalla dittatura siriana contro l’ultima enclave delle forze ribelli nella regione di Idlib. Lo si ripete da almeno cinque anni: senza l’aiuto militare russo e iraniano Assad sarebbe caduto da un pezzo. Ma, proprio grazie a tali alleati, i suoi soldati possono da tempo colpire impuniti, torturare gli oppositori, farli sparire, lanciare agenti chimici, bombardare ospedali, cliniche, campi profughi, terrorizzare col fine dichiarato di stroncare qualsiasi spirito di rivolta. Noi europei siamo distratti. Nessuno crede più all’anelito di libertà e rinnovamento democratico che, soprattutto in Siria, aveva improntato lo scoppio della “primavera araba” locale nel 2011. Siamo in tanti a pensare che comunque, di fronte all’estremismo islamico cresciuto nei Paesi destabilizzati dalle rivolte, un dittatore sia il rimedio giusto “per rimettere le cose a posto”. Eppure, le cronache che arrivano in queste ore da Idlib e dintorni sottolineano che una grande parte dei civili siriani, nonostante tutto, non vuole la restaurazione del regime. Da Damasco giungono voci di migliaia di desaparecidos tra coloro che si sono arresi. Oltre tre milioni di civili sfollati a Idlib paventano l’irruzione imminente delle truppe lealiste assieme ai soldati russi e le milizie sciite. Quasi 70.000 sono adesso in fuga. Anche i quasi quattro milioni di profughi siriani in Turchia resistono agli ufficiali di Erdogan, che li spingono a tornare a casa. Il presidente turco vorrebbe espellere l’oltre mezzo milione di residenti a Istanbul, che sarebbero tra le ragioni della sua sconfitta alle municipali di giugno. “I terroristi sono figli delle dittature”, nota l’intellettuale algerino Kamel Daoud. Almeno per questo motivo dovremmo preoccuparci per gli sviluppi dello scenario siriano. Camerun. Human Rights Watch: decine di detenuti separatisti torturati in carcere agenzianova.com, 22 agosto 2019 Decine di detenuti separatisti anglofoni e dell’opposizione in Camerun sono stati torturati dalle forze di sicurezza dopo essere stati trasferiti dal carcere di Kondengui, a Yaoundé, in seguito alla rivolta avvenuta il mese scorso. È quanto denunciato in un rapporto dall’organizzazione Human Rights Watch (Hrw). “Le autorità del Camerun hanno arrestato più di un centinaio di persone in segreto e torturato molte di loro tra il 23 luglio e il 4 agosto”, afferma Hrw. Il rapporto, che si basa sulla testimonianza di 14 detenuti e di diversi avvocati, denuncia gli abusi e le percosse subite dai detenuti nella struttura penitenziaria, trasferiti il giorno dopo la rivolta nella prigione centrale di Yaoundé, avvenuta il 22 luglio in segno di protesta contro il sovraffollamento, le condizioni di vita disastrose e i ritardi nei processi davanti ai tribunali. Il governo del Camerun ha annunciato lo scorso 3 agosto di aver interrogato 244 detenuti, una parte dei quali è stata in seguito condotta nella sede del segretariato di Stato per la difesa (Sed), il quartier generale della gendarmeria, a Yaoundé, dove sarebbero stati torturati. Il mese scorso la polizia è intervenuta all’interno del carcere di Kondengui per reprimere una rivolta di detenuti che protestavano contro la repressione nei confronti del movimento separatista anglofono e delle cattive condizioni interne alla struttura. Nella rivolta sono rimaste ferite decine di detenuti. In un video filmato dai detenuti e caricato su Facebook, i manifestanti scandiscono lo slogan “Ambazonia libera!” e lanciano detriti contro le forze di sicurezza all’interno del carcere, mentre in sottofondo si odono colpi di arma da fuoco spari e si intravedono pennacchi di fumo. Secondo quanto riferito dall’emittente statale “Crtv”, i detenuti hanno dato alle fiamme la biblioteca e un laboratorio situati all’interno della struttura. Il carcere, costruito nel 1969 per 1.500 persone, conta attualmente circa 9 mila detenuti, il 90 per cento dei quali non sono stati passati in giudicato. Un episodio simile è avvenuto pochi giorni dopo nel carcere di Buea, nella regione anglofona del Sudovest, dove le forze di sicurezza hanno sparato colpi d’arma da fuoco e lacrimogeni per ristabilire l’ordine. Per quanto accaduto il governo del Camerun ha incolpato i sostenitori del leader dell’opposizione Maurice Kamto, attualmente agli arresti, per la rivolta avvenuta ieri all’interno del carcere di Kondengui, nella capitale Yaoundé. Stando a quanto riporta la stampa locale, un funzionario del governo, Jean Claude Tilla, ha visitato la struttura e ha puntato il dito contro i sostenitori del Movimento per la rinascita del Camerun (Mrc), definendoli gli istigatori della violenza. “Sappiamo che si nascondono dietro il problema anglofono per fomentare tali rivolte”, ha detto Tilla. In una nota il vice portavoce del segretario generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres, Farhan Haq, ha denunciato il mese scorso che più di 1,3 milioni di persone hanno bisogno di assistenza umanitaria nelle regioni anglofone del Nordovest e del Sudovest del Camerun. Inoltre, si legge nella nota, circa 1.300 persone sono state sfollate soltanto la scorsa settimana in seguito ai nuovi attacchi che hanno provocato decine di morti fra i civili, mentre centinaia di case sono state date alle fiamme. “La situazione continua ad essere caratterizzata da violazioni dei diritti umani diffuse”, ha detto Haq, secondo cui, nonostante le crescenti esigenze, il Camerun resti una delle risposte umanitarie maggiormente sottofinanziate a livello globale. Nei mesi scorsi anche l’Alto commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani, Michelle Bachelet, aveva lanciato un avvertimento alla comunità internazionale sul rischio che la crisi in Camerun stia “sfuggendo” di mano e che la finestra per la riconciliazione si stia chiudendo. In precedenza l’International Crisis Group (Icg) aveva riferito che almeno 1.850 persone sono state uccise e 530 mila sono state sfollate negli scontri negli ultimi 20 mesi, mentre sia il governo che i separatisti continuano a rifiutarsi di sedersi al tavolo dei colloqui. Le violenze nelle regioni anglofone del Camerun sono riesplose in concomitanza alle elezioni presidenziali dell’ottobre scorso, vinte dal presidente uscente Paul Biya che ha ottenuto la rielezione per un settimo mandato. Nel discorso da lui pronunciato in occasione della cerimonia di giuramento, Biya ha promesso di trovare una via d’uscita al conflitto che da paralizza le regioni, dicendosi “certo che esista una via di uscita nell’interesse di tutti”, ma indirizzando al contempo un messaggio di rigore ai militanti separatisti, “fautori della guerra” responsabili di “nuocere alla nostra unità nazionale promuovendo la secessione”: chi non dimostrerà volontà di difendere il paese nella sua unità sarà fermato con ogni mezzo dal governo, ha detto Biya, “non solo in base al rigore della legge ma anche grazie alla determinazione delle nostre forze di sicurezza e difesa”. Le violenze sono scoppiate nel 2016 a causa della presunta emarginazione della comunità anglofona da parte delle autorità centrali di Yaoundé e si sono aggravate dopo che i separatisti hanno autoproclamato la Repubblica di Ambazonia. Myanmar. Rohingya, 61 Ong lanciano un appello sul peggioramento della crisi savethechildren.it, 22 agosto 2019 Le Organizzazioni chiedono impegno per il rimpatrio volontario e sicuro dei rifugiati. Quasi 1 milione di Rohingya stanno ancora aspettando giustizia e chiarezza sul loro futuro, due anni dopo essere state costrette a lasciare le proprie case a causa delle atrocità di massa subite in Myanmar, stanno lottando per la propria sicurezza e la propria dignità come rifugiati in Bangladesh. In una dichiarazione congiunta rilasciata oggi, 61 Ong locali, nazionali e internazionali che lavorano nei due paesi, hanno chiesto che nello stato di Rakhine in Myanmar - dove circa 128.000 sfollati Rohngya e di altre comunità mussulmane sono confinati dal 2012 nei campi senza poter far ritorno alle loro case - i diritti umani vengano riconosciuti a tutta la popolazione, senza eccezioni, e che i rifugiati Rohingya attualmente in Bangladesh possano avere un ruolo nelle decisioni sul proprio futuro, comprese le modalità del loro rimpatrio in Myanmar. Le Ong hanno espresso forte preoccupazione per la sicurezza delle famiglie coinvolte dalle violenze nello stato di Rakhine, incluse quelle Rohingya, mentre il conflitto si intensifica e l’accesso umanitario rimane limitato. Alla luce delle notizie sul possibile rimpatrio accelerato di 3.450 rifugiati Rohingya circolate questa settimana, le Ong hanno esortato i governi del Bangladesh e del Myanmar a garantire che qualsiasi processo di rimpatrio avvenga in sicurezza e che sia volontario e dignitoso. Negli ultimi due anni, le Ong hanno aiutato il governo del Bangladesh e le Agenzie delle Nazioni Unite a fornire il necessario sostegno e il supporto vitale ai rifugiati che vivono nel più grande campo profughi del mondo nel Paese. Gli sforzi congiunti hanno stabilizzato le condizioni di vita nel campo, predisponendo le misure necessarie per affrontare la difficile stagione dei monsoni e prevenire la rapida diffusione di malattie. Ma bisogna fare di più. Le Agenzie hanno infatti invitato la comunità internazionale ad aumentare i finanziamenti per la risposta umanitaria in Bangladesh e Myanmar, per poter migliorare le condizioni di vita dei rifugiati e delle comunità locali ospitanti, e quelle degli sfollati interni nel Rakhine. “Per due anni, i bambini Rohingya e le loro famiglie hanno vissuto nei campi con poche speranze di un futuro dignitoso. Dopo aver subito alcune delle peggiori violazioni dei diritti umani del ventunesimo secolo, ora vivono in rifugi temporanei fatti di bambù e plastica e non riescono a ricevere un’istruzione adeguata. Un bambino su dieci è ancora malnutrito e i rischi di traffico e sfruttamento, droga e criminalità nei campi fanno sentire i bambini insicuri”, afferma David Skinner, Responsabile di Save the Children a Cox’s Bazar. “È tempo che il mondo crei le condizioni per sostenere il ritorno sicuro e volontario dei Rohingya in Myanmar, dove il Governo deve far fronte ad una delle sue responsabilità più elementari, quella di garantire lo stesso livello di sicurezza e umanità per tutti. I Rohingya meritano giustizia per ciò che hanno sofferto: i responsabili delle violazioni dei diritti umani e dei crimini contro l’umanità devono essere assicurati alla giustizia affinché i bambini Rohingya siano protetti e queste atrocità non si ripetano più, e per garantire loro il futuro che desiderano” conclude Skinner. Save the Children, l’Organizzazione internazionale che da 100 anni lotta per salvare i bambini a rischio e garantire loro un futuro, lavora in Myanmar nello stato del Rakhine dal 2010 e in Bangladesh, a Cox’s Bazar dal 2012. L’Organizzazione fornisce supporto ai bambini e alle persone più vulnerabili con interventi per la salute, l’alimentazione, l’igiene, l’istruzione e - soprattutto - la protezione dei minori. Nello stato del Rakhine, Save the Children è presente e opera nei campi di Sittwe e Pauktaw e in 19 villaggi in aree di conflitto, in Bangladesh ha raggiunto con i suoi interventi salvavita più di 400.000 bambini a Cox’s Bazar, e ha creato più di 90 Spazi a misura di bambino e oltre 100 centri per l’apprendimento. Indonesia. La rivolta mai sedata di Papua Occidentale di Riccardo Noury Corriere della Sera, 22 agosto 2019 Il 15 agosto un gruppo di studenti papuani ha organizzato una protesta a Malang, nella provincia di Giava orientale. Gli studenti intendevano ricordare, e contestare, l’accordo di New York del 1962 con quale la colonia olandese della Nuova Guinea, invasa un anno prima dall’esercito indonesiano, era stata posta sotto l’amministrazione delle Nazioni Unite. Un anno dopo l’Indonesia ne assunse il controllo di fatto in attesa di un referendum sullo status politico del territorio, da tenersi nel 1969. La consultazione si svolse nei tempi previsti ma fu una farsa: su una popolazione di 800.000 abitanti ne vennero “selezionati” poco più di 1000 che, sotto minaccia, votarono sì all’annessione. Torniamo al 15 agosto. La protesta è stata vietata, gli studenti hanno manifestato lo stesso e sono stati aggrediti dalla popolazione locale, aizzata dal vice-sindaco di Malang che aveva minacciato gli studenti di “farli tornare a casa loro”, ossia a Papua. Il 16, nella città di Surabaya, un gruppo di facinorosi fomentati da gruppi religiosi locali hanno assaltato un dormitorio di studenti papuani al grido di” scimmie, cani, maiali”, accusandoli di aver strappato e gettato nella spazzatura una bandiera indonesiana. Il giorno dopo, Festa dell’indipendenza dell’Indonesia, la polizia ha lanciato gas lacrimogeni all’interno del dormitorio. Alcuni studenti sono stati arrestati e rilasciati poche ore dopo, quando è emerso che non era stata distrutta alcuna bandiera. Come era facile attendersi, le violenze di Malang e Surabaya hanno scatenato reazioni a Papua Ovest: a Manokwari il parlamento locale è stato dato alle fiamme e altrettanto è accaduto a una prigione di Sorong. Sono stati distrutti edifici pubblici e appartamenti privati. Le organizzazioni locali per i diritti umani, pur condannando gli episodi di violenza, hanno denunciato il comportamento della Polizia nazionale indonesiana, la sua attitudine discriminatoria e l’uso illegale della forza. Va avanti così da decenni; da un presidente all’altro la situazione non è cambiata. Gli scontri tra gruppi armati indipendentisti e forze armate indonesiane hanno causato migliaia di morti. Numerosi sostenitori pacifici dell’indipendenza sono finiti in carcere, anche solo per avere sventolato la bandiera papuana.