Cassazione: al 41bis è vietato lo scambio di generi alimentari di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 21 agosto 2019 Al 41bis è vietato lo scambio di generi alimentari anche se ciò avviene tra persone del medesimo gruppo di socialità. Questo è ciò che dice la sentenza della Cassazione sul ricorso proposto dal ministero della Giustizia nei confronti di Giovanni Riina, figlio di Totò, l’ex capo dei capi. Tutto ha avuto inizio quando il tribunale di Sorveglianza di Perugia ha accolto il reclamo ex art. 35bis ord. pen. di Giovanni Riina, detenuto sottoposto al regime del 41bis. È andato contro l’ordinanza con cui il magistrato di Sorveglianza di Spoleto aveva dichiarato inammissibile il ricorso avverso il provvedimento della Casa di reclusione di Spoleto di divieto dello scambio di oggetti, compresi i generi alimentari, all’interno del medesimo gruppo di socialità. Il Tribunale però ha ritenuto che la disposizione dell’art. 41bis comma 2quater lett. f), fonte normativa del divieto di scambio di oggetti tra detenuti appartenenti al medesimo gruppo di socialità, non possa essere interpretata, pena altrimenti l’incostituzionalità, nel senso proposto dall’Amministrazione penitenziaria. Secondo il tribunale di Sorveglianza non si vede infatti come lo scambio di oggetti di modico valore, i soli consentiti dall’ordinamento, e specificamente quello di generi alimentari, possa arrecare un danno al soddisfacimento delle esigenze sottese al regime speciale. Il Tribunale ha pertanto accolto il reclamo e riconosciuto che la materia dello scambio di oggetti e generi alimentari tra detenuti in regime del 41bis riceve tutela in base al combinato disposto degli artt. 35bis e 69 co. 6 lett. b Legge 354 del 1975, essendo codificato il diritto soggettivo del detenuto a esercitare una minima socialità all’interno del gruppo. Ha pertanto annullato l’ordinanza impugnata con disapplicazione dell’ordine di servizio e delle circolari ministeriali sul punto difformati e ha ordinato all’Amministrazione penitenziaria di emettere un ordine di servizio che recepisca le indicazioni date. Ma il ministero della Giustizia ha fatto ricorso, tramite l’avvocatura di Stato, e ha dedotto vizio di violazione di legge. Ha evidenziato che la lettera della disposizione di cui all’art. 41bis co. 2quater lett. f) ord. pen. è chiara nello stabilire che il divieto di scambio di oggetti tra detenuti è generale ed operativo anche all’interno del medesimo gruppo di socialità. Il ricorrente ha sottolineato che lo scambio di oggetti non è essenziale alla socializzazione e pertanto il divieto in oggetto, frutto di un bilanciamento con il contrapposto interesse ad arginare i flussi informativi tra i detenuti in regime speciale, non è irragionevole. Peraltro ha ricordato che la Cassazione, con sentenza n. 5977 del 2017, ha avallato l’interpretazione più rigorosa del divieto di scambio di oggetti, affermandone l’operatività all’interno del medesimo gruppo di socialità. Il Procuratore generale, intervenuto con requisitoria scritta, ha chiesto quindi l’annullamento dell’ordinanza impugnata. La Cassazione ha ritenuto valido il ricorso. La Corte ricorda di aver già affrontato specificamente la questione relativa alla portata del divieto normativo di scambio di oggetti tra detenuti in regime del 41bis dove ha dettato il principio di diritto secondo cui “in tema di regime detentivo differenziato, la prescrizione prevista dall’art. 41bis, comma secondo quater, lett. f), secondo periodo, ord. pen., che impone all’Amministrazione penitenziaria di adottare tutte le misure di sicurezza volte ad assicurare l’assoluta impossibilità per i detenuti di scambiare oggetti tra loro, riguarda tutti i detenuti a prescindere se appartenenti al medesimo o a diversi gruppi di socialità”. Si è allora dimostrato sulla base del costrutto sintattico e dell’uso della punteggiatura nella disposizione normativa che il divieto di scambio di oggetti ha portata generale e che, pertanto, non è ammessa una diversa interpretazione che ne restringa l’ambito applicativo al caso di eterogeneità dei gruppi di socialità. La Corte ha sottolineato che il legislatore ha inteso escludere, con scelta non sindacabile in quanto non irragionevole, che lo scambio di oggetti, sia pure all’interno dello stesso gruppo di socialità, possa essere utilizzato come forma di comunicazione non verbale e, come tale, di assai più difficile leggibilità nello svolgimento dei necessari controlli a cui i detenuti sono sottoposti. La Cassazione ha quindi annullato senza rinvio l’ordinanza impugnata. Daspo, pene più severe e Trojan. Ma stop alla riforma dei processi Il Fatto Quotidiano, 21 agosto 2019 La caduta del governo lascia a metà il percorso delle riforme dei processi penali e civili volute dal Guardasigilli M5S, Alfonso Bonafede. Del dicembre 2018 è invece lo Spazza-corrotti, che introduce il Daspo dalla Pubblica amministrazione per chi ha condanne per corruzione, sconti di pena per chi collabora, carcere senza pene alternative per i condannati per questo tipo di reati, l’introduzione dell’agente sotto copertura e di nuovi strumenti investigativi (come il Trojan nei cellulari) e regole più stringenti sui finanziamenti ai partiti e alle fondazioni politiche. La legge stabilisce anche che dal gennaio 2020 cambino le regole sulla prescrizione, i cui tempi si fermeranno dopo la sentenza di primo grado. I gialloverdi lasciano anche lo stop al bavaglio sulle intercettazioni ricevuto in eredità dal ministro Orlando (Pd) e il Codice Rosso: indagini più rapide e pene più severe per i reati di genere, come lo stalking e la violenza sessuale. Stupefacenti, lieve entità anche per il piccolo spaccio continuativo di Andrea Alberto Moramarco Il Sole 24 Ore, 21 agosto 2019 Cassazione - Sezione penale -Sentenza 19 febbraio 2019 n. 97. Il piccolo spaccio di marijuana in strada in favore di consumatori finali, anche se effettuato in maniera non occasionale e continuativa, integra la fattispecie del fatto di lieve entità di cui all’articolo 73 comma 5 del Dpr n. 309 del 1990 (Testo unico in materia di stupefacenti), qualora i singoli fatti risultino comunque di contenuta offensività e di modesto disvalore, in considerazione del complessivo quantitativo detenuto o del fatto che la droga sia detenuta senza particolari accorgimenti o cautele e in pubblico. A ribadirlo è il Tribunale di Trento nella sentenza n. 97/2019. La vicenda - La decisione riguarda un ragazzo, con diversi precedenti penali e plurime segnalazioni, il quale veniva sorpreso da alcuni agenti di polizia, in una nota piazza di spaccio locale, in possesso di 58 grammi di marijuana distribuita in 5 confezioni. La detenzione frazionata della sostanza stupefacente in un luogo pubblico notoriamente deputato al traffico di sostanze stupefacenti, da soggetto scoperto privo di lecite fonti di reddito, portava a ritenere che la sostanza non fosse detenuta per uso personale, ma per la cessione a terzi. Di conseguenza, il ragazzo veniva tratto a giudizio per rispondere della fattispecie del fatto di lieve entità di cui all’articolo 73 comma 5 del Dpr 309/1990. La decisione - A seguito dell’ammissione del fatto in giudizio, il Tribunale emette un verdetto di condanna e si sofferma sulla correttezza dell’imputazione mossa dal Pm all’imputato, nonostante che la recidiva, le modalità di vendita e l’assenza di una fonte di reddito potessero far pensare a una ipotesi di reato ex articolo 73 comma 1 del Dpr 309/1990. Ebbene, per il giudice nella fattispecie si è in presenza di “piccolo spaccio di strada, in favore di consumatori finali”. In tal senso depongono il tipo di sostanza, la non particolare accuratezza nel confezionamento dei singoli involucri, la detenzione della droga in pubblico “senza particolari accorgimenti o cautele”. In particolare, sottolinea il giudice richiamando giurisprudenza di legittimità, la fattispecie del fatto di lieve entità “non è di per sé incompatibile con la reiterazione nel tempo delle condotte di spaccio da parte dell’imputato né con lo svolgimento di attività di spaccio non occasionale ma continuativa”, quando “i singoli fatti risultino comunque di contenuta offensività e di modesto disvalore”. Né rileva, conclude il Tribunale, il fatto che l’imputato sia stato ripetutamente segnalato all’autorità giudiziaria per ipotesi di detenzione a fini di spaccio, non essendo ciò “ostativo alla suddetta qualificazione giuridica”. Va sempre demolita la casa abusiva, anche se abitata da un’anziana di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 21 agosto 2019 Corte di cassazione, Terza sezione penale, sentenza 20 agosto 2019, n. 36257. L’abuso edilizio non è tollerato. E l’immobile costruito deve essere demolito. Anche quando rappresenta l’abitazione di un’anziana novantenne. La Cassazione, Terza sezione penale, sentenza n. 36257 depositata ieri, sceglie la linea dura, confermando l’ordinanza del tribunale di Napoli con la quale veniva negata la sospensione della distruzione di una serie di opere edilizie costruite in violazione di legge. La Corte ha così respinto la tesi difensiva che contestava l’assenza di una qualsiasi valutazione sulla proporzionalità della sanzione rispetto alla situazione abitativa della donna. Per la difesa la costruzione oggetto dell’ordine di demolizione produce in realtà una lesione assolutamente modesta; tanto più se bilanciata con il bene giuridico costituzionalmente tutelato del diritto all’abitazione. Si metteva in evidenza come l’immobile rappresenta invece l’unica soluzione a disposizione di una persona anziana, quasi novantenne e priva delle disponibilità economiche necessarie a procurarsi un’alternativa dignitosa. Per la Cassazione, tuttavia, è priva di fondamento giuridico la prevalenza assoluta e aprioristica del diritto costituzionale all’abitazione sull’interesse pubblico a ristabilire l’ordine giuridico violato attraverso l’esecuzione dell’ordine di demolizione. Va ricordato invece, chiarisce la sentenza, che l’ordine di demolizione non ha una funzione punitiva, quanto piuttosto l’obiettivo di ripristinare il bene tutelato: “il fondamento della previsione non è quello di sanzionare ulteriormente l’autore dell’illecito, ma quella di eliminare le conseguenza dannose della condotta medesima rimovendo la lesione del territorio verificatasi”. Il diritto del cittadino a poter disporre di una casa dignitosa non può prevalere, osserva ancora la Cassazione, sull’interesse della collettività alla tutela del paesaggio e dell’ambiente e all’uso corretto del territorio. Si tratta invece di una posizione soggettiva individuale, destinata a cedere rispetto all’interesse pubblico alla demolizione dell’immobile abusivo. Va poi ricordato come i giudici di merito avevano già puntualizzato che non può essere invocato uno stato di necessità per le condizioni di salute della donna e per le sue precarie condizioni economiche (tra l’altro non dimostrate, avverte la Cassazione): all’attività edilizia abusiva non può essere applicata questa forma di esenzione da responsabilità. Comunque, aggiungeva il Tribunale, anche nell’impossibilità economica di sostenere un canone di locazione perché titolare di una pensione di invalidità, la donna avrebbe potuto rivolgersi ai servizi sociali. Per la Cassazione, infine, non esiste neppure un profilo di violazione dell’articolo 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, nella parte in cui disciplina il diritto al rispetto della vita privata e familiare e del domicilio. Anche in questo caso infatti, nella lettura della Corte, non si può trarre la conclusione di una legittimità a occupare un immobile anche se abusivo, solo perché destinato a casa familiare. San Cataldo (Cl): Partito Radicale e Camere Penali in visita alla Casa di reclusione di Maria Brucale* Ristretti Orizzonti, 21 agosto 2019 L’edificio della Casa di reclusione di San Cataldo è stato costruito nel 1920. Dapprima destinato ad orfanotrofio, poi adibito a carcere, presenta gravi carenze strutturali connaturate soprattutto alla vetustà ed alla mancanza di adeguati interventi di ristrutturazione. Il personale penitenziario è composto da 57 unità di assegnazione sulle 61 previste dalla pianta organica. L’assistenza sanitaria è fornita con turni h 12, dalle 08.00 alle 20.00. Di notte le emergenze vengono gestite dalla guardia medica. Il dato è allarmante, e per le attese cui inevitabilmente si costringono i detenuti che manifestano una urgenza sanitaria, e perché la guardia medica è deputata a coprire le esigenze di circa 20.000 abitanti. All’esterno, sotto un’altissima palma secolare, si trova una scultura a rilievo che ritrae i Giudici Falcone e Borsellino realizzata da una persona detenuta. Ci accoglie il Commissario coordinatore Carlo Di Blasi Petrantoni che sarà la nostra guida insieme al Direttore in missione, Dott. Valerio Pappalardo. Il carcere ospita circa 115 persone. Tra loro una decina hanno dipendenze da droga, tre sono in terapia metadonica; una è insulinodipendente, una quindicina manifestano disagi psichici. Il contratto dello psichiatra è scaduto da due mesi e la figura non è stata ad oggi ripristinata. Attraversiamo i primi locali, appena realizzati anche con l’apporto del lavoro dei ristretti che hanno curato l’impianto elettrico e la muratura: un moderno polo didattico, con aule spaziose dotate di lim con touch screen, che sarà fruibile da settembre. Al polo si accede tramite tornelli videosorvegliati dotati di riconoscimento biometrico idoneo ad identificare gli iscritti ai corsi. L’istituto è formato da due sezioni. Una ospita il reparto isolamento e l’infermeria, l’altra la rimanente parte della popolazione ristretta. Soltanto nel settore ‘isolati’ non c’è la doccia in cella. I muri dei locali sono logori e cadenti e il reparto di infermeria necessita di una massiccia opera di recupero. Veniamo informati di un finanziamento già erogato per la ristrutturazione che dovrebbe, dunque, essere avviata in tempi brevi. Tutte le stanze presentano una gravissima criticità. Le finestre, nella parte bassa, sono coperte da pesanti pannelli di ferro che oltre a rendere l’atmosfera dello spazio abitato opprimente, d’estate si arroventano e rendono i locali incandescenti. Le odiose barriere, che rispondono ad esigenze di sicurezza e tendono ad inibire la comunicazione dei reclusi con gli abitanti degli edifici vicini, potrebbero essere facilmente sostituite con schermi o griglie di materiale più leggero ma occorrono risorse economiche purtroppo indisponibili. Nelle celle gli sgabelli hanno gli schienali. Segnali di attenzione e di rispetto che colpiscono. In carcere non esiste il superfluo e, troppo spesso, neppure il necessario a garantire condizioni di vita accettabili. I televisori non sono incassati nel muro ma con video a schermo piatto e di dimensioni adeguate alla scopo. Ci sono, ancora, piccoli frigoriferi che consentono ai detenuti di godere di acqua fresca e di conservare il cibo impedendo che si deteriori e si sprechi. È in funzione un servizio di lavanderia che è usato soprattutto da chi è distante dalla propria famiglia e non può effettuare frequentemente il cambio della biancheria. Il personale è cortese e attento alle necessità dei ristretti. L’area educativa funziona e garantisce tempi rapidi nella elaborazione dei programmi trattamentali. Purtroppo gli assistenti sociali sono assai poco presenti. Dalla introduzione della messa alla prova per adulti, le visite in carcere non sono considerate una priorità. Peraltro, sebbene protocolli locali escludano un intervento sistemico dell’Uepe nelle relazioni di sintesi, è evidente che senza le verifiche degli assistenti sociali, le istanze di misure alternative giungono ai magistrati e ai tribunali di sorveglianza monche di una parte essenziale che deve essere integrata in sede istruttoria e comporta inevitabilmente un grave ritardo nelle decisioni e, di conseguenza, nella fruizione dei benefici richiesti. Il lavoro è una nota dolente. Poche sono le persone impiegate e con una turnazione che garantisce una continuità di non più di quaranta giorni. È evidente che una occupazione così gestita non proietta verso il futuro, non tende a creare professionalità spendibili nella vita libera ma soltanto a riempire un tempo inerte. L’aspetto seriamente patologico, in ragione del quale molti detenuti lamentano condizioni di vita inaccettabili, afferisce alla convivenza forzata con tante persone diverse per età, provenienza, abitudini. Alcune celle dell’istituto ospitano fino a diciotto persone. C’è un solo servizio igienico nel quale due water sono posti uno accanto all’altro e separati a mezza altezza da un muretto di cemento. È impensabile garantire la dignità e la privacy in una condizione di disagio così lampante. I detenuti fanno turni a partire dalle quattro del mattino per fruire del bagno senza essere costretti ad una spiacevole e degradante promiscuità. Tanti uomini in cattività trascendono comprensibilmente in frequenti tensioni e contrapposizioni per occasioni di contrasto che si palesano in qualunque situazione di condivisione duratura di spazi, anche in contesti abitativi liberi, e diventano esplosive se vissute in un ambito di coazione e di restrizione. Le pareti di quasi tutti i locali sono cadenti e richiederebbero interventi di pulitura e ristrutturazione. Lo spazio destinato alle attività sportive all’esterno è inadeguato. I muri sono fatiscenti e circondati da un robusto filo spinato sul quale si notano improbabili decorazioni, i numerosi palloni esplosi che costringono i ristretti ad acquistarne quotidianamente di nuovi per non perdere la principale opportunità di svago. L’area colloqui è gradevole ma poco areata. È attivo il sistema di collegamento via Skype per sostituire l’incontro con i familiari quando impossibilitati a raggiungere il proprio caro. L’aria della c.d. “socialità” è ampia ma molto calda e logora. I servizi igienici sono pressoché inaccessibili. L’affaccio è su un cortile invaso da rifiuti ed escrementi di piccioni. Anche la palestra è in pessime condizioni e abbisognerebbe di seri lavori di recupero e di nuovi strumenti ginnici. Il carcere ha locali per la pittura e corsi di bricolage. C’è un bel teatro, luminoso e capiente che ha visto impegnati i detenuti in apprezzate rappresentazioni alle quali anche pubblico esterno ha partecipato e presso il quale si sono svolte splendide iniziative come “al cinema con papà” in cui ai genitori reclusi è stato consentito, prima del colloquio, di vedere un cartone animato con i propri bambini. C’è anche una chiesa imponente e curata all’interno della quale si trova un presepe realizzato con estrema cura dai detenuti, ricco di minuziosi particolari. Domus dei et porta coeli, si legge al suo ingresso. Delegazione composta da: Rita Bernardini, Donatella Corleo, Gianmarco Ciccarelli, tutti del Partito Radicale, Maria Brucale, responsabile della commissione carcere, Camera Penale di Roma. *Avvocato Santa Maria C. V. (Ce): il Partito Radicale denuncia “allucinante la carenza di acqua” cronachedellacampania.it, 21 agosto 2019 Nell’ambito dell’iniziativa “Ferragosto in carcere”, promossa dal Partito Radicale, da Radio Radicale, dall’Unione delle Camere Penali italiane e da Nessuno tocchi Caino, lunedì 19 agosto una delegazione del Partito Radicale guidata da Domenico Letizia del Consiglio direttivo di Nessuno Tocchi Caino, e Tommaso Caricchia, Pastore della Chiesa Cristiana Evangelica di San Marco Evangelista, hanno reso visita alla comunità penitenziaria della Casa Circondariale di Santa Maria Capua Vetere “Uccella”. I detenuti al momento sono più di 900 di cui 57 donne. La capienza regolamentare del penitenziario è di 880 detenuti. Sono presenti sia detenuti di alta sicurezza e di media sicurezza, i cosiddetti “comuni”. Gli stranieri sono circa il 10% della popolazione detenuta di Santa Maria Capua Vetere. Il carcere di Santa Maria Capua Vetere è tristemente noto per la cronica carenza d’acqua. La direzione e gli agenti penitenziari, hanno spiegato alla delegazione che è stato presentato il progetto per l’allaccio all’acquedotto comunale e che occorrerà attendere almeno un altro anno prima che l’allaccio e l’accordo con i comuni sia raggiunto. La Regione ha già stanziato due milioni di euro, fondi necessari affinché il Comune di Santa Maria Capua Vetere possa completare l’opera. Trapani: nel carcere situazione disastrosa, lo dicono la Uil-Pa e il Partito Radicale trapanisi.it, 21 agosto 2019 “Una situazione disastrosa e alquanto allarmante”, aveva commentato a caldo sulla sua pagina Facebook, Gioacchino Veneziano, segretario regionale della Uil-Pa Polizia Penitenziaria, subito dopo la visita della delegazione del sindacato, alla Casa circondariale “Pietro Cerulli” di Trapani. Una affermazione che trova ora maggiori dettagli nella nota inviata alla stampa nella quale Veneziano afferma che “eravamo venuti a fare la visita dei luoghi di lavoro tre anni fa e, rispetto ad allora, abbiamo costatato un disfacimento strutturale inammissibile: è come se, da allora, nessun dirigente si sia occupato di mettere in campo le più banali opere di manutenzione ordinaria. Abbiamo trovato cancelli e porte pieni di ruggine, muri con la muffa e infiltrazioni di acqua nei corridoi e nei tetti”. Secondo il segretario regionale Uil-Pa Polizia Penitenziaria “il reparto della Media Sicurezza è quello da ristrutturare nella sua interezza, quindi da chiudere senza indugio, infatti - continua Veneziano - non riusciamo a capire cosa vengono a verificare le varie visite dell’Asp ma, soprattutto, cosa scrivono nelle relazioni conclusive quando noi, come sindacato dei lavoratori, abbiano costatato gravissime violazioni del datore di lavoro con ossidazione di tutte le strutture in ferro, muffa nei muri, postazioni dei lavoratori vergognosamente degne da terzo mondo senza aria condizionata, ovvero ricircolo dell’aria, con mobilio preso sicuramente in prestito dai vari sfasciacarrozze, quindi tutto fuorilegge”. “A causa dei ritardi dell’Amministrazione nell’ovviare alle debolezze strutturali e di sicurezza nella zona dove si è concretizzata l’evasione - sottolinea il sindacalista - è stata collocata una cabina di legno che apparteneva al lido della Polizia Penitenziaria quando, da oltre sei mesi, erano arrivati i fondi per rinforzare la sicurezza - sostiene Veneziano - ma evidentemente a chi ha diretto per dieci anni questo Istituto non stava a cuore la sicurezza dei nostri colleghi, ovvero tanto chi paga in caso di eventi critici è solo ed esclusivamente il personale che indossa la divisa della Polizia Penitenziaria”. Per quanto riguarda i numeri, attualmente sono in servizio al “Pietro Cerulli” 242 poliziotti penitenziari di cui 40 utilizzati presso il Nucleo provinciale operativo traduzioni e piantonamenti, ulteriori 85 poliziotti utilizzati nei compiti e servizi attinenti la sicurezza e circa 80 unità assenti per la fruizione di diritti soggettivi. In pratica - prosegue il segretario regionale della Uil-Pa Polizia Penitenziaria - rimangono 37 poliziotti nell’arco delle 24 ore (da dividere per tre turni) a controllare 535 detenuti, di cui 442 per reati comuni, 93 dell’alta sicurezza (suddivisi tra mafia, camorra, ‘ndrangheta e sacra corona unita)”. I detenuti stranieri sono 107 quindi il 20% del totale dei ristretti. Altissima la presenza di detenuti con problemi psichiatrici - secondo il sindacato - “che si aggirano ad oltre 100, rendendo il carcere di Trapani un mini ospedale psichiatrico”. Gioacchino Veneziano preannuncia che al prefetto di Trapani Tommaso Ricciardi di incontrare il personale di Polizia Penitenziaria del carcere “Pietro Cerulli”, “orfano di un’Amministrazione ostile e lontana dai bisogni dei lavoratori, fermo restando che invieremo una relazione dettagliata sulle condizioni della struttura e su come sono costretti ad operare i poliziotti penitenziari trapanesi al ministro Alfonso Bonafede, al capo del Dap Francesco Basentini, al capo del Personale Massimo Parisi, al Servizio di Vigilanza sull’Igiene e la Sicurezza dell’Amministrazione Penitenziaria (Visag), alla neo provveditora regionale Cinzia Calandrino, all’Asp di Trapani e ai Carabinieri del Nas oltre che allo stesso prefetto di Trapani. Le criticità del carcere trapanese sono state, proprio in occasione dello scorso Ferragosto, illustrate dalla ex parlamentare nazionale ed esponente del Partito Radicale Rita Bernardini che, insieme ad una delegazione, ha effettuato una visita - protrattasi dalle ore 10.30 circa fino alle ore 17.15 - alla Casa circondariale dalla quale è emerso l’evidente stato di degrado della struttura. Insieme a loro anche Roberto Piscitello, a capo della Direzione generale dei Detenuti e del Trattamento del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria. La delegazione ha riscontrato la presenza di celle anche piccolissime, destinate a ospitare un detenuto e che spesso ne ospitano due e di celle pensate per ospitarne tre che ne ospitano quattro con letti a castello anche a tre piani. Con eccezione del reparto “Adriatico”, inaugurato tre anni fa - che non ha comunque il riscaldamento ma ha i bagni a norma e la palestra - il resto invece è stato giudicato in pessimo stato: sia il reparto di isolamento, con docce esterne, senza acqua calda e il bagno a vista in tutte le celle e anche alla turca - dove è stato trovato un detenuto senza cuscino e uno straniero privo del sapone per lavarsi - sia il reparto di alta sicurezza, lo “Ionio”, dove ci sono le docce esterne alle celle, in violazione al regolamento penitenziario, il bagno senza finestre e impianto di aerazione. I detenuti stanno nelle celle 20 ore su 24 e la socialità è svolta in una sorta di gabbione nelle quattro ore d’aria consentite. Confermate, anche dal punto di vista della condizione dei detenuti, le criticità evidenziate dalla Uil-Pa Polizia Penitenziaria al reparto “Mediterraneo”, con infiltrazioni e muri scrostati, mentre al reparto “Tirreno” che ospiterà i cosiddetti “protetti” e che dovrebbe essere inaugurato il prossimo autunno, ci sarà anche il riscaldamento. La delegazione dei Radicali ha, anch’essa, registrato la carenza nell’organico della Polizia penitenziaria che le nuove immissioni non compensano, anche a fronte dei pensionamenti. Questo si riflette non solo sulla sicurezza del carcere ma anche sulle attività per i detenuti che non possono essere svolte per mancanza di personale. “Non emergono all’apparenza - dicono dalla delegazione - carenze di educatori e psicologi ma, secondo i detenuti, incontrare gli stessi educatori, gli assistenti sociali e responsabili del Sert non è una cosa semplice”. Presenti molti detenuti di tipo psichiatrico, tossicodipendenti e sieropositivi e, tuttavia, si registrano carenze nell’assistenza di tipo sanitario. Nota totalmente negativa è l’assenza di lavoro: solo 70 detenuti lavorano e solo 5 con datori di lavoro esterni: una percentuale inferiore al 15 per cento. Limitate le attività scolastiche e di formazione”. Un altro dato negativo - secondo Rita Bernardini e gli altri componenti della delegazione che ha visitato il carcere trapanese nella giornata di Ferragosto - è la mescolanza di detenuti in attesa di giudizio e detenuti definitivi. Una nota positiva è che il padiglione completamente ristrutturato è stato realizzato in tempi brevi perché è stato utilizzato il lavoro dei detenuti supportato da alcuni poliziotti. L’ex direttore dal Dap, Santi Consolo - dice - ha voluto che le ristrutturazioni fossero fatte proprio attraverso il lavoro dei detenuti, in modo da recuperare posti e possibilità di lavoro, che sono qualificanti da spendere all’esterno. Questa è l’unica nota positiva - conclude - tutto il resto, nel carcere di Trapani, è illegalità”. Rieti: pochi agenti e troppi detenuti, allarme sicurezza in carcere rassegna.it, 21 agosto 2019 La Fp-Cgil del Lazio denuncia la situazione della locale casa circondariale: 40 poliziotti in meno, oltre cento reclusi in più. “Occorrono politiche alternative al carcere - spiega il sindacato - e investimenti economici su strutture e personale”. “L’istituto risente anzitutto dei tagli all’organico: il personale è di 133 unità (di cui nove impiegate presso il locale nucleo traduzioni) a fronte delle 176 previste da pianta organica”. Questa la situazione della casa circondariale di Rieti, secondo quanto afferma la Fp Cgil di Roma e Lazio, che ha avviato una serie di visite nelle carceri della regione per constatare da vicino “le condizioni di disagio in cui ormai si trova a operare la Polizia penitenziaria”. C’è poi un problema di sovraffollamento: “Questo organico ridotto si trova a gestire 373 detenuti, mentre la capienza massima regolamentare prevista per la struttura è di 256”. L’istituto reatino, per le caratteristiche strutturali che lo contraddistinguono, è stato preso a modello per sperimentare la modalità di vigilanza dinamica dei detenuti, ma “oggi per mancanza di risorse economiche non si è ancora completata l’installazione di automatismi elettronici che semplificherebbero l’attività di vigilanza delle sezioni e del perimetro dell’istituto e che sarebbero almeno in grado di compensare il deficit di sicurezza in cui si trovano a operare gli agenti, dovuto alla carenza di personale”. Il nucleo traduzioni, poi, conta solo nove unità di polizia penitenziaria, e deve fronteggiare oltre che i servizi traduzioni programmati anche quelli urgenti, nonché i piantonamenti ospedalieri. Questo provoca il ricorso allo spostamento del personale dalle sezioni o dagli uffici dell’istituto, incidendo anche qui sulla sicurezza interna. Al fine di migliorare e snellire il servizio, il nucleo necessiterebbe di un incremento di mezzi che richiedono la patente B per la guida. Per trovare una soluzione, occorrono per la Fp, “politiche alternative al carcere, investimenti economici sulla strutture e sulla formazione del personale ma soprattutto adeguamento delle piante organiche”. A breve avverrà l’incontro tra il nuovo provveditore e i sindacati. “Saremo in prima linea - conclude il sindacato - per rappresentare la situazione degli istituti e dei servizi penitenziari Laziali nonché a chiedere interventi incisivi per la salvaguardia dei lavoratori. È tempo che l’Amministrazione assuma impegni concreti sulla tutela della sicurezza e della salute della Polizia penitenziaria”. Napoli: napoletani contro algerini, maxi rissa nel carcere di Poggioreale Il Mattino, 21 agosto 2019 Una maxi-rissa è scoppiata ieri mattina al primo piano del Padiglione Milano del Carcere di Poggioreale, a Napoli, che ospita circa 90 dei 300 detenuti del Padiglione. Armati di rudimentali bastoni e punteruoli e di sgabelli, si sono affrontati un folto gruppo di detenuti algerini e di detenuti del napoletano. La notizia è stata resa nota dal Sappe, Sindacato autonomo di Polizia Penitenziaria. La rissa ha coinvolto una quarantina di detenuti che si contendevano la supremazia del reparto. “La polizia penitenziaria - afferma il segretario del Sappe Campania, Emilio Fattorello - è intervenuta riuscendo a contenere i detenuti responsabili degli scontri”. I rivoltosi sono stati chiusi nelle celle ed i feriti curati. Il Sappe sottolinea che la Casa Circondariale di Poggioreale registra un sovraffollamento di circa 1.000 detenuti ed è destinato a raggiungere a breve un totale di 2.300/2.400 detenuti. “La situazione - afferma il segretario generale del Sappe, Donato Capece si è notevolmente aggravata”. “Gli eventi critici avvenuti nel primo semestre del 2019 - secondo il Sappe - sono inquietanti: 5.205 atti di autolesionismo, 683 tentati suicidi, 4.389 colluttazioni, 569 ferimenti, 2 tentati omicidi. I decessi per cause naturali sono stati 49 ed i suicidi 22. Le evasioni sono state 5 da istituto, 23 da permessi premio, 6 da lavoro all’esterno, 10 da semilibertà, 18 da licenze concesse a internati”. Cagliari: allarme salute mentale nel carcere di Uta di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 21 agosto 2019 La denuncia del Sindacato Uil-Pa: il repartino dell’ospedale di Cagliari usato come deposito. Il carcere sardo di Uta torna a farsi sentire per le sue criticità. Soprattutto sul campo dell’assistenza della salute mentale. Questa volta, ad avanzare critiche, è stato il sindacato Uil- Pa della Polizia Penitenziaria. Il quartier generale della Uil regionale e nazionale ha fatto visita alla struttura carceraria, attiva da 5 anni, che ha di fatto sostituito Buoncammino. “È assurdo e abbastanza grave - denuncia Michele Cireddu della Uil-Pa - che i repartini ospedalieri detentivi per quei detenuti che soffrono di problematiche gravi psichiche, realizzati a suo tempo, siano occupati dal nosocomio cagliaritano Santissima Trinità come deposito attrezzi. Sappiamo bene - aggiunge Cireddu - i rischi che i nostri agenti corrono quando purtroppo ci sono situazioni gravi, di ricovero coatto dei malati che soffrono di queste patologie gravi e che necessitano di una struttura apposita”. E così, con il mancato utilizzo dei repartini detentivi psichiatrici nell’ospedale, il problema della cura della salute mentale, diventa particolarmente esplosivo nel carcere di Uta. Perché? Bisogna leggere il rapporto del Garante nazionale delle persone priva della libertà, dove si evince che in questa struttura (considerata una “cattedrale nel deserto” dagli stessi sindacati di polizia penitenziaria) c’è innanzitutto una controversa classificazione degli spazi detentivi: seppur distinti sotto il profilo regolamentare, il Reparto Sai- ricoverati ordinari (20 posti solo maschile) e la “Articolazione per la tutela della salute mentale” (4 posti, anch’essa solo maschile), sono in realtà all’interno dei medesimi spazi e sostanzialmente indistinguibili. Personale, spazi, arredi, strumentazioni sanitarie sono identici. Le stesse stanze di detenzione/ ricovero sono distribuite in maniera non uniforme e senza un apparente criterio, se non quello della disponibilità momentanea di un posto letto. Secondo l’autorità del Garante è impossibile distinguere le stanze destinate alla “Articolazione per la tutela della salute mentale” rispetto a quelle ricoverate al Sai. Dunque l’osservatore esterno, visitando il reparto, può agevolmente dedurre come l’esistenza della “Articolazione per la tutela della salute mentale” sia sostanzialmente puramente fittizia e non sbaglierebbe, anche perché l’esistenza di tale “Articolazione” è risultata sconosciuta anche al personale sanitario operante nell’unica Rems regionale. Proprio la questione della salute mentale appare l’aspetto più problematico (a detta degli stessi operatori) dell’Istituto cagliaritano. Basti pensare che nessun tecnico della riabilitazione psichiatrica è in servizio nel carcere cagliaritano; nei periodi festivi un unico psichiatra deve fronteggiare le richieste sia dell’Istituto penitenziario che del territorio. Anche la presenza di altri specialisti è inferiore ai reali bisogni della struttura ed è continuamente ridotta dalla Azienda sanitaria: la presenza del medico internista, per esempio, nella nuova convenzione con l’Azienda sanitaria è ridotta da 10 a 4 ore settimanali. Un problema che ha messo in allarme anche i sindacati della polizia penitenziaria. Ravenna: 11 progetti per migliorare le condizioni di salute e di vita dei detenuti romagnanotizie.net, 21 agosto 2019 Migliorare le condizioni di salute e di vita delle persone sottoposte alla pena detentiva, con attività socio educative, di socializzazione e interrelazione e per l’inserimento lavorativo, questi gli obiettivi degli undici progetti presenti nella graduatoria realizzata nell’ambito del programma “Promozione della salute in carcere, umanizzazione della pena e reinserimento delle persone in esecuzione penale. Piano distrettuale per la salute e il benessere sociale 2019. Programma interventi rivolti alle persone sottoposte a limitazioni della libertà personale”. Il programma, spiega il Comune, si inserisce nel quadro delle azioni realizzate a livello di Comitato locale per l’esecuzione penale adulti di Ravenna ed è parte integrante del Piano di zona per la salute e il benessere sociale del distretto di Ravenna, Cervia e Russi, in collaborazione tra l’assessorato alle Politiche sociali, la direzione della Casa circondariale di Ravenna e l’Uiepe (Ufficio interdistrettuale di esecuzione penale esterna), insieme alle associazioni, cooperative sociali, società sportive e altri enti che presentano progetti di vario tipo: teatro, sport, cultura, gastronomia, informatica. “Si rinnova anche quest’anno la proficua collaborazione con la direzione carceraria - ha affermato l’assessora alle Politiche sociali Valentina Morigi - e con le realtà sociali, culturali e sportive della città per dare risposte concrete in tema di umanizzazione della pena. I progetti presentati prevedono corsi di formazione utili a imparare un mestiere, laboratori per acquisire delle competenze spendibili una volta estinta la pena ma anche percorsi di accompagnamento delle persone per facilitare il loro reinserimento in società, tutti obiettivi che coinvolgono la città intera”. Secondo la direttrice della casa circondariale di Ravenna, Carmela De Lorenzo: “tutte le iniziative che vengono realizzate grazie all’importante intervento del Comune di Ravenna e dell’assessorato alle Politiche Sociali, perfettamente in linea con quanto sancito dalla nostra Costituzione, contribuiscono alla espiazione di una pena “utile e proficua” nell’ottica del cambiamento e della rieducazione al fine di restituire alla società uomini più consapevoli e responsabili”. Le risorse investite nel programma di promozione derivano dal fondo regionale che viene ripartito fra i comuni sede di carcere (diversi gli indicatori tenuti in considerazione per la ripartizione di fondi: popolazione detenuta, detenuti stranieri e numero di soggetti sottoposti a misure esterne di esecuzione penale). Per il 2019 sono stati assegnati al Comune di Ravenna 44.402,69 euro dalla Regione, ai quali il Comune aggiunge una quota di cofinanziamento, in misura non inferiore al 30%, per il costo di un dipendente con il ruolo di educatore per lo sportello informativo e per la gestione delle dimissioni con l’obiettivo di valutare il percorso più opportuno di reinserimento (32.463,38 euro); per un costo complessivo del progetto di 76.866,07 euro. I progetti di intervento sono di due tipologie: quelli realizzati all’interno della casa circondariale e quelli realizzati all’esterno, in altre aree e/o con misure alternative alla detenzione e di comunità. Lo Sportello informativo all’interno del carcere (gestito da Life Onlus) è una delle azioni portate avanti, con particolare attenzione verso gli stranieri e alle persone prive di risorse familiari e relazionali al di fuori del carcere. La attività sono programmate di concerto con la direzione carceraria e in collaborazione con tutte le realtà operanti all’interno della struttura con il coinvolgimento delle associazioni di volontariato. Voghera (Pv): carcere e solidarietà, i detenuti donano i loro alimenti ai poveri della città vogheranews.it, 21 agosto 2019 Ferragosto solidale per la Casa Circondariale di Voghera. L’iniziativa ha avuto inizio mercoledì 14 agosto, data nella quale, grazie anche la consolidata rete sociale locale, i detenuti hanno donato (a due realtà del territorio) gli alimenti cui avevano diritto ma ai quai hanno rinunciando per offrirli a coloro che hanno maggiore necessità. La Direzione dell’Istituto ha contattato la Caritas diocesana allo scopo di offrire alle mense che quotidianamente accolgono persone meno abbienti, gli alimenti che non sarebbero stati utilizzati nella giornata del Ferragosto. Gli stessi operatori Caritas e diversi volontari, molto attivi in tale servizio, si sono resi da subito disponibili ad accogliere pasta, carne, e generi che più facilmente si possono conservare. In particolare hanno aderito alla proposta la “Casa del Pane”, gestita dal gruppo Caritas del Duomo di Voghera, e l’A.P.S.A. (Associazione Pane di Sant’Antonio), costituita dai Frati del Convento “S. Maria delle Grazie” di Voghera. Il personale della Polizia Penitenziaria e gli operatori del trattamento hanno sostenuto l’iniziativa, provvedendo alla realizzazione della stessa. “La generosa donazione, rappresenta il risultato di una riflessione condotta dal Direttore e dagli operatori penitenziari con i detenuti - spiega l’istituto di pena -, sull’importanza di limitare lo spreco e di condividere le risorse, anche in ottica riparatoria nei confronti della società”. L’istituto auspica che “progetti simili possano assumere carattere di continuità nel dialogo tra il carcere e la comunità locale”. Una morte in contenzione che reclama risposte di Stefano Cecconi e Giovanna Del Giudice Il Manifesto, 21 agosto 2019 Elena, 19 anni, è morta legata al letto di un ospedale. Chiusa in una stanza del reparto di psichiatria, senza alcuna possibilità di sfuggire al fuoco di un incendio, della giovane donna sappiamo poco e oggi ci rimane solo un corpo carbonizzato. È accaduto a Bergamo, l’antivigilia di Ferragosto. Una tragedia orribile, su cui spetta alla magistratura fare luce, ma che certamente reclama risposte chiare e ineludibili. Perché Elena è stata legata? Perché un essere umano può essere legato in un luogo di cura? Nel comunicato diramato dall’Ospedale di Bergamo è scritto che “La paziente deceduta era stata bloccata pochi istanti prima dell’incendio a causa di un forte stato di agitazione” e, successivamente, che “la paziente aveva tentato il suicidio”. Possibile che non ci fosse altro modo di affrontare il dolore di Elena, il suo grido di aiuto, l’agitazione, l’aggressività rivolta contro di sé? Bisognava inevitabilmente legarla ad un letto e lasciarla sola nella stanza, proprio nel momento di massima sofferenza? Queste, ed altre, domande emergono oggi a partire dalla sua morte ma valgono per le tante, troppe strutture sanitarie dove i pazienti vengono legati. Sappiamo infatti che la contenzione meccanica è una pratica ancora largamente diffusa nei Servizi Psichiatrici ospedalieri di Diagnosi e Cura e in molte strutture sociosanitarie. Lo ha denunciato nel 2015 il documento del Comitato Nazionale di Bioetica e nel 2017 il rapporto della Commissione diritti umani del Senato presieduta da Luigi Manconi. Conosciamo le difficoltà degli operatori costretti, in troppe situazioni, a lavorare in condizioni di carenza di organico, in ambienti inadeguati o sovraffollati. Sappiamo che quotidianamente il sindacato ha aperto vertenze per contrastare i tagli, rivendicare finanziamenti e organici adeguati. Ma sappiamo pure che la contenzione non è un frutto solo di queste carenze e difficoltà. Quando si fa ricorso alla contenzione conta l’orientamento, la cultura degli operatori, dei dirigenti in primis, il modello organizzativo dei servizi di salute mentale, ben oltre i comportamenti e le caratteristiche dei pazienti e il numero del personale. Ed esiste un legame tra il ricorso o meno alla contenzione e la debolezza o la forza dei servizi di salute mentale territoriali. Esistono in Italia circa 30 servizi psichiatrici ospedalieri no restraint che dimostrano che si può fare a meno di legare. Servizi capaci anche nelle situazioni più estreme, di assicurare dignità e diritti a tutti, utenti ed operatori. E vi sono esperienze in cui singoli operatori compiono scelte coraggiose e sono riusciti, pure se osteggiati, ad opporsi e a convincere gli altri. La contenzione è dunque evitabile. Lo dimostra il percorso avviato dalla Regione Emilia Romagna, tuttora in corso. In Lombardia l’Ast di Lecco, da pochi mesi, ha avviato un progetto per il superamento della contenzione in tutte le strutture socio sanitarie. Progetto costruito con la partecipazione e il coinvolgimento di operatori e sindacato, utenti e familiari. Che prevede formazione, modifiche organizzative e strutturali. E allora proprio di fronte alla tragedia di Bergamo, noi ci aspettiamo che un segnale forte arrivi dalla Regione Lombardia con l’approvazione di un piano regionale per il superamento della contenzione. Ma non bastano più atti isolati: serve un iniziativa coerente, nel solco della democrazia e dei diritti, in tutto il Paese. In questo senso va subito ripresa la proposta lanciata nella recente Conferenza nazionale per la Salute Mentale del giugno scorso è a Governo, Regioni e Parlamento: aprire un cantiere per superare la contenzione e ogni forma di violazione dei diritti delle persone con sofferenza mentale, a sostegno della campagna nazionale per l’abolizione della contenzione “…E tu slegalo subito”. Open arms, svolta della Procura: i migranti possono sbarcare di Francesca Spasiano Il Dubbio, 21 agosto 2019 I lunghi giorni della Open Arms sono conclusi. È il procuratore di Agrigento, Luigi Patronaggio, a stabilire in fine le sorti degli 83 migranti ancora a bordo della nave Ong battente bandiera spagnola, che da giorni stazionava a pochi metri dal porto di Lampedusa. La Procura ha disposto nel tardo pomeriggio di ieri il sequestro della nave e lo sbarco immediato degli occupanti per motivi sanitari a seguito della lunga ispezione che aveva eseguito personalmente Patronaggio accompagnato da personale medico e polizia giudiziaria intorno alle 14.30 di ieri. Il sequestro è stato disposto nell’ambito di un’indagine che ipotizza i reati di abuso di ufficio e omissione di atti di ufficio, al momento a carico di ignoti. Ne dà notizia sul suo profilo Facebook il ministro Salvini che dopo la concitata agenda politica di ieri non abbandona la linea dura: “Qualcuno nel nome del governo dell’inciucio vuole riaprire i porti ma finché campo io difenderò la sovranità del mio paese e quindi sono corso dal Senato al Viminale”. Il Procuratore Patronaggio è una vecchia conoscenza del ministro degli Interni a partire dall’indagine per sequestro di persona che aveva coinvolto Matteo Salvini in seguito al caso della nave Diciotti. Continua quindi il braccio di ferro tra il Viminale e la Magistratura, mentre Salvini afferma sicuro che “se qualcuno pensa di spaventami con l’ennesima denuncia e richiesta di processo, si sbaglia”. L’epilogo della lunga vicenda della Open Arms arriva dopo una giornata di crescente tensione, appelli umanitari e immagini drammatiche. In molti infatti avevano abbandonato l’imbarcazione lanciandosi dal ponte dell nave nel tentativo di raggiungere la riva a nuoto. La Guardia costiera aveva recuperato a più riprese i naufraghi per poi trasferirli sul molo di Lampedusa e condurre accertamenti medici. Una volta in mare infatti, per i migranti è scattato l’obbligo si soccorso e assistenza da parte delle autorità italiane, secondo la convezione di Amburgo del 1979 che impone di sbarcare le persone salvate in mare nel porto sicuro più vicino. Si rivela inutile intanto l’iniziativa del governo spagnolo, che ieri aveva deciso di inviare un’imbarcazione militare per soccorrere e scortare la Open Arms fino al porto di Palma, a Maiorca. Ci sarebbero voluti circa tre giorni perché la nave Audaz della marina spagnola, salpata nel pomeriggio di ieri dalla base militare di Rota, vicino Cadice, raggiungesse l’isola italiana, ma la notizia era stata accolta da subito positivamente dal governo italiano. Il ministro delle Infrastrutture, Danilo Toninelli, dopo giorni di contrattazione in merito alle modalità di trasferimento dei migranti, aveva definito l’apertura del governo spagnolo “una buona notizia”, e auspiuca che questi “si impegni a fermare per il futuro la Open Arms, con i mezzi e i modi che ritiene più opportuni”. Il rischio di stragi in mare non lascia comunque le acque del Mediterraneo, dove c’è un’altra imbarcazione che opera per conto diMfs, la Ocean Viking, ferma da alcuni giorni al largo di Malta con a bordo oltre 300 persone in attesa di un porto sicuro. Migranti. “Chi ostacola le sentenze rischia. Anche i ministeri” di Giovanni Maria Jacobazzi Il Dubbio, 21 agosto 2019 Tar e Viminale contrapposti sulla nave della Ong. L’obbligo per la pubblica amministrazione di eseguire i provvedimenti del giudice rappresenta uno dei fondamenti dello Stato di diritto. La vicenda “Open Arms” è invece solo uno degli ultimi episodi in ordine di tempo dove l’amministrazione, in questo caso il Ministero dell’interno, si sottrae al dovere di eseguire i provvedimenti giurisdizionali. Beniamino Caravita di Toritto, ordinario di diritto pubblico all’Università La Sapienza di Roma, esperto di diritto amministrativo e dal 2018 vice presidente dell’Associazione italiana costituzionalisti (Aic), contattato da Il Dubbio, ricostruisce i problemi teorici e pratici che sono alla base di una situazione frequente. “In molti casi vi sono inaccettabili resistenze della PA all’attuazione della sentenza, per ragioni politiche, per difficoltà di organizzare diversamente gli interessi. È però vero che talvolta non è facile eseguire la decisione. In linea generale in un sistema amministrativo sempre più complicato, le decisioni del giudice amministrativo si trovano ad incidere sulla discrezionalità della PA. In altri casi si contrappongono all’esecuzione del decisum giudiziario principi costituzionali di parti rango: tipica è la difficoltà che emerge nei rapporti tra giudici amministrativi e Consiglio superiore della Magistratura, che rivendica spazi di autonomia; ovvero nei rapporti con la costituzionalmente protetta autonomia universitaria”. “Non è infatti infrequente - prosegue Caravita - che per dare esecuzione ad una sentenza si debba proporre un nuovo ricorso, il ricorso per l’ottemperanza, al giudice che emanato la sentenza, affinché provveda in tal senso. E, talvolta, per l’esecuzione della sentenza è necessaria la nomina di un Commissario ad acta”. Proprio a conferma dell’esistenza di queste difficoltà, “il nuovo codice del processo amministrativo ha previsto come rimedio anche il ricorso per chiarimenti da parte della PA per chiedere al giudice come procedere per dare ottemperanza: quando il modo in cui ottemperare alla sentenza non è chiaro, ci si rivolge al giudice affinché lo indichi”. Queste difficoltà, tuttavia, non vanno strumentalizzate per coprire “interessi diversi tesi a modificare la pronuncia del giudice, incidendo significativamente sulla stessa”. Nei casi di non esecuzione del provvedimento, Caravita ricorda che possono configurarsi “responsabilità penali: il codice penale, all’articolo 650, prevede la disobbedienza all’ordine dell’autorità”. Si tratta, comunque, di una contravvenzione, con una modesta efficacia deterrente. È indubbiamente più incisivo l’aspetto della “responsabilità contabile, potendo il danno erariale nei confronti del funzionario pubblico che pervicacemente ostacola l’esecuzione della sentenza essere oggetto di giudizio promosso dalla Procura della Corte dei Conti”. “Per superare la continua difficoltà di attuazione delle decisioni, e per superare ogni atteggiamento strumentale della PA, sarebbe necessario intervenire nel senso di una profonda semplificazione normativa che eviti la contemporanea presenza di disposizioni fra loro contrastanti; da chiarire sarebbe, ad esempio, il rapporto con la cosiddetta soft regulation di derivazione Anac, che è fronte di continua confusione”. “Nelle nostre esperienze democratiche è se sempre più facile che al giudice sia delegata la soluzione dei problemi. Ma nei casi di confuse stratificazioni normative è sempre più difficile non solo decidere, ma anche dare alle decisioni corretta applicazione”, puntualizza Caravita. Francia. Epidemia di suicidi nella polizia: mille morti in 20 anni di Sara Volandri Il Dubbio, 21 agosto 2019 Le cifre ufficiali: nel 2019 un caso ogni 5 giorni. È un male oscuro quello che divora la polizia francese, in assoluto la più colpita dai casi di suicidio tra le forze dell’ordine europee. Un male che viene da lontano e che, negli ultimi 20 anni, ha mietuto oltre mille vittime. Cifre da capogiro che evocano un vero e proprio allarme sociale. E nel tempo le cose sembrano peggiorare, come denunciano i sindacati d’oltralpe. Dall’inizio dell’anno 46 poliziotti si sono tolti la vita in Francia, in media uno ogni cinque giorni, questi i numeri dell’emergenza diffusi dalle organizzazioni di categoria che chiedono al governo un piano d’urgenza, annunciando una clamorosaì protesta in occasione del G7 il prossimo fine settimana a Biarritz con una “marcia bianca” che riunirà migliaia di agenti. Una problematica molto sensibile, in parte tabù, quella dei suicidi che attanaglia il mondo della polizia in Francia, valutata da sindacati e osservatori come un “grido d’allarme” per attirare l’attenzione su condizioni di lavoro sempre più difficili e pericolose. “Finora nessun piano ha risposto all’emergenza e ora aspettiamo risposte chiare”, ha dichiarato Christophe Rouget del Sindacato dei dirigenti della sicurezza interna. In base ai dati registrati dalla Direzione generale della polizia (Dgpn), dal 1997 oltre 1.000 agenti si sono suicidati in stragrande maggioranza maschi, all’87% si tratta di ufficiali e agenti in servizio sul campo. Servizi di medicina preventiva e di sostegno psicologico sono stati creati senza sortire grandi risultati. Al di là di problemi personali, a gravare sui poliziotti molte “ferite invisibili” quali sovraccarico di lavoro, disorganizzazione dei servizi, crescente violenza nelle periferie metropolitane, mancato riconoscimento del proprio operato e lontananza da casa. Lo scorso aprile il ministro dell’Interno Christophe Castaner aveva in tal senso annunciato la creazione di una “cellula di prevenzione” per i suicidi tra i poliziotti, potenziando l’assistenza psicologica all’interno dei commissariati, Negli ultimi mesi la crisi dei gilet gialli con decine di manifestazioni che sono degenerate in guerriglia urbana ha aumentato la pressione sugli agenti in prima linea. Che molto spesso hanno reagito in modo brutale e sproporzionato contro i dimostranti, mettendo in evidenza un addestramento approssimativo e una scarsa capacità nel gestire lucidamente lo stress del confronto di piazza. “Più che cercare di risolvere le conseguenze, urge far fronte alle cause profondi del malessere che porta i poliziotti al suicidio, rivedendo l’organizzazione quotidiana del lavoro e aumentando i mezzi a disposizione” sottolinea Marc Loriol, sociologo e ricercatore del Cnrs, esperto di protezione sociale e stress lavorativo. Egitto. L’Onu sospende la conferenza contro la tortura al Cairo di Francesca Caferri La Repubblica, 21 agosto 2019 La decisione dopo la denuncia delle Ong, indignate dalla scelta di tenere l’incontro in un Paese che fa un uso indiscriminato della tortura. Come dimostra il caso di Giulio Regeni. Le Nazioni Unite hanno deciso di spostare a data da destinarsi la conferenza contro la tortura che avrebbe dovuto tenersi al Cairo il 4 e il 5 di settembre. La decisione segue le polemiche che avevano accompagnato l’annuncio: Human Rights Watch, Amnesty International e tutte le maggiori organizzazioni internazionali che lavorano sul tema avevano espresso stupore e disappunto per la scelta di tenere l’incontro in un Paese che, secondo i report internazionali, della tortura fa un uso frequente e indiscriminato. In una nota inviata al sito Middle East Eye che per primo aveva dato notizia dell’incontro, il portavoce dell’agenzia Onu per i diritti umani Ruper Colville ha spiegato che l’incontro è al momento sospeso e che l’Onu “rivaluterà la situazione” dopo consultazioni con le Ong. “Negli ultimi giorni abbiamo visto crescere il disagio delle Ong sulla scelta del luogo e lo comprendiamo. Per questo avremo nuove discussioni con le istituzioni che lavorano sul tema prima dei decidere dove e quando tenere l’incontro”, ha spiegato il portavoce. Secondo le stime di Human Rights Watch 60mila persone sono finite in carcere in Egitto dal 2013, quando il presidente Abdel Fatah Al Sisi ha preso il potere: la maggior parte di loro ha subito torture. La decisione di tenere la conferenza aveva provocato polemiche anche in Italia, dove il governo egiziano è sotto pressione per il rapimento, la tortura e l’uccisione di Giulio Regeni al Cairo nel 2016: la non collaborazione della magistratura egiziana è stata nelle ultime settimane denunciata dai genitori del ricercatore e dal loro avvocato Alessandra Ballerini dalle colonne di Repubblica. Egitto. “Processatelo”. Dal Cairo minacce all’attivista egiziano di Pino Dragoni Il Manifesto, 21 agosto 2019 Media vicini al governo attaccano Bahey el-Din Hassan dopo l’intervista al manifesto. Uno dei conduttori tv aveva già invitato ad assassinarlo all’estero. Ma lui, ci dice, non si tira indietro Il canale privato TeN TV che domenica scorsa ha “dedicato” dieci minuti all’intervista di Bahey el-Din Hassan al manifesto. L’intervista rilasciata al manifesto da Bahey el-Din Hassan e pubblicata domenica su queste pagine non è passata inosservata al regime egiziano, che ha scatenato una vera e propria offensiva mediatica contro lo storico difensore dei diritti umani, direttore del Cairo Institute for Human Rights Studies, costretto a lasciare il paese nel 2014 per le minacce di morte ricevute. “Spia”, “agente straniero”, “traditore”, “mercenario”, sono alcune delle espressioni ripetute più volte nei suoi confronti. L’attacco è partito dal canale privato TeN TV (Tahrir Egyptian Network) da un conduttore noto per la sua vicinanza ai servizi di intelligence del regime ed è stato poi ripreso da quattro diverse testate della carta stampata, tra cui una statale. Dieci minuti di invettive interamente dedicati alle parole che l’attivista egiziano in esilio ci ha consegnato in un lungo scambio di domande e risposte. Tra urla e gesti teatrali il presentatore evoca più volte presunti complotti orchestrati da Bahey el-Din Hassan e dalla sua organizzazione, colpevole di ricevere finanziamenti stranieri “con l’obiettivo primario di danneggiare lo Stato egiziano” in combutta con il Qatar, la Turchia e i Fratelli musulmani. Chiede un processo per alto tradimento e la revoca della cittadinanza per chi “non ha alcun orgoglio patriottico”. Il giornalista è lo stesso che l’anno scorso aveva pubblicamente chiesto alle autorità egiziane di assassinare Bahey el-Din Hassan all’estero con un avvelenamento chimico come quello che uccise l’ex agente sovietico Sergej Skripal nel Regno unito. Una minaccia non irrealistica se si pensa ai pedinamenti che proprio a Roma alcuni attivisti egiziani hanno subito negli anni passati, segno di un’intensa attività dei servizi di intelligence del Cairo anche nel nostro paese. L’intervista ha suscitato particolare scandalo per alcune presunte “ammissioni scioccanti” fatte dall’attivista egiziano al manifesto. Bahey el-Din Hassan racconta l’esperienza che lui insieme ad altri intellettuali ed esponenti dell’associazionismo civico in esilio hanno lanciato da alcuni mesi per tentare di organizzare la diaspora egiziana oltre le divergenze ideologiche, sulla base di una agenda basata sui diritti umani. Ma le attività dell’Egyptian Human Rights Forum (la nuova organizzazione di cui Bahey el-Din è fondatore e consulente) sono tutte alla luce del sole, e anzi hanno l’obiettivo dichiarato di fare pressione sui governi stranieri e sensibilizzare l’opinione pubblica dei paesi ospitanti. L’altra affermazione che tanto inquieta il presentatore pro-regime riguarda l’attività delle organizzazioni per i diritti umani operanti in Egitto, costrette a lavorare in condizioni di “semi-clandestinità”. “Perché operare in segreto? Hai il coraggio di dirci chi sono queste organizzazioni segrete?”, tuona il conduttore. Anche questo però non è un mistero: le leggi attuali e il giro di vite imposto contro la società civile impediscono di fatto qualsiasi attività che non sia pienamente allineata al regime di al-Sisi. Eppure, nonostante i fondi ridotti al lumicino, le sedi chiuse, i beni sequestrati, gli attivisti incarcerati o sotto minaccia di arresto, i ricatti contro i familiari, c’è ancora chi difende le vittime e denuncia gli abusi. Insomma, l’accusa è la solita: “Fai politica o ti occupi di diritti umani?”. “Chiedo agli avvocati patriottici: cosa ne facciamo di Bahey el-Din Hassan dopo questa intervista?”, chiosa il presentatore. È probabile che le conseguenze non si faranno attendere. Ma chi ha difeso la dignità umana di fronte a tale brutalità non si lascia fermare da queste intimidazioni. “Questa non è la prima volta che vengo minacciato, e non sarà l’ultima - ci dice Bahey el-Din - Questo è un prezzo che tutti i difensori dei diritti umani indipendenti pagano. Ho una responsabilità morale verso gli oltre 60mila prigionieri politici e le migliaia di persone uccise nei massacri o con esecuzioni extra-giudiziali e sparizioni. Non abbandonerò questa responsabilità, anche se vengo accusato di essere anti-patriottico da un regime militare illegittimo e da un presidente con una storia senza precedenti di crimini contro i diritti umani”. Cosa non farebbe al-Sisi per mettere a tacere persone così. Qualcosa però a livello internazionale si muove: ieri l’Onu ha deciso di rinviare la conferenza sulla tortura prevista al Cairo il 4 e 5 settembre e duramente criticata dalle ong indipendenti escluse dal tavolo. Rwanda. Porte aperte agli immigrati detenuti in Libia e Niger di Pasquale Pagano lindro.it, 21 agosto 2019 L’iniziativa va controcorrente rispetto alle politiche europee, ed è stata ideata dal Presidente Paul Kagame anche per rafforzare il prestigio internazionale del suo Paese, che accederà così ai fondi della UE per gestire la crisi umanitaria degli immigrati in Libia. “La situazione disperata in Libia per gli immigrati africani ci induce alla solidarietà come dovere morale ed etico. Questa solidarietà si traduce nella pratica con la nostra disponibilità ad accogliere i nostri fratelli africani che vivono in condizioni disumane nei campi di detenzione libici. Chiunque di loro voglia venire in Rwanda è il benvenuto”. Questa era la promessa fatta dal Presidente ruandese Paul Kagame nel 2017 di accogliere fino a 30.000 immigrati africani. La promessa ora è realtà. Lo scorso luglio a Kigali si sono tenute delle riunioni di alto livello tra il Governo ruandese, il direttore generale dell’Alto Commissariato Nazioni Unite per i Rifugiati (Unhcr) responsabile dell’area del Mediterraneo, Filippo Grandi, il Direttore Generale dell’Organizzazione Internazionale per la Migrazione (OIM), Antonio Vitorino, alti diplomatici dell’Unione Europea e il capo della Commissione dell’Unione Africana, Moussa Faki Mahamat, per studiare nei dettagli il piano d’accoglienza di un primo gruppo di migranti, fissato a 1.000 persone. Non è ancora chiaro se questi primi 1.000 migranti che verranno ospitati in Rwanda provengano dai campi di reclusione della Libia o del Niger. Confusione in merito è stata creata dalla recente visita del Presidente ruandese in Niger, i cui dettagli rimangono tuttora sconosciuti. In Niger, un Paese schiacciato dal colonialismo francese che impera, mentre la popolazione è ridotta alla fame, vi sono detenuti 1.000 rifugiati espulsi dalla Libia. Come nel caso delle autorità di Tripoli e quelle del ex regime islamico sudanese di Khartoum, anche le autorità nigerine partecipano al cinico gioco internazionale sulla pelle dei migranti. Il Niger, assieme al Sudan, rappresenta una delle principali vie per l’immigrazione clandestina. Entrambe convergono in Libia, dopo la chiusura delle frontiere di Algeria, Marocco e Tunisia. Migliaia di togolesi, beninesi, ghaniani, nigeriani, camerunesi e nigerini tentano di attraversare il deserto del Sahara. La nuova rotta degli schiavi ha come epicentro la città nigerina di Agadez ed è gestita da trafficanti di esseri umani senza scrupolo, con la complicità di Polizia e Forze Armate nigerine. Da Agadez gli immigrati sostengono un terribile viaggio attraversando, su pick 4×4 o vecchi camion Mercedez, il terribile deserto del Ténére, dove le forze armate nigerine hanno istituito vari posti di blocco non per impedire le migrazioni illegali, ma per derubare gli immigrati. Chi non possiede i soldi per la corruzione viene selvaggiamente torturato. Le donne pagano tramite prestazioni sessuali non protette. Spesso i trafficanti di esseri umani abbandonano gli immigrati in pieno deserto, condannandoli di fatto a morte. Chi riesce a concludere il viaggio, dal vecchio fortino coloniale di Madama, a pochi km dalla Libia, intraprende un altro pericolassimo viaggio avendo come meta finale Tripoli. Fino al 2011 questo traffico libico era gestito dal Governo del colonello Muammar Gheddafi, all’epoca si facevano entrare gli immigrati per sfruttarli come mano d’opera a basso prezzo, impedendo loro di andare in Europa. Gheddafi aveva sottoscritto, nel 2008, un accordo con l’allora Primo Ministro Silvio Berlusconi, per impedire i flussi migratori verso l’Europa, e in particolare verso l’Italia, in cambio di vantaggi economici e sdoganamento politico. Contratto bruscamente interrotto dai piani di destabilizzazione ben riusciti della Francia, che portarono alla caduta del regime nel 2011 e al presente caos del Paese. Caduto Gheddafi, il traffico è passato nelle mani delle milizie libiche e del Governo di Tripoli, alleato dell’Italia e riconosciuto dalle Nazioni Unite. Varie ONG, giornalisti, organizzazioni internazionali in difesa dei diritti umani sospettano che vi siano tra l’Unione Europea e il Governo di Tripoli accordi segreti per impedire che gli immigrati giungano in Europa. Fayez al-Sarraj, in collaborazione con le milizie e i trafficanti di esseri umani libici, rispetterebbe i patti ricevendo finanziamenti e armi. All’Unione Europa non importerebbe come gli immigrati vengono fermati. Secondo alcune indagini, solo una minoranza viene reclusa nei centri di detenzione vicino a Tripoli. La maggioranza sparisce. Vengono venduti come schiavi o semplicemente uccisi nel deserto dopo aver pagato la ‘corsa’ al trafficante. Si calcola che il 25% di immigrati muoia durante il tragitto Agadez - Madama, e un altro 35% in territorio libico. “A nessuno importa se degli immigrati africani muoiono nel deserto. Nessuno reclama i loro corpi e nessuno si sogna di aprire indagini. Qui ad Agadez il traffico di esseri umani è fatto alla luce del sole e le autorità ne sono complici”. Questa la disarmante dichiarazione di un trafficante di esseri umani che lavorava per conto dei libici, fatta nel 2008 al giornalista inviato del ‘L’Espresso’ Fabrizio Gatti e riportata nel suo libro documentario di denuncia ‘Bilal. Viaggiare, lavorare, morire da clandestini’. Gatti nel 2008 intraprese il viaggio della rotta degli schiavi giungendo fino a Lampedusa sotto mentite spoglie di un immigrato di nome Bilal. Nel suo libro denuncia, scritto 10 anni fa, Gatti fornisce dettagliate informazioni sul traffico di esseri umani, inspiegabilmente ignorate dalle autorità giudiziarie, dalla Polizia e dai governi dell’Unione Europea. In Niger, punto di arrivo della strada degli schiavi, Madama è anche la base operativa del contingente francese che teoricamente lotta contro i gruppi terroristici islamici della zona. Come denunciò nel luglio 2017 il giornalista di ‘Repubblica’ Gianluca Di Feo, la guarnigione dei soldati francesi a Madama lascia passare le carovane dei trafficanti di esseri umani senza intercettarle. Oltre al traffico di esseri umani i soldati francesi sono alla conoscenza del traffico di sigarette di contrabbando che segue le stesse rotte. Il traffico di sigarette di contrabbando è una copertura per il traffico di cocaina che dal Sud America giunge in Europa, passando da Niger e Libia senza alcuna interferenza dell’Esercito francese. Una volta giunta a Tripoli la cocaina raggiunge le coste europee con la collaborazione delle mafie francese e italiana. Non ci si spiega come le guardie costiere europee, così attente al traffico marittimo di migranti illegali, non siano ancora riuscite a interrompere il traffico di cocaina proveniente dalle stesse rotte africane e diretto verso l’Europa. Le stesse rotte del deserto tra Libia e Niger sono percorse da vari camion che trasportano all’impazzata e senza sosta armi libiche destinate ai vari gruppi terroristici in Nigeria, Mali, Ciad. Nessuno di questi carichi della morte viene intercettato nonostante la presenza di militari francesi e americani per combattere il terrorismo internazionale nell’Africa Occidentale. La presenza dei soldati francesi in Niger è molto sospetta. Teoricamente sono nel Paese, (ancora colonia francese di fatto, anche se l’indipendenza formale è stata ottenuta il 03 agosto 1960) per combattere i gruppi terroristici di Al Qaeda Magreb e Boko Haram. Vari esperti regionali pensano che la presenza dei soldati francesi in Niger sia dovuta dalla necessità di Parigi di controllare militarmente la colonia e il suo governo fantoccio. Attraverso la multinazionale Areva, Parigi controlla la totalità dell’esportazione dell’uranio che assicura oltre il 50% del fabbisogno energetico della Francia. Quando il Presidente Mamadou Tandja (al potere dal dicembre 1999) espresse il desiderio di rivedere gli accordi commerciali con Areva, Parigi organizzò, il 18 febbraio 2010, un colpo di Stato mettendo al potere una giunta militare denominata Consiglio Supremo per la Restaurazione della Democrazia (Csrd), guidata da la Luogotenente Generale Salou Djibo. Il golpista gestì il Paese per un anno prima di ricevere l’ordine dalla Cellula Africana dell’Eliseo (nota con il termine di France Afrique) di cedere il potere a Mahamadou Issoufou, considerato un uomo “affidabile” e “fedele”. Issoufou restò al potere per cinque anni senza mandato popolare. Nel febbraio 2016 furono organizzate elezioni farsa controllate dalla multinazionale Areva, nel corso delle quali fu confermato e la sua Presidenza legittimata. Il Niger sta affondando su se stesso, in preda a vari gruppi terroristici, tra cui Boko Haram e banditi vari. L’estrema povertà, l’economia a pezzi, la corruzione galoppante, l’inefficacia dell’amministrazione pubblica, l’assenza di uno Stato sovrano, la disoccupazione giovanile ormai fuori controllo e il giogo coloniale francese sta spingendo i giovani ad arruolarsi in questi gruppi terroristici, mentre l’Islam radicale sta prendendo piede e il Daesh sta mettendo solide radici. A questo si deve aggiungere i non chiari rapporti tra Francia e Boko Haram. Nel 2015 il Governo del Camerun intercettò agenti speciali francesi intenti a consegnare, al confine con la Nigeria, armi e denaro a Boko Haram. Si sospettano convivenze tra Parigi e Boko Haram tese a destabilizzare la Nigeria e l’intera regione del Sahara, in particolare il Burkina Faso, reo di essere sfuggito al controllo francese nel 2015, detronizzando il re assoluto Blaise Compaoré, esecutore materiale dell’assassinio, nel 1987, di Tohamas Sankara, dietro mandato di Parigi e Washington. Dalla caduta di Compaoré il Burkina Faso ha conosciuto una escalation di attentati terroristici e infiltrazioni di Boko Haram e mercenari islamici provenienti dal Niger. Molti osservatori burkinabè che lavorano anche in ONG internazionali sostengono che le attività terroristiche sarebbero coordinate e finanziate da Compaoré, rifugiatosi in Costa d’Avorio, e dai servizi segreti francesi. Il 21 dicembre 2015 il tribunale militare della Burkina Faso, a seguito di una meticolosa inchiesta, ha emesso un mandato di cattura internazionale nei confronti di Compaoré per l’omicidio dell’ex Presidente Sankara e di dodici suoi collaboratori. Il dittatore bukinabé è protetto ad oltranza dall’attuale Presidente ivoriano, Alassane Dramane Ouattara, al potere dal 2011. La presa del potere da parte di Ouattara, la cui nazionalità non è ivoriana, è stata resa possibile grazie alle milizie di mercenari islamici e dai soldati francesi. Ouattara, rispettabile ex economista del Fondo Monetario Internazionale, ora Presidente, non è altro che un ‘Signore della Guerra’ che controllava le milizie islamiche delle Forze Nuove della Costa d’Avorio e una marionetta agli ordini di Parigi. Laurent Gbagbo, spodestato dalla Francia a causa della sua politica nazionalista, fu arrestato il 10 aprile 2011 dalle forze speciali francesi e sottoposto a un processo presso la Corte Penale Internazionale con l’accusa di crimini contro l’umanità. Accusa rivelatasi infondata nel gennaio 2019, quando Gbagbo ha ottenuto l’assoluzione piena senza riserve. In questo complicato network di trafficanti di esseri umani, droga, armi, gruppi terroristici islamici, dittatori africani e complici europei, il Rwanda tenta di proporre una soluzione per gli immigrati le cui vite sono sospese nel nulla. Esseri umani che oltre al sogno infranto di non essere riusciti a raggiungere l’Europa, sono stati privati della dignità, divenendo merce di scambio. Il Governo di Tripoli, quando i finanziamenti europei per la lotta contro l’immigrazione e i rifornimenti di armi (elargiti nonostante l’embargo decretato dalle Nazioni Unite) diminuiscono, apre i corridoi per far arrivare gli immigrati sulle coste italiane. Quando i finanziamenti e le consegne di armi dall’Europa riprendono, i corridoi vengono richiusi. Questa la tesi sostenuta da svariate fonti locali e non solo e taciuta in Europa. L’ultimo di questi odiosi ricatti di cui l’Unione Europea è vittima -causa le sue insensate e disumane politiche migratorie-, risale allo scorso 5 luglio e, come al solito, Italia e UE hanno immediatamente ceduto, pagando il dovuto al Presidente al-Sarraj. Un ricatto avvenuto dopo il bombardamento del campo di detenzione di Tajoura, che ha provocato una ecatombe tra gli immigrati detenuti, e la disgustosa vicenda della nave della ONG Seawatch bloccata a Lampedusa. Agli immigrati che il Rwanda si appresta ad accogliere verrà offerta la scelta di restare nel Paese o di riportati nei loro Paesi di origine, dopo un adeguato periodo di assestamento per recuperare le forze fisiche e superare i traumi psicologici causati dalle violenze subite. La maggioranza degli immigrati che verranno accolti in Rwanda provengono dalla Somalia e dell’Etiopia. I primi sono impossibilitati a ritornare nel loro Paese, sconvolto da una guerra civile interminabile che dura dal 1991, dopo la caduta del dittatore Siad Barre. I secondi, a gran sorpresa, non vogliono ritornare in Etiopia, nonostante il Paese, alleato di riguardo dell’Unione Europea e dell’Italia, conosca da oltre 10 anni una crescita economica a due cifre. L’Etiopia, infatti, è sotto il giogo della sanguinaria dittatura entica dei tigrini - Fronte di Liberazione del Tigrai (Tplf) - che si nascondo dietro la facciata di una finta federazione multietnica, guidata dal Fronte Democratico Rivoluzionario del Popolo Etiope (EPRDF). Nonostante le riforme di Abiy Ahmed Ali, attuale Primo Ministro, gli etiopi continuano a vivere in povertà e privi di diritti umani. Le loro vite sono appese alla decisione del regime, che incoraggia l’emigrazione per sfoltire, senza violenza, l’opposizione, e diminuire i giovani disoccupati. Le proteste sono represse nel sangue e il Paese, che si avvia alle elezioni nel 2020, è a rischio di guerra civile e di balcanizzazione. Lo scorso 24 luglio è stato tentato un colpo di Stato. Dopo che il regime è riuscito a contenerlo è iniziata una orribile repressione dell’opposizione, soprattutto del gruppo etnico Amara accusato di essere dietro al fallito golpe. Durante la repressione è stato nuovamente arrestato il giornalista e attivista dei diritti umani Eskinder Nega, oggetto di persecuzione da parte del regime tigrino fin dal 2010. Quello che sta succedendo in Etiopia è poco conosciuto in Italia, il Governo italiano spera di ritornare ad essere un importante partner commerciale, anche se le precondizioni sono totalmente assenti. Come nel caso dell’Eritrea, dinnanzi alle possibilità di business i doveri di denunciare le violazioni commesse da regimi dispotici e difendere i diritti umani vengono dimenticati. L’iniziativa del Rwanda va contro corrente rispetto alle politiche restrittive se non repressive delle potenze europee nella gestione dei rifugiati e immigrati africani, ed è stata ideata dal Presidente Paul Kagame anche per rafforzare il prestigio internazionale del suo Paese, ancora minacciato, a distanza di 25 anni, dalla possibilità di un secondo genocidio. La minaccia ora proviene dalle Forze Democratiche di Liberazione del Ruanda (Fdlr) - responsabili dell’olocausto del 1994) e dal regime burundese entico hutu del Cndd-Fdd guidato dal dittatore dichiaratosi Prete Re, Pierre Nkurunziza. Nel 2018 sono stati bloccati ben due tentativi di invasione, dal Burundi, del Rwanda da parte delle Fdlr, azioni collegate anche alle tensioni nate tra Uganda e Rwanda nel 2000, dopo la battaglia di Kisangani (Congo) in merito alla spartizione della rapina delle risorse naturali all’est della Repubblica Democratica del Congo. Tensioni che sono riprese nel 2018, quando si è corso il rischio di trasformare il Burundi in un teatro di guerra tra Kigali e Kampala. Nonostante il disgelo con il Rwanda voluto dal Presidente Emmanuel Macron, la Francia segretamente ha ripreso la cooperazione militare nell’ottobre 2018, in netto contrasto con l’Unione Europea, che dal 2016 ha imposto al Burundi sanzioni economiche, causa la grave situazione sul fronte dei diritti umani e causa il sospetto che le Fdlr, assieme al regime di Nkurunziza, stiano preparando un genocidio in Burundi e l’invasione del Rwanda. Accogliendo un primo gruppo di 1.000 immigrati, per il Rwanda si sono aperte le porte del G7. Infatti, il Presidente Kagame, assieme al suo omologo egiziano Abdel Fattah el-Sisi e al Capo della Commissione dell’Unione Africana Moussa Faki Mahamat, sono gli invitati africani al prossimo meeting dei G7 che si terrà tra il 24 e il 26 agosto nella città francese di Biarritz. Un colpo diplomatico di grande importanza, dopo la nomina del ex Ministro degli Esteri ruandese Louise Mushikiwabo alla Presidenza della Organizzazione Internazionale della Francofonia (Oif). Oltre al prestigio internazionale il Rwanda accederà a una parte consistente dei fondi messi a disposizione dall’Unione Europea per gestire la crisi umanitaria degli immigrati in Libia. Dopo il bombardamento del campo di detenzione di Tajoura, l’Unione Europea desidera sbarazzarsi della accuse di complicità, riguardanti le condizioni disumane e le violazioni di diritti umani degli immigrati bloccati in Libia, grazie agli accordi siglati tra i Paesi europei e il Governo di Tripoli per bloccare l’immigrazione. Accuse che potrebbero portare Paesi come la Francia e l’Italia ad un processo internazionale per crimini contro l’umanità. Si parla di 600.000 africani bloccati in Libia, di cui 5.000 detenuti in condizioni disumane nei campi di concentramento vicino a Tripoli. Nel 2017 sono stati stanziati fondi sufficienti per evacuare 2.600 immigrati detenuti in Libia nel vicino Niger. A distanza di meno di due anni in Niger ne rimangono solo 1.000. Il 62% di loro ha ripreso la rotta degli schiavi Agadez - Madama - Tripoli, sotto lo sguardo dei soldati francesi e la complicità delle autorità nigerine. Come ultimo vantaggio di questa iniziativa di solidarietà il Governo ruandese si ‘rifà la faccia’ dopo lo scandalo dei deportati africani da Israele avvenuto nel dicembre 2017. Il Governo israeliano aveva offerto dai 150 ai 200 milioni di dollari a Rwanda e Uganda per accogliere i deportati africani. Gli accordi segreti tra Tel-Aviv, Kigali e Kampala furono scoperti da giornalisti israeliani ed africani, creando uno scandalo internazionale, indignando l’opinione pubblica africana e costringendo le due super-potenze dell’Africa Orientale a interrompere la vergognosa collaborazione con il Governo del Primo Ministro Benjamin Netanyahu. È opinione diffusa tra gli osservatori internazionali e africani che il Rwanda questa volta sia seriamente intenzionato offrire le migliori condizioni di vita possibili agli immigrati africani che sono attualmente detenuti in condizioni disumane in Niger e in Libia. Avranno libertà di movimento e potranno lavorare o avviare attività commerciali in Rwanda con l’assistenza di organizzazioni umanitarie, promette il Governo. Verrà loro rilasciata una carta di identità di rifugiati che permetterà di accedere gratuitamente ai servizi sociali e di poter lavorare onestamente. Algeria. Espulso il direttore delle comunicazioni di Human Rights Watch di Melissa Aglietti Il Manifesto, 21 agosto 2019 Ahmed Benchemsi, giornalista e direttore delle comunicazioni di Human Rights Watch per il Medio Oriente e del Nord Africa, è stato espulso martedì da Algeri con l’accusa di essersi infiltrato nelle proteste contro il governo, incontrando “senza autorizzazione” alcuni esponenti dell’Hirak (movimento) algerino. Secondo le autorità locali, Benchmesi sarebbe entrato illegalmente nel Paese allo scopo di servire “l’agenda di una potenza straniera volta a infiltrarsi all’interno delle manifestazioni”. Il responsabile di Hrw era stato fermato dalla polizia il 9 agosto scorso nella capitale e rilasciato dieci ore dopo, alla mezzanotte di venerdì. All’uomo erano stati sequestrati il doppio passaporto marocchino-statunitense, il computer e il telefono e gli era stato intimato di sbloccare i due dispositivi. Benchemsi era arrivato in Algeria il primo agosto ed era stato arrestato solo otto giorni dopo, mentre seguiva il 25esimo venerdì di manifestazioni pro-democrazia nel Paese. “Benchemsi era in Algeria per fare il suo lavoro: osservare il rispetto dei diritti umani”, ha detto Kenneth Roth, direttore dell’organizzazione non governativa. “Il suo arresto del tutto arbitrario dimostra che le autorità algerine non vogliono far sapere al mondo delle proteste di massa nel Paese”. Dopo le dimissioni del presidente Abdelaziz Bouteflika avvenute in aprile, l’Algeria è precipitata in un limbo politico, con le manifestazioni per l’allontanamento dell’intera vecchia classe politica e a favore di una maggiore democrazia che continuano a infuocare le piazze della capitale. El Salvador. Partorì un bambino morto, Evelyn assolta dall’accusa di omicidio di Monica Ricci Sargentini Coriere della Sera, 21 agosto 2019 “Sono felice, grazie a Dio oggi ha vinto la giustizia”. Ha le lacrime agli occhi Evelyn Beatriz Hernandez quando il giudice pronuncia la sentenza di assoluzione che mette fine a 30 mesi di calvario passati in carcere con l’accusa di aver ucciso il figlio appena nato. La nascita - Evelyn aveva partorito da sola nell’aprile del 2016 nel bagno della sua casa nella regione centrale di Cuscatlan. Aveva solo 18 anni ed era incinta di otto mesi in seguito a uno stupro di gruppo. Il bambino era nato morto ma nel 2017 un tribunale della città di Cojutepeque l’aveva condannata a 30 anni per omicidio dopo che i pubblici ministeri avevano sostenuto la sua colpevolezza per non aver cercato cure prenatali. Successivamente la sentenza era stata cancellata, ed il processo è iniziato da capo. Questa volta un giudice di Ciudad Delgado ha stabilito che non vi sono sufficienti prove contro la 21enne, per la quale l’accusa aveva chiesto ben 40 anni di carcere. La legge - In El Salvador dal 1998 è in vigore una delle leggi più restrittive al mondo sull’aborto che è vietato in qualsiasi caso. Le donne, anche se minorenni, anche se stuprate, anche se in gravi condizioni di salute, sono obbligate a portare a termine la gravidanza a qualsiasi costo. Il codice penale prevede la condanna da due a otto anni di reclusione per chi interrompe la gravidanza, ma spesso l’aborto, anche se spontaneo, viene considerato un omicidio aggravato punito dunque con pene che vanno dai 30 ai 50 anni di prigione: anche nei casi di feti nati morti. Amnesty International - Da tempo le associazioni per i diritti umani chiedono una riforma della legge draconiana. Amnesty International ha salutato l’assoluzione di Evelyn “come una vittoria per i diritti delle donne in El Salvador”. “Nessuna donna dovrebbe essere accusata di omicidio soltanto perché ha avuto un’emergenza medica” ha detto Erika Guevara-Rosas, direttrice dell’ong per le Americhe. “Amnesty International chiede al Salvador di mettere fine una volta per tutte alla pratica vergognosa che criminalizza le donne” ha aggiunto. Le donne in carcere - Attualmente in El Salvador ci sono 16 donne che scontano pene detentive per aborti oppure per gravidanze finite con la morte del bambino.