Lettera aperta della Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia Ristretti Orizzonti, 20 agosto 2019 Il 9 luglio l’Unione delle Camere penali ha indetto, per denunciare la drammatica situazione nelle carceri, una giornata di astensione dalle udienze e da ogni attività giudiziaria nel settore penale, che ha avuto al centro una assemblea pubblica a Napoli. È stata una iniziativa importante, ma ora il Volontariato, che la Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia rappresenta, si domanda se non sia possibile andare oltre, e costituire un cartello di tutti quelli che in qualche modo vogliono contrastare questo disastro, quindi naturalmente la Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia (di cui fanno parte Antigone, CNCA e tantissime associazioni), le Camere Penali, il Coordinamento dei Garanti, il Partito Radicale, le Cooperative che operano in carcere e nell'area penale esterna, l'Università con i docenti più attenti a questi temi e tutti coloro che hanno profuso il loro impegno e le loro competenze negli Stati Generali dell’Esecuzione Penale. Francesco Basentini, il nuovo Capo del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, ha uno staff composto quasi esclusivamente da Polizia penitenziaria, che aveva prodotto le proposte di modifiche al Decreto Sicurezza che prevedevano, tra l’altro, per chi introduce in carcere cellulari, pene da uno a quattro anni e l’inclusione tra i reati del 4 bis dell’Ordinamento Penitenziario, proposte che non sono state approvate. Noi con la Polizia penitenziaria vogliamo confrontarci e dialogare, ma nel rispetto dei diversi ruoli. Chiediamo allora, al Capo del DAP, di incontrare i rappresentanti delle nostre realtà, che indiscutibilmente, nella disastrosa crescita del sovraffollamento, costituiscono, per le persone detenute, un sicuro punto di riferimento, e di garanzia di tutela dei diritti. Forse non servirà a molto, però potremmo lanciare in qualche modo una campagna sul fatto che “più carcere produce meno sicurezza”, e potremmo smetterla di coltivare ciascuno il suo orticello e acquisire finalmente consapevolezza del fatto che solo insieme possiamo avere un po’ di forza e di voce. Servirebbe poi aprire un dialogo su quello che sta frenando l'accesso alle misure alternative, quindi da una parte cercare un confronto pubblico con le aree educative delle carceri, affrontando il tema della rieducazione in modo critico e rivalutando il ruolo dei Gruppi di Osservazione e Trattamento nel costruire per le persone detenute percorsi di effettivo reinserimento, dall'altra estendere questo confronto ai magistrati di Sorveglianza, di cui dovremmo essere interlocutori importanti. E chiedere un incontro con Gemma Tuccillo, Capo del Dipartimento della Giustizia minorile e di Comunità, per affrontare il nodo degli ostacoli che rendono così accidentato il passaggio “dal dentro al fuori”. Quanto alla vita detentiva, oggi stretta fra i disagi del sovraffollamento e la perdita per le persone detenute di qualsiasi speranza di cambiamento, ci sembra importante ricordare che nella Sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo “Sulejmanovic contro Italia” a proposito del sovraffollamento, il giudice Sajo aveva sostenuto che “l’inumanità della situazione risiede nel fatto che lo Stato non ha dimostrato di avere adottato misure compensative supplementari per attenuare le condizioni estremamente gravose derivanti dalla sovrappopolazione del carcere. Esso avrebbe potuto prestare particolare attenzione alla situazione, ad esempio concedendo altri vantaggi ai detenuti. (…) Nel caso di specie, la mancanza di attenzione da parte dello Stato aggiunge una punta d’indifferenza all’acuta sofferenza causata dalla punizione, sofferenza che andava già quasi oltre l’inevitabile”. Oggi ci preme sottolineare che la lezione del sovraffollamento, e delle doverose “compensazioni”, sembra che l’abbiano capita in pochi, basta pensare a tante piccole cose che stanno succedendo nelle carceri, e che vanno in direzione opposta al rispetto dell’umanità e della dignità delle persone, ne ricordiamo alcune: - Era stata di recente emanata una nuova circolare che imponeva “il coprifuoco” nelle carceri, con spegnimento forzato di luci e televisori a mezzanotte: il detenuto non poteva neppure più scegliersi i ritmi di sonno/veglia, perché c’era qualcuno che decideva dall’alto cosa è bene e cosa è male per lui. La circolare è stata poi “ritirata” dal DAP, dopo critiche molto severe da parte di chi il carcere lo conosce bene, compresa una lettera aperta della Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia; - La Polizia penitenziaria scrive sul suo sito che “finalmente il DAP utilizza 3 milioni e mezzo di euro per bloccare i telefonini (…) introdotti abusivamente negli istituti penitenziari”. 3 milioni e mezzo di spesa per bloccare i telefoninini introdotti abusivamente, ma dai tabulati dei cellulari trovati illegalmente in possesso dei detenuti non emerge forse che, per la stragrande maggioranza dei casi, le telefonate sono fatte a mamme e compagne e figli? Non sarebbe allora il caso di investire denaro e risorse nel potenziare tutte le forme di rapporti con i famigliari, dalle telefonate all’uso di Skype, come stanno facendo, per esempio, in Francia, invece che pensare a nuove pene e nuova galera per chi è trovato in possesso di un cellulare? - In molte città italiane sono sempre più diffusi i lavori di pubblica utilità che i detenuti svolgono gratuitamente per le amministrazioni comunali: è un’occasione importante di contatto tra il dentro e il fuori, ma forse è il momento di riflettere se ha o meno un senso far lavorare le persone senza che siano pagate, quasi non bastasse la pena che stanno scontando, e farle lavorare scortate e controllate dalla Polizia penitenziaria, con modalità che difficilmente possono servire per costruire autentici percorsi di reinserimento. Riflettiamo allora sul fatto che questo percorso di lavoro volontario per la pubblica amministrazione può avere un senso se inserito in un percorso di lavoro 'vero': ad esempio come volontariato il sabato o la domenica, o in altro giorno libero. - Nel viaggio nelle carceri della Corte costituzionale la giudice Silvana Sciarra è andata a Sollicciano e ha incontrato una rappresentanza di detenuti eletta con regolari elezioni, e ha espresso apprezzamento per questa iniziativa, mettendo in luce quanto sarebbe importante che le persone detenute potessero occuparsi attivamente della loro condizione assumendosi la responsabilità di parlare non solo delle proprie necessità, ma anche di quelle dei loro compagni. Un nostro obiettivo potrebbe essere allora di affrontare con l’Amministrazione il tema della rappresentanza, e di dare valore a qualsiasi iniziativa che voglia davvero realizzare quello che di buono c’è scritto nel Nuovo Ordinamento Penitenziario, che dice che le persone detenute vanno trattate secondo modelli “che favoriscono l'autonomia, la responsabilità, la socializzazione e l'integrazione”. - Il viaggio della Corte ha fatto tappa anche a Padova, con il giudice Luca Antonini, che ha affrontato il tema del diritto a esprimere liberamente la propria opinione. Un tema non scontato in carcere, dove la scalata alla libertà costringe spesso la persona detenuta ad adeguarsi passivamente alle aspettative delle Istituzioni. Il giudice Antonini ha anche ribadito l’importanza delle testimonianze dei detenuti per far conoscere la realtà del carcere, e non a caso la sfida della società civile che si occupa di pene e giustizia è proprio quella di portare fuori le storie di vita delle persone detenute, fare delle loro esperienze negative momenti di autentica prevenzione, ridare senso alle testimonianze dei “cattivi” mettendole a disposizione dei “buoni”, che hanno bisogno di conoscere di più il male, per allenarsi così a pensarci prima di fare scelte sbagliate. E sono proprio le nostre organizzazioni a poter dare risalto a queste testimonianze, ponendole al centro di un capillare lavoro di sensibilizzazione, rivolto alle scuole, all’Università, e anche al mondo dell’informazione, per il quale sarebbe importante organizzare seminari di formazione rivolti ai giornalisti, che hanno un grande bisogno di approfondire in modo critico questi temi. Alle realtà che decideranno di collaborare stabilmente sulla base di questa nostra proposta (che può essere cambiata, messa a punto, stravolta anche, purché resti al centro la questione di fondo, l’importanza di LAVORARE INSIEME), chiediamo di affrontare insieme anche i temi più “spinosi” legati all’ergastolo ostativo, ai circuiti, alle declassificazioni: se infatti ci sono più di 9000 persone rinchiuse nei circuiti di Alta Sicurezza, è anche perché il sistema è paralizzato, e noi in questi anni non siamo riusciti a dire parole chiare sulla necessità di mettere in discussione la permanenza per decenni dei detenuti in questi circuiti. È ora di farlo, a partire da quelle informative delle Direzioni distrettuali antimafia, che non possono più essere una fotografia del passato. Francesco Basentini ha affermato che “41 bis e Alta Sicurezza non devono più essere tatuaggi indelebili nelle vite delle persone”: chiediamogli allora che questa affermazione trovi finalmente applicazione concreta nelle carceri. Fissiamo insieme una data e un luogo per incontrarci al più presto. Per la Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia La Presidente, Ornella Favero Tavolate e boss che comandano: tutto vero, ma prima del 41bis di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 20 agosto 2019 “L’Espresso” descrive una situazione, ma i garanti ribadiscono: le norme lo vietano. Detenuti al 41bis che pranzerebbero insieme in maniera tale da riproporre in tavola la scala gerarchica mafiosa, i saluti tra di loro che sarebbero da ricondurre a rituali mafiosi, il figlio di Riina che comanderebbe al carcere di Spoleto, il presunto esempio virtuoso del 41bis del carcere di Sassari. Ma è tutto vero ciò che è stato scritto nell’ultimo numero de L’Espresso? Il regime speciale, ricordiamo, è stato introdotto come misure emergenziale dopo le stragi di Capaci e Via D’Amelio. Lo scopo originario è quello di evitare che i boss mafiosi diano ordini all’esterno attraverso il proprio gruppo di appartenenza. Tale istituto, com’è noto, è stato reso stabile nel 2002 con il governo Berlusconi. Poi, nel 2009, c’è stato un ulteriore intervento legislativo che l’ha reso ancor di più rigido. Ma il 41bis, fin dalla sua istituzione, è stato più volte redarguito da varie sentenze della Corte costituzionale affinché non diventi un “regime duro” e che si limiti al solo scopo originario. Premessa indispensabile, onde evitare di parlare di ammorbidimento, o addirittura una concessione alla mafia, ogni provvedimento che eviti di farlo uscire fuori dal perimetro costituzionale. Il 41bis, quindi, presenta diverse restrizioni che lo rendono differente dalla detenzione normale. A partire dalla socialità. Per i reclusi al regime speciale, è possibile solo incontrarsi - teoricamente due ore al giorno sono per la socialità, anche se in molti istituti ancora vige la regola incostituzionale di una sola ora - tra compagni di gruppo, con un numero variabile tra i 2 e i 4 detenuti. Ma non è possibile mangiare insieme. Quindi niente tavolata a pranzo o a cena. Ma non solo. Per quanto riguarda i gruppi di socialità, è difficile che ci siano persone della stessa regione geografica, quindi va da sé pensare che un sistema di gerarchia di potere tra di loro non può assolutamente esserci. C’è la questione del saluto che mette in evidenza l’Espresso. È vero. Nella maggior parte delle carceri che ospitano il 41bis, per via della struttura, c’è il rischio che taluni detenuti, non appartenenti allo stesso gruppo di socialità, possano scambiarsi dei saluti. Raggiunto da Il Dubbio, il Garante nazionale delle persone private della libertà Mauro Palma ha tenuto a precisare che “l’articolo de L’espresso parte da due principi positivi: l’importanza del ruolo dei Gom e l’impermeabilità, che appunto non vuol dire carcere duro, ma evitare che i boss veicolino messaggi all’esterno”. Per quanto riguarda il discorso del saluto, Mauro Palma sottolinea che viene ritenuta come una violazione del divieto di comunicazione e spesso viene sanzionata. “In alcuni istituti, anche in maniera estremamente rigida”, aggiunge il Garante. E fa l’esempio dell’istituto de L’Aquila. “Abbiamo verificato che al regime del 41bis aquilano, salutare una persona facendo seguire al saluto anche il nome di battesimo, era considerato una violazione del divieto di comunicazione e pertanto da sanzionare con l’isolamento”. Per il garante ciò è eccessivo, perché “ci dovrebbe essere la necessità di mantenere rigorosamente la chiara differenza tra il divieto di possibile comunicazione e il divieto di parola: l’osservata attivazione di procedimento disciplinare per chi saluti - chiamandola per nome - una persona non del proprio gruppo di socialità, sembra avvicinarsi più a questa seconda ipotesi che non al necessario controllo sulla prima”. Ma al regime del 41bis del carcere di Spoleto esiste un predominio di taluni boss su altri, come il figlio di Totò Riina? Raggiunto da Il Dubbio, il garante regionale del Lazio e Molise Stefano Anastasìa smentisce tale dinamica. “Che ci siano persone più “famose” rispetto ad altre è fuori discussione, perché al 41bis ci sono anche boss ristretti che erano a capo di piccoli gruppi criminali. Detto questo, se ci sono boss che vogliono in qualche modo comandare all’interno dei gruppi di socialità, esistono le aree riservate dove di fatto, vengono isolati da tutto e tutti”. Il Garante Anastasìa sul caso specifico spiega che questo problema del figlio di Riina che avrebbe dettato legge è assolutamente inesistente. “Se fosse stato così, come detto, lo avrebbero mandato nelle aree riservate e soprattutto né il personale penitenziario, né la direttrice del carcere, ha mai messo in evidenza questo problema”. Il garante ci tiene a specificare che il 41bis, infatti, è nato anche per quello e le regole restrittive vietano dinamiche del genere che si verificavano nel passato. Chi le trasgredisce, viene raggiunto da sanzioni disciplinari. Il regime del 41bis di Sassari è davvero un esempio virtuoso? L’avvocata Maria Teresa Pintus dell’osservatorio carcere della camera penale della Sardegna, raggiunta da Il Dubbio, spiega senza mezzi termini che in realtà al Bancali di Sassari ci sono problemi gravissimi: “Le celle sono sotterranee e si sa, se stai in un fosso sotto terra e hai tutto chiuso - dal blindo alle finestre - d’estate non puoi che soffocare, oltre a ciò si aggiunge la carenza dell’acqua e quella che esce dai rubinetti è gialla”. Una situazione del genere, quindi, non è impermeabilità, ma carcerazione dura. E questo rischia di far andare il 41bis fuori dal perimetro costituzionale. Un viaggio nelle carceri, tra paradosso e umanità di Alessandro Zaccuri Avvenire, 20 agosto 2019 Il Meeting di Rimini guarda da sempre al carcere. Laboratori, dibattiti, il racconto di esperienze formidabili come quella delle Apac, le prigioni senza sbarre sperimentate con successo in Brasile. E di carcere si parla anche quest’anno, attraverso la testimonianza di don Nicolò Ceccolini, cappellano dell’istituto minorile romano di Casal del Marmo, e attraverso le immagini di “Viaggio in Italia”, il film che ricostruisce gli incontri tra i giudici della Corte costituzionale e i detenuti di Rebibbia, di San Vittore, di Marassi, di tante altre realtà italiane. Realizzato da Fabio Cavalli per Rai Cinema, il documentario è stato proiettato ieri al Meeting alla presenza di Marta Cartabia e FrancescoViganò: giudici costituzionali entrambi, entrambi profondamente toccati da questo inconsueto pellegrinaggio. “Il carcere è l’espressione di un paradosso - ha sostenuto Viganò -. Per assicurare la massima protezione dei diritti della persona, si pratica la massima costrizione di diritti nei confronti di altre persone. Il risultato è una comunità altrettanto paradossale, ma ricchissima di umanità”. “Abbiamo intrapreso questo viaggio, prima nelle scuole e poi nelle carceri, per far conoscere la Corte, istituzione repubblicana tanto fondamentale quanto poco nota ai cittadini - ha affermato Marta Cartabia. Ma questi incontri hanno cambiato molto anche noi giudici, rendendo più partecipe il nostro sguardo. Ecco perché, da qualche tempo, le sentenze della Corte in materia carceraria sono contraddistinte da una particolare sensibilità”. “Già nella sua genesi la Costituzione rappresenta una scommessa sul cambiamento, un investimento sul futuro - le ha fatto eco Viganò. Un atteggiamento che dev’essere coltivato, a maggior ragione tra le mura di un carcere”. A far germogliare il seme della speranza sono gli operatori, gli educatori, i tanti volontari il cui impegno fa da sfondo alle sequenze di Viaggio in Italia. “La bellezza del carcere - ha concluso Marta Cartabia - sta in un’umanità dolente, ferita, spogliata di tutto, ma che non rinuncia a rinascere”. Gli spari dei brigatisti sull’uomo dei diritti in carcere di Davide Steccanella La Repubblica, 20 agosto 2019 La mattina presto di giovedì 20 aprile 1978, mentre esce dalla sua abitazione milanese di via Ponte Nuovo nella zona periferica di Crescenzago, per recarsi alla fermata del filobus che lo avrebbe portato alla metropolitana diretta alla stazione Cadorna non lontano dal carcere di San Vittore, il maresciallo Francesco Di Cataldo viene assassinato da due persone, mentre altri due attendono in un’auto per la fuga. Era nato a Barletta il 20 settembre 1926 ed era il vicecomandante degli agenti di custodia presso il carcere di San Vittore dove prestava servizio dal 1951, nonché direttore del centro clinico. Di Cataldo era sposato con Maria Violante e aveva due figli adolescenti, Alberto e Paola. Il 24 ottobre 2008 durante la Festa della Polizia penitenziaria gli è stata intitolata la “Sala Convegno” del reparto interno al carcere milanese e successivamente gli verrà titolata la Casa Circondariale stessa che oggi si chiama Casa Circondariale Milano San Vittore Francesco Di Cataldo. Il 7 dicembre 2010 il Comune di Milano, in occasione delle annuali onorificenze degli Ambrogini d’Oro, gli ha assegnato una Medaglia d’oro di benemerenza civica alla memoria con la seguente motivazione: “Milanese d’adozione, eroico servitore dello stato, Francesco Di Cataldo ha onorato per 28 anni il corpo degli agenti di custodia di San Vittore, fino a diventarne vicecomandante, responsabile dell’infermeria interna, risolse con il dialogo e la mediazione numerose rivolte carcerarie, guardando sempre con umanità ai detenuti e ai loro diritti. Fu ucciso dalle Br il 20 aprile del 1978, durante i tragici giorni del sequestro Moro”. Il 20 aprile 2013 gli è stato intitolato un parco cittadino vicino alla sua abitazione. Bonafede resta in pole. Ma a via Arenula è già partito il toto-ministri di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 20 agosto 2019 Chi potrebbe essere il ministro della Giustizia in un eventuale governo “giallorosso”? Visti i rapporti di forza in Parlamento, l’attuale Guardasigilli, il pentastellato Alfonso Bonafede, parte decisamente favorito. La sua riconferma, in un esecutivo Conte bis, sarebbe pressoché certa. In ottimi legami con il premier e con il capo politico del M5s, Luigi Di Maio, il suo nome non farebbe molta fatica ad essere riproposto per via Arenula. A differenza di altri ministri grillini, in questi quattordici mesi di governo non è stato infatti particolarmente bersagliato dalle critiche. Alcuni provvedimenti, come lo “spazza corrotti”, hanno fatto discutere, ma rientrano però nella visione che hanno della giustizia i 5S. Fra i motivi della sua riconferma, poi, la necessità di portare a termine la riforma. Un programma ambizioso, “epocale” per il diretto interessato, che non si limita alla modifica dei vari codici, ma prevede anche una radicale riforma del Consiglio superiore della magistratura, a partire dal suo sistema elettorale con l’introduzione del sorteggio “stronca correnti” per l’elezione dei componenti togati. Senza dimenticare, inoltre, la rivisitazione delle modalità d’accesso in magistratura, con il ritorno al concorso di primo livello, senza più l’obbligo di frequentare scuole di specialità o di conseguire preventivamente l’abilitazione forense. Proprio sulla riforma della giustizia si è consumato lo strappo di Ferragosto da parte di Matteo Salvini. Una riforma, per il leader della Lega, “all’acqua di rose” che, secondo il leader leghista, non avrebbe risolto i problemi che affliggono i tribunali italiani. Semaforo rosso sulla separazione delle carriere in magistratura, processi penali troppo lunghi, intercettazioni telefoniche senza freni, nessuna abolizione del reato che terrorizza gli amministratori pubblici, l’ abuso d’ufficio, i principali rilievi da parte di Salvini. Se invece il Pd dovesse impuntarsi e chiedere un cambio in via Arenula, due sarebbero gli scenari: uno di tipo “politico” e l’altro “tecnico”. Il primo vedrebbe il ritorno di Andrea Orlando. Il vice segretario dem è ben visto dai magistrati, non si ricordano polemiche degne di nota con l’Associazione nazionale magistrati, e da ampi settori della comunità dei giuristi. Politico esperto, ha effettuato durante il suo mandato scelte “trasversali”: diversi i dirigenti apicali di via Arenula da lui nominati che sono stati poi successivamente riconfermati da Bonafede. Fra i punti controversi della sua gestione, invece, la riforma dell’ordinamento penitenziario, definita dai grillini in modo dispregiativo “svuota carceri”, perché prevedeva un massiccio ricorso alle misure alternative alla detenzione carceraria. Quindi l’opzione “togata” rappresentata da Nicola Gratteri. Il procuratore di Catanzaro era stata la prima scelta di Matteo Renzi premier. Un magistrato non etichettabile come “toga rossa”, anzi chi lo conosce dice sia vicino a Magistratura indipendente, la corrente moderata delle toghe. Il suo nome metterebbe d’accordo sia i dem che i 5s. Persona intransigente, ha fatto del contrasto alla ndrangheta, la propria ragione di vita. Da anni sotto scorta, Renzi si “innamorò” di lui dopo averne visto i progetti per riformare a costo zero la complessa macchina della giustizia. Il suo “pallino” è l’organizzazione delle Procure. Non risulta avere domande pendenti per altri uffici. A Catanzaro dal maggio del 2016, potrebbe rimanere per altri cinque anni nell’incarico. Gratteri sarebbe però il primo pm a diventare Guardasigilli. Se si escludono i 100 giorni, nell’ultima fase prima di essere travolto dallo spread del governo Berlusconi nel 201, di Nitto Palma, ex parlamentare di Forza Italia e attuale braccio destro del presidente del Senato, Elisabetta Alberti Casellati, nessun magistrato del pubblico ministero ha mai ricoperto tale incarico. L’ultima parola spetterà al capo dello Stato. E, prima, alle decisioni di oggi pomeriggio di Giuseppe Conte in Senato. Decisioni su cui nessuno si vuole sbilanciare. “Oltraggio a pubblico ufficiale”: carcere fino a 3 anni di Lucia Izzo studiocataldi.it, 20 agosto 2019 La legge di conversione del Decreto sicurezza bis in vigore dal 10 agosto 2019 inasprisce le pene per diversi reati, tra cui l’oltraggio a pubblico ufficiale. Il decreto sicurezza bis, convertito dalla legge n. 77/2019 in vigore dal 10 agosto 2019 (sotto allegata), apporta diverse innovazioni in materia di contrasto all’immigrazione clandestina e, con il corposo “pacchetto sicurezza”, incide anche sul codice penale, inasprendo le pene per varie fattispecie di reato, tra cui l’oltraggio a pubblico ufficiale. Le innovazioni del provvedimento di stampo leghista interessano anche il codice penale, con diverse modifiche volte a rafforzare il vigente quadro normativo a presidio del regolare e pacifico svolgimento delle manifestazioni in luogo pubblico e aperto al pubblico. Il primo comma dell’art. 339 c.p. prevede ora un’ulteriore circostanza aggravante per i reati di cui agli articoli 336 (Violenza o minaccia a un pubblico ufficiale), 337 (Resistenza a un pubblico ufficiale) e 338 (Violenza o minaccia ad un corpo politico, amministrativo o giudiziario o ai suoi singoli componenti) c.p., qualora le condotte siano poste in essere durante manifestazioni in luogo pubblico o aperto al pubblico. Il decreto, inoltre, ha inasprito le pene per il delitto di oltraggio a pubblico ufficiale con un ritocco all’art. 341bis c.p. che ora prevede un minimo edittale: ora, chi in luogo pubblico o aperto al pubblico, e in presenza di più persone, offende l’onore ed il prestigio di un pubblico ufficiale mentre compie un atto d’ufficio ed a causa o nell’esercizio delle sue funzioni rischia la reclusione da 6 mesi a 3 anni. Lo stesso minimo edittale è stato introdotto anche per il delitto di oltraggio a magistrato in udienza (art. 343 c.p.): chiunque offende l’onore o il prestigio di un magistrato in udienza, dunque, sarà punito con la reclusione da 6 mesi a 3 anni. Infine, le modifiche hanno stabilito l’esclusione della particolare tenuità del fatto (causa di non punibilità) qualora si proceda per i delitti di violenza o minaccia a un pubblico ufficiale (art. 336 c.p.), di resistenza a pubblico ufficiale (art. 337 c.p.) e di oltraggio a pubblico ufficiale (art. 341bis c.p.) commessi nei confronti di un pubblico ufficiale nell’esercizio delle proprie funzioni. Sulle innovazioni descritte, peraltro, ha espresso diverse perplessità il capo dello Stato il quale, nel promulgare la nuova legge, ha inviato una lettera ai presidenti del consiglio, di camera e senato, invitando il Parlamento a correggere il testo. In particolare, tra i rilievi di Mattarella figura la previsione contenuta nell’articolo 16 lettera b), che modifica l’art. 131 bis del codice penale, rendendo inapplicabile la causa di non punibilità per la “particolare tenuità del fatto” alle ipotesi di resistenza, violenza e minaccia a pubblico ufficiale e oltraggio a pubblico ufficiale “quando il reato è commesso nei confronti di un pubblico ufficiale nell’esercizio delle proprie funzioni”. La norma, riflette il capo dello Stato, “assente - peraltro - nel decreto legge predisposto dal Governo, non riguarda soltanto gli appartenenti alle Forze dell’ordine ma include un ampio numero di funzionari pubblici, statali, regionali, provinciali e comunali nonché soggetti privati che svolgono pubbliche funzioni, rientranti in varie e articolate categorie, tutti qualificati - secondo la giurisprudenza - pubblici ufficiali, sempre o in determinate circostanze. Tra questi i vigili urbani e gli addetti alla viabilità, i dipendenti dell’Agenzia delle entrate, gli impiegati degli uffici provinciali del lavoro addetti alle graduatorie del collocamento obbligatorio, gli ufficiali giudiziari, i controllori dei biglietti di Trenitalia, i controllori dei mezzi pubblici comunali, i titolari di delegazione dell’ACI allo sportello telematico, i direttori di ufficio postale, gli insegnanti delle scuole, le guardie ecologiche regionali, i dirigenti di uffici tecnici comunali, i parlamentari”. Una scelta legislativa che impedisce al giudice di valutare la concreta offensività delle condotte poste in essere, il che, specialmente per l’ipotesi di oltraggio a pubblico ufficiale, secondo il presidente, solleva, dunque, “dubbi sulla sua conformità al nostro ordinamento e sulla sua ragionevolezza nel perseguire in termini così rigorosi condotte di scarsa rilevanza e che, come ricordato, possono riguardare una casistica assai ampia e tale da non generare allarme sociale”. Il docente è pubblico ufficiale, col decreto sicurezza bis 3 anni di carcere per chi lo offende di Alessandro Giuliani tecnicadellascuola.it, 20 agosto 2019 Nel decreto sicurezza bis c’è anche la “stretta” sui reati commessi verso i pubblici ufficiali, quindi anche verso gli insegnanti e tutto il personale in servizio nella scuola. La norma - che appare anche come una risposta all’escalation di casi di violenza verso i docenti e la richiesta di una legge ad hoc - è contenuta nella conversione in legge con modificazioni, pubblicata in G.U. il 9 agosto scorso del decreto legge 14 giugno 2019, n. 53, recante disposizioni urgenti in materia di ordine e sicurezza pubblica. Ecco quanto è stato approvato a pagina 186 della Gazzetta Ufficiale, serie Generale del 9 agosto: “Art. 341bis (Oltraggio a pubblico ufficiale). Chiunque, in luogo pubblico o aperto al pubblico e in presenza di più persone, offende l’onore ed il prestigio di un pubblico ufficiale mentre compie un atto d’ufficio ed a causa o nell’esercizio delle sue funzioni è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni. La pena è aumentata se l’offesa consiste nell’attribuzione di un fatto determinato”. Ma cosa significa offendere “l’onore ed il prestigio di un pubblico ufficiale”? Secondo gli articoli 339 e 336 del codice penale, si tratta di reati che corrispondono a “violenza o minaccia” oppure alla “resistenza a pubblico ufficiale”. Come già scritto dalla Tecnica della Scuola, atti violenti contro i professori possono essere costituiti non solo da offese, percosse, lesioni e violenza privata, ma il reato scatta anche in caso di stalking, minaccia e diffamazione. Anche l’ingiuria, oggi depenalizzata, costituisce reato se rivolta ad un pubblico ufficiale: si tratta, infatti, di oltraggio a pubblico ufficiale, delitto che può essere commesso dall’alunno che insulti apertamente il docente o che lo denigri in presenza di altre persone. Cosa deve fare un docente aggredito - Se subisce un’aggressione verbale o fisica, il docente deve informare, con una lettera scritta, il preside nonché, visto l’art. 2087 del Codice civile inerente la responsabilità del Dirigente (obbligato ad adottare le necessarie misure atte a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei dipendenti). Ricordiamo che il docente aggredito deve chiedere allo stesso di prendere provvedimenti per garantire le condizioni di sicurezza in ambito lavorativo previste dalla legge e scongiurare il ripetersi di ulteriori aggressioni in grado di provocare danni morali, fisici e/o biologici nei propri confronti. Se sono stati riportati traumi o ferite bisogna recarsi subito in pronto soccorso per le cure del caso e chiedere il rilascio del relativo certificato medico attestante la diagnosi e le circostanze che hanno causato la richiesta di cure mediche presso la struttura ospedaliera (la certificazione dovrà essere allegata alla successiva denuncia da presentare alla polizia giudiziaria o ai carabinieri). Il dirigente scolastico, avvisato dal grave episodio accaduto in servizio, ha l’obbligo della denuncia, relativamente ai reati perseguibili d’ufficio (art. 331 del Codice penale). La denuncia va presentata o trasmessa senza ritardo al pubblico ministero o a un ufficiale di polizia giudiziaria. Cosa dice il Codice Penale - L’art. 357 del Codice Penale dispone che “agli effetti della legge penale, sono pubblici ufficiali, coloro i quali esercitano una pubblica funzione legislativa, giudiziaria o amministrativa”. Agli stessi effetti, come disposto dal secondo comma dell’art. 357 novellato dalla l. n. 86/90 e successivamente modificato dalla l. n. 181/92, “è pubblica la funzione amministrativa disciplinata da norme di diritto pubblico e da atti autoritativi e caratterizzata dalla formazione e dalla manifestazione della volontà della pubblica amministrazione o dal suo svolgersi per mezzo di poteri autoritativi o certificativi”. Dalla lettura della norma, pertanto, si evince che la qualifica di pubblico ufficiale va attribuita a tutti quei soggetti che “concorrono a formare la volontà di una pubblica amministrazione; coloro che sono muniti di poteri: decisionali; di certificazione; di attestazione di coazione” (Cass. Pen. n. 148796/81); “di collaborazione anche saltuaria” (Cass. Pen. n. 166013/84). Pubblico ufficiale - L’articolo 358 c.p., a propria volta, dispone che “sono incaricati di pubblico servizio coloro i quali, a qualunque titolo, prestano un pubblico servizio. Per pubblico servizio deve intendersi un’attività disciplinata nelle stesse forme della pubblica funzione, ma caratterizzata dalla mancanza dei poteri tipici di quest’ultima e con esclusione dello svolgimento di semplici mansioni d’ordine e della prestazione di opera meramente materiale”. Secondo la dottrina prevalente per incaricato di pubblico servizio dovrebbe intendersi un soggetto che pur svolgendo un’attività pertinente allo Stato o ad un altro Ente pubblico non è dotato dei poteri tipici del pubblico ufficiale e, d’altra parte, non svolge funzioni meramente materiali. La qualità di pubblico ufficiale è stata riconosciuta nel tempo a diversi soggetti. A titolo esemplificativo sono considerati pacificamente pubblici ufficiali: i consulenti tecnici, i periti d’ufficio, gli ufficiali giudiziari e i curatori fallimentari, quali ausiliari del giudice (Cass. Pen. 16.6.1983; 11.5.1969); i portalettere e i fattorini postali (Cass. n. 5.10.1982); gli ispettori e gli ufficiali sanitari; i notai; il sindaco quale ufficiale del governo; i consiglieri comunali (Cass. n. 18.11.1974); gli appartenenti alle forze di polizia e armate; i vigili del fuoco e urbani; i magistrati nell’esercizio delle loro funzioni (ecc.). Anche gli insegnanti delle scuole pubbliche lo sono, così come ha ribadito la Corte di Cassazione, con la sentenza n. 15367/2014, che ha ribadito la qualità di pubblico ufficiale per l’insegnante di scuola media nell’esercizio delle sue funzioni non circoscritto alla tenuta delle lezioni, ma esteso “alle connesse attività preparatorie, contestuali e successive, ivi compresi gli incontri dei genitori degli allievi” riconoscendo tutti gli elementi del reato di oltraggio a pubblico ufficiale a carico di un genitore (riferimenti: art. 357 Codice penale, legge n. 86/90, legge n. 181/92, sentenze Corte di Cassazione n. 229/1986 - n. 6685/1992 - n. 3004/1999 - n. 15367/2014) Anche i docenti di scuola paritaria, nell’esercizio delle loro funzioni, sono “pubblici ufficiali”; così pure il coordinatore didattico e il gestore. Sono definiti incaricati di pubblico servizio coloro i quali, a qualunque titolo, prestano un pubblico servizio; per pubblico servizio si intende un’attività disciplinata nelle stesse forme della pubblica funzione, ma caratterizzata dalla mancanza dei poteri tipici di quest’ultima. Alcuni esempi di incaricati di pubblico servizio: i bidelli, i dipendenti comunali che preparano i certificati senza avere potere di firma, i dipendenti delle aziende sanitarie locali. Commercialisti, pene più severe per l’aiuto all’evasione di Dario Ferrara Italia Oggi, 20 agosto 2019 Scatta la severa aggravante introdotta nel 2015, che aumenta la pena di metà, per il commercialista che elabora un modello per evadere al fisco e lo offre ai clienti. E ciò anche se il professionista non agisce soltanto consulente ma è direttamente interessato. Carcere per il commercialista che elabora il modello per evadere al fisco e lo offre ai clienti, scatta in quel caso la severa aggravante introdotta nel 2015 che aumenta la pena di metà. E ciò anche se il professionista non agisce soltanto consulente ma è direttamente interessato: risulta coinvolto nelle società in favore delle quali viene elaborato lo schema per frodare l’erario, da ritenersi seriale in quanto può essere applicato in altre circostanze. L’articolo 13 bis del dlgs 74/2000, infatti, richiede soltanto un concorso qualificato del commercialista nel reato mentre non si può escludere l’aggravante solo perché il professionista agisce anche per un proprio tornaconto personale. È quanto emerge dalla sentenza 36212/19, pubblicata il 19 agosto dalla terza sezione penale della Cassazione. Replica fondamentale. Sì al ricorso del procuratore della Repubblica dopo che il Riesame converte in arresti domiciliari la misura cautelare della custodia in carcere disposta dal gip. Secondo il tribunale l’aggravante ex articolo 13 bis del dlgs 74/2000 non si configura perché sui quattro episodi contestati in uno il commercialista agisce in proprio, come socio della compagine, e negli altri mancherebbe il requisito della serialità. Il cospicuo incremento di pena voluto dal dlgs 158/15 serve a punire commercialisti, avvocati e altri professionisti che svolgono attività di consulenza fiscale quando offrono ai clienti schemi per eludere gli obblighi fiscali laddove i modelli possono essere riprodotti in molti altri casi. Dolo rafforzato. Nella specie il commercialista è indagato per sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte, ma l’aggravante scatta anche per reati come fatture per operazioni inesistenti, indebita compensazione, omesso versamento di Iva e ritenute. E non può ritenersi che l’interesse personale sia di ostacolo; anzi, il dolo di evasione risulta rafforzato perché fra le persone che concorrono nel reato c’è piena condivisione d’intenti: il commercialista non agisce soltanto per riscuotere il compenso professionale ma anche per un proprio interesse patrimoniale a evadere l’imposta. Commercio di ovuli reato anche per l’eterologa di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 20 agosto 2019 Corte di cassazione. Sentenza 36221/2019. Vendere gameti e reclutare “donatori” pagandoli è un reato. Anche se la “cessione” è finalizzata alla fecondazione di tipo eterologo. Il via libera della Consulta alla tecnica non ha, infatti, fatto venire meno il divieto di fare commercio di ovuli, la cui donazione deve essere gratuita. Basandosi su una lettura costituzionalmente orientata la Cassazione (sentenza 36221 di ieri) ha accolto il ricorso del Pubblico ministero contro la decisione del Gup di assolvere, nell’udienza preliminare, le collaboratrici del ginecologo Severino Antinori dal reato di commercio di gameti. Il tribunale aveva prosciolto le “mediatrici” nella compravendita dei gameti, per insussistenza del fatto. Ad avviso del Gup, non c’è commercio quando il trasferimento della cellula riproduttiva avviene all’interno della fecondazione eterologa, proprio perché la pratica richiede necessariamente il ricorso al gamete estraneo alla coppia. Una conclusione che la Cassazione smonta. I giudici della terza sezione penale, ricordano che la sentenza (162/2014) con la quale la Consulta ha eliminato il divieto di fare ricorso alla fecondazione eterologa - nel caso di sterilità assoluta dovuta a patologie - non ha cancellato la sanzione penale, indicata dall’articolo 12 comma 6 della legge 40/2004, applicabile a chi fa commercio di gameti. Nello stesso senso, precisa la Cassazione, va letta anche la direttiva 2004/23/Ce, che prevede la gratuità e la volontarietà della donazione di tessuti e cellule umane. Nella norma europea si precisa che i donatori possono ricevere solo “un’indennità strettamente limitata a far fronte alle spese e inconvenienti risultanti dalla donazione. In tal caso gli Stati membri stabiliscono le condizioni alle quali viene concessa l’indennità”. Possibilità quest’ultima, di cui lo Stato italiano non si è avvalso, a differenza, di quanto avvenuto, ad esempio, con la legge 62/2011, per i donatori di midollo osseo. Attualmente, nel caso di donazione di gameti non è prevista alcuna forma di indennizzo. Un gesto che deve essere dunque volontario e senza alcun ritorno economico. L’assenza di un fine di lucro è confermata anche dai decreti ministeriali, che si sono succeduti per regolare l’importazione e il trasferimento dei gameti, e ribadita anche da una nota del direttore del Centro nazionale trapianti del 2016. Per la Suprema corte la rilevanza penale della compravendita di ovuli si desume quindi sia dalle norme interne sia da quelle sovranazionali. Per questo va punito chiunque, “in qualsiasi forma, realizza, organizza o pubblicizza l’acquisizione di gameti in violazione dei principi di volontarietà e gratuità della donazione”. E in quest’ambito rientra anche il reclutamento di donatori o donatrici - ai quali viene prospettata o data un remunerazione - diretto all’immissione sul mercato dei gameti, in vista della procreazione medicalmente assistita di tipo eterologo. Partendo da questo principio non poteva che essere accolto il ricorso del Pm contro l’assoluzione delle collaboratici del medico. L’inchiesta era partita con le denunce di alcune ragazze, che avevano venduto i propri ovuli presso la clinica milanese Matris, che “interagiva” anche con cliniche straniere. Gameti a loro volta rivenduti alla coppie che si rivolgevano alla struttura. Il prezzo medio era di circa 500 euro per ovocita. Abuso d’ufficio: niente reato per il “preside” che organizza gite senza gara di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 20 agosto 2019 Corte di cassazione - Sezione VI - Sentenza 19 agosto 2019 n. 36229. Escluso l’abuso d’ufficio per il dirigente scolastico che organizza viaggi culturali e soggiorni invernali senza indire una gara, se la spesa resta sotto una certa soglia. La corte di cassazione, con la sentenza 36229, accoglie il ricorso del “preside” condannato in appello per abuso d’ufficio. Al ricorrente erano state mosse principalmente due imputazioni: aver concesso ad una cooperativa l’uso di locali dell’istituto per fare lezioni individuali e organizzare gite senza indire una gara e senza via libera del consiglio di istituto. Per i giudici però in caso di concessione a terzi dei locali non era prevista dal decreto interministeriale, allora vigente, una preventiva autorizzazione dell’ente territoriale, in genere in Italia comune o provincia. Diversa è la circostanza del danno economico provocato all’istituto, costretto a pagare alla provincia i canoni con i suoi fondi per inadempienza della cooperativa. In tal caso al preside può essere contestato il danno erariale, ma non l’abuso d’ufficio. Lo stesso vale per le gite assegnate ad un tour operator senza gara. In questo caso un decreto interministeriale stabiliva che al di sotto dei 2 mila euro il dirigente scolastico potesse procedere alla scelta del contraente senza alcuna formalità. Superato il tetto, come nella vicenda esaminata, era invece necessario mettere a confronto le offerte di almeno tre ditte. Una previsione che si completava chiarendo che le istituzioni scolastiche erano tenute al rispetto delle norme dell’Unione europea sugli appalti e sulle forniture di beni e servizi. A questa si appella il ricorrente ricordando la sua prevalenza sul regolamento. E il codice appalti, almeno nella forma rimasta in vigore fino al 2016, apriva al cottimo fiduciario per “lavori, servizi, e forniture in economia” consultando, in trasparenza almeno cinque operatori per importi pari o superiori ai 25 mila euro. Una soglia poi alzata a 40 mila. Una norma prevalente sulle disposizioni di carattere regolamentare anche se dettate per la contrattazione in ambito scolastico Il gestore deve limitare il chiasso dei clienti anche fuori dal locale di Giulio Benedetti Il Sole 24 Ore, 20 agosto 2019 Corte di cassazione - Sentenza 28570/19. Il titolare del locale da movida commette un reato se non limita il rumore anche dei clienti. L’estate, si sa, è la stagione del divertimento all’aperto e se la movida notturna è liberatoria per tanti avventori dei locali, i relativi esercenti devono contenere il rumore che disturba il riposo degli abitanti degli immobili vicini. Il tema è particolarmente rilevante nella vita del condominio poiché gran parte del contenzioso giudiziario in tema di rumorosità molesta origina da esposti di condomini che chiedono alle pubbliche autorità interventi risolutivi per assicurare il riposo e la quiete. La Corte di Cassazione (sentenza 28570/2019) è intervenuta in materia e ha respinto il ricorso di due esercenti di un locale di pubblico spettacolo avverso una sentenza che li aveva condannati per il reato di cui all’art. 659, primo comma, del Codice penale. In particolare, i ricorrenti affermavano che la condanna era ingiusta poiché erano stati a loro addebitati tanto la diffusione di musica in mancanza di adeguata insonorizzazione, che il mancato impedimento dell’assembramento rumoroso degli avventori. Inoltre i condannati sostenevano che le indagini non avevano accertato il turbamento della tranquillità pubblica, poiché dall’esterno del locale non si percepiva la musica e che sussisteva l’assenza di un loro obbligo di intervento per evitare gli schiamazzi degli avventori sulla pubblica via. La difesa dei gestori affermava che la repressione della movida rumorosa era compito delle pubbliche autorità e non dei privati cittadini (come del resto affermato di recente dal Tribunale di Como nella sentenza 312/2019). La Cassazione non ha accolto tali argomenti poiché dalla istruttoria emergeva che la polizia giudiziaria aveva accertato il superamento del limite previsto dei tre decibel, ovvero un andamento da 6 e 8 decibel, con sorgenti rumorose individuate all’interno del locale tra musica, chiacchiere degli avventori e rumore proveniente dalle persone presenti davanti all’esercizio. Per la Cassazione il reato dell’articolo 659, primo comma, del Codice penale è “eventualmente permanente” e si può consumare con un unico schiamazzo o con l’esercizio di una sola fonte rumorosa, idonea a disturbare il riposo o la quiete delle persone, senza che sia necessaria la ripetizione del rumore molesto nel tempo. In particolare, non è necessaria la prova che il rumore abbia molestato una vasta platea di persone, essendo sufficiente la sola idoneità del fatto a disturbare un numero indeterminato di individui. Per la Corte di Cassazione gli esercenti avevano un preciso obbligo di impedire il rumore, anche all’esterno del locale, poiché dovevano segnalare alle pubbliche autorità che la frequenza del locale da parte degli avventori non sfociasse in condotte contrastanti con le norme poste a tutela dell’ordine e della tranquillità pubblica. Mentre in questo caso i gestori non hanno fatto nulla per evitare la propagazione del rumore e non hanno mai richiesto un intervento delle pubbliche autorità per arginarlo o impedirlo, anche perché dall’attività derivava un notevole guadagno. Pescara: suicidi, aggressioni e poca sorveglianza. Il carcere è una polveriera ilpescara.it, 20 agosto 2019 Due gravi fatti di cronaca che fanno riemergere una situazione insostenibile e pericolosa per via del sovraffollamento di detenuti e del personale insufficiente. Il carcere “San Donato” di Pescara sta diventando ingestibile e gli agenti di polizia penitenziaria rischiano quotidianamente la loro incolumità, oltre a faticare parecchio nel gestire e sorvegliare i tanti, per meglio dire troppi, detenuti che affollano la Casa circondariale. È dei giorni scorsi la notizia, passata in sordina per non alimentare ulteriori polemiche, dell’ennesimo suicidio avvenuto in una cella di detenzione. A togliersi la vita è stato un 33enne della Bulgaria che si è impiccato con un lenzuolo. Questo macabro episodio fa seguito a un altro fatto di cronaca trapelato per vie non ufficiali che poteva avere anche in questo caso conseguenze mortali. Un poliziotto sarebbe stato aggredito da un giovane nordafricano dopo una visita medica. Il recluso pretendeva la prescrizione di una terapia specifica, non avallata dal dottore del carcere che ha rischiato di rimanere sfregiato con una lametta dal facinoroso paziente. Indiscrezioni rivelano che l’azione sarebbe stata sventata solo grazie al tempestivo intervento dell’agente in divisa, che a seguito della colluttazione scaturita sarebbe rimasto però contuso nel tentativo di disarmare l’assalitore. Il poliziotto ha riportato lesioni e traumi guaribili in 15 giorni. All’interno del penitenziario pescarese sarebbero stati rinvenuti telefoni cellulari e addirittura della droga. Le cause di queste pericolose situazioni sarebbero riconducibili alla totale mancanza di sicurezza nella quale gli operatori sono costretti a lavorare, tra sezioni aperte, a stretto contatto con soggetti violenti e in preda a problemi psichiatrici. Il corpo di polizia penitenziaria si sottopone quotidianamente a uno stress continuo, aggravato da turni di lavoro massacranti. Persino la pausa pasto alla mensa serale si è ridotta a soli dieci minuti, come già ampiamente documentato in una relazione che le forze sindacali hanno consegnato al Prefetto di Pescara a seguito del sit-in di fine maggio per protestare in merito al ripristino dei turni di 8 ore. Reggio Calabria: Ferragosto al carcere “Arghillà”, per non marcire dentro di Gianpaolo Catanzariti* Il Dubbio, 20 agosto 2019 Sapevamo di trovare al carcere di “Arghillà” una situazione ben diversa da quella riscontrata, il giorno prima, all’altro istituto “Panzera”, entrambi gravati dall’accorpamento subìto. La realtà, purtroppo, ha superato ogni immaginazione. E non solo per il degrado urbanistico circostante, rimasto tale e quale alla visita che facemmo assieme a Marco Pannella nel settembre del 2014. Abbiamo trascorso oltre cinque ore, toccando con mano le criticità di una struttura, che, in origine, avrebbe dovuto rappresentare il fiore all’occhiello della reclusione calabrese. Alle deficienze strutturali originarie, che hanno fatto di Arghillà il simbolo della fallimentare politica penitenziaria praticata negli anni, inaugurata - dopo 25 anni dalla posa della prima pietra - in pompa magna dall’allora ministro Cancellieri nonostante l’assenza, fra le altre, di un campo da calcio, di un teatro e di una cappella, si è aggiunto l’aumento esponenziale della popolazione detentiva senza un corrispondente aumento del personale operante e senza un servizio sanitario all’altezza delle gravità riscontrate. Con una capienza regolamentare di 302 posti e 89 “camere di pernottamento”, Arghillà ha in carico 365 detenuti (di cui 53 in Alta Sicurezza, 213 definitivi e 93 in attesa di primo giudizio, 51 stranieri, ma nessun mediatore culturale). Sono 64, di cui tre all’esterno, coloro che svolgono attività lavorativa. Pochissimi per una struttura che avrebbe dovuto rappresentare un modello di reclusione al Sud Italia. La maggior parte delle celle ospita tra 7 ed 8 detenuti su letti posti sistematicamente l’uno sull’altro, sino al terzo livello. Una condizione intollerabile che calpesta la dignità umana di chi è costretto a scontare una pena detentiva, condividendo un unico bagno senza bidet, attendendo il proprio turno per i bisogni fisiologici o per potersi sciacquare, quando l’acqua, dopo ore di assenza, esce improvvisamente dai rubinetti. La maggior parte dei bagni presenta pareti invase dalla muffa che ammorba l’aria, irrespirabile sotto il telefono della doccia. Abbiamo provato a misurare lo spazio detentivo disponibile, utilizzando i virtuali parametri sbandierati dal Ministero secondo il Dm 5 luglio 1975 (9 metri per il primo, 5 metri per ogni ulteriore detenuto) e, francamente, in nessuna delle celle, da 6, da 7 o da 8, ci sembrano rispettati. Da una operazione sommaria, da parete a parete, la cella più ampia ha un’area di poco più di 24 mq. Eppure, per come riferito da molti detenuti, ogni istanza ex art. 35 ter Ordinamento penitenziario. in ragione del sovraffollamento viene sistematicamente dichiarata inammissibile o riconosciuta per pochi giorni. Un detenuto, affetto da disabilità motoria alle gambe, su sedia a rotelle, dimora con altri 7 compagni di cella e senza accessori che consentirebbero di usufruire del bagno per disabili. Nell’osservare quel bagno ammuffito, lo abbiamo immaginato sostenuto da altri due detenuti per potersi sedere sul wc e, sinceramente, ci siamo vergognati noi per tutti. Il personale di polizia penitenziaria fa quel che può, con 112 effettivi su una pianta organica di 160. Anche gli agenti, che occupano la caserma posta all’interno della struttura rimasta sempre identica alla nostra ultima visita, vivono in condizioni di degrado assoluto, con stanze e bagni che sembrano ‘ luoghi della memoria’ del secondo dopoguerra. Sette sono gli educatori ed uno è lo psicologo presente una volta a settimana, nonostante numerosi siano i detenuti problematici e l’ultimo suicidio di pochi giorni addietro. Assurda è, poi, la situazione dell’area sanitaria con un’assistenza infermieristica garantita dalle 7 alle 22, confidando, così, nella benevolenza della notte! Circa 20 sono i detenuti che presentano disturbi di natura psichiatrica, mentre 43 sono in carico al Sert per le tossicodipendenze. Nonostante vi siano strumenti e gabinetti medici attrezzati, le prestazioni specialistiche, per ragioni tutte interne all’azienda sanitaria provinciale e da noi sconosciute, sono estremamente dilatate nel tempo. Nei mesi scorsi vi erano oltre 390 prestazioni specialistiche richieste ed ancora inevase, affidando il detenuto alla buona sorte o al ricovero ospedaliero d’urgenza. La salute in carcere ad Arghillà sembra paragonabile alla ruota della fortuna che si gioca in locali neppure presi in carico formalmente dall’Asp. Il personale penitenziario ha messo in piedi una equipe multidisciplinare che si occupa, da subito, dei nuovi giunti, anche per prevenire e monitorare situazioni irreversibili. L’area trattamentale si sforza, con sacrificio, di garantire una offerta formativa e laboratoriale adeguata alle numerose presenze detentive con corsi scolastici, di base e di grado superiore (per media ed alta sicurezza), che, però, non vengono garantiti per i 33 detenuti ristretti nella sezione c. d. protetti (sex offender), ed attività culturali e artistiche (canto, cineforum, biblioteca, yoga, catechesi). Manca l’apporto esterno al carcere che, in Calabria, è davvero inesistente. L’area verde, seppur presente ed attrezzata, risulta inutilizzata per ragioni fumose, così i bimbi sono costretti ad incontrare i padri nelle anonime sale colloqui. Alcuni detenuti di Alta sicurezza, con pene lunghe da espiare, trasferiti ad Arghillà per il sovraffollamento delle sedi di assegnazione, trascorrono le loro giornate senza alcuna attività specifica. Un giovanissimo ergastolano, costretto a stare in cella con altri sette detenuti, giudicabili e non, si lamenta per il mancato trasferimento presso una struttura, anche fuori regione, ove poter espiare l’isolamento diurno residuo, in atto sospeso. Girare nei corridoi di Arghillà, entrare dentro le celle sovraffollate, è come un pugno sordo sullo stomaco. Ti rendi conto della condizione disperata ed intollerabile dei 365 detenuti, che ti ringraziano comunque per essere “i soli che venite a trovarci”, che allungano una mano e che afferri, senza più parole, per ritrovare l’umanità smarrita, da tempo, nei luoghi in cui si esercita l’autorità dello Stato. E quando un settantacinquenne si avvicina con uno schizzo su carta che raffigura dei corpi umani rinchiusi in una scatoletta di carne, ti accorgi che, alla fine, sottrarre alle tue ferie alcune giornate per il “Ferragosto in carcere” ne è valsa davvero la pena per crescere umanamente e professionalmente e soprattutto per non “marcire dentro”. Più volte abbiamo denunciato le condizioni in cui si trova la struttura di Arghillà che offende la dignità dei detenuti e quella dei “detenenti” al punto che un agente si lascia scappare una frase “Avvocato, dovete fare le visite fuori da qui, perché è là che c’è necessità di recuperare un po’ di umanità: Il giorno dell’inaugurazione (2013) di Reggio Arghillà l’allora provveditore regionale così dichiarò: “L’apertura rientra in un progetto del Governo che riguarda altri istituti calabresi e che punta a raggiungere condizioni adeguate e coerenti con le indicazioni della Corte Europea, con i principi della nostra Costituzione e delle nostre leggi, nel rispetto delle quali va l’impegno del personale che spende la propria vita per garantire la presenza dello Stato ed il rispetto delle condizioni di vita del detenuto. Il nuovo carcere è un presidio di legalità concreto che sorge in un territorio particolarmente segnato dalla criminalità. La presenza dell’istituto segna la scelta di affermare la legalità, ha un’importanza simbolica. Rappresenta la vittoria dello Stato, resa ancora più significativa dall’intitolazione della strada alla memoria del giudice Antonino Scopelliti”. Una intitolazione che forse il magistrato avrebbe proprio rifiutato. *Responsabile Osservatorio Carcere Ucpi Potenza: lavori al carcere, chi è in arresto deve “emigrare” di Giovanni Rivelli Gazzetta del Mezzogiorno, 20 agosto 2019 Lavori in corso fino al 2021, chi è in custodia cautelare finisce in altre regioni. La gestione: promossa; la struttura: bocciata. Il “Ferragosto in carcere” promosso dal Partito Radicale con l’Osservatorio Carcere dell’Unione Camere Penali ha visto ieri una delegazione guidata dal presidente della Camera Penale di Basilicata, Sergio Lapenna, in visita per oltre due ore nella struttura carceraria. Un “mezzo carcere”, al momento perché i lavori in corso nella struttura hanno portato alla chiusura del reparto giudiziario, quello dove trovano posto le persone soggette a misura cautelare e non a pena definitiva, riducendo le presenze effettive a 91 unità tra uomini e donne (e limite di tollerabilità a 120) a fronte dei circa 157 posti precedenti (ma limite di tollerabilità a 208). “Pare che i lavori non finiranno prima del 2021 - spiega Lapenna - quindi la situazione dei non definitivi è che vengono trattenuti due giorni a Potenza e poi vengono mandati in un altro carcere, quindi con disagi per tutto il pianeta Giustizia, innanzitutto per i cittadini attinti dalle misure cautelari e le loro famiglie, e poi con tutto il pianeta giustizia a cominciare dal tema degli interrogatori e degli avvocati”. Ci vuole fortuna anche ad andare in carcere. E tutto sommato chi sta a Potenza non può lamentarsi (per le condizioni che vive) troppo a partire dal fatto che circa 60 detenuti su 91 lavorano. Ma i problemi non mancano. “Il personale - spiega Francesca Sassano, vice presidente delle Camere Penali e a capo dell’osservatorio sulle strutture detentive - apparentemente è in soprannumero, ma che in realtà è stato diminuito per i tagli lineari che sono stati fatti. Così abbiamo una situazione ottimale in relazione all’impegno della direttrice Petraccone, del comandante e di tutto il personale. Per quanto riguarda invece le criticità relative alla vetustà delle strutture è un capitolo lungo e sotto il profilo sanitario ci stiamo battendo sia per lo spazio ginecologico sia per la carenza del reparto di ortodonzia: manca l’attrezzatura per effettuare le panoramiche e questo crea problemi anche all’amministrazione con la necessità di continue traduzioni e i relativi costi”. E se ieri gli avvocati hanno visitato la struttura poi ci porteranno anche gli studenti con un “Progetto scuola”. “Siamo stati i primi dal 2014 - spiega la responsabile Sarah Zolla - a far entrare delle quinte di un liceo nella struttura carceraria e da qui si sono aperte le porte un po’ in tutt’Italia. Quest’anno vorremmo invece ulteriormente incrementare e crear degli incontri mensili dove non ci sia solo apprendere comprendere cosa è il carcere, ma uno scambio continuo tra i giovani prossimi alla maturità e i detenuti su come il mondo può accoglierli una volta fuori”. Firenze: Camera penale; sovraffollamento del 170% e situazione al limite dell’abbandono di Costanza Castiglioni ilsitodifirenze.it, 20 agosto 2019 Si parla di Sollicciano da tempi remoti, “il carcere nato sbagliato” “deve essere abbattuto” “vergognoso ed inumano” “pericolante con sovraffollamento fuori misura” ma siamo ancora qua, eh già. Oggi il direttivo della Camera penale di Firenze, ha reso pubblico un elenco di criticità del carcere di Sollicciano, sottolineando che a Ferragosto “erano presenti 757 detenuti oltre ad un bambino di 7 mesi, che rapportati alla capienza regolamentare porta ad una percentuale di sovraffollamento del 170%”, ma “tale percentuale, rapportata alla capienza regolamentare del reparto giudiziario maschile raggiunge il valore del 200%”. “Abbiamo parlato con molti detenuti - dicono i penalisti aprendo la lista dei problemi riscontrati - ed è emerso come, purtroppo, vi sia un incremento della somministrazione delle benzodiazepine anche in soggetti che mai ne avevano fatto uso”. Inoltre, “ogni parte della struttura è invasa dall’acqua che filtra anche dal terreno ed emerge con le piogge essendo il carcere costruito sopra una falda. In tutte le sezioni l’acqua fuoriesce dagli sbocchi delle docce ed esonda invadendo celle e corridoi”. Un educatore ogni 151 persone, accesso al lavoro che segue turnazioni di circa otto mesi, attività che non esistono e ogni bene personale che esce dalla concessione carceraria, costa in media il triplo del normale acquistabile in un supermercato. La Camera penale ha anche accertato che per la corrispondenza interna, i detenuti sono obbligati ad affrancare le lettere, ed è stata abolita la possibilità di colloqui da parte di terzi, ovvero persone diverse dai familiari o conviventi. La cosa sconvolgente, è stata anche la conferma della condizione di alcune celle, con il terzo letto a castello vietato per legge. Sono circa 50 i posti inagibili e le celle sono colme di rifiuti e coperte di guano di piccione. “Chiunque abbia parlato con noi ci ha ripetuto “io ho sbagliato ma non per questo devo patire” - conclude la Camera penale. La condizione delle persone detenute è riassumibile in una parola: abbandono”. Firenze: carcere e pazienti psichiatrici di Franco Scarpa* Ristretti Orizzonti, 20 agosto 2019 In riferimento all’articolo relativo alla visita effettuata in data 15-08-2019 al carcere di Firenze Sollicciano, voglio precisare che nell’articolazione per la tutela della Salute Mentale non vi sono al momento persone in attesa di Rems, e pertanto impropriamente trattenute in Carcere. Alla data odierna due persone sono in regime di detenzione con articolo 111, comma 5 del Dpr 230/00 (Minorazione psichica) fino al termine della pena detentiva. Per uno di essi è stato già predisposto un percorso che lo condurrà, se il Giudice accetta tale programma, alla fine della detenzione prevista per Novembre 2020, in una struttura intermedia in regime di libertà vigilata, e pertanto non in Rems. Il secondo di essi, alla scadenza dei due mesi di detenzione, dovrà far rientro al complesso delle Rems di Castiglione delle Stiviere in Lombardia, trasferito su decisione del competente Ufficio del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria per esecuzione della pena detentiva al carcere comminata in altro procedimento. Solo a buon conto del lavoro svolto da questo reparto, entrato in funzione nel gennaio del 2019, e dalla Soc che dirigo, nei mesi scorsi, per un altro paziente, destinatario di misura di sicurezza, è stata individuata una soluzione alternativa alla Rems con l’ingresso in una struttura intermedia per misure di sicurezza ed un altro è stato trasferito alla Rems di Volterra, non appena è stata data disponibilità di posto letto. *Direttore Soc Riabilitazione pazienti psichiatrici autori di reato Salute Mentale in Carcere Dsm Usl Centro Toscana Rimini: carcere sovraffollato e pochi agenti, in disuso l’area esterna per i bimbi di Andrea Polazzi newsrimini.it, 20 agosto 2019 In servizio nel carcere di Rimini ci sono un centinaio di agenti di Polizia Penitenziaria ma dovrebbero essere una quarantina in più. Inoltre molti hanno più di 50 anni. Dietro le sbarre si trovano invece attualmente 163 detenuti a fronte di una capienza di 121 (che si riduce a 116 togliendo i tre posti della sezione sei, chiusa, e i due delle celle di isolamento). A questo si aggiunge una sezione 1 in pessime condizioni. Questo lo spaccato sulla casa circondariale di Rimini che emerge nell’incontro con la stampa tenuto dalla delegazione (esponenti del Partito Radicale e avvocati della locale Camera Penale) che in mattinata ha visitato la struttura nell’ambito dell’iniziativa nazionale Ferragosto Tra le Sbarre. Nonostante il sovraffollamento, il carcere riminese vede il rispetto della sentenza Torreggiani che prevede che per ogni detenuto ci siano almeno 3 metri quadri calpestabili. La situazione, evidenzia però la delegazione, non è delle migliori. Anche perché ben 76 dei 163 detenuti sono in attesa di giudizio e 47 di loro sono in custodia cautelare non essendo ancora comparsi neppure in primo grado di giudizio. “Una diversa gestione della custodia cautelare - dice Ivan Innocenti - consentirebbe di evitare il sovraffollamento”. Un problema che accomuna tutte le carceri italiane. Tenendo anche conto del fatto che, statisticamente, la metà sarà poi prosciolta. Tornando alla popolazione carceraria riminese, 61 sono i tossicodipendenti, 11 presentano problemi psichiatrici. La metà sono stranieri. Una quarantina quelli che lavorano. Il carcere riminese non presenta particolari criticità dal punto di vista delle aggressioni (solo due quest’anno come nel 2018) e neppure in termini di suicidi (non se ne verificano da anni). Tre i tentati suicidi (erano sette nel 2018). In diminuzione gli atti di autolesionismo: erano 85 nel 2018, quest’anno sono scesi a 57. Merito anche di nuove procedure che permettono di dedicare più attenzione ai nuovi arrivi. Buona l’assistenza sanitaria. Positiva la presenza di molte realtà di volontariato che operano nella struttura mentre, purtroppo, c’è da segnalare che l’area attrezzata con giochi e gazebo realizzata per i bimbi dei carcerati accanto alla sala colloqui e inaugurata nel 2016 è ormai abbandonata. Colpa della mancanza di organico e di fondi. Verona: i parlamentari in visita al carcere di Montorio “condizioni accettabili” Corriere di Verona, 20 agosto 2019 Alla classica “visita di Ferragosto”, usanza iniziata dai Radicali per verificare le condizioni delle carceri italiane, ci hanno pensato, a Verona, due esponenti di Forza Italia: il deputato Davide Bendinelli e il senatore Massimo Ferro. Ieri mattina, si sono recati nella casa circondariale di Montorio, in passato finita più volte sotto i riflettori per questioni legate, soprattutto al sovraffollamento. Bendinelli e Ferro, oltre alle celle, hanno visitato i laboratori del carcere. I due parlamentari hanno definito quelle in cui versano i detenuti “condizioni accettabili”. “Il carcere - hanno spiegato all’uscita - risulta ospitare circa 500 detenuti contro i 330 che dovrebbe contenere. Rimane il problema ma non è più come qualche anno fa, quando il numero superava i mille”. I parlamentare forzisti hanno anche sottolineato che “il rapporto personale - detenuti è di uno a uno, dunque ottimale, e a quanti scontano la pena vengono proposte attività per il reinserimento sociale, fondamentali per aiutarli, una volta liberi. Certo: questo rimane un carcere, ma in Italia ci sono strutture con più criticità”. La visita segue la pubblicazione della relazione da parte del Garante per i detenuti, Margherita Forestan, che aveva sottolineato la mancanza di spazi soprattutto nelle celle. Padova: quel legame tra il carcere Due Palazzi e le sofferenze del Venezuela gnewsonline.it, 20 agosto 2019 Qualche giorno fa abbiamo pubblicato l’articolo dal titolo “Carcere di Padova, il 23 agosto concerto-evento per il Venezuela”. Oggi riceviamo, e pubblichiamo volentieri, un testo della cooperativa sociale Giotto (promotrice dell’iniziativa) in cui si spiega la nascita del rapporto con l’associazione Trabajo y Persona di Caracas e il significato delle attività, anche all’interno del carcere di Padova, in favore del Venezuela. ----- Che tra Venezuela e Italia ci sia un legame è presto detto, è storia nota ai più. Ma che esista un legame che passa anche attraverso il carcere, quello di Padova, non è così immediato. È una storia recente, ma di quelle che segnano profondamente. È la storia di un incontro tra la cooperativa sociale Giotto di Padova e l’associazione Trabajo y Persona di Caracas, ma ancor di più è l’incontro tra persone impegnate con la vita e in maniera diversa con le difficoltà della vita. Difficoltà che oggi per chi vive in Venezuela sono a livello di sopravvivenza, si muore per assenza di medicinali di base e generi di prima necessità, si fa fatica a portare avanti un lavoro. La vicinanza che i detenuti sentono nei loro confronti è reale. Racconta Nicola Boscoletto, presidente della cooperativa sociale Giotto: “Spesso alcuni di loro dicono che in fin dei conti si trovano in carcere, luogo di sofferenza e difficoltà, perché qualcosa di non buono e di brutto nella loro vita hanno combinato, mentre gli amici venezuelani si trovano a vivere una situazione peggiore senza aver fatto nulla per meritarla”. I primi incontri risalgono agli inizi del 2010 e nell’aprile del 2014 la prima visita in carcere di Alejandro Marius, presidente di Trabajo y Persona, preludio di un rapporto che nel corso degli anni è andato via via crescendo. Nell’agosto del 2015, sempre in occasione del Meeting per l’Amicizia tra i Popoli di Rimini, Alejandro torna in carcere con due amici, il venezuelano Germán ed il messicano Oliverio. Due persone entrambe vittime della spietata criminalità sudamericana. Il primo vivo per miracolo dopo un sequestro di 11 mesi, al secondo invece i sequestratori hanno ucciso il padre. Un racconto incontro con un centinaio di detenuti che ancora è stampato nella mente e nel cuore di chi quel giorno era presente. Uno scambio di esperienze umane e lavorative che da allora non si è mai arrestato, grazie anche alla proficua collaborazione con l’Amministrazione penitenziaria che ha permesso in questi anni tantissime iniziative. Anche quest’anno, questa opportunità si è ripresentata in maniera del tutto inaspettata. “Quando ci hanno proposto di venire in carcere a presentare con un concerto il loro disco - spiega Nicola Boscoletto - siamo rimasti colpiti e contenti: un segno di una amicizia che piano piano, senza fare tanto rumore, costruisce legami profondi capaci di aiutarci reciprocamente”. Ma ancor di più ha colpito la motivazione di Alejandro: “Il desiderio di libertà e il cambiamento dei carcerati che fanno il percorso lavorativo è lo stesso che voglio fare io ogni giorno ed è il tentativo che facciamo con Trabajo y Persona in Venezuela. Così una persona può diventare protagonista della sua vita e del bene comune, anche in carcere”. È un’opera musicalmente importante e di grande spessore, perché nasce da una storia che ha coinvolto tante persone con un grande desiderio nel cuore. A partire da Alejandro, a cui premeva offrire opportunità di educazione al lavoro, che andassero al di là della formazione, perché di fronte alla drammatica situazione della gente venezuelana questa non basta più. C’era l’esigenza di qualcosa di più profondo, che accendesse il desiderio, appunto. Racconta Alejandro: “C’era bisogno della bellezza, non di una bellezza astratta, ma che avesse un legame diretto col lavoro. Di qui l’idea di un CD e un libro di canti che raccontassero di un popolo che ama lavorare cantando in allegria. Un’idea nata non per caso, ma da un incontro, quello tra me e Francisco Sanchez, un giovane chitarrista jazz che voleva emigrare negli Stati Uniti perché non riusciva più a mantenere la famiglia con la sua musica. Approfondendo l’ipotesi con Francisco abbiamo fatto una grande scoperta: le musiche sul lavoro in Venezuela sono tante e bellissime”. Francisco si è subito entusiasmato e ha pensato che recuperare i brani della tradizione sul lavoro meritasse di coinvolgere i più grandi musicisti del paese, a cominciare da Aquiles Baez, il più famoso chitarrista venezuelano. Incredibile, ma la proposta ha incontrato l’interesse di trenta musicisti che appartengono a storie e culture diverse ed è significativo che in un paese così ferito e lacerato abbiano accettato di lavorare assieme sul tema della bellezza e del lavoro. E se all’inizio il coinvolgimento di molti di loro, in primis Aquiles Baez, poteva limitarsi a “fare musica” e basta, l’entusiasmo di Francisco ha cambiato il loro approccio, tanto da voler approfondire i contenuti e spiegare a tutti le ragioni delle loro scelte artistiche e culturali. “Venezuela - Il popolo il canto il lavoro” è il titolo del disco che è stato realizzato in Venezuela con tanta fatica, a causa dei frequenti black-out elettrici, prodotto e pubblicato in un cofanetto comprensivo di un libro di testi, in collaborazione con gli amici italiani di Itaca Edizioni (questo il link per l’acquisto online). La sera del 22 agosto Sanchez, Baez e compagni suoneranno per la prima mondiale del concerto nel contesto internazionale del Meeting di Rimini (giunto quest’anno alla quarantesima edizione intitolata “Nacque il tuo nome da ciò che fissavi”) e presenteranno l’anima irriducibile del loro popolo: “Sì, perché - commenta Alejandro - la durissima realtà del nostro paese ci sfida continuamente a riconoscere e affermare il senso della vita. Noi siamo più fortunati di voi italiani”. La riprova il giorno dopo nell’incontro concerto con i detenuti del carcere di Padova. Per saperne di più questo è il video di presentazione https://www.youtube.com/watch?v=2-iElqk-3is Cooperativa sociale Giotto Spoleto (Pg): “Usciamo dalle gabbie”, cuccioli e randagi riabilitati dai detenuti di Marco Belli gnewsonline.it, 20 agosto 2019 Una ottantina di detenuti della Casa di reclusione di Spoleto, adeguatamente formati, si occuperanno - in un’area esterna all’istituto - del recupero di cuccioli e cani randagi per prepararli alla vita in famiglia a seguito di adozione. Si chiama “Usciamo dalle gabbie” ed è il progetto realizzato in sinergia tra Comune di Spoleto, Fondazione Cave Canem e istituto penitenziario della città. L’iniziativa è stata promossa e curata nella fase organizzativa dal Comandante del carcere spoletino Marco Piersigilli e dal responsabile dell’area trattamentale Pietro Carraresi, che ne seguiranno il coordinamento anche nella fase attuativa. Tre classi di detenuti, selezionati da un’apposita commissione, frequenteranno il corso teorico-pratico per operatore di canile della durata di un anno, che sarà tenuto da docenti esperti della Fondazione Cave Canem. Un percorso formativo incentrato, da una parte, sul corretto accudimento e recupero di animali con problemi comportamentali e, dall’altra, su una serie di aspetti giuridici relativi soprattutto alla gestione di soggetti sottoposti a sequestro giudiziale. Un progetto di lungo periodo, pensato per coinvolgere stabilmente i detenuti in un percorso formativo e lavorativo che permetterà loro di acquisire nuove conoscenze, assistere ed educare cuccioli e cani randagi e infine ottenere la qualifica di operatore di canile. Durante le lezioni pratiche detenuti e docenti lavoreranno inizialmente con cani già inseriti in famiglia e accompagnati dai proprietari; una volta che avranno acquisito competenze, conoscenze e capacità, potranno supportare i professionisti coinvolti nelle attività di assistenza di cani e gatti senza famiglia. I detenuti saranno impegnati anche nella realizzazione dell’area esterna all’istituto penitenziario destinata ad ospitare alcuni cani e cuccioli del canile-rifugio di Spoleto che necessitano di particolare assistenza. I lavori per la realizzazione dell’area inizieranno a settembre, contemporaneamente alle manutenzioni straordinarie che effettueranno anche presso il canile comunale. “C’è grande entusiasmo intorno a questo progetto”, ha dichiarato il Direttore della Casa di reclusione di Spoleto, Giuseppe Mazzini, “perché consente ai detenuti di avvalersi di un’opportunità straordinaria come quella di acquisire una professionalità in carcere spendibile una volta scontata la pena”. Porto Azzurro (Li): le borse artigianali fatte dai detenuti di Marco Belli gnewsonline.it, 20 agosto 2019 Dalla collaborazione fra la Casa di reclusione di Porto Azzurro e l’azienda Dampaì nasce un percorso di produzione artigianale ad alto tasso di sperimentazione sociale: le borse fatte a mano nel laboratorio realizzato all’interno dell’istituto penitenziario. Un progetto creativo che si fa impresa sociale, perché mette al centro le relazioni tra detenuti lavoratori e un brand di moda e design nato all’isola d’Elba nel 2011. Dallo scorso anno Dampaì ha infatti trasferito il suo magazzino all’interno della Casa di reclusione “Pasquale De Santis”. Da questa esperienza è maturata l’idea di aprire un vero e proprio laboratorio di produzione artigianale, con due detenuti che sono stati selezionati sia per gestire il magazzino sia per realizzare i nuovi accessori moda. Il percorso si è sviluppato velocemente, prima attraverso la formazione professionale dei due detenuti e con particolare attenzione agli aspetti gestionali e umani innescati dal processo produttivo che deve confrontarsi con le regole di un carcere. Successivamente, il frutto di questo delicato lavoro è stato la messa in commercio presso i Dampaì Stores dell’isola d’Elba e presso alcuni rivenditori in Italia di tre modelli di borse interamente confezionate all’interno del carcere: la Two e la Three, borse a mano e tracolla in gomma espansa, e la borsa in rete Lilly, trasformabile in zaino. Inoltre, all’interno del laboratorio del carcere, si sta lavorando a una borsa in pelle completamente realizzata a mano che il cliente potrà comporre a suo piacimento, con l’aiuto di simulazioni computerizzate, personalizzando materiali e finiture. Una volta scelta la propria combinazione, il cliente invierà l’ordine e la borsa sarà realizzata appositamente per lui nel laboratorio interno al carcere. Cinque giorni per realizzare la borsa, sette giorni per recapitarla all’acquirente. Questa filiera di produzione permetterà in qualche modo di realizzare uno scambio tra cliente e detenuto, con l’obiettivo di ridurre l’isolamento del detenuto attraverso l’abbattimento di barriere, anche psicologiche, tra il dentro e il fuori. Zhang è uno dei due detenuti lavoranti nel laboratorio. Ha già scontato gran parte della sua pena e quindi, a seguito di un contratto di lavoro, può uscire dal carcere. La direzione del carcere l’ha scelto per questo lavoro perché sa cucire molto bene ma si occupa anche della gestione del magazzino e e di rifornire gli store presenti sull’Isola. Non avendo la patente, come quasi tutti i detenuti che non hanno avuto la possibilità di rinnovare le loro licenze di guida scadute nel corso degli anni, viene solitamente accompagnato da qualcuno dell’azienda quando distribuisce le borse nei negozi, oppure inforca la bicicletta elettrica che gli è stata comprata e che utilizza per rifornire i vari punti vendita quando nessuno può accompagnarlo in auto. “È uscito due volte in bici e due volte ha preso la febbre”, racconta Simona Giovannetti, titolare della Dampaì. “Ma come, Zhang… grande e grosso come sei, prendi la febbre? gli ha chiesto. E lui: Non ero più abituato al vento”. Le borse sono in vendita all’interno della sezione “Vetrina dei prodotti dal carcere” sul sito giustizia.it. Psichiatria. Non si può morire così di Giovanni Rossi* societadellaragione.it, 20 agosto 2019 Morire a vent’anni in un incendio senza poter scappare dal luogo che dovrebbe curarti non è giusto. Questo dramma ricorda quello di Antonia Bernardini, morta bruciata nel letto di contenzione del manicomio giudiziario di Pozzuoli. Antonia con un fiammifero voleva attirare l’attenzione perché nessuno le dava un bicchiere d’acqua. Era il 31 dicembre del 1974.mIl 1974 lo si ricorda per il referendum sul divorzio e per la strage del treno Italicus. La legge 180 sarebbe stata approvata quattro anni dopo. Se terribile fu quella morte, come possiamo definire l’analoga sorte che ha colpito Elena, quarantacinque anni dopo, nell’ospedale di Bergamo, intitolato a papa Giovanni XXIII? Il Papa che disse: “Tornando a casa, troverete i bambini; date una carezza ai vostri bambini e dite: Questa è la carezza del Papa”. Una carezza per Elena? Il Garante nazionale delle persone detenute o private della libertà personale si è chiesto se “forse è proprio per il fatto di essere contenuta al letto che non si è riusciti a mettere in salvo la giovane”. Nel 1974 l’opinione pubblica ed i mezzi di informazione dettero grande risalto a quella morte disumana. Il manicomio di Pozzuoli venne definito lager e dopo poco fu chiuso. A nessuno venne in mente di considerare la pratica della contenzione come atto sanitario, esercitato al fine di tutelare l’incolumità della paziente. Purtroppo oggi, dopo tanti anni, in luoghi che si definiscono ospedale o residenza sanitaria la pratica della contenzione meccanica, del legare, è routine quotidiana. E purtroppo in tanti resiste la convinzione che non ci sia altro da fare. Così può accadere che i giornali diano la notizia ma non si pongano e pongano tutti noi di fronte alla evidenza che, come ricorda il Garante, Elena non ha potuto mettersi in salvo perché legata. Legare è un termine che non si usa. Troppo esplicito. Elena è stata “bloccata”. Bloccare, fissare, contenere sono termini equivalenti, ma che vorrebbero connotare tecnicamente quello che altrimenti, se fossimo espliciti ci obbligherebbe a chiederci: “ ma questo non è un sequestro di persona?”. Un infermiere, che vuole rimanere anonimo, dichiara: “Secondo protocollo, per evitare che potesse farsi del male, era stata applicata e prescritta la contenzione, dopo 5 minuti saremmo ritornati di nuovo a controllarla”. In un altro articolo si ricorda che “la norma vuole che - nel caso i pazienti della psichiatria vengano sedati e costretti al letto - la vigilanza sulle loro condizioni venga intensificata in modo capillare. Ogni quindici minuti devono essere guardati direttamente dal personale”. Di seguito viene data la parola alla segretaria della UIL FP che lamenta il blocco del turn over, la mancanza di medici e l’impossibilità di assunzione di personale sanitario. I tempi sono cambiati. Una volta si scriveva che la legge 180 era valida, ma inapplicata in tante parti d’Italia, ora si “informa” l’opinione pubblica che esiste una norma sulla contenzione meccanica. E che, se qualcosa non ha funzionato va ricercato in circostanze particolari e non nella “norma” stessa. E si badi bene che per norma non si intende più una legge dello Stato ma le linee guida che l’Ospedale ha adottato per applicare le fasce di contenzione. Le circostanze particolari possono individuarsi nel personale ridotto, oppure nella regola del controllo ogni 15 minuti, che va rivista, oppure nei criteri troppo elastici di perquisizione per cui potrebbe essere accaduto che Elena abbia nascosto nelle parti intime un accendino. Nessuno che sottolinei quello che a me pare ovvio e cioè che un operatore della salute mentale ha il dovere di stare con una persona in crisi per tutto il tempo che serve, e che se non basta un operatore, altri dello stesso servizio devono poter intervenire con lui o dargli il cambio se i tempi dell’intervento si protraggono. Ve lo immaginate un chirurgo che ogni tanto si assenta dalla sala operatoria mentre è in corso l’intervento? Nessuno che ricordi che per chi è in crisi è dannoso essere trattato come non/persona, come oggetto che può essere impacchettato, mentre ha proprio bisogno di ritrovarsi, magari anche preso per i capelli, nel suo essere persona. Una persona è tale se è libera, e non costretta. Perché non esiste persona se non vi è libero arbitrio. La libertà è terapeutica perché consente alla persona di individuarsi come tale e, dunque, come capace di relazione con altre persone. Soggetto degno di rispetto, titolare di diritti ma anche di responsabilità, prima di tutto verso sé stesso. Antonia voleva un bicchier d’acqua e voleva attenzione, per questo accese il fiammifero. Le persone hanno contemporaneamente necessità di vedere soddisfatti i loro bisogni materiali (l’acqua) e di relazione (l’attenzione), ogni operatore della salute lo sa. Questo è il principio di ogni presa in carico. Non lavora bene quando è costretto a costringere, per questo si appella ad uno stato di necessità, si sente a sua volta vittima. Tuttavia nessun professionista può essere giustificato se, pur sapendo che potrebbe operare diversamente, continua a ripetere lo stesso errore. Ci sono dipartimenti di salute mentale e servizi ospedalieri di psichiatria che lavorano da anni senza utilizzare la contenzione meccanica, senza legare. Ci sono e sono disponibili a socializzare le loro esperienze. Che dimostrano come una adeguata organizzazione e formazione degli operatori unitamente ad un profondo rispetto dei diritti umani delle persone in cura siano i requisiti che consentono loro di essere maggiormente efficaci senza ricorrere ai mezzi di contenzione. Persino quasi tutte le Residenze per l’esecuzione della misura di sicurezza (Rems) che svolgono la funzione che una volta era dei manicomi giudiziari non usano le fasce di contenzione. La Regione Lombardia ha annunciato una commissione di indagine. Se io fossi uno degli esperti incaricati, per prima cosa andrei a verificare se esistono dei protocolli-linee guida-procedure che diano indicazione su come non legare le persone. Andrei a verificare se l’organizzazione e le attività formative siano orientate a questo obiettivo. Se vi siano adeguate attività proattive nel territorio, al domicilio delle persone o se si privilegi una psichiatria di attesa, arroccata nella torre ospedaliera. Sempre più spesso vengo interpellato da persone con problemi di salute mentale, da familiari e da avvocati che vorrebbero ricevere un diverso trattamento per sé, o per il loro congiunto o assistito. Credo che una prima risposta nell’immediato potrebbe essere quella di rendere effettivo il diritto di scelta del luogo di cura che è una delle bandiere del servizio sanitario lombardo. Un cittadino lombardo dovrebbe essere messo nella condizione di scegliere se lo ritiene di farsi ricoverare nei servizi che non utilizzano la contenzione meccanica. A ciò dovrebbe seguire un piano straordinario regionale orientato a eliminare la contenzione meccanica in tutti i servizi nell’arco di un triennio. Anche chiudendo servizi palesemente inadeguati. Forse a Elena sarebbe bastata una carezza, ma oggi non credo sia più sufficiente. Troppi ubriachi e vittime in strada. L’Italia fallisce l’obiettivo europeo di Flavia Amabile La Stampa, 20 agosto 2019 Gli ultimi dati indicano un trend superiore ai 3000 incidenti mortali all’anno, entro il 2020 si doveva scendere sotto i 2000. Era ubriaco l’uomo che due sere fa centrato un cassonetto con il suo Suv, proiettandolo contro una donna che stava passeggiando, ferita in modo grave. Era ubriaco l’uomo che ha investito e ucciso tre giorni fa un padre che stava andando al pub sotto casa a prendere dei panini per il figlio e la moglie. Distrazione, mancato rispetto della precedenza o del semaforo, velocità troppo elevata si confermano, anche nel 2018, le prime tre cause di incidente (complessivamente il 40,8% delle circostanze), secondo gli ultimi dati diffusi dal rapporto Aci-Istat che lancia l’allarme: l’obiettivo Ue 2020 sarà sicuramente mancato dall’Italia, dovevamo arrivare a circa 2000 vittime e invece siamo ben oltre i 3mila. All’interno della categoria “distrazione” si confermano molto elevati gli incidenti creati da persone in stato di ebbrezza o sotto l’effetto di stupefacenti. Dai dati forniti dal Comando generale dell’Arma e dalla polizia stradale (che rilevano circa un terzo degli incidenti stradali con lesioni) risulta che su un totale di 58.658 incidenti, sono stati 5.097 quelli in cui almeno uno dei conducenti dei veicoli coinvolti era in stato di ebbrezza e 1.882 quelli sotto l’effetto di stupefacenti. L’8,7% e il 3,2% degli incidenti rilevati da carabinieri e Polstrada è correlato dunque ad alcol e droga, in aumento rispetto al 2017 (7,8% e 2,9%). Tra i conducenti sottoposti a controllo con etilometro nel 2018 il 5,1% è risultato positivo. Eppure sono diminuite le sanzioni per guida in stato di ebbrezza alcolica e aumentate quelle per guida sotto l’influenza di sostanze stupefacenti. Polizia stradale, carabinieri e polizie locali dei Comuni capoluogo hanno contestato, nel 2018, rispettivamente 39.208 (-5,5%) e 5.404 (+2,2%) violazioni. Dai dati della Polstrada emerge poi anche quest’anno che a essere multati per guida in stato di ebbrezza sono soprattutto i giovani conducenti di autovetture (tra 25 e 32 anni) nella fascia oraria notturna, fascia durante la quale è stato elevato circa l’80% delle sanzioni. Per Enrico Pagliari, coordinatore centrale dell’Area Professionale Tecnica dell’Aci, si tratta di un’emergenza da affrontare combattendo su più fronti. “Bisogna rafforzare i controlli sulla strada ma bisogna anche agire sull’enforcement preventivo. Si dovrebbe fare in modo che il medico di base o gli istituti sanitari possano inviare una segnalazione alle forze dell’ordine su chi fa uso di alcol e droghe in modo da impedire che queste persone possano guidare. In aggiunta si può intervenire con l’uso delle tecnologie. Ci sono molte possibilità ormai: si può avere il controllo dello stato psico-fisico di chi si mette al volante attraverso l’inspirazione o l’osservazione dell’occhio, con telecamere montate nella vettura, in modo da capire se ci sono dei segnali che permettano di stabilire se la persona è sotto l’effetto di droghe o di alcol”. Ulteriore possibilità: “Si possono montare dei freni di emergenza che intervengono quando davanti all’auto si presenta un ostacolo improvviso di cui il conducente non si è reso conto. È un lavoro da fare con i costruttori per i veicoli nuovi, ma bisogna trovare il modo di intervenire anche su quelli usati. Da parte nostra stiamo ragionando su una campagna da lanciare nei prossimi mesi”. Razzisti, antirazzisti o non razzisti? Quando la propaganda crea esasperazione di Elisabetta Fagiuoli Il Dubbio, 20 agosto 2019 “Nessuno mi farà diventare una non-persona” è l’invocazione disperata dell’avvocata milanese che qualche settimana fa è stata protagonista, suo malgrado, di un vergognoso episodio di razzismo e intolleranza nei pressi del Parco Forlanini alle 11 di una soleggiata domenica mattina di fine luglio. La donna, mentre passeggia con i suoi cani, si accorge di un uomo dalla pelle nera disteso a terra, immobile a faccia in giù. Istintivamente corre per raggiungerlo e, nel tentativo di rianimarlo, chiama a sostegno le persone intorno a lei. Nessuno si ferma, nessuno chiama l’ambulanza, nessuno interviene per prestare aiuto. Ma c’è di più. Alla bieca indifferenza si unisce, ben presto, un violento linciaggio verbale ai danni della donna intriso di insulti, volgarità e intimidazioni. Un coro di invettive unanime che può essere così riassunto: “i negri e gli immigrati non vanno soccorsi, vanno lasciati morire nella speranza che dio ascolti le preghiere di tutti e affondi i maledetti barconi”. Fortunatamente il giovane era soltanto stordito e pesantemente ubriaco ma il punto è un altro. Dov’è finita l’umanità delle persone? Come si è arrivati a tanto? Come si fa a rimanere in silenzio e non denunciare simili comportamenti? Sono le domande - sacrosante dell’avvocata in lacrime sconvolta da tanta aggressività e disumana indifferenza riportate dall’inviato del Corriere della Sera che ne ha raccolto la testimonianza. Si origina, a questo punto, la necessità di riflessioni più ampie. Cronaca di ordinario razzismo? Episodio isolato? Discriminazione postmoderna? Esasperazione popolare? Progressiva ed inarrestabile esacerbazione degli animi? In senso stretto, il razzismo, inteso come teoria della divisione biologica dell’umanità in razze superiori e inferiori, è un fenomeno relativamente recente. È molto datata, invece, la tendenza a discriminare i “diversi”. I Greci, ad esempio, usavano definire barbari i popoli che non parlavano la loro lingua. I cattolici europei, in epoca medievale, perseguitavano e discriminavano gli ebrei, ritenuti responsabili dell’uccisione di Gesù. Gli antichi Romani discriminavano solo coloro che rappresentavano una minaccia o non volevano sottomettersi all’ordine costituito. Lo stesso privilegio della cittadinanza non veniva distribuito secondo criteri razziali bensì secondo la fedeltà a Roma. Solo nel XIX secolo si comincia a interpretare la storia come una competizione tra razze forti e razze deboli nel folle tentativo di spiegare la decadenza delle grandi civiltà con l’incrocio delle razze che impoveriva la purezza del sangue. Esistono più razze umane? Assolutamente no e l’idea di una distinzione razziale tra essere umani è destituita di qualsiasi validità scientifica. Recenti studi di genetica hanno dimostrato che le differenze tra le razze sono minime, inferiori a quelle tra gli individui di una stessa razza, e soprattutto che l’intelligenza è uguale in tutte le razze. Eppure nell’ultimo anno gli episodi di razzismo, i crimini di odio, le azioni di ostilità verso gli stranieri e le aggressioni a sfondo xenofobo sembrano essere aumentati in maniera preoccupante nel nostro Paese con una particolare concentrazione nell’area lombarda, Milano e Brianza in testa. Dall’analisi di una delicata ricerca volta a tracciare la “mappa dell’intolleranza in Italia” eseguita dall’associazione no profit Vox con il supporto di alcune prestigiose università italiane è emerso un dato sconfortante. Tra tutte le discriminazioni, quelle per motivi etnico- razziali hanno la percentuale più alta e la regione Lombardia ed il suo capoluogo risultano quasi sempre nelle parti alte della classifica per livello di intolleranza verso immigrati, donne, omosessuali, disabili ed ebrei consegnando uno scenario davvero poco incoraggiante. Eppure lo scorso mese di marzo Milano è stata il palcoscenico di “People - prima le persone”, la manifestazione nazionale antirazzista e contro le discriminazioni fortemente voluta dal Sindaco Beppe Sala con l’intento di dimostrare che se c’è una città in grado di trarre beneficio da una visione internazionale e multietnica della società, quella è Milano con le numerose imprese avviate e gestite da stranieri e i tanti esempi di integrazione ben riuscita. Presenti oltre 200 mila persone tra gente comune, cantanti, attori, sportivi, politici, rappresentanti di enti, associazioni e Comuni, uniti nella necessità di richiamare le radici dei nostri valori costituzionali fondati sull’affermazione dei diritti umani, sociali e civili, pervasi di antirazzismo e antifascismo e opposti alla disuguaglianza e allo sfruttamento di genere. Difficile pertanto stabilire se i lombardi siano razzisti o antirazzisti. È più probabile che la maggioranza appartenga alla meno diffusa categoria dei non-razzisti. Persone spaventate, a volte esasperate, dal mutare dei quartieri, dalle lingue che non si capiscono, da odori e sapori che non si riconoscono e dall’ingenua ma incrollabile esigenza che lo straniero si uniformi alle nostre usanze creando, possibilmente, il minimo ingombro. La verità è che la diversità etnica e culturale non è un difetto ma un valore aggiunto che tutti dovrebbero imparare a riconoscere e preservare attribuendo il pensiero di chi considera i “diversi” come portatori di disagio e regressione culturale alla deformazione dell’occhio umano di pochi. Si narra che lo scienziato Albert Einstein, giunto in America dopo la sua fuga dalla Germania nazista, alla domanda inclusa nel modulo d’immigrazione sulla “razza di appartenenza”, rispose: umana. Forse basterebbe prendere esempio e lasciarsi ispirare dalla semplicità del suo genio. Quali politiche per l’immigrazione? di Gustavo Micheletti L’Opinione, 20 agosto 2019 L’ondata migratoria che si sta abbattendo da qualche anno sull’Europa provoca, ormai da troppo tempo, un numero di vittime che non può lasciare nessuno indifferente. Sebbene queste siano diminuite negli ultimi anni (secondo dati Unhcr 4578 nel 2016, 2873 nel 2017, 1311 nel 2018 e in ulteriore diminuzione nel 2019) sono sempre troppe, specialmente considerando che è nel contempo cresciuto anche il numero di coloro che sono detenuti nelle carceri libiche, dove sono costretti a subire ogni sorta di torture e sevizie. La stessa Unione europea e il Trattato di Schengen sono oggi messi in discussione anche per i disaccordi che sono sorti sul tipo di politica che sarebbe più opportuno adottare. Le due opposte strategie che sembrano fronteggiarsi possono essere grosso modo riassunte come segue: da un lato ci sono i paesi del sud Europa, come la Grecia o l’Italia, che vorrebbero organizzare e gestire l’accoglienza di migranti sul territorio europeo tramite un’equa ripartizione di quote tra i paesi membri; dall’altro ci sono i paesi del nord e dell’est Europa che si stanno orientando sempre più esplicitamente per porre degli argini nazionali all’ondata migratoria, considerando la ripartizione di quelli che continueranno comunque ad arrivare una questione subordinata. La prima strategia (quella della quasi totalità dei paesi nordeuropei ed esteuropei) sembra a molti in genere più realistica, ma ad altri anche “spietata”; la seconda, forse meno realistica (almeno per i primi), ma nel complesso più “umana”. Il dubbio che può sorgere rispetto a quest’ultima posizione rischia però di capovolgere quest’impressione. Il dubbio è il seguente: se qualche forza politica al governo è davvero convinta che un’accoglienza illimitata possa costituire la soluzione del problema, o almeno quella che provoca il male minore, e quindi che non debba essere costruito alcun tipo di muro, o argine, o filtro utile per difendere i confini nazionali o europei, perché non provvede a far arrivare i migranti senza foraggiare le organizzazioni criminali che gestiscono attualmente il loro traffico facendone strage? Ciò sarebbe infatti possibile in una maniera molto semplice. La tariffa media che bisogna pagare alle organizzazioni criminali per tentare di arrivare in Europa si aggira intorno ai 5000 euro. Si potrebbe allora stabilire che chiunque voglia venire - per esempio, in Italia - possa recarsi nel consolato italiano più vicino - nel proprio paese se ve n’è uno, o in un paese limitrofo - e fare la richiesta di visto, che potrebbe, per esempio, avere un costo di 3500 euro. Una volta giunto in Italia con regolare volo di linea i soldi che ha versato per il visto gli sarebbero restituiti in tre rate mensili. La spesa complessiva risulterebbe senz’altro assai minore, la sua parte più cospicua verrebbe restituita al migrante e, soprattutto, questi potrebbe viaggiare in tutta sicurezza. Dopo il terzo mese di soggiorno si potrebbe fare il punto della situazione: se ha trovato un lavoro, anche a tempo determinato, e se naturalmente nel frattempo non ha commesso reati, il permesso di soggiorno gli verrebbe rinnovato. Altrimenti, con i 500 euro trattenuti dallo Stato verrebbe organizzato il suo rimpatrio. Questo tipo di provvedimento avrebbe alcuni indubbi vantaggi: in primo luogo eviterebbe la morte di molte persone in mare; poi sottrarrebbe enormi risorse a tutte le organizzazioni criminali che gestiscono attualmente il traffico dei migranti; in terzo luogo consentirebbe l’identificazione di chi arriva e agevolerebbe sia il suo eventuale rimpatrio che l’eventuale trasferimento in un altro paese europeo; inoltre, avrebbe costi minori per lo Stato e determinerebbe un incremento della domanda interna del paese che dovesse adottarlo. Ma per quale motivo nessun governo in linea di massima favorevole ad accogliere un numero imprecisato di migranti ha sino ad oggi avanzato una proposta del genere? Perché nessuno dei principali partiti della sinistra italiana od europea ha mai proposto una soluzione di questo tipo, pur sostenendo incessantemente i valori della solidarietà e dell’accoglienza? Probabilmente perché anche quei partiti sanno perfettamente che in questo modo si correrebbe il rischio di veder arrivare un numero di persone esorbitante, delle quali né un singolo paese né l’Europa nel suo insieme riuscirebbero a farsi carico conservando i principi fondamentali della propria civiltà e dello Stato di diritto. Per evitare questa scelta e non dare nel contempo l’impressione di attuare una politica inumana verso i migranti si è così continuato a far gestire il loro traffico a organizzazioni criminali internazionali. Il lavoro sporco, l’opera dissuasiva, è stata affidata a loro, che hanno in effetti provveduto, almeno in una certa misura, a scoraggiare (con stragi, stupri di massa e varie forme di tortura) un po’ di persone dal mettersi in viaggio in cambio della gestione del traffico di tutti gli altri. Viceversa, se qualche gruppo o leader politico fosse davvero convinto che sia ingiusto erigere muri o frapporre barriere, come anche il Pontefice sembra spesso sostenere, la soluzione sarebbe stata semplice e sarebbe tutt’oggi facilmente praticabile. Il non averla mai presa in considerazione, l’essersi comunque affidati a organizzazioni criminali per la gestione del fenomeno, rivela perciò una certa ipocrisia e una notevole dose di cinismo. Probabilmente, però, una volta che questa fosse adottata, anche per soli tre mesi, chiunque potrebbe constatare che le barriere, i muri (o come li si voglia chiamare) sono purtroppo necessari, a meno che non si voglia far recitare al mare il ruolo di un muro invisibile, ma non per questo meno spietato. Allora la discussione potrebbe finalmente spostarsi su questioni più concrete e meno divisive: quale sia il modo migliore per scoraggiare le partenze senza produrre stragi e senza ledere diritti fondamentali di ogni essere umano, quali i modi più efficaci per organizzare corridoi umanitari dalle zone di guerra, quali gli impegni che l’Europa dovrebbe assumere per rendere la difesa delle proprie frontiere compatibile con il saper fronteggiare in maniera razionale e “umana” la tragedia epocale provocata dalla crescita demografica. Migranti. Scontro sulla Open Arms. E dalla Libia è allarme: “Annegate 100 persone” di Francesca Spasiano Il Dubbio, 20 agosto 2019 “Nel Mediterraneo c’è bisogno di salvezza, c’è bisogno di noi”. Sui social parte l’appello di Mediterranea Saving Humans dopo la notizia, non ancora confermata, del naufragio di oltre 100 persone al largo della Libia, giunta ieri sera da Alarm Phone. Il servizio di soccorso telefonico nel Mediterraneo riporta le drammatiche parole di un pescatore: “L’uomo ci ha detto di aver salvato tre persone e di aver visto molti cadaveri. I sopravvissuti parlano di oltre 100 persone a bordo. In questa fase non possiamo verificare queste informazioni ma temiamo che possa essersi verificata un’altra tragedia di massa”. E la notizia di una nuova strage arriva nei giorni della Open Arms, la nave ong che è al largo di Lampedusa da più di due settimane, con a bordo 107 migranti. Con una soluzione definita da più parti “incomprensibile”, ma apparentemente definitiva, sembra avviarsi a una conclusione il braccio di ferro tra l’Italia e l’Europa. Oscar Camps, portavoce e fondatore della Ong spagnola, ha dovuto accettare l’offerta di far sbarcare i migranti nel porto di Minorca, nelle Baleari, dopo aver rifiutato di dirigersi verso il più lontano porto di Algeciras, inizialmente messo a disposizione dal premier Sanchez. L’ipotesi è che la nave venga scortata dalla Guardia costiera italiana fino al porto spagnolo più vicino, con la possibilità di trasferire delle persone a bordo delle navi militari messe a disposizione dal ministro Toninelli. E mentre il Viminale lavora a una soluzione, cresce la preoccupazione per le condizioni dei migranti a bordo della nave, ridotti nel numero di 107 dopo lo sbarco dei 27 minori non accompagnati avvenuto qualche giorno fa. Come ha sottolineato la presidente di Emergency, Rossella Miccio, i migranti “vivono questo limbo con estrema fatica. Parliamo di persone che hanno vissuto momenti di violenza e soprusi che non riescono a capacitarsi di vedere la terraferma davanti a loro e di non poter sbarcare. Questo stimola momenti depressivi ma anche scatti di rabbia e di autolesionismo”. “Basterebbe portarli presso l’hotspot di Lampedusa, struttura finanziata da fondi europei - prosegue Miccio - sarebbe una soluzione più economica, rapida ed indolore”. L’appello di Emergency segue alle dichiarazioni di Oscar Camps, che aveva già sottolineato la difficoltà di rimettersi in mare verso la Spagna, in un viaggio che potrebbe durare circa 3 giorni: “Costerebbe molto meno noleggiare un Airbus con 200 posti per trasferire i migranti della Open Arms in Spagna piuttosto che mandare navi italiane di scorta”. Il fondatore di Open Arms si dice “sorpreso” che la Guardia Costiera abbia offerto i mezzi necessari per il trasbordo dopo aver “appreso che la scorta all’Aquarius - la nave di Sos Mediterranee ed Msf scortata fino a Valencia nel dicembre 2018 nel corso di una vicenda simile - è costata all’erario pubblico 290mila euro solo per una nave delle due navi, la Diciotti”. Ma se la polemica si è concentrata nelle ultime ore sulle modalità e i costi del trasferimento, continua la tensione diplomatica tra Italia e Spagna, in uno scontro politico che ha coinvolto la stessa Ong catalana. Arriva da Madrid la smentita di un accordo tra i due Paesi, come suggerito dalla stessa Open Arms, mentre la vice premier spagnola, Carmen Calvo, ha detto di non capire la posizione dell’organizzazione che avrebbe potuto dirigersi inizialmente a Malta ma ha preferito andare in Italia dopo la sentenza del Tar che ha permesso l’ingresso nelle acque italiane, e “che continua a rifiutare l’offerta del governo di Madrid di dirigersi verso il porto sicuro spagnolo più vicino”, nonostante il divieto irremovibile del ministro Salvini, che insiste per svolgere l’intera operazione di trasbordo e trasferimento in mare per evitare che i migranti sbarchino a Lampedusa. Le dichiarazioni di Calvo - che Open Arms ha definito una “una sceneggiata mediatica” - hanno dato il via a nuove reazioni politiche e posizioni contrastanti. Se Giorgia Meloni su facebook ha puntanto il dito contro la Ong che avrebbe preferito dirigersi verso Lampedusa per “un chiaro disegno contro l’Italia, indebolita da un governo che fa il gioco di Ong e trafficanti di uomini”, la ministra della difesa spagnola, Margarita Robles, ha attaccato in una conferenza stampa a Madrid la politica migratoria italiana, definendola “assolutamente xenofoba, al margine della Ue, con comportamenti contrari a quelle che devono essere le norme minime del diritto internazionale, comunitario e del mare”. Migranti. Open Arms, Maria in fuga perché cristiana: “Non capiamo, fateci scendere” di Salvo Palazzolo La Repubblica, 20 agosto 2019 I migranti esasperati al diciottesimo giorno sulla nave. La presidente di Emergency: “Una polveriera che può esplodere”. “Io non capisco”, continua a ripetere Maria, rannicchiata in un angolo del ponte della Open Arms. “Non capisco perché ci rifiutano ancora”, dice allo psicologo di Emergency, Alessandro Di Benedetto. È l’ennesimo rifiuto per Maria, 30 anni, della Costa d’Avorio. Racconta che quando è diventata cristiana, la sua famiglia l’ha cacciata via da casa. “Per questo sono partita - dice - e non sapevo ancora cosa mi aspettava”. In Libia, è stata arrestata. “Mi picchiavano continuamente, un giorno hanno provato a violentarmi. Ma io ho resistito con tutte le mie forze. E allora per vendetta mi hanno buttato dell’olio bollente sulle gambe”. Da quel giorno, Maria cammina con difficoltà. Poi, a luglio, è stata scaricata una bomba sul centro di detenzione per migranti dove era imprigionata la giovane donna. A Tajoura sono morte 44 persone, 130 sono rimaste ferite. Quel giorno, Maria è fuggita dalla prigione. E dopo qualche tempo è riuscita a salire su un barcone che doveva portarla in Italia. A bordo della Open Arms, ci sono uno psicologo e un mediatore di Emergency, che parlano di continuo con i migranti. “Come la donna fuggita dalla Costa d’Avorio, anche gli altri non comprendono cosa stia succedendo”, dice il dottore Di Benedetto. Non lo comprende un giovane universitario siriano, all’ultimo anno della facoltà di Ingegneria civile. “È sfuggito a tre attentati kamikaze”. L’ultima volta, si è salvato grazie a un padre che ha avuto la prontezza di portare lontano la sua famiglia. E anche lui, che era lì accanto, in strada. “La situazione a bordo è davvero molto critica, una pentola a pressione”, la definisce Rossella Miccio, la vulcanica presidente di Emergency, anche lei sulla Open Arms. “Siamo di fronte a persone che vivono questo limbo con estrema fatica. Hanno vissuto momenti di violenza e soprusi, adesso non riescono a capacitarsi di vedere la terraferma davanti a loro e di non potere sbarcare. Questo stimola momenti depressivi, ma anche scatti di rabbia e di autolesionismo”. Sotto lo “scudo” missili nucleari Usa in Europa di Manlio Dinucci Il Manifesto, 20 agosto 2019 Il sito missilistico Nato di Deveselu in Romania, facente parte del sistema statunitense Aegis di “difesa missilistica”, ha terminato “l’aggiornamento” iniziato lo scorso aprile. Lo comunica la Nato, assicurando che “esso non ha conferito alcuna capacità offensiva al sistema”, il quale “rimane puramente difensivo, focalizzato su potenziali minacce provenienti dall’esterno dell’area euro-atlantica”. Il sito di Deveselu è dotato (secondo la descrizione ufficiale) di 24 missili, installati in lanciatori verticali sotterranei, per l’intercettazione di missili balistici a raggio corto e intermedio. Un altro sito, che entrerà in funzione nel 2020 nella base polacca di Redzikowo, sarà anch’esso dotato di tale sistema. Lanciatori dello stesso tipo sono a bordo delle quattro navi della US Navy che, dislocate nella base spagnola di Rota, incrociano nel Mediterraneo, Mar Nero e Mar Baltico. La dislocazione stessa dei lanciatori mostra che il sistema è diretto non contro la “minaccia iraniana” (come dichiarano Usa e Nato), ma principalmente contro la Russia. Che il cosiddetto “scudo” non sia “puramente difensivo”, lo spiega la stessa industria bellica che lo ha realizzato, la Lockheed Martin. Essa documenta che il sistema è “progettato per installare qualsiasi missile in qualsiasi tubo di lancio”, per cui è adatto a “qualsiasi missione di guerra”, compreso “l’attacco a obiettivi terrestri”. La Lockheed Martin specifica che i tubi di lancio di maggiori dimensioni possono lanciare “i più grandi missili come quelli di difesa contro i missili balistici e quelli per l’attacco a lungo raggio”. Ammette quindi, nella sostanza, che le installazioni in Romania e Polonia e le quattro navi del sistema Aegis possono essere armate non solo di missili anti-missile, ma anche di missili da crociera Tomahawk a testata nucleare capaci di colpire obiettivi a migliaia di km di distanza. Come documenta il Servizio di ricerca del Congresso (24 luglio 2019), le quattro navi Usa che “operano in acque europee per difendere l’Europa da potenziali attacchi di missili balistici”, fanno parte di una flotta di 38 navi Aegis che nel 2024 saliranno a 59. Nell’anno fiscale 2020 vengono stanziati 1,8 miliardi di dollari per il potenziamento di tale sistema, compresi i siti in Romania e Polonia. Altre installazioni terrestri e navi del sistema Aegis verranno dislocate non solo in Europa contro la Russia, ma anche in Asia e nel Pacifico contro la Cina. Secondo i piani, il Giappone installerà sul proprio territorio due siti missilistici forniti dagli Usa, Corea del Sud e Australia acquisteranno dagli Usa navi dello stesso sistema. Per di più, nei tre mesi in cui le attrezzature di Deveselu sono state portate negli Usa per essere “aggiornate”, è stata dislocata nel sito in Romania una batteria missilistica mobile Thaad dell’Esercito Usa, in grado di “abbattere un missile balistico sia dentro che fuori dell’atmosfera”, ma anche in grado di lanciare missili nucleari a lungo raggio. Rimesso in funzione il sistema Aegis - comunica la Nato - la Thaad è stata “ridispiegata”. Non specifica dove. Si sa però che l’esercito Usa ha dispiegato batterie missilistiche di questo tipo da Israele all’isola di Guam nel Pacifico. Alla luce di questi fatti, nel momento in cui gli Usa stracciano il Trattato Inf per installare missili nucleari a medio raggio a ridosso di Russia e Cina, non stupisce l’annuncio - fatto a Mosca dal senatore Viktor Bondarev, capo della Commissione Difesa - che la Russia ha dispiegato in Crimea bombardieri da attacco nucleare Tu-22M3. Quasi nessuno però se ne preoccupa dato che, in Italia e nella Ue, tutto questo è nascosto dall’apparato politico-mediatico. Stati Uniti. Suicidio Epstein, il governo licenzia il responsabile dei carceri federali ilfattoquotidiano.it, 20 agosto 2019 Si tratta del primo licenziamento legato al suicidio in carcere del finanziere Jeffrey Epstein, suicidatosi il 10 agosto scorso nella cella del carcere di Manhattan, a New York. L’uomo d’affari era in attesa del processo a suo carico per abusi sessuali su minori, che sarebbe dovuto iniziare nel giugno del 2020. Il governo federale degli Stati Uniti ha rimosso il massimo responsabile dei penitenziari americani, Hugh Hurwitz. Si tratta del primo licenziamento legato al suicidio in carcere del finanziere Jeffrey Epstein, suicidatosi il 10 agosto scorso nella cella del carcere di Manhattan, a New York. Il detenuto era in attesa del processo a suo carico che sarebbe dovuto iniziare nel giugno del 2020. L’uomo d’affari era stato travolto da uno scandalo sessuale e arrestato lo scorso luglio con l’accusa di abusi, sfruttamento della prostituzione femminile e traffico di minori, ma il suo suicidio ha sollevato un caso che sta avendo anche risvolti internazionali. Hurwitz, che ricopriva l’incarico dal maggio 2018, ha ricevuto il benservito dal ministro della giustizia Usa, William Barr. Il 13 agosto erano stati sospesi il direttore del penitenziario e due agenti. Intanto, proseguono le indagini dell’Fbi e del Dipartimento di giustizia americano. Nelle ultime ore erano state diffuse le carte della corte in cui si descrivono le attività illegali in cui Epstein era stato coinvolto, con ulteriori dettagli scabrosi e imbarazzanti sulle abitudini sessuali del finanziere. Epstein, 66 anni, si era sempre difeso negando le accuse, dichiarandosi innocente, ma su di lui incombeva il rischio di una condanna fino a 45 anni di carcere. E in queste ore stanno emergendo nuove storie su Ghislaine Maxwell, l’ex fidanzata e compagna di affari di Epstein: secondo un’esclusiva del New York Post, avrebbe donato una cifra ingente all’ospedale newyorchese dove sarebbero state medicate alcune ragazze vittime degli abusi sessuali. Dall’Fbi alle vittime è considerata la figura chiave, la vera “cassaforte” dei segreti del miliardario suicida, dopo essere stato travolto dalle accuse di sesso con minori. Al momento a suo carico non pende nessun mandato o accusa formale. Svizzera. Soccorse un afgano assiderato. Domani l’appello contro la multa di Riccardo Noury Corriere della Sera, 20 agosto 2019 Anni Lanz è una pensionata svizzera di 73 anni. Si occupa dei diritti dei rifugiati dal 1985. Domani a Sion si svolgerà il processo d’appello contro la sentenza di primo grado del 10 dicembre 2018, che ha condannato Anni al pagamento di 800 franchi svizzeri (circa 736 euro). Il “reato” di Anni Lanz si chiama solidarietà, ai sensi dell’articolo 116 della Legge sugli stranieri che sanziona la “agevolazione dell’ingresso illegale in Svizzera”. Anni si è presa cura di un afgano conosciuto in un centro di espulsione di Basilea. Era arrivato in Svizzera, dove risiedeva la sorella, dall’Italia. Sua moglie e il loro figlio erano stati uccisi in patria in un attentato. Era in condizioni mentali critiche e aveva tentato il suicidio. Applicando il regolamento di Dublino, le autorità svizzere lo avevano rinviato in Italia, paese di primo arrivo. Quando Anni ha saputo che il Centro per i richiedenti asilo registrati di Milano non poteva accoglierlo perché era pieno e che lui dormiva in strada, con una temperatura di quasi meno 10 gradi, è partita subito per l’Italia. Lo ha trovato alla stazione di Domodossola, con un principio di congelamento, e lo ha fatto salire in macchina. Al confine di Gondo la polizia li ha fermati. Anni non ha commesso alcun reato. Soccorrendo un richiedente asilo traumatizzato e che dormiva all’addiaccio con la temperatura sotto zero ha mostrato un comportamento compassionevole, altro che criminale. Brasile. Amazzonia, allarme deforestazione. Governatori contro Bolsonaro di Claudia Fanti Il Manifesto, 20 agosto 2019 La deforestazione è cresciuta a luglio del 278% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. Lettera congiunta di otto stati che ospitano parte della foresta dopo che Germania e Norvegia hanno sospeso i finanziamenti. La guerra scatenata dal governo Bolsonaro contro l’Amazzonia e gli altri ecosistemi del paese sta già producendo le prime pesanti conseguenze a livello internazionale. Grande scalpore ha suscitato infatti la decisione della Germania prima e della Norvegia poi di congelare i finanziamenti al Fondo Amazzonia con cui i due paesi hanno sostenuto negli ultimi 10 anni progetti mirati a promuovere la conservazione e l’uso sostenibile della più grande foresta pluviale del mondo. Una misura in polemica con la politica di Bolsonaro sul fronte della deforestazione, cresciuta a luglio del 278% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. Il presidente ha reagito a modo suo: “Possono usare i loro soldi come meglio credono, il Brasile non ne ha bisogno”. E ancora: “La Norvegia non è quella che ammazza le balene lassù al Polo Nord? E che sempre lì sfrutta il petrolio?”, ha commentato postando peraltro immagini della caccia alle balene nelle isole Faroe appartenenti alla Danimarca. “Prendano quei soldi e diano una mano ad Angela Merkel a riforestare la Germania”. Ma i governatori degli stati brasiliani che ospitano parte della foresta amazzonica (Acre, Amapá, Amazonas, Maranhão, Mato Grosso, Pará, Rondônia, Roraima e Tocantins) sono di tutt’altro avviso. Tant’è che, in una nota divulgata dal governatore di Amapá Waldez Goes, affermano di voler dialogare “direttamente con i paesi finanziatori”, definendosi “difensori incondizionati del Fondo Amazzonia”. La sospensione dei contributi della Germania e della Norvegia (rispettivamente di 31 e di 27 milioni di euro) potrebbe però essere solo l’inizio. Benché in realtà sul fronte ambientale i governi virtuosi siano rarissime eccezioni - e anche i pochi che lo sono entro i confini nazionali non si preoccupano poi di devastare ecosistemi altrui - il Brasile di Bolsonaro sta infatti diventando decisamente, come denuncia la stampa di opposizione, “un paria internazionale”. Non a caso, due dei principali giornali tedeschi, Der Spiegel e Die Zeit, invocano apertamente sanzioni contro il paese: “L’Europa - scrive Der Spiegel - non può restarsene a braccia conserte mentre un negazionista climatico, mosso dall’odio, sacrifica vaste aree di foresta a favore di pascoli per l’allevamento e piantagioni di soia”. E Die Zeit va oltre, sollecitando un intervento “là dove fa più male”: “Che senso ha tagliare i fondi per la conservazione delle foreste a un governo che non ha alcun interesse a preservarle?”. Molto meglio colpire “gli interessi economici dei suoi esportatori, a cominciare dai fazendeiros che vendono carne e soia a larga scala a metà del mondo”. Proprio ciò che non ha voluto fare la Commissione Ue riguardo all’accordo raggiunto il 28 giugno con il Mercosur, ignorando completamente la richiesta, da parte di 340 organizzazioni europee e latinoamericane, di “inviare un segnale inequivocabile” al governo Bolsonaro, sospendendo “immediatamente” i negoziati in attesa di un deciso cambio di passo rispetto, tra l’altro, alla lotta contro la deforestazione.