Il grave calcolo di evocare pena capitale e fine pena mai di Glauco Giostra* Avvenire, 1 agosto 2019 Doveva accadere. Era questione di tempo, ma nell’attuale stagione politica non poteva non accadere. Era anche scritto che dovesse succedere per opera del Ministro che fin dall’inizio ha indossato la felpa law and order, legge e ordine, elettoralmente lucrosissima. Matteo Salvini ha colto l’occasione dello sconvolgente omicidio di un servitore dello Stato per evocare la pena di morte applicata negli Usa e non in Italia. E pur con un’esplicita accortezza, “non dico di arrivare a tanto”, ha introdotto nel dibattito il tema, dando voce al comprensibile sentimento istintivo di tanti. Non occorre neppure essere tra gli straziati congiunti di quel carabiniere, infatti, per augurarsi di vedere l’assassino fare la stessa fine della vittima. E del resto, che altro verrebbe di invocare per quel padre che ha gettato il figlioletto dal balcone a causa di insanabili contrasti coniugali? Per il conducente del Suv che ha falciato, straziandoli e uccidendoli, due bambini che giocavano sul marciapiede? Per l’autore dell’ultimo vile e a lungo premeditato femminicidio? Azioni che ci fanno vergognare di appartenere allo stesso genere umano di questi criminali, quando non al genere maschile. Ma nella nostra Costituzione è scritto: “Non è ammessa la pena di morte”. I costituenti, che pur avevano subito orribili torture e che pur avevano avuto congiunti e amici assassinati per aver preteso il ripristino della democrazia, non hanno voluto uno Stato vendicatore che uccide chi ha ucciso, ma uno Stato che risponde con il rigore di un diritto severo, ma civile. Uno Stato non disposto a macchiarsi del crimine di uccidere un innocente, come è avvenuto nel 4,1% delle esecuzioni capitali negli invidiati Usa, secondo una rigorosa indagine della University of Michigan School Law (decine e decine sono, poi, dal 1990 gli innocenti condannati a morte salvati in extremis dalla prova del Dna). Uno Stato che non vorrebbe mai ricordare i barbari allestimenti con cui, sempre negli invidiati Usa, i parenti delle vittime assistono all’esecuzione del condannato per vederlo sfrigolare sulla sedia elettrica o scuotersi dopo una iniezione letale. Il nostro ministro dell’Interno, con non dissimulato disappunto, dice di accontentarsi che il condannato possa uscire soltanto cadavere dalla prigione. Dovrebbe sapere e dovrebbe correttamente far sapere che la Corte europea dei diritti dell’uomo poco più di un mese fa ha condannato l’Italia (caso Viola) appunto perché il nostro ordinamento prevede che per alcuni reati l’espiazione carceraria duri per l’intera vita, rimanendo indifferente al percorso del condannato durante l’esecuzione della pena. Adeguarsi al dictum della Corte di Strasburgo non vorrebbe dire - è bene precisarlo a fronte di tante affermazioni di tal segno, non si sa se dovute ad ignoranza o a calcolo - abolire le pene perpetue nel nostro sistema: continuerebbero a esserci e a essere eseguite fino all’ultimo giorno, a meno che - dopo circa venticinque anni di carcere, suggerisce la giurisprudenza della Corte - un’osservazione attenta e prolungata non attesti che il condannato abbia dato prova di autentica riabilitazione. Si potrebbe anche pensare che il ministro dell’Interno, essendo garante della sicurezza pubblica, intenda ricorrere alla forza intimidatrice della pena comminata per dissuadere dai più gravi comportamenti delittuosi. Ma il ministro sa o dovrebbe sapere che la minaccia della sanzione è inefficace, talvolta controproducente. Negli invidiati Usa si registrano 5,3 omicidi ogni 100mila abitanti, in Italia 0,8. Non solo: negli Stati dell’Unione che non ammettono la pena di morte si conta un minor numero di omicidi rispetto a quelli che la prevedono. Ciononostante, il presidente Trump, che sta affilando le sue armi elettorali, ha pensato di ripristinare l’esecuzione delle condanne a morte inflitte dai Tribunali federali, interrompendo una moratoria che durava dal 2003: iniziativa che già gli avrebbe procurato maggiori consensi. Non si riporta il dato perché particolarmente interessati al Trump-pensiero (si perdoni l’ossimoro), ma per far capire a che serve e a chi giova evocare e invocare la pena capitale. *Giurista, Università di Roma La Sapienza Quei tanti detenuti che muoiono in cella per gravi malattie di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 1 agosto 2019 L’ultimo a Milano dove un malato terminale è deceduto tra atroci sofferenze. Purtroppo non è un caso isolato quello del detenuto piantonato in carcere nonostante avesse un tumore allo stadio terminale e poi morto nel reparto di rianimazione dell’ospedale San Paolo di Milano. Nelle patrie galere accade spesso. Questa vicenda finita nelle cronache nazionali parte dal dicembre 2018 quando Giorgio C, 58 anni, oltre a tosse e difficoltà respiratorie, accusa un dolore persistente al polmone sinistro. Il 12 aprile, una radiografia al torace evidenzia il collasso del polmone sinistro. Viene ricoverato d’urgenza al Fatebenefratelli. Due settimane dopo, la scoperta del tumore maligno, le dimissioni dall’ospedale e il ritorno in cella in attesa di una “Tac- Pet” per confermare la diagnosi. Accertamento che, viene effettuato 25 giorni dopo. Nel frattempo il legale Francesca Brocchi deposita alla Corte d’Appello l’istanza per valutare la compatibilità con il carcere e ottenere la sostituzione della misura cautelare, per consentirgli di potersi curare. I giudici, in assenza delle relazioni mediche, non possono decidere sulle ripetute richieste. Le sue condizioni peggiorano, ha metastasi alle ossa, non si regge in piedi. Tant’è che il legale reitera la richiesta di scarcerazione, ma la Corte d’Appello non può ancora provvedere per mancanza della documentazione clinica. Il 15 luglio viene dimesso con una diagnosi che non lascia scampo, ma tre giorni dopo viene di nuovo ricoverato nello stesso ospedale. Lì muore dopo atroci sofferenze. Una storia che ricorda quella del detenuto Giuseppe D’Oca, malato anche lui di tumore ai polmoni, detenuto nel carcere di Vigevano. Il 2 agosto 2016 è venuto a mancare all’età di 59 anni all’ospedale di Pavia. Durante la sua permanenza in carcere, il tumore avanzava sempre di più. Già a fine 2014 si vedeva che non stava bene e i famigliari hanno fatto la richiesta di incompatibilità con il carcere, ma gli è stata negata. Da quel momento in poi è andato sempre peggiorando, dimagrendo visibilmente, non mangiando più. La Corte d’Assise d’Appello di Milano nel 2015 aveva negato il trasferimento del detenuto - che scontava l’ergastolo - ad altro regime di detenzione, suggerendo l’acquisto di una dentiera, perché, nel frattempo, a causa di una piorrea il detenuto aveva perso l’intera dentatura. Era quello, secondo i magistrati, il motivo del dimagrimento. A quel punto i familiari pagarono un neurologo per effettuare una visita specialistica. Il medico aveva riscontrato che era incompatibile con il carcere. Ma niente da fare: secondo le autorità, D’Oca poteva essere curato in cella. In pochi mesi dimagrì di 40 Kg e fu ricoverato urgentemente il 28 maggio del 2016 per il suo clamoroso deperimento tanto da destare le preoccupazioni del medico di turno. Troppo tardi: dopo due mesi è morto. C’è anche la vicenda di Roberto Jerinò - recentemente il Gip ha disposto la riapertura delle indagini - detenuto al carcere calabrese di Arghillà e morto a dicembre del 2014 presso l’ospedale di Reggio Calabria. Durante la detenzione cadde per terra perché la sua gamba perse la memoria dei movimenti, poi il braccio e infine la bocca. Venne portato di corsa in ospedale: ischemia, fu la diagnosi, con paresi facciale degli arti. L’avvocato, come logico, chiese la concessione dei domiciliari. Rigettato. Subito riportato in carcere, nonostante la diagnosi. Secondo la testimonianza di alcuni detenuti, alle 3 di notte del 12 dicembre del 2014, Roberto sentì assottigliarsi e allargarsi una vena in testa; era un movimento continuo, lievemente doloroso. Chiamò un suo compagno di cella chiedendogli una camomilla; credeva avesse bisogno di tranquillizzarsi. Non riuscì a dormire quella notte. La mattina si segnò in elenco per l’infermeria: gli misurarono la pressione, nessuna anomalia. Fu così per l’intera giornata: un dolore costante, ritmato; la pressione era stabile. Il 13, tutto uguale: dolore e pressione, stabili. Non facevano altro che misurargli la pressione e riportarlo in cella. Stava impazzendo Jerinò, sentiva quella vena come se fosse una sanguisuga. Lamentava dolore. Dopo aver trascorso tre giorni di lamenti, e richieste di soccorso, rimase paralizzato nel letto. Lo portarono in ospedale che era già in coma. Non si risvegliò più. Morì il 23 dicembre del 2014. Rinnovato il protocollo Dap-Uisp, nel segno di una nuova cultura dello sport in carcere di Antonella Barone gnewsonline.it, 1 agosto 2019 È stato rinnovato per la quinta volta il protocollo d’intesa tra il Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria (Dap) del Ministero della Giustizia e l’Unione Italiana Sport Per Tutti (Uisp) per realizzare attività motorio sportive nelle carceri. Iniziative sportive che coinvolgano le famiglie dei detenuti e promuovano la genitorialità, attenzione per le esigenze specifiche delle donne in carcere, degli anziani e delle persone con problemi fisici o psichici sono tra i punti individuati nell’accordo, siglato dal Capo Dap Francesco Basentini e dal Presidente Uisp Vincenzo Manco, in base ai quali orientare la progettazione di interventi di carattere sportivo nei prossimi tre anni. Uisp è presente stabilmente in tutti gli istituti penitenziari con attività tradizionali e attività più innovative. Nell’offerta culturale rientrano corsi di formazione anche per il personale dell’amministrazione penitenziaria e l’organizzazione di manifestazioni come “Vivicittà” che quest’anno, come nelle precedenti edizioni, ha coinvolto migliaia di detenuti. “Il Dipartimento è lieto di essere giunto alla proroga di una collaborazione che ci rende orgogliosi - ha commentato Francesco Basentini - Crediamo che lo sport sia una leva importante per migliorare la vita del detenuto. È noto lo stretto rapporto esistente tra il benessere della popolazione detenuta e il benessere del personale e della Polizia Penitenziaria: sono condizioni che s’intersecano e si condizionano reciprocamente”. L’avvio dell’esperienza UISP all’interno delle strutture penitenziarie risale a più di trenta anni fa. Il primo Protocollo del 1997 e i successivi rinnovi hanno consentito a Dap e Uisp di programmare insieme attività rispondenti ai bisogni dei vari istituti penitenziari, diversi per caratteristiche strutturali e tipologia della popolazione detenuta. “La proroga dell’accordo - ha detto Vincenzo Manco - è il riconoscimento di una militanza culturale prima che sportiva. L’Uisp ha in programma di implementare gli investimenti per le attività destinate al carcere nell’ambito di un progetto con partner internazionali che coinvolgerà nella loro progettazione i destinatari delle nostre iniziative, detenuti e personale penitenziario “. Carceri: al via la seconda edizione di “Per aspera ad astra” agensir.it, 1 agosto 2019 Progetto delle Fondazioni per promuovere il teatro tra i detenuti. Prende il via oggi la seconda edizione del progetto “Per aspera ad astra”, che ha come obiettivo quello di riconfigurare il carcere attraverso la cultura e la bellezza. Promossa da Acri e sostenuto da 11 Fondazioni di origine bancaria, l’iniziativa è nata dall’esperienza della Compagnia della Fortezza di Volterra, guidata dal drammaturgo e regista Armando Punzo. L’iniziativa ha l’obiettivo di tracciare un percorso che mette insieme le migliori esperienze di teatro in carcere presenti in diversi contesti territoriali, li fa dialogare e diffonde l’approccio anche a beneficio di altri contesti e operatori. L’esperienza maturata in questi anni da Punzo mostra come sia possibile lavorare nelle carceri nell’”interesse del teatro e delle arti e dei mestieri del teatro”, oltre che per finalità rieducative e risocializzanti. Diffondere e promuovere il “teatro in carcere” significa abbattere il muto che divide spesso il mondo delle carceri dalla società civile. Si viene così a creare un clima di consapevolezza, che crea le premesse per il reinserimento del detenuto nel mondo esterno. Il progetto si articola in una serie di eventi formativi e di workshop realizzati all’interno degli istituti di pena localizzati nei territori di competenza delle Fondazioni partecipanti, rivolti a operatori artistici, operatori sociali e detenuti. Per quest’ultimi i corsi di formazione professionale rappresentano un ponte concreto verso nuove opportunità lavorative. “In questa seconda edizione - afferma il presidente di Acri, Francesco Profumo - partecipano il doppio delle Fondazioni coinvolti e di conseguenza i territori raggiunti dall’iniziativa. Ai detenuti viene offerta una concreta occasione di riscatto personale e di formazione professionale”. Giustizia. Niente accordo Lega-M5S sulla prescrizione di Alessandro Trocino Corriere della Sera, 1 agosto 2019 Il Carroccio: testo sulla riforma penale da riscrivere. Consiglio dei ministri fiume interrotto più volte. Salvini: “Acqua fresca”. I 5 Stelle: “Vuole bloccare la nuova prescrizione”. Un Consiglio dei ministri travagliato, interrotto più volte, preceduto da una gragnuola di colpi alla riforma della giustizia sparati già di prima mattina da Matteo Salvini via social e poi puntellato da infinite riunioni a margine tra il leader della Lega e il ministro Giulia Bongiorno, che ha guerreggiato a lungo con il ministro Alfonso Bonafede. La riunione fiume va avanti fino a sera inoltrata, con un disegno di legge di riforma della giustizia penale e civile più volte rimaneggiato. A mezzanotte il consesso si scioglie. I messaggi che escono sono contraddittori. Non si vuole dire che c’è rottura, ma non c’è neanche accordo. Si decide di usare una formula quanto meno ambigua, cioè che si sarebbe raggiunto un accordo sulla riforma civile e sul Csm, “salvo intese” sulla parte penale. Di più. La Lega fa sapere che il testo è “da riscrivere” integralmente. Tutto da rifare. Difficilmente la riforma vedrà la luce, considerando anche i chiari di luna a Palazzo Chigi. Il Carroccio, spiegano fonti leghiste, “è per lo stato di diritto, per tempi certi per la giustizia. Servono manager nei tribunali che garantiscano il rispetto dei tempi, servono nuove regole sulle intercettazioni, la separazione delle carriere. La Lega non vuole i cittadini ostaggio a vita della giustizia e non accetta riforme di facciata”. Dai 5 Stelle trapela frustrazione: “È incomprensibile l’ostruzionismo leghista”. Anche Bonafede replica duro: “Basta giochetti. Stasera ho sentito tanti “no”, da parte mia c’era la disponibilità ad affrontare proposte di modifica. Non vorrei che ci fosse il tema della prescrizione come nodo che non viene portato al tavolo”. L’accordo raggiunto mesi fa stabiliva che la riforma della giustizia sarebbe entrata in vigore insieme a quella della prescrizione. In mattinata il ministro dell’Interno Salvini aveva sparato ad alzo zero da Facebook: “Il ministro Bonafede ci mette buona volontà ma è acqua la riforma della giustizia. Non c’è quello che gli italiani si aspettano. Non si interviene sulla separazione delle carriere, non ci sono sanzioni disciplinari per chi non rispetta i tempi, non si tocca il tema delle intercettazioni, si lascia totale soggettività alle Procure. Serve una riforma storica, imponente”. Di nuovo gelida la replica del ministro Bonafede: “Ci vediamo in consiglio dei ministri, non su Facebook”. Duro anche Luigi Di Maio, che parla di “riforma epocale” e si dice preoccupato che “qualcuno” voglia frenare la riforma. Nel pomeriggio si apre una girandola di riunioni, tecniche e politiche, e per la prima volta, dopo il caso rubli, si vedono tutti insieme il premier Conte con Di Maio e Salvini. Il premier prova a mediare. Non basta la riduzione dei tempi dei processi da nove a sei anni. La Lega alza la voce. I 5 Stelle fanno sapere che “Salvini fa queste sparate perché è in crisi da astinenza dalle prime pagine dei giornali”. Sullo sfondo c’è un numero che impressiona, quello zero che non c’entra con il mandato zero di Di Maio ma con la crescita del Pil nel secondo trimestre, completamente ferma. Sono in arrivo giorni difficili. In Senato approderà la questione della Tav, mentre il 6 agosto si voterà il decreto Sicurezza bis, con il rischio dei dissidenti 5 Stelle. E Salvini, per non sbagliare, annuncia un tour estivo che somiglia da vicino a una campagna elettorale nelle città del Sud. Giustizia, la riforma nel caos. Salvini gela intesa e governo di Errico Novi Il Dubbio, 1 agosto 2019 Credevate davvero che un totem gigantesco qual è, per un governo simile, la riforma della giustizia potesse planare in Consiglio dei ministri come un aeroplanino qualsiasi? Macché. Il minimo erano i fuochi d’artificio prima durante e dopo. Ci sono stati. E avvolgono fino a tarda sera in una coltre d’incertezza il destino del ddl Bonafede, giudicato “acqua” da Salvini, infilzato dai rilievi della ministra Bongiorno, eppure meno divisivo, nella sostanza, di quanto faccia credere l’incredibile giornata di caos vissuta ieri. La sostanza è che gran parte del testo messo a punto dal guardasigilli coincide con le richieste del Capitano, che alcune altre delle ipotesi leghiste sono difficilmente compatibili con un ddl delega (separazione delle carriere ma anche riforma delle intercettazioni) e che i reali margini di scostamento tra gli alleati sono così sottili da non consentire di mandare in pattumiera una legge di 48 articoli. Così, con un Consiglio dei ministri anticipato via Facebook, iniziato con un’ora di ritardo, sospeso dopo due minuti, ripreso dopo più di tre ore e ancora in corso quando fuori è ormai buio, la riforma messa a punto dal guardasigilli resta, fino al momento di mandare in stampa questa edizione del giornale, sospesa su una corda tesissima. Giulia Bongiorno chiede alcune rettifiche immediate, altre differite. La Lega chiede tempi di fase più stretti - Le prime riguardano innanzitutto i tempi di fase massimi per i processi sia civili che penali, sforati i quali il giudice titolare del fascicolo va incolpato sul piano disciplinare: si era partiti da 9 anni, nella bozza proposta ancora ieri mattina da Bonafede si era già scesi a 6 anni, la ministra del Carroccio, fiduciaria di Salvini sulla giustizia, chiede di alzare la diga a 3 anni e 6 mesi. I correttivi proiettati nel futuro riguardano invece intercettazioni e separazione delle carriere. È proprio sul “divorzio” fra pm e magistrati giudicanti che il leader del Carroccio costruisce la propria requisitoria via Facebook, messa in diretta tre ore prima che inizi la riunione a Palazzo Chigi: “Della separazione non si parla, eppure per noi è essenziale”. Poi aggiunge: “Il ddl del ministro Bonafede lascia alla totale discrezionalità delle varie Procure la scelta dei reati da perseguire”. E ancora: “Non si separano i due Csm”. Obiezioni decisive per capire il corto circuito dialettico in cui si infila, a un certo punto, la discussione fra Lega e 5 Stelle. Perché tutti e tre i nodi evocati dal vicepremier sono già contenuti nella legge costituzionale voluta fortemente dall’Unione Camere penali. L’Ucpi: separazione delle carriere? Il Ddl è alla Camera - Ebbene: il testo non solo è arrivato già da tempo a Montecitorio sotto la spinta vigorosa di 72mila firme, tutte raccolte dagli avvocati ma, come fa notare il presidente degli stessi penalisti italiani, Gian Domenico Caiazza, “è stata sottoscritta anche dal ministro Salvini ed è oggi sostenuta da un inedito intergruppo parlamentare, che comprende tutte le forze politiche, anche la Lega, in commissione Affari costituzionali...”. Proprio in contemporanea con uno dei tre o quattro time out del Consiglio dei ministri, il presidente dell’Ucpi chiede che “chi vuole seriamente questa riforma, la porti in aula, la sostenga e la voti, senza ulteriori e inutili divagazioni”. Basta a dare la misura del caos scatenatosi ieri pomeriggio? Si potrebbe aggiungere come fonti Cinque Stelle facciano notare che una saldatura formale tra ddl Bonafede e legge sulle carriere dei magistrati renderebbe impossibile approvare la riforma dei processi entro fine anno, cioè prima che entri in vigore lo stop alla prescrizione: la legge sulla “separazione”, ricordano infatti, “è costituzionale e richiede numerose letture”. I diktat di Salvini previsti dal testo - Il Capitano del Carroccio dice che il testo del guardasigilli è “acqua, una riformina delle mezze misure”. Invoca “l’introduzione del merito, dell’efficienza” nelle promozioni dei magistrati. Tema a cui è dedicato l’intero e assai corposo articolo 24 della legge Bonafede, che innalza le valutazioni di professionalità necessarie per giudici e pm che aspirano a incarichi direttivi e semi-direttivi, con un temperato ripristino del criterio dell’anzianità per sfrondare il numero degli aspiranti. Ancora, la proposta messa a punto da Salvini nella pre-riunione con Bongiorno, il sottosegretario Jacopo Morrone e gli altri ministri del suo partito reclama “assunzioni di magistrati e amministrativi”, pure già previste. Nella diretta Facebook, il leader del Carroccio invoca l’informatizzazione, puntualmente richiamata dalla riforma anche per il processo penale: il “deposito telematico” sarà “obbligatorio” per tutti gli uffici giudiziari individuati come già adeguatamente attrezzati anche sulla base del parere di Cnf e Ordini forensi coinvolti. Non solo, perché nel “civile”, dove il processo telematico è in vigore da tempo, viene messo al bando l’uso delle copie cartacee di cortesia, a meno che i “sistemi informatici non siano funzionanti e sussista una situazione d’urgenza”. I tribunali riaperti e chiusi di nuovo - Nelle frenetiche consultazioni pomeridiane emerge anche il nodo della geografia giudiziaria. Salvini chiede la “riapertura di alcuni Tribunali inopinatamente chiusi dal governo precedente”. Era prevista nella prima bozza del guardasigilli ma eliminata in quella consegnata due giorni fa a Palazzo Chigi. C’è invece convergenza sulle sanzioni disciplinari per pm e giudici lenti: nel caso dei primi la scure di Bonafede non suscita particolari contestazioni da parte di Bongiorno, per i secondi prevale la tempistica più stringente sollecitata dalla ministra. Ma è proprio sui tempi del processo penale che le contraddizioni si fanno insostenibili. A ridurli, ci aveva pensato il tavolo istituto a via Arenula con le rappresentanze dell’avvocatura e l’Anm. Considerata la difficoltà anche politica a procedere sulla strada delle depenalizzazioni, ci si era concentrati sui riti alternativi. È passata la rifinitura sull’abbreviato condizionato, non quella, decisiva, sul patteggiamento. Perché? Ad essere poco entusiasta dei forti sconti di pena previsti (riduzione degli anni di carcere fino alla metà, estensione del rito a reati puniti anche con 10 anni di reclusione) è stata proprio la Lega. Così la soluzione che lo stesso presidente dell’Ucpi Caiazza ancora ieri ha indicato come l’unica in grado di “ridurre i tempi” è stata esclusa dall’articolato. “Eppure”, ricorda il leader dei penalisti, “si tratta di una parte essenziale dell’elaborato che, facendo un buon lavoro, si era approvato al tavolo con l’accordo di tutti: solo se si rafforza il patteggiamento si possono ridurre i tempi, con l’abolizione di questa parte l’intera efficacia della riforma viene meno”. Non la pensa proprio così Bonafede, che però ieri non ha mancato di ricordare il paradosso all’alleato. C’è invece convergenza sulla necessità di una stretta nei confronti dei magistrati, dai tempi di fase al Csm. È la frontiera estrema sulla quale, superate le fibrillazioni nella maggioranza, toccherà fare i conti con l’Anm. Un conflitto che, pur sottovalutato, rischia di diventare il collante più efficace per un governo mai come ieri in difficoltà nel trovare la sintesi. Braccio di ferro anche sulla giustizia di Andrea Colombo Il Manifesto, 1 agosto 2019 Il Consiglio dei ministri è una via crucis. Tra pause e liti, è scontro Bongiorno-Bonafede sulla prescrizione e la durata dei processi. Il Consiglio dei ministri che deve approvare la riforma della giustizia è una via crucis che si interrompe dopo pochi minuti e riprende un paio d’ore più tardi andando avanti fino a notte fonda. La sospensione, ufficialmente, è dovuta alla necessità di avviare lo scioglimento di alcuni consigli comunali ma non è un mistero per nessuno che anche sul fronte della giustizia le posizioni dei soci siano molto distanti se non opposte. Per Di Maio, al quale lo strafalcione sulla “povertà sconfitta” non ha insegnato nulla in materia d’iperbole, la riforma del guardasigilli pentastellato Bonafede è addirittura “epocale”. Pertanto si augura “che nessuno voglia bloccarla: sarebbe un grave danno per il Paese”. Salvini però non la vede precisamente allo stesso modo: “Questa riforma è acqua. Serve altro. Serve più coraggio”. Esterna il gran capo leghista ma il giudizio inappellabile è di Giulia Bongiorno, ministra della Pubblica amministrazione e principessa del foro. È lei a girare verso il basso il pollice sulla riforma Bonafede e con lei il leader ha messo ha punto la linea di condotta nella lunga pausa prima che il Cdm di ieri tornasse a riunirsi. Per la Bongiorno, dunque per la Lega, la riforma non incide davvero sui tempi del processo. Fissa il tetto in 6 anni (rispetto ai 9 inizialmente previsti dai 5S). Troppi. Anche sulle regole in merito all’accesso alla magistratura c’è da ridire: non sono rigide a sufficienza e in generale tutta la regolamentazione delle carriere dei magistrati è per il Carroccio quasi insignificante. Ci sono però, sullo sfondo, poste in gioco più alte: la separazione delle carriere (a cui la Lega non ha rinunciato), la regolamentazione delle intercettazioni (un’ipotesi che ai pentastellati fa venire l’orticaria solo a nominarla) e il vero nodo: la prescrizione. Il varo della riforma della giustizia è infatti pregiudiziale perché diventi effettivo, a partire dal primo gennaio 2020, il blocco della prescrizione dopo la sentenza di primo grado. La “spazza-corrotti” infatti fissava l’avvio del blocco già dal primo gennaio scorso. La mediazione raggiunta con la Lega ha poi posticipato il tutto di un anno e soprattutto ha subordinato il varo a una riforma complessiva. Per i 5Stelle eccola qui. Per Salvini neanche per idea. La riforma in questione deve essere “imponente, decisiva, storica”. Sennò non se ne fa niente e si torna ai termini di prescrizione precedenti. Lo scontro è reale, non solo uno dei tanti capitoli della guerriglia tra i soci di maggioranza, giocata soprattutto sul fronte della propaganda. L’apoteosi di quella guerra solo mediatica sarà, martedì e mercoledì prossimo, l’inutile voto al Senato sulla Tav. Ieri per ore ha circolato la voce di una decisione del Pd e di Fi di disertare l’aula per portare alle estreme conseguenze la divisione tra i soci di maggioranza. Incidentalmente quella scelta avrebbe anche finito di trasformare il Parlamento in una specie di circo, utile solo per innescare la grancassa dei social. Poi il capogruppo Marcucci ha smentito: i suoi senatori saranno in aula. Voteranno contro la mozione No Tav dei 5S e a favore della propria. Chi invece voterà solo contro la mozione pentastellata ma poi si asterrà e anzi non è escluso che finisca per scegliere di lasciare l’aula è la Lega. Una mossa che serve a parare il colpo dell’accusa di intelligenza col nemico piddino, con la quale i 5S martellano da giorni. Certo, in questo modo è possibile che nessuna delle mozioni ottenga la maggioranza. Per la Tav non sarebbe un problema, del resto non lo sarebbe neppure se passasse il testo 5S che “impegna” solo il Parlamento, non il governo (sic). Per il Parlamento, che apparirebbe come istituzione incapace anche solo di esprimere un parere, invece, sarebbe un esito devastante. C’è il “caso prescrizione” dietro lo scontro tra Salvini e 5 Stelle di Liana Milella La Repubblica, 1 agosto 2019 Bloccando la riforma Bonafede, il ministro dell’Interno spera di fermare la nuova normativa sulla prescrizione approvata a gennaio. Riforma “epocale” dice Di Maio. Una riforma che fa “acqua” ribatte Salvini “perché non c’è quello scatto in avanti che si attendono gli italiani”. Per usare la metafora del ministro dell’Interno, naviga in acque agitatissime, e rischia di affondare a palazzo Chigi, la riforma della giustizia del Guardasigilli Alfonso Bonafede. I venti di guerra avevano cominciato a soffiare già ieri, ma oggi si stanno trasformando in una bufera. Anticamera di una resa dei conti definitiva tra M5S e Lega su un tema come la giustizia da sempre caro ai grillini. Anticamera anche di una possibile crisi qualora venisse approvato al Senato la prossima settimana, ma con i voti di Fi e Fdl, il decreto sicurezza bis per via di massicce defezioni grilline (già 17 voti in meno alla Camera). Dopo una riunione al Viminale con i suoi ministri, Salvini impallina la legge di Bonafede. Che boccia così: “O si fa riforma coraggiosa, imponente, decisiva, storica della giustizia italiana... Servono uomini e mezzi. Dove chi sbaglia paga. Che punisca chi non è in grado di fare il suo mestiere. È il momento del coraggio, delle grandi riforme, non delle riformine sia sul piano della giustizia che del fisco”. Negli stessi minuti, sotto una fotografia sorridente di Luigi Di Maio col braccio sulle spalle di Bonafede, ecco il vice premier pentastellato pronunciare parole opposte: “È una riforma epocale della giustizia. Che sanziona i magistrati che perdono tempo e riduce drasticamente i tempi dei processi civili e penali rilanciando investimenti e crescita. Basta indagati a vita, chi sbaglia paga e subito. Basta aspettare anni prima di essere risarciti. Basta con le spartizioni di potere al Csm. Mi auguro che nessuno pensi di bloccarla, sarebbe un grave danno al Paese”. Ma a bloccarla è proprio il vice premier leghista, che segue il modello proposto da Giulia Bongiorno, noto avvocato e ministro della Pubblica amministrazione. Lei sostiene che “i magistrati sono dei sacerdoti”, tant’è che lei stessa non ha fatto il giudice perché “avere il potere di giudicare e condannare una persona” comporta gravissime responsabilità. Bongiorno ha convinto Salvini, che ha delegato a lei tutto il comparto giustizia, che la riforma non incide effettivamente sui tempi dei processi civili e penali (troppi i sei anni previsti), non pone paletti e regole rigide sul sistema d’accesso alla magistratura, a cominciare dai concorsi. Se Bonafede cancella l’obbligo di un corso di perfezionamento post laurea per accedere al concorso, Bongiorno invece chiede più severità. Come più drastiche dovrebbero essere le regole per i passaggi di carriera e soprattutto il sistema degli illeciti disciplinari che, come prima cosa, dovrebbero riguardare l’efficienza effettiva dei magistrati rispetto allo smaltimento dei processi. Mentre gli avvocati si schierano con la Lega, con una singolare uscita a tempo, pochi minuti prima dell’affondo di Salvini, del presidente delle Camere penali Giandomenico Caiazza - “è una riforma illusoria che non ridurrà i tempi del processo - emergono via via dalla riunione del capo della Lega con in suoi al Viminale le ragioni del contrasto. Nella riforma non c’è la separazione delle carriere tra giudici e pubblici ministeri, con la creazione di due Csm, che invece viene ritenuta ormai non più rinviabile dal Carroccio. E non c’è soprattutto il pacchetto sulle intercettazioni che, mai come in questo momento di inchieste sulla Lega a partire da Moscopoli, i salviniani vorrebbero imbavagliare, non solo facendo meno intercettazioni, ma soprattutto bloccandone la pubblicazione. Ma al centro dello scontro tra Lega e M5S c’è la riforma della prescrizione. Approvata nella legge Spazzacorrotti di Bonafede, che è legge dal gennaio 2019, prevede che l’orologio del processo si blocchi con la sentenza di primo grado. I leghisti si sono messi di traverso sin dal primo momento, e con la minaccia di bloccare l’intera legge, sono riusciti a vincolare l’entrata in vigore della prescrizione al gennaio 2020, solo dopo l’approvazione di una ulteriore legge di riforma del processo penale. Quella di cui si sta discutendo oggi. Una “riformina” per Salvini e Bongiorno che, bloccando questa legge, pensano anche di fermare la prescrizione. Ma difficilmente un accordo politico, soprattutto qualora si vada alla crisi, potrebbe cancellare una legge dov’è scritto espressamente che la prescrizione bloccata entra in vigore a gennaio 2020. Ci vorrebbe solo un’altra legge per cancellare la Spazzacorrotti. Giustizia, Salvini: i 5 Stelle si sono fatti fregare dai magistrati del ministero di Marco Cremonesi Corriere della Sera, 1 agosto 2019 Ma il vicepremier ottiene da Conte la fiducia sul decreto Sicurezza. Il simbolo dell’ennesima giornata in parete del governo è la Sala dei Galeoni di Palazzo Chigi pavesata a festa per la conferenza stampa che dovrebbe annunciare l’epocale riforma della Giustizia. Si tendono i tappeti, si dispongono le bandiere, si preparano le tribune per chi parlerà, anche se non è affatto chiaro quanti (e chi) saranno. Sui monitor appare la prima slide che dice “Riforma della giustizia. Veloce. Indipendente. Uguale per tutti”. Peccato soltanto che il Consiglio dei ministri che dovrebbe approvarla si apra alle 15 e venga sospeso dopo minuti cinque. L’accordo tra Lega e 5 stelle non c’è e la riunione procede a singhiozzo per tutto il resto della giornata. Consiglio vero e proprio, approfondimenti tecnici, discussioni serrate. Ma a mezzanotte il Consiglio finisce con la solita formula: riforma approvata “salvo intese”. Che significa il contrario, l’intesa non c’è. Intorno alle 20, Salvini sbuffa con i suoi: “Si sono fatti fregare...”. Parla dei 5 stelle che si sarebbero fatti “scodellare un testo da gattopardi, che non cambia nulla, scritto dai magistrati del ministero”. Un riferimento soprattutto al capo dell’ufficio legislativo del ministero della Giustizia, Mauro Vitiello, di area Magistratura democratica. Secondo chi lo ha sentito, il leader leghista si sarebbe anche concesso una battuta: “Si sono fatti fregare, non so se tutti in buona fede. Nomen omen...”. Difficile dimenticare che il ministro alla Giustizia si chiama Bonafede. Del resto, che Salvini la pensasse in questo modo era affiorato anche nel suo Facebook live di metà giornata: “Bonafede ci mette pure la buona volontà ma la sua cosiddetta riforma della giustizia è acqua”. Fatto sta che il basso continuo del Consiglio è il confronto punto su punto tra lo stesso Bonafede e la ministro leghista Giulia Bongiorno. Ma il premier Conte e Luigi Di Maio non vogliono arrivare alla rottura. Neppure i leghisti, in realtà, ma il testo per loro va profondamente cambiato: i tempi del processo, il regime delle intercettazioni sono i nodi che non si sciolgono. Intorno alle 21.30 Salvini comunica ai suoi che tutto è in alto mare: “Quando ci sono in ballo la libertà e i diritti di milioni di italiani, le cose bisogna farle bene...”. Al di là della lunga notte della giustizia, Salvini non ha ancora preso decisioni definitive. “Aspetta al guado” dicono i suoi, il vicepremier attende la piega degli eventi: “Occorre vedere le fondamenta della manovra che Tria e Conte intendono impostare”. A giudicare dai tuoni e fulmini partiti ieri in aula alla Camera all’indirizzo di Giovanni Tria dal capogruppo Riccardo Molinari e dal presidente della Commissione Bilancio Claudio Borghi, il clima non mette al bello. E resta sul tappeto, la prossima settimana, la problematica conversione del decreto Sicurezza bis al Senato: il vantaggio della maggioranza è di soli due voti. Salvini ieri ha chiesto e ottenuto dal premier Conte la fiducia sul provvedimento. Il che, però, dovrebbe impedire che il decreto, pilastro dell’attività del ministro dell’Interno, possano essere votate anche da Forza Italia e Fratelli d’Italia, che sono all’opposizione. Infine, le questione del commissario italiano. Domani il premier Conte incontrerà la presidente Ue Ursula von der Leyen. Ma sul nome del commissario pare che le decisioni non siano prese. I nomi dei ministri Moavero e Tria che continuano a circolare? “Autocandidature” tagliano corto in Lega. Salvini fa la guerra per far saltare la prescrizione di Luca De Carolis Il Fatto Quotidiano, 1 agosto 2019 In un mercoledì di afa a Palazzo Chigi mancano solo i sacchi di sabbia alle finestre. Tra gli affreschi e gli stucchi dal primo pomeriggio fino a notte tarda è battaglia tra gialloverdi, una delle peggiori. Perché Matteo Salvini, il vicepremier che ormai vuole tutto, muove guerra alla riforma della giustizia del Guardasigilli a 5Stelle Alfonso Bonafede per uccidere quella della prescrizione. Per questo, guidato da Giulia Bongiorno, semina dubbi e distinguo contro il nuovo processo penale pensato dal ministro. Invoca le intercettazioni e la separazione delle carriere, assenti nel disegno di legge. Scuote la testa davanti alla riforma del Consiglio superiore della magistratura. Ma in testa Salvini e Bongiorno hanno innanzitutto la scadenza di fine anno: perché, secondo il Carroccio, senza la riduzione dei tempi dei processi entro dicembre, dal gennaio 2020 non può entrare in vigore la nuova prescrizione, quella che congela il decorrere dei tempi dopo la sentenza di primo grado. Una novità prevista dalla legge Spazza-corrotti. Ma la norma che c’è già, nero su bianco, è eresia per la Lega e per la penalista Bongiorno. E poi il Carroccio deve ingaggiare lo scontro su ogni cosa con i grillini, insistere sulla loro fragilità. Figurarsi se si può lasciare campo libero a un disegno di legge di Bonafede, numero due del M5S. Così è corpo a corpo, con Salvini che dà fuoco alle polveri con una diretta su Facebook: “Io ci metto la buona volontà, ma la sua cosiddetta riforma è acqua, non c’è uno scatto in avanti”. Serve altro, assicura, “una riforma vera e incisiva”, mentre quella di Bonafede sarebbe piena di omissioni: “Non si parla di separazione delle carriere, delle assunzioni dei magistrati, dei criteri dei concorsi, delle promozioni”. E poi, continua, “non si tocca il tema delle intercettazioni”. Ma soprattutto, accusa il ministro, “non si interviene sulle attenuanti generiche e sulla sospensione condizionale della pena. Ci sono spacciatori o stupratori che vengono condannati sulla carta, ma poi con la sospensione condizionale della pena fanno 24 ore di galera e poi tornano a spacciare e a stuprare”. Ed è il linguaggio preferito del leghista, sono i suoi slogan di sceriffo. Ottimi per azzannare, come e più del previsto. Perché il capo del Carroccio definisce i dettagli dell’assalto di prima mattina dopo una riunione con la ministra alla Pubblica amministrazione, il sottosegretario alla Giustizia Jacopo Morrone e Nicola Molteni, suo sottosegretario al Viminale. Con loro decide di rilanciare, anche con una sua contro-riforma: “Separa le carriere, dimezza i tempi dei processi, premia chi merita e punisce chi sbaglia”. Bonafede non gradisce e lo invita a farsi sotto: “Ci vediamo in Cdm, non su Facebook e, forse potrò finalmente sentire le argomentazioni, visto che in pre-consiglio nessuno ha detto nulla”. Tira aria da stracci, e allora Conte convoca un pre-vertice con Di Maio e Salvini, a cui poi si aggiunge Bonafede. Così il Consiglio, previsto per le 15, slitta di un’ora abbondante. Ma la riunione non porta a nulla. Tanto che il Cdm parte attorno alle 16.30 ma viene subito sospeso, secondo fonti di Chigi per “motivi tecnici” (provvedimenti urgenti tra cui scioglimenti di Comuni, pare). La pausa serve anche per cercare un accordo sul ddl, con Conte e i ministri che discutono fitto assieme ai rispettivi tecnici. Oltre due ore dopo si riparte, con i 5Stelle che spargono ottimismo: “C’è l’intesa, a breve ci sarà una conferenza stampa con Conte e Bonafede”. Ma gli addetti di Palazzo Chigi lavorano a vuoto, perché nel Cdm la tensione sale e i nodi si ingarbugliano. Conte si rivolge ai leghisti, più volte: “Fatemi le vostre proposte”. Ma di proposte concrete, dicono fonti di governo, nonne arrivano. Solo tanti appunti. Fino a un duro scontro tra Bonafede e Bongiorno, in punta di diritto. “Alla Lega non piacciono le norme sul processo penale” raccontano dal M5S. Così si va avanti, fino a tarda notte. Nella trincea tra presunti alleati. Con i populisti non c’è giustizia possibile di Claudio Cerasa Il Foglio, 1 agosto 2019 Salvini definisce “acqua fresca” l’oscena riforma Bonafede, ma in un anno la sua Lega non ha fatto nulla per evitare di trasformare il processo in uno strumento di vendetta sociale. Perché la repubblica giudiziaria si combatte solo mandando a casa il governo. Sarebbe bello poter credere alle parole di Matteo Salvini e immaginare che all’origine dello scontro sulla riforma della giustizia andato in scena ieri con il Movimento 5 stelle ci sia una volontà sincera da parte della Lega di difendere il principio del giusto processo, di combattere i tempi lunghi della giustizia, di opporsi alla barbarie del processo mediatico, di ribellarsi all’eccessiva discrezionalità di cui godono i magistrati italiani. Sarebbe bello poter credere che dietro all’ultima battaglia tra Lega e M5s ci siano questioni ideali e non elettorali, ma la storia di questo anno e mezzo di governo suggerisce purtroppo una sceneggiatura molto diversa all’interno della quale il partito di Salvini è più complice che vittima del giustizialismo grillino. Il Consiglio dei ministri di ieri, come sapete, ha registrato una distanza plastica tra le posizioni della Lega e quelle del M5S. Ma per quanto possa sembrare paradossale, alla radice delle polemiche di queste ore vi è una scelta scellerata - una delle tante- compiuta alla fine dello scorso anno proprio dalla Lega: accettare senza battere ciglio di votare una riforma “anticorruzione” che tra le molte scelleratezze ha introdotto, a partire dal gennaio del 2020, l’abolizione della prescrizione dopo la sentenza di primo grado. La Lega ha sostenuto di aver votato quella riforma solo dopo aver avuto precise rassicurazioni da parte del M5S: non ti preoccupare Matteo, votiamo questa simpatica legge che farà allungare i tempi dei processi e prima di gennaio, vedrai. faremo una straordinaria riforma per far diminuire i tempi del processo. A cinque mesi dall’introduzione nel nostro ordinamento dell’abolizione della prescrizione scopriamo ora che il responsabilissimo ministro dell’Interno, tra una passeggiata e l’altra in spiaggia, non solo non ha ancora alcun accordo concreto con i suoi compari di governo per fare quello che aveva promesso di fare mesi fa, ma in questi mesi ha fatto di tutto per evitare che il suo governo trovasse un qualche antidoto contro la trasformazione del processo in uno strumento di vendetta sociale. Ha scelto di non considerare prioritaria l’introduzione nella riforma della giustizia di alcuni provvedimenti che avrebbero potuto quantomeno temperare gli effetti nefasti veicolati dall’abolizione della prescrizione. Ha scelto di non difendere la riforma del patteggiamento, con l’innalzamento annunciato e poi cancellato fino a dieci anni o fino alla metà della pena che avrebbe permesso di snellire l’attività processuale e che sarebbe stato un elemento non secondario all’interno di un paese che considera i riti alternativi come strumenti del demonio e che si ritrova da tempo con il 90 per cento dei processi in corso di natura dibattimentale. Ha scelto di considerare fino all’ultimo accettabile l’idea che una risposta ai processi lumaca potesse essere il divieto di proroga del termine delle indagini preliminari oltre i sei mesi, senza accorgersi che un divieto che prevede solo una sanzione disciplinare e non una sanzione processuale non è un divieto ma è una truffa. Ha scelto infine di svuotare la rimodulazione del sistema sanzionatorio opponendosi con forza a ogni ipotesi di allargamento del perimetro delle depenalizzazioni. Matteo Salvini ieri ha definito con disprezzo la riforma Bonafede come una riforma fatta di acqua fresca, ma la verità è che all’interno della traiettoria seguita fino a oggi dal ministro dell’Interno non esiste un solo indizio capace di rendere credibile l’idea che il leader della Lega voglia difendere il principio del giusto processo, voglia combattere i tempi lunghi della giustizia, voglia opporsi alla barbarie del processo mediatico, voglia ribellarsi all’eccessiva discrezionalità di cui godono i magistrati italiani. Ogni compromesso con un partito giustizialista che ha fatto della negazione esplicita dell’articolo 27 e dell’articolo 111 della Costituzione (ogni imputato è innocente fino a prova contraria, la legge assicura la ragionevole durata dei processi) è un compromesso al ribasso. E ogni compromesso al ribasso sul terreno della giustizia è un passo in avanti verso il consolidamento di una repubblica giudiziaria fondata sul principio dello scalpo. In uno sciopero convocato lo scorso novembre dalle Camere penali, l’approccio scelto dal governo per cambiare la giustizia è stato giustamente definito il simbolo di una “controriforma autoritaria della giustizia penale” che altro scopo non ha se non quello di aggredire “il principio costituzionale della ragionevole durata del processo” trasformando, attraverso l’allungamento infinito dei tempi, il processo stesso in una forma occulta di pena. A voler seguire questa traccia, dunque, se il leader della Lega volesse davvero combattere per avere una riforma della giustizia capace di riequilibrare l’obbrobrio votato dallo stesso Matteo Salvini alla fine dello scorso anno avrebbe solo una carta a disposizione: arrestare il governo, prescrivere il grillismo e infilare nel cestino della storia una maggioranza che non ha altra natura se non quella di promuovere una controriforma autoritaria della giustizia penale. Faster, please. È giusta la stretta sui processi lumaca di Cesare Mirabelli Il Messaggero, 1 agosto 2019 Il disegno di legge che attribuisce al Governo una delega per la riforma della giustizia manifesta una ambizione e contiene una insidia. Proporre un unico provvedimento per riforme che comprendono il processo civile, il processo penale, l’ordinamento giudiziario, la carriera dei magistrati, il funzionamento del Consiglio superiore della magistratura, offre l’idea che si persegue una “grande riforma”, destinata ad incidere profondamente sul sistema ed a rendere efficiente il funzionamento della giustizia. La diversità dei temi trattati, ciascuno oggetto di una o più deleghe al Governo, alcuni di carattere prevalentemente tecnico, come quelli che riguardano il processo, altri di maggiore spessore politico, come quelli relativi ai magistrati ed al Consiglio superiore della magistratura, implicano il rischio che difficoltà o intoppi in Parlamento su singoli aspetti di una proposta così complessa blocchi o renda più difficile il percorso anche per quelle parti della riforma, ciascuna relativa ad un tema omogeneo, per le quali vi sia larga condivisione. Per quanto riguarda il processo, sia civile che penale, un elemento tecnico dominante è l’accentuazione della informatizzazione. Deposito di atti, comunicazioni e notifiche, sono esclusivamente affidate a sistemi telematici. Ne dovrebbe derivare, sia pure con qualche complessità operativa forse sottovalutata, il superamento di tempi morti e di incertezze nel buon esito delle notifiche, che particolarmente nel processo penale determina il rinvio delle udienze. Nel processo civile si tende a governarne la durata, sin dal ricorso che lo introduce, fissando termini stringenti per gli atti da compere dalle parti e dal giudice, e ad accentuarne la oralità, sino alla sentenza resa immediatamente dopo la discussione, con la lettura del dispositivo e possibilmente delle ragioni della decisione. Modalità analoghe anche per il giudizio di appello, che attualmente costituisce la fase che ha maggiore difficoltà a contenere i tempi richiesti per la decisione. È offerta anche una apertura per l’attività istruttoria stragiudiziale, sempre con la garanzia del contraddittorio tra le parti e della difesa tecnica. Anche per il processo penale sono scanditi i tempi per il compimento delle attività. Sin da quella delle indagini preliminari che compie il pubblico ministero, la cui violazione può determinare responsabilità disciplinare. È evidente il tentativo di bilanciare il già previsto allungamento dei tempi di prescrizione dei reati, sterilizzandone gli effetti con l’auspicato abbreviamento della durata dei processi. Una novità, almeno sul piano legislativo, perché già sperimentata in alcune procure, è la possibilità affidata al pubblico ministero di prevedere e rendere trasparenti e predeterminati i criteri con i quali selezionare le notizie di reato da trattare con precedenza. In qualche modo si supera di fatto il principio di obbligatorietà dell’azione penale, che viene raccordato alle capacità operative degli uffici di procura. Tuttavia ne deriva, in singoli territori, ad una annunciata ed implicita “depenalizzazione giudiziaria” di reati considerati di minor rilievo. É anche significativa la introduzione di casi nei quali non è consentito appellare le sentenze: di proscioglimento per reati di minor rilievo, o di condanna a pena sostituita con il lavoro di pubblica utilità. L’obiettivo di ridurre la durata ora eccessiva dei processi, che ha determinato numerose condanne dell’Italia da parte della Corte europea dei diritti dell’uomo, è affidato ancora una volta a modifiche delle regole processuali, mentre rimangono sottovalutati gli aspetti che riguardano la efficienza della organizzazione e delle risorse. Gli aspetti politicamente più sensibili riguardano la “riforma ordinamentale della magistratura”, che dedica largo spazio ai criteri ed alle procedure per la nomina negli uffici direttivi. Una disciplina che articola minutamente i tradizionali criteri della anzianità, delle attitudini e del merito sin qui riempiti da circolari del Consiglio superiore della magistratura. È evidente l’intenzione di porre rimedio sul piano normativo a quanto reso evidente dalle recenti vicende per la nomina del Procuratore della Repubblica di Roma. Tuttavia l’eccesso di dettagliati vincoli nel procedimento e nella articolazione dei criteri rischia di alimentare ulteriormente il già frequente ricorso al giudice amministrativo contro i provvedimenti di nomina. D’altra parte un sistema nel quale prevalesse il buon andamento, dovrebbe essere il riconoscimento dell’autorevolezza del Consiglio e la linearità delle sue scelte a costituire la migliore garanzia per la selezione dei magistrati che aspirano a funzioni direttive. Dunque è questo un nodo essenziale. Il disegno di legge governativo lo affronta con riguardo alle elezioni dei magistrati componenti del Consiglio superiore della magistratura, il cui numero in controtendenza rispetto all’andamento generale nuovamente si accresce da sedici a venti. Le elezioni si svolgono con un sistema misto: nella prima fase solo sorteggiati i magistrati che possono presentare la propria candidatura nel collegio dove esercitano le loro funzioni. Nella seconda fase sono eletti essere candidati più votati nelle singole circoscrizioni. La limitazione al potere di fatto delle correnti organizzate resta dunque affidata alla sorte, alla casualità delle potenziali candidature. Verso l’imputato di professione di Domenico Cacopardo Italia Oggi, 1 agosto 2019 La riforma della giustizia del ministro Bonafede prevede il termine di 9 anni per concludere un processo. Puniti i magistrati che fanno il loro dovere e premiati gli altri. Ci saranno gli imputati di professione che dovranno dedicare ogni energia e risorsa per difendersi per anni. La riforma della giustizia del ministro Bonafede prevede, infatti, il termine di nove anni per concludere un processo. Non solo. Saranno puniti i magistrati che fanno il loro dovere e premiati gli altri. La proposta del Guardasigilli è scandalosa perché fa trionfare le inefficienze di un sistema giudiziario che non ha ancora accettato di diventare, come è nel mondo, un servizio per la collettività. Il servizio giustizia che i cittadini italiani hanno il diritto di pretendere ancora di più di quanto non pretendano il servizio sanitario. Quale fine farà la riforma della giustizia del ministro Alfonso Bonafede è questione da affidare agli aruspici di regime e, quindi, meno importante di ciò che essa contiene e non contiene, denunciando un’impostazione autoritaria, coerente da un lato con i “vaffa” di Beppe Grillo e, dall’altro, con la teoria, autorevolmente prospettata, che in Italia non esistono innocenti, solo colpevoli che non sono stati scoperti. Un’impostazione, quest’ultima, che ha improntato un’effimera stagione giustizialista i cui effetti dannosi si sono riscontrati nei decenni successivi, in quella che è stata definita seconda Repubblica, la cui conclusione, da varie parti affermata, non sembra in realtà avvenuta. L’aspetto più eclatante e paradossale della proposta Bonafede è costituito dall’accelerazione dei processi, con l’imposizione di limiti di 4 anni per il primo grado, tre per l’appello, due per la Cassazione: 9 anni. L’intervento della ministra Giulia Bongiorno, avvocata di grido con un importante palmares giudiziario alle spalle (e di fronte, naturalmente), ha indotto il proponente a ridimensionare i cosiddetti limiti a 3 anni per il primo grado, 2 per l’appello, 1 per la Cassazione: 6 anni. Confesso che in un primo momento mi è venuto da ridere. Mi tornavano in mente i tempi della giustizia civile o penale dei paesi dell’Unione europea di cui facciamo parte ed emergeva, quindi, il paradosso di una nazione, l’Italia, che codifica tempi biblici per la sua giustizia. Insomma, termini ben più lunghi che altrove. È come se le università, di fronte al fenomeno dei fuori corso, decidessero di abolire o contenere il problema, dilatando i tempi dei corsi di laurea. Adattandoli cioè al passo degli studenti svogliati e un po’ somari che parcheggiano una parte della loro vita negli atenei nazionali. Mi sono poi reso conto che (e nessuno lo vuol dire) la proposta di Bonafede è scandalosa, volta a far trionfare e a stabilizzare le inefficienze di un sistema giudiziario che non ha ancora accettato dì diventare, come è nel mondo, un servizio per la collettività. Il “servizio giustizia” che i cittadini italiani hanno il diritto di pretendere ancora di più di quanto non pretendano il “servizio sanitario” (da notare che come il sistema sanitario è meno efficiente nel centro, nel Sud e nelle isole, allo stesso modo degli uffici giudiziari che funzionano peggio al centro, al Sud e nelle isole). Una giustizia che, sostanzialmente, manca, giacché è ritardata, in modo incoerente con i tempi sociali ed economici delle società contemporanee. Gli utenti che ottengono una sentenza definitiva nei tempi lunghi che ci sono usuali, in realtà non ottengono il ristoro dei torti subiti o dei diritti negati: l’attesa ha consumato l’interesse di chi si è rivolto al giudice. Per converso, in zone ad alta intensità criminale, la lentezza favorisce, indirettamente, lo sviluppo delle varie mafie che riescono a fornire soluzioni alternative, loro proprie, alla giustizia di Stato. È facile rivolgersi al “Pezzo da 90”, ottenerne la benevolenza e una decisione favorevole, che, poi, diventerà cogente per tutti. Così, l’ex dj Bonafede regala un premio agli inefficienti e si astiene dal riconoscere il merito di quei tribunali che, nelle attuali situazioni, riescono a svolgere la propria attività in tempi accettabili. Ovviamente, la questione delle questioni (e anche qui siamo ben lontani dalle amministrazioni giudiziarie degli altri paesi dell’Unione), cioè la separazione delle carriere tra giudici giudicanti e giudici inquirenti, non viene affrontata. Nel non detto del giustizialismo grillino, vale sempre e comunque l’accusa (ma valeva anche per l’ex ministra della giustizia, avvocata Paola Severino), dalla quale si fanno discendere immediate conseguenze politiche. Anche se sono numerosi i casi di non-colpevolezza stabilita anni e decenni dopo le prime condanne. Il caso di Calogero Mannino (riconosciuto non colpevole dopo 35 anni di peripezie giudiziarie) è solo uno dei tanti. E su di esso, in effetti, si appuntano le critiche di parti importanti della magistratura requirente che, in definitiva, non riescono ad accettare un giudizio difforme dalle loro impostazioni. Peraltro, la riforma della giustizia sembra, a detta di varie fonti ai 5 Stelle, anche autorevoli, l’occasione per esercitare una sorta di ricatto politico nei confronti della Lega: se non passasse ci sarebbero conseguenze sul voto (Senato) per il decreto sicurezza bis. Nella vita questi scambi si chiamano ricatti. Se, nel caso nostro, uno scambio del genere fosse confermato, avremmo proprio raggiunto il fondo. Bastano queste considerazioni per indurci a considerare la riforma Bonafede un’ennesima prova d’incapacità politica, di condizionamenti inaccettabili e di un metodo estraneo alla storia dell’Italia repubblicana. Se avrà un seguito, ne riparleremo. La magistratura non deve fare opposizione al sistema, ma stare di fronte alla legge di Giuseppe Gargani Il Dubbio, 1 agosto 2019 Gli articoli di Iuri Maria Prado e di Gherardo Colombo in polemica tra di loro, pubblicati su “Il Dubbio”, sono importanti e significativi perché rappresentano in modo profondamente diverso il ruolo del giudice nell’attuale ordinamento giuridico e nella società moderna. Prado sostiene che “non è compito del magistrato far rispettare la legge “perché “il potere di indagare e giudicare le persone” non può essere interpretato in maniera così distorta. Colombo invoca tanti articoli della Costituzione ma soprattutto l’art. 3 che attribuisce alla Repubblica il compito di “rimuovere gli ostacoli che impediscono lo sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”, per attribuire al magistrato un ruolo complesso e multiforme. Il ragionamento di Colombo in estrema sintesi è che lo scopo finale del magistrato è quello di far rispettare la legge “separando il grano dall’olio” e in più ha un compito del tutto particolare di far ricorso alla Corte Costituzionale per verificare l’aderenza delle leggi alle norme costituzionali. La tesi di Colombo non è corretta ed è pericolosa perché attribuisce una funzione al magistrato non conforme allo spirito e al contenuto delle norme del complessivo ordinamento giuridico. Colombo in verità esplicita in maniera argomentata quello che sostiene dagli anni 80 quando teorizzò, a nome di “magistratura democratica “ che la magistratura era costretta “a fare opposizione al sistema” perché il consociativismo tra la Dc maggioranza in Parlamento e il Pci minoranza, aveva affievolito l’opposizione e la contestazione al partito di maggioranza da parte dello stesso Pci. La magistratura cioè doveva farsi carico di contestare “il potere della maggioranza” attraverso la interpretazione della legge. Questa valutazione “politica” della funzione del magistrato io l’ ho contestata sin da allora, e Colombo lo sa bene, ma oggi debbo dire che c’è una coerenza nel suo ragionamento che considero ancora più pericoloso, perché dopo la esperienza del pool di Milano degli anni 90 a Colombo sembra ormai scontato questo ruolo omni comprensivo che rende il magistrato, a suo dire, “protagonista delle istituzioni”. Una funzione così indicata farebbe venir meno l’indipendenza della funzione giudiziaria per cui il magistrato non sarebbe più chiamato a reprimere la illegalità, funzione tipica e preziosa, ma a garantire la legalità cioè ad avere una funzione etico- politica. La funzione del magistrato è in contrasto con la funzione politica- etica, che si vuole attribuire: il reato crea un. vulnus nella società e la sanzione ricuce lo strappo e ricompone la comunità nella sua convivenza civile. Si tratta di un ruolo di garanzia di chi controlla e sanziona. Colombo naturalmente sa bene che c’è un problema enorme negli Stati moderni e non solo in Italia, ed è la funzione del giudice e del pubblico ministero. Un ruolo diverso è maturato lentamente in questi anni con l’indifferenza del legislatore: il Parlamento ha approvato leggi sempre più imprecise e generiche per assegnare un ruolo di supplenza alla magistratura, la quale non si sente più sottoposta alla legge, ma sta “di fronte alla legge”, per ripetere una splendida espressione di un vecchio un giurista come Mastursi. Quando il Parlamento prevede il reato di “traffico di influenze illecite” costruito sul nulla e dà al magistrato il massimo di discrezionalità per definirlo a suo piacere, siamo alla follia legislativa che determina inevitabilmente conflittualità e rapporti cattivi tra le Istituzioni. Quando i costituenti scrissero la Costituzione la magistratura era altra cosa e la giustizia aveva un valore autonomo e residuale nel senso che la certezza del diritto e delle norme, in un preciso contesto codicistico, garantiva la terzietà del giudice, la sua scontata imparzialità e la sua estraneità rispetto alle passioni politiche. La espansione del potere giurisdizionale ha alterato l’equilibrio tra i poteri così come l’aveva concepito Montesquieu. È questa la questione della giustizia in Italia. Nessuno finora aveva spinto la riflessione fino ad immaginare che il magistrato avesse la funzione di far “rispettare la legge” perché il rispetto della legge viene prima della devianza e deve essere garantito dalla scuola, dalla conoscenza, dalla cultura, dai valori morali, dalla solidarietà civile che è il contrario dell’odio e del rancore. Quella idea non è solo di Colombo ma sostanzialmente di tutta la magistratura che si attribuisce un potere non controllato perché autonomo e autoreferenziale. Sta al Governo e al Parlamento correggere questo equivoco ma debbo riconoscere che anche governi più solidi, più maturi non hanno fatto niente per evitare questa deformazione. E questo è un problema serio e fondamentale della nostra democrazia esposta sempre a pericoli ricorrenti. Circolazione stradale: quando il comportamento imprudente del pedone è causa dell’evento Il Sole 24 Ore, 1 agosto 2019 Circolazione stradale - Norme di comportamento dei pedoni - Investimento di pedone - Causa sopravvenuta da sola sufficiente a determinare l’evento - Colpa esclusiva della vittima - Presupposti. Il conducente del veicolo può andare esente da responsabilità, in caso di investimento del pedone occorre che la condotta del pedone configuri, per i suoi caratteri, una vera e propria causa eccezionale, atipica, non prevista né prevedibile, che sia stata da sola sufficiente a produrre l’evento (cfr. articolo 41 c.p., comma 2). Ciò può ritenersi solo quando il conducente del veicolo investitore - nella cui condotta non sia ravvisabile alcun profilo di colpa, né generica né specifica - si sia trovato, per motivi estranei a ogni suo obbligo di diligenza, nella oggettiva impossibilità di avvistare il pedone e di osservarne, comunque, tempestivamente i movimenti, attuati in modo rapido, inatteso, imprevedibile. Solo in tal caso, infatti, l’incidente può ricondursi eziologicamente esclusivamente alla condotta del pedone, avulsa totalmente dalla condotta del conducente e operante in assoluta autonomia rispetto a quest’ultima. • Corte di cassazione, sezione IV penale, sentenza 5 giugno 2019 n. 24927 Circolazione stradale - Norme di comportamento dei pedoni - Investimento di pedone - Pedone come causa esclusiva dell’evento - Presupposti. Nel settore dei reati in materia di circolazione stradale al fine di accertare se il comportamento colposo della vittima del sinistro costituisca mera concausa dell’evento lesivo, che non esclude la responsabilità del conducente, o piuttosto causa sopravvenuta, da sola sufficiente a determinare l’evento, occorre verificare se esso risulti del tutto eccezionale, atipico, non previsto né prevedibile. Secondo la Suprema corte anche in questo specifico settore appare maggiormente in grado di descrivere il fenomeno della causa da sola sufficiente a produrre l’evento la più recente ricostruzione giurisprudenziale (Cass. pen., sez. U., n. 38343 del 18/09/2014) che indica nell’ estraneità del fattore all’esame dall’area di rischio gestita dal garante il connotato che meglio permette di identificare la causa interruttiva. • Corte di cassazione, sezione IV penale, sentenza 22 marzo 2018 n. 13312. Circolazione stradale - Norme di comportamento dei pedoni - Investimento di pedone - Causa sopravvenuta da sola sufficiente a determinare l’evento - Colpa esclusiva della vittima - Presupposti. Il conducente del veicolo può andare esente da responsabilità, in caso di investimento del pedone, non per il solo fatto che risulti accertato un comportamento colposo (imprudente o in violazione di una specifica regola comportamentale) del pedone, ma occorre che la condotta del pedone configuri, per i suoi caratteri, una vera e propria causa eccezionale, atipica, non prevista né prevedibile, che sia stata da sola sufficiente a produrre l’evento. Ciò che può ritenersi, solo allorquando il conducente del veicolo investitore (nella cui condotta non sia ovviamente ravvisabile alcun profilo di colpa, vuoi generica vuoi specifica) si sia trovato, per motivi estranei a ogni suo obbligo di diligenza, nella oggettiva impossibilità di “avvistare” il pedone e di osservarne, comunque, tempestivamente i movimenti, attuati in modo rapido, inatteso, imprevedibile. Solo in tal caso, infatti, l’incidente potrebbe ricondursi, eziologicamente, proprio ed esclusivamente alla condotta del pedone, avulsa totalmente dalla condotta del conducente ed operante in assoluta autonomia rispetto a quest’ultima. • Corte di cassazione, sezione IV penale, sentenza 31 luglio 2013 n. 33207. Circolazione stradale - Norme di comportamento dei pedoni - Circolazione di pedoni - Mancata concessione della precedenza ai veicoli (art. 134 C.D.S.)- Causa esclusiva dell’investimento - Esclusione. Nell’ipotesi di inosservanza del pedone dell’obbligo di concedere la precedenza ai veicoli (art. 134 C.d.S.), può solo essere valutata come concausa dell’evento, ma non come causa autonoma esclusiva che interrompa il nesso di causalità tra la condotta di guida del conducente e l’investimento. • Corte di cassazione, sezione IV penale, sentenza 26 gennaio 2010 n. 3339. Reati contro la persona - Delitti contro la vita e l’incolumità individuale - Lesioni personali colpose - In genere - Investimento di pedone in autostrada - Prevedibilità - Condizioni - Reato - Sussistenza. È responsabile del reato di lesioni colpose il conducente che investa un pedone il quale si trovi già sulla sede autostradale nell’atto di attraversarla da destra verso sinistra ed essendo visibile fin dall’inizio dall’autovettura del conducente in uscita dalla galleria. (Precisa la Suprema Corte che diverso è il caso di attraversamento di un pedone dalla posizione di fermo sulla piazzola di sosta della sede stradale, che non può considerarsi prevedibile, essendovi un assoluto e comunemente rispettato divieto di attraversamento ed essendo altresì evidente che se si imponesse al conducente di decelerare alla semplice vista del pedone, pure in assenza di motivi di sospetto, ne risulterebbe gravemente compromessa la stessa circolazione e la sicurezza degli automobilisti, costretti a confrontarsi con un improvviso arresto di una autovettura che procede a velocità elevata). • Corte di cassazione, sezione IV penale, sentenza 3 novembre 2008 n. 41029. Umbria: presentata la relazione del Garante regionale dei detenuti di Morena Zingales umbriajournal.com, 1 agosto 2019 La relazione è di 51 pagine e mette in risalto su qual è il ruolo del Garante. In particolare c’è un quadro d’insieme degli Istituti di Pena per adulti in Umbria. “Tra il 31 dicembre 2017 e il 31 dicembre 2018 - è scritto - la popolazione penitenziaria umbra è aumentata lievemente, di 61 unità, passando da 1.370 a 1.431 detenuti, a fronte di una capienza complessiva compresa tra i 1.331 (al 31.12.2017) a i 1.334 posti-letto detentivi (al 31.12.2018). In regione, a fine 2018 il tasso di sovraffollamento ha raggiunto quindi il 107%, mentre a livello nazionale era del 118%. La situazione di sovraffollamento riguarda tre su quattro istituti e deve essere prestata un’attenzione specifica a quanto avviene a Perugia e Terni, principali istituti di accesso dalla libertà nel sistema penitenziario umbro e perciò più sensibili all’andamento generale della popolazione detenuta, dove già oggi il tasso di affollamento è superiore al 110%. Dei 1.431 detenuti presenti nei quattro istituti umbri alla data del 31 dicembre 2018, 1.100 erano condannati in via definitiva, mentre 144 erano in attesa di primo giudizio e 187 condannati non definitivi. Peculiare del sistema penitenziario umbro è l’alta percentuale di condannati definitivi, effetto di una popolazione detenuta in gran parte proveniente da fuori regione, spesso - come nei casi di Spoleto e Terni - con pene medio-lunghe da scontare. Il Nuovo Complesso penitenziario di Perugia, in località Capanne, è un edificio inaugurato nel 2005 e reso pienamente operativo nel 2009. La struttura è composta da un reparto femminile e due reparti detentivi maschili (penale e circondariale) destinati alla custodia esclusiva di detenuti di media sicurezza, uniti da un raccordo centrale contenente i servizi generali. A fronte di una capienza totale di 363 detenuti, nel Carcere di Capanne al 31.12.2018 si trovavano ristretti 408 detenuti, 72 donne e 336 uomini, di cui 278 stranieri. La percentuale di sovraffollamento nell’istituto penitenziario perugino arriva al 112,4%, ed è particolarmente evidente nella sezione Femminile. Sono stati ampliati gli impianti di videosorveglianza ed è stata predisposta una sala regia per favorire gli spostamenti dei detenuti in maggiore autonomia tra un’attività e l’altra. Nei reparti maschili le sezioni sono aperte fino a 9-10 ore al giorno, mentre nel reparto femminile le camere detentive restano aperte per un massimo di 4 ore, con una evidente disparità di trattamento molto sofferta, e lamentata, dalle detenute. Le condizioni delle stanze di pernottamento sono generalmente buone, anche negli spazi per l’isolamento. Nelle sezioni maschili le celle sono tutte doppie e dotate di letti a castello, termosifone, acqua calda, doccia e servizi igienici in un ambiente separato. Nel reparto femminile sono presenti stanze da due o da quattro, dotate di piano cottura e termosifone e bagno con doccia e bidet. La Casa circondariale di Terni “Vocabolo Sabbione” è stata aperta nel 1992. L’istituto di Terni è composto da 15 sezioni, tutte maschili, comprendenti tutti i circuiti detentivi previsti dall’amministrazione penitenziaria (MS, AS1, AS2, AS3, 41 bis). L’istituto è strutturato in blocchi autonomi, di cui uno dedicato a detenuti in regime di cui all’art. 41 bis, co. 2, Ord. penit. (27 al 3.8.2018) e un altro a detenuti per fatti di terrorismo. Al 28.2.2019 nell’istituto di Terni i detenuti presenti erano 456 di cui 130 i detenuti stranieri, in prevalenza provenienti da Romania, Marocco e Albania. Il numero delle presenze ha quindi ampiamente superato la capienza regolamentare (411). Gran parte della popolazione detenuta appartiene al circuito della media sicurezza, ma oltre a detenuti dei diversi circuiti di alta sicurezza, sono presenti 27 detenuti sottoposti al regime dell’art. 41 bis o.p. Nell’apposito padiglione, sono ospitati i detenuti in regime di semilibertà o ammessi al lavoro esterno. In occasione delle visite svolte presso il carcere di Terni si è riscontrato che in generale il complesso penitenziario si trova in buone condizioni. Non è stata ancora sperimentata la sorveglianza dinamica: i detenuti escono dalle stanze di pernottamento per il tempo previsto dell’aria e della socialità da svolgersi negli appositi spazi. L’istituto di Spoleto è stato costruito nel 1980 e consta di tre padiglioni, ciascuno con cortile esterno esclusivo, rispettivamente destinati ai detenuti in regime di 41 bis, a quelli in alta sicurezza e ai detenuti comuni, nonché agli appartenenti alle categorie riconducibili al circuito penitenziario cd. “protetto”. Al 22.2.2019 i detenuti presenti erano 459, di cui 111 i detenuti stranieri, in prevalenza provenienti da Albania e nord-Africa. La grande maggioranza dei detenuti è quindi di nazionalità italiana, prevalentemente definitivi e appartenenti al circuito dell’alta sicurezza. La struttura è in buone condizioni anche se necessita di qualche lavoro di manutenzione, qualcuno intrapreso dai detenuti (pareti esterne) sotto la direzione del personale di polizia addetto. L’istituto di Orvieto si trova in una struttura risalente al XVI secolo. L’edificio è composto da un’unica sezione che si sviluppa lungo tre bracci dello stesso corridoio. Con Decreto del Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria del 16.07.2014, la Casa di reclusione di Orvieto è stata trasformata in Istituto a custodia attenuata destinata a programmi intensivi di sostegno al reinserimento sociale. Al 31.12.2018 nell’istituto di Orvieto i detenuti presenti erano 104 di cui 63 i detenuti stranieri, in prevalenza provenienti dal nord-Africa. Il numero delle presenze ha di fatto raggiunto la capienza regolamentare (106). A causa di trasferimenti di detenuti dagli istituti della regione Toscana, nel periodo estivo e autunnale, alcune camere di pernottamento hanno ospitato un numero di detenuti superiore alla capienza regolamentare. La popolazione detenuta appartiene tutta al circuito della media sicurezza e sono prevalentemente definitivi. Al 31.12.2018, due detenuti erano in regime di semilibertà. La Regione Umbria non è sede di istituti penali per minori e quindi non vi sono luoghi di diretta amministrazione pubblica per l’esecuzione di misure restrittive della libertà inflitte a minori o giovani adulti che abbiano commesso reati entro la minore età. Ciò non toglie che l’Ufficio di servizio sociale per i minorenni competente per territorio segue una pluralità di misure eseguite presso servizi e strutture territoriali a ciò accreditate dal Ministero della giustizia e dal Tribunale per i minorenni. Alla data del 31 dicembre 2018 risultavano prese in carico dagli uffici di servizio sociale per i minorenni di Perugia 487 persone di cui il 15% ragazze e il 40% stranieri. Complessivamente, nel 2018 sono state prese in carico 128 persone private o sottoposte a misure restrittive della libertà personale (fig. 20), per il 54% ospiti della casa circondariale di Perugia, per il 27% detenute a Spoleto, nel 15% dei casi ristrette a Terni e in solo 4 casi detenute a Orvieto. Le principali problematiche sottoposte all’attenzione del Garante riguardano ciò che concerne le condizioni di detenzione. In generale, è stata frequentemente segnalata la scarsa qualità del cibo offerto dall’Amministrazione penitenziaria e in alcuni casi l’inadeguatezza del vitto rispetto alle problematiche di salute, la mancanza di acqua calda e del riscaldamento nelle camere di pernottamento, la non idoneità di queste ultime dal punto di vista igienico-sanitario e situazioni di sovraffollamento soprattutto nei periodi estivi, l’impossibilità di detenere oggetti particolari in camera (crocifisso al collo, personal computer, radio, dispositivi mp3 e fotografie dei familiari in 41bis), nonché il contrasto delle disposizioni dei singoli istituti relative al materiale che il detenuto può avere con sé in occasione del trasferimento da uno all’altro. Spesso conseguenti alle criticità relative alle condizioni di detenzione sono le numerose richieste di intervento del Garante rispetto alle istanze di trasferimento avanzate dai detenuti sia al Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria che al Provveditorato dell’Amministrazione Penitenziaria Toscana-Umbria. Gli istituti penitenziari della Regione Umbria sono caratterizzati dalla presenza di detenuti che per la maggior parte sono non residenti. Ciò determina notevoli disagi per i detenuti e per le loro famiglie che, spesso, non riescono a far fronte ai continui spostamenti per i colloqui mensili. Reggio Calabria: delegazione dell’Ufficio del Garante in visita al carcere di Arghillà di Danilo Loria strettoweb.com, 1 agosto 2019 L’incontro era finalizzato a presentare il programma per capire quali possano essere gli interventi utili a garantire il rispetto e la dignità della persona, agli ultimi tra gli ultimi, ancora più emarginati per la tipologia di reato commesso. In data 30 luglio 2019 una delegazione dell’Ufficio del Garante Metropolitano per i Diritti dei Detenuti, composta dal garante stesso dott. Paolo Praticò, dall’avv. Maria Cristina Arfuso e dall’avv. Giuseppe Gentile si è recata presso il Carcere di Arghillà per una visita programmata, come avvio delle attività di questo Ufficio. A ridosso del tragico episodio che ha visto morto suicida un detenuto rumeno da pochi giorni ristretto. Ad accompagnare i componenti l’ufficio c’erano il dott. Emilio Campolo responsabile area educativa e il dott. Speranza coordinatore degli educatori di Arghillà. L’incontro era finalizzato a presentare il programma, preannunciando una serie di colloqui conoscitivi individuali, per capire quali possano essere gli interventi utili a garantire il rispetto e la dignità della persona, agli ultimi tra gli ultimi, ancora più emarginati per la tipologia di reato commesso. Abbiamo precisato loro come a noi non interessa conoscere cosa hanno fatto e per quale motivo si trovino ristretti, se colpevoli o innocenti ma, il nostro impegno è volto a garantire una corretta escussione della pena e ad offrire loro, ove possibile, un reinserimento nella società civile, con l’acquisizione di competenze artigianali ed altro, come un minimo d’istruzione e la conoscenza della lingua italiana per i detenuti stranieri, la possibilità di comunicare con i propri familiari, anche attraverso l’interessamento del consolato d’origine. Tutte azioni che allentano le tensioni che inevitabilmente si creano a seguito di episodi tragici e che vengono amplificate da disservizi come un rubinetto che gocciola o l’umidità delle pareti che ci impegniamo a segnalare alla direzione. Abbiamo detto loro delle attività sportive che potremo implementare per via di un accordo con il Coni regionale e rientra nel programma la costituzione di un “centro d’ascolto” esterno per chi gode dei benefici di legge e per i familiari, spesso vittime collaterali delle situazioni dei propri congiunti. In tal senso anche il sindaco della Città Metropolitana si è impegnato a fornirci il giusto supporto. Napoli: carcere di Poggioreale, frigoriferi in ogni cella di Massimo Romano napolitoday.it, 1 agosto 2019 Il Garante: “Sovraffollamento inaccettabile”. Nel carcere di Poggioreale arrivano i frigoriferi. “Ogni cella avrà un refrigeratore - annuncia Samuele Ciambriello, garante dei detenuti della Campania - per un totale di 200 frigoriferi. Un’iniziativa possibile grazie a una mia proposta e all’impegno dell’Assessorato alle Politiche sociali della Regione”. Sicuramente si tratta di una buona notizia, in un periodo in cui le temperature sono proibitive. Ma le problematiche di Poggioreale restano tutte: “In questo carcere si soffre di un sovraffollamento del 150 per cento, è inammissibile - prosegue il garante - Il Governo continua ad annunciare la realizzazione di nuove carceri, ma per ora sono le solite chiacchiere. A questo va aggiunto che nel dicembre 2016 sono stati stanziati 15 milioni per la ristrutturazione delle case circondariali. Da allora, a Poggioreale abbiamo assistito solo a un paio di visite del provveditorato ai lavori pubblici. Anche in questo caso, mi sembra una cosa non accettabile”. San Severo (Fg): calcio e integrazione, in carcere gran finale per “Sportivamente” lucerabynight.it, 1 agosto 2019 Ottima partecipazione al torneo organizzato dal volontario Luigi Talienti: “Importante valorizzare la dimensione ludica come opportunità di socialità”. In autunno, nuovo appuntamento alla presenza delle famiglie. Gran finale giovedì 1 e sabato 3 agosto per “Sportivamente”, il torneo organizzato nella Casa Circondariale di San Severo dal volontario Luigi Talienti. La manifestazione, che vuole promuovere lo sport e affermare i valori fondanti del senso civico, del rispetto del proprio prossimo e del valore della regola, si sta svolgendo contemporaneamente anche nel carcere di Foggia. “La manifestazione - spiega Talienti - nasce per animare le giornate “dentro” durante l’estate, periodo in cui si fermano le attività scolastiche e diventa più forte la necessità di trascorrere qualche ora all’aria aperta. Una cosa però voglio precisarla: in carcere fa freddo anche quando ci sono 40 gradi, perché gli affetti che scaldano il cuore sono lontani”. L’iniziativa è stata fortemente voluta dal Direttore della Casa Circondariale di San Severo Patrizia Andrianello, dai Commissari Giovanni Serrano e Giacomo Prudentino e dalla responsabile dell’Area Educativa, Rosanna Caggiano. “Attraverso tali iniziative - sottolinea Talienti - si riesce a carpire la volontà di reinserimento dei reclusi. Per questo motivo risulta particolarmente importante, anche con il supporto del volontariato, valorizzare la dimensione ludica come opportunità di socialità e di allentamento delle tensioni prodotte dalla condizione detentiva. Con questo fine, l’iniziativa nata a Foggia è stata esportata, lo scorso anno, nell’Istituto di Lucera e quest’estate a San Severo”. “Lo sport è spesso presente nelle iniziative di volontariato - il commento del Presidente del Csv Foggia, Pasquale Marchese - perché aiuta a superare le barriere sociali. Ha un ruolo formativo e costruttivo e, proprio grazie ai valori che lo animano, svolge una funzione di traino nei processi di integrazione”. La manifestazione vedrà sfidarsi i campioni e i vicecampioni del torneo tra ottobre e dicembre 2019, alla presenza delle famiglie, nell’ambito dell’iniziativa “Bambini senza sbarre”. L’ergastolo e il diritto alla speranza di Valentina Stella Il Dubbio, 1 agosto 2019 Esce domani un libro che raccoglie l’opinione di cinque giuristi. “Se il fine della pena è la risocializzazione del reo, la reclusione in carcere non può essere senza fine: ecco perché, da sempre, l’ergastolo è e resta un nodo giuridico da dibattere e da sciogliere”. A discuterne, anche coraggiosamente dato il contesto politico e sociale, ci hanno pensato cinque autorevoli giuristi (Emilio Dolcini, Elvio Fassone, Davide Galliani, Paulo Pinto de Albuquerque, Andrea Puggiotto) nel testo - da domani in libreria - “Il diritto alla speranza. L’ergastolo nel diritto penale costituzionale” (G. Giappichelli Editore, Torino 2019, 480 pagine, euro 48). Un libro attualissimo se si pensa da un lato alla facilità con cui oggi persino alcuni esponenti istituzionali e il tribunale del popolo invochino la pena perpetua, svelando l’ignoranza del diritto e l’indifferenza verso i diritti; e dall’altro lato alla recente sentenza Viola v. Italia per cui l’ergastolo ostativo viola l’articolo 3 della Cedu, in attesa della pronuncia della Consulta il prossimo 22 ottobre sulla legittimità del 4bis. Ma ci sono altri due importanti obiettivi sottesi al testo, che spiegano propri gli autori: il primo è quello di permettere agli studenti universitari di studiare la pena dell’ergastolo, tema spesso sottovalutato insieme a quelli dell’amnistia e dell’indulto. Inoltre gli autori avvertono “la sensazione che oggi nessuna maggioranza parlamentare e nessun esecutivo sarebbero disposti ad un aperto e serio confronto sulla pena perpetua con il mondo accademico”. Ed hanno ragione se ricordiamo gli sforzi dell’accademia negli Stati generali dell’esecuzione penale svaniti quando il precedente Governo ha abortito per convenienza elettorale la riforma dell’ordinamento penitenziario, trasformatasi poi in un sistema sempre più carcerocentrico nella prospettiva nel nuovo Esecutivo. Il secondo obiettivo è “propriamente scientifico” perché attraverso la riproposizione delle sentenze più importanti della Cassazione, della Corte Costituzionale e della Cedu essi, con anche le loro interpretazioni, vogliono “ricostruire il passato, analizzare il presente, prefigurare un possibile futuro, pensando soprattutto ai tanti giudici e avvocati che della questione ergastolo dovranno occuparsi”. Ma l’altro tema chiave del libro è la speranza. Ad illuminare il lettore su come la giustizia deve essere speranza anche nel comminare una pena è il Garante nazionale dei detenuti, Mauro Palma, che firma la prefazione: “L’esercizio di giustizia deve offrire un elemento di speranza se non vuol guardare soltanto a ciò che è stato”. Per il Garante è necessario “sentenziare” ossia emettere il giudizio che riconosca alla vittima il disvalore creatosi nell’aver subito un grave torto. Ma occorre intraprendere anche la direzione del futuro, ricomponendo la lacerazione avvenuta tra vittima, reo e società. Però c’è un reale futuro per chi è condannato all’ergastolo? Evidentemente no se un recluso, come narra Palma, gli ha fatto pervenire la “terribile e irricevibile richiesta di veder convertito in condanna a morte il proprio ergastolo”. E allora è necessario parlarne perché, in questo difficile periodo per i principi democratici e costituzionali, non bisogna dare nulla per scontato. Potrebbe essere addirittura breve il passo per ripristinare i lavori forzati. Con la conoscenza che ci offre questo libro percorriamo invece il sentiero in cui “il diritto alla speranza altro non è se non la presa d’atto che dietro a qualsiasi perpetuità e a qualsiasi automatismo esiste una persona”. Quello spostamento necessario nella storia dell’umanità di Luciana Castellina Il Manifesto, 1 agosto 2019 A proposito di “Migrazioni. La rivoluzione dei Global compact”, di Valerio Calzolaio. Lo sapevate che l’Italia - quella di ieri già bruttina, ma ancora non così brutta come quella di oggi - è fra i ventisette paesi che non hanno firmato il secondo accordo del Global Compact on Refugees approvato dall’Assemblea generale dell’Onu il 17 dicembre 2018, quello che riguarda specificamente i migranti non di necessità bensì di parziale libertà, categoria come si sa difficile da definire visto che si tratta comunque di disgraziati che non rischiano certo la vita sui barconi per divertimento? Cito per prima questa informazione che fornisce l’ultimo libro di Valerio Calzolaio (uno dei pionieri del Manifesto e poi del Pdup nelle Marche, persino sottosegretario all’ambiente nel famoso governo Prodi bis) - che in realtà prende molto alla larga, e dalla preistoria, il fenomeno delle migrazioni - perché mi ha sbalordito. (E mi ha fatto anche vergognare, perché non lo sapevo neppure io). Con una parte di giornali stracolmi di indignazione per quanto accade nel Mediterrano nessuno ha trovato il modo di farci sapere l’ennesima malefatta del nostro paese. E noi siamo tanto distratti dal non averlo saputo. Lo dico perché non si finisce più, ormai, di indignarsi a vuoto. Penso all’esaltazione di Greta, per esempio, allegramente accompagnata dal silenzio su quanto non viene rimosso sebbene sia causa grave della catastrofe climatica perché farlo disturberebbe il sistema. Nel libro di Valerio Calzolaio - Migrazioni. La rivoluzione dei Global compact (edizioni Doppiavoce, pp. 80, euro 11) - questo è tuttavia un dettaglio, perché di migrazioni, quando non si cavillava sul fatto che fossero di necessità o meno ed eventualmente di quale categoria, ce ne sono da decine di migliaia di anni. Anzi: non c’è mai stato - ci racconta l’autore - un tempo di isolamento abbastanza lungo da far divenire un gruppo razza o specie tanto diversamente definita da giustificare una distinzione così netta. E infatti sembra che ciascuno di noi condivida un antenato comune vissuto entro gli ultimi 3mila anni; e che abbiamo persino, per il 99,9%, cioè quasi tutto, lo stesso Dna. (Ahimè, lo abbiamo in comune anche con Salvini). Vuol dire che ci siamo mossi sempre, camminando e camminando (e perciò abbiamo tutti più o meno belle gambe), in seguito sviluppando il cervello fino a farci scoprire che era più comodo navigare. Solo le piante - come ci ha informato un altro bellissimo libro, quello di Stefano Mancuso (L’incredibile viaggio delle piante) - riescono invece a stare ferme e tuttavia a procurarsi, grazie all’intelligente movimento di rami e fogliame, quanto gli serve per svilupparsi e vivere. L’essere umano no, non possiede questa duttilità, nonostante abbia le gambe. Spesso pur avendo il vantaggio degli arti, e anche facendo salti mortali, al contesto in cui è finito non è riuscito ad adattarsi mai. Sarebbe indispensabile - nota Valerio - un atlante geo-storico globale delle migrazioni umane, per capire meglio da dove veniamo e come ci siamo mossi nei millenni attraverso la Terra. Purtroppo non c’è, l’impresa, pur urgente, non è stata mai davvero tentata. E viene da pensare che il disimpegno non sia stato del tutto casuale: perché ci avrebbe costretto a prendere atto che ogni popolo è nato “altrove”. (Con una sola eccezione: sembra infatti che gli aborigeni australiani, pur arrivati anche loro in quel continente da un altrove, siano riusciti a restare nel medesimo territorio per 50mila anni). Valerio suggerisce un’altra, specifica e a me pare interessantissima ricerca: ricostruire la storia dell’umanità - e dunque dei suoi movimenti attraverso il globo - assumendo un’ottica di genere. Anche questa mai affrontata, un altro enorme buco che abbiamo patito senza protestare. Oggi di migranti, ogni categoria inclusa, ce ne è pressappoco un miliardo: un numero grande quasi come quello dei cittadini della Cina o dell’India. Un’enormità. Calzolaio, che oltre a essere uno studioso è sempre stato anche un militante, termina il libro con indicazioni pratiche: leggere e attuare, ognuno nel proprio ruolo sociale o istituzionale, i principi e gli indirizzi del primo accordo Global Compact, quello sottoscritto anche dall’Italia, e però anche del secondo che il nostro paese non ha votato, sì da adoperarsi per siglare patti che riducano le migrazioni forzate, e per regolare la libertà di migrare - e di restare - renderla ordinata e sicura, prendendo in considerazione tutte le cause che spingono a fuggire, compresa quella, sempre più importante, del disastro climatico che non ha tutt’ora alcun riconoscimento, nonostante l’invocazione di papa Francesco. Cito letteralmente le ultime righe del libro, che è un’affascinante storia del nostro passato, perché ci consegnano un programma di lavoro per il che fare domani: “Non c’è niente di irregolare o pericoloso se regioni o enti locali, imprese, università o centri culturali, perseguono concretamente alcuni degli obiettivi indicati nel Global Compact, l’abbia o meno approvato l’Italia”. Stiamo infatti parlando di atti dell’Onu, che come sapete non sono purtroppo vincolanti. E però guai se non ci fossero stati e qualcuno non li avesse presi sul serio. Per ottenere leggi vincolanti, si comincia così. Il nazionalismo avanza nel rifiuto della realtà di Salvatore Bragantini Corriere della Sera, 1 agosto 2019 Sta tornando una situazione in cui al conflitto armato si sostituisce, per ora, quello commerciale: adesso la parola chiave non è più collaborazione, ma competizione. Declina l’era in cui i Paesi sviluppati collaborarono per scongiurare le tensioni alla radice della seconda guerra mondiale; i nazionalisti, ormai al governo negli Usa, nel Regno Unito e in Italia, sono prima forza d’opposizione in Francia e Germania. A mutare il quadro è stata la globalizzazione che, intensificando gli scambi internazionali, ha avuto effetti contrastanti fra Paesi sviluppati ed emergenti. Su questa s’è innestata la finanziarizzazione dell’economia, sfociata nella crisi del 2007, che contraddiceva le scelte decise nel ‘44 alla conferenza di Bretton Woods grazie a J.M. Keynes, un gigante del pensiero. Memore delle esose riparazioni inflitte cent’anni fa alla Germania sconfitta e della crisi del 1929, egli convinse gli Usa a scongiurare nuovi conflitti diffondendo lo sviluppo economico, la piena occupazione e la stabilità finanziaria. Allo spirito di collaborazione multilaterale di Bretton Woods si deve l’accordo di Londra del febbraio ‘53 quando - a meno di otto anni dalla resa di Berlino -i Paesi vincitori condonarono alla Repubblica Federale Tedesca (Rft) metà dei debiti accesi dal Terzo Reich per aggredire l’Europa libera. Gli Usa volevano certo sottrarre la Rft all’influenza sovietica, ma c’erano altri, più rudi, modi per farlo: non era quella la scelta ovvia. Con l’approccio cooperativo la “Guerra fredda” l’han vinta le democrazie occidentali che, pur operando per la sconfitta dell’Urss, han sempre escluso di ottenerla con le armi. Quello spirito ha propiziato la rinascita post-bellica, poi agevolato il più ambizioso progetto politico della storia, l’attuale Unione Europea, e perseguito lo sviluppo condiviso con le organizzazioni multilaterali. Queste han sospeso - fatto senza precedenti nella storia - il vigore della legge di gravità politica, per la quale il più forte ha ragione. Se gli Usa nel ‘45 avessero perseguito l’America first, il nostro destino sarebbe stato assai peggiore; ora la vittoria di Trump, col tramonto del multilateralismo cooperativo nello “Stato guida”, è il punto di svolta. Quell’assetto declina forse per troppo successo: la Brexit e la crisi d’identità della Ue son dovute proprio ai progressi, per tanti eccessivi, dell’integrazione europea. L’esplosione degli scambi internazionali, poi, ha immesso nell’economia moderna centinaia di milioni di persone prima escluse, migliorandone il tenore di vita. Sono emigrati nei Paesi emergenti molti lavori prima svolti in Occidente ove, invece, aumentano i poveri che lavorano e per centinaia di milioni di persone peggiora la vita. Esse soffrono la perdita di status sociale, sperimentando l’incertezza sul futuro, ben nota ai Paesi emergenti. Visto dallo spazio, il mondo è oggi più equo, o meno iniquo, di ieri, ma gli elettori dei Paesi sviluppati si oppongono col voto. L’avanzata del nazionalismo esprime, magari inconsciamente, il rifiuto della nuova realtà, che ha dato il benessere a tanti “là” e l’ha tolto “qua”, vorrebbe ricacciare le masse che si affacciano al benessere nella miseria da cui sono uscite, nell’illusoria nostalgia di un passato che non tornerà. Torna, invece, un mondo nel quale al conflitto armato si sostituisce, per ora, quello commerciale, nel quale la parola chiave non è più collaborazione, ma competizione. Donald Trump sfrutta la potenza militare per imporsi negoziando con i singoli Stati, più deboli. Così, per riequilibrare la bilancia commerciale Usa, mission impossible, finge che le importazioni d’acciaio canadese o di auto europee mettano a rischio la sicurezza Usa. È il ritorno alla legge di gravità, cui solo la Ue si può opporre: sono perciò assurde le parole del sottosegretario leghista Michele Geraci, che dice alSole 24 Ore, sui negoziati commerciali: “La politica (della Ue, ndr) è comune, ma le negoziazioni, per noi, si devono fare one to one con ogni partner: Usa, Cina e altri”. Le pratiche illecite della Cina van combattute, ma ciò non autorizza a bloccare il suo sviluppo per impedirle di crescere negli equilibri mondiali. I rischi dell’autocrazia cinese, gravissimi, non si affrontano impedendo - con la forza o con i suoi sostituti, come l’overreach legato al ruolo del dollaro Usa nei pagamenti - a uno Stato sovrano le politiche di crescita che ritiene opportune. Con metodi simili l’Occidente, lungi dal vincere la “Guerra fredda”, ci avrebbe precipitato in quella calda, senza vincitori, forse senza sopravvissuti. Trump prima scatena i conflitti commerciali, poi vuole che la Federal Reserve abbassi il costo del denaro per attutirne le conseguenze: cinica scelta volta a propiziarsi la rielezione, manipolando la valuta. Per questo “alto fine”, dovremmo tutti correre verso l’inevitabile bolla, giunta la quale le banche centrali sarebbero quasi prive di spazi di manovra. Quando il XX secolo si chiuse nel trionfo dell’Occidente, parve che una visione lungimirante degli interessi nazionali potesse ancora prevalere; il XXI sta dandoci un mondo diviso da ampi fossati, dove gli Stati si affrontano brandendo interessi nazionali dalla corta vista. La critica alla globalizzazione continua, ma sono poche e sparse, chissà perché, le voci che vorrebbero ricondurre la finanza al ruolo di serva dell’economia. La finanza padrona ha invece acuito i lati negativi della globalizzazione e, a differenza di questa, è assai dannosa. Migranti. Sulla Gregoretti Salvini ha violato una legge scritta da Salvini di Carmelo Caruso Il Foglio, 1 agosto 2019 Si è affacciato ancora una volta su Facebook e ha annunciato che, grazie alle sue manovre marinaresche, ha risvegliato le coscienze internazionali, ma ha nascosto tutte le violazioni del Testo unico nazionale che finora è stato capace di compiere. Non è vero che Matteo Salvini ha fatto sbarcare ieri gli ennesimi sventurati, soccorsi da una nave della Guardia costiera, la Gregoretti, perché aveva finalmente “risolto il problema. Cinque paesi europei si faranno carico di 116 migranti”. È invece ampiamente probabile che li abbia fatti scendere per non continuare a calpestare quanto sancito dall’italianissimo Testo unico sull’immigrazione e da quell’articolo 10 ter che neppure il suo decreto sicurezza, quello che dovrebbe recintare il Mar mediterraneo, è riuscito a fare. E infatti, all’articolo 10 ter del decreto legislativo del 25 luglio del 1998, si prevede che “lo straniero rintracciato in occasione dell’attraversamento irregolare della frontiera interna o esterna e giunto in territorio nazionale, a seguito di operazioni di salvataggio, è condotto presso appositi punti di crisi e altresì effettuate le operazioni di rilevamento fotodattiloscopico e segnaletico”. Lo traduce dal burocratese all’intellegibile, il deputato di Più Europa e già segretario dei Radicali, Riccardo Magi, che nelle sedi istituzionali ha sollevato il conflitto, denunciato l’abuso. “E ho registrato il silenzio della Lega, compreso quello di Nicola Molteni, il sottosegretario degli Interni, che non mi ha saputo rispondere o forse non voleva”. Molteni che è ormai considerato il ministro facenti funzioni quando Salvini prende il sole al Papeete Beach, non ha replicato a Magi. Non era in nome dei trattati internazionali che lo si sfidava ma in nome del nostro diritto che se ne chiedeva conto. “Nel testo, che ripeto non è stato modificato dal decreto sicurezza, si obbligano le autorità a condurre rapidamente tutti coloro che sono stati soccorsi in mare nel centro più vicino per procedere all’identificazione”. Come spiega Magi, prima della loro identificazione, non è possibile sapere se siano migranti irregolari, richiedenti asilo e, dato che Salvini è molto sensibile all’argomento, non si può sapere se a bordo ci siano uomini con precedenti penali che rappresentano una seria minaccia per lo Stato. “E non si capisce neppure se possano chiedere il ricongiungimento familiare, raggiungere i loro cari nel resto d’Europa. Da qui l’esigenza dell’accompagnamento rapidissimo nei centri”. E però, una cosa nel testo è chiarissima. “Un ministro non può vietare l’ingresso di una nave in un porto italiano, tanto più di una nave della Guardia costiera” dice ancora Magi. Cosa può fare quindi? “Il ministro dell’Interno ha il potere di indicare il porto che deve essere assegnato alla nave. Scegliere l’approdo migliore dove, per ragioni di sicurezza e capienza, fare espletare tutte le procedure. Al ministro viene lasciato questo potere discrezionale. Non altro”. Più volte si è scritto che le competenze di Salvini confliggono con quelle del ministro delle Infrastrutture e dei trasporti, Danilo Toninelli. “Sono in conflitto più con l’autorità giudiziaria. Salvini ha finora emanato dei divieti amministrativi temendo l’immigrazione clandestina. Ma anche qui sconfina. Se c’è un reato non è certo lui che può accertarlo ma solo un magistrato”. E dunque, per Magi è più eclatante la violazione del nostro codice rispetto a tutte le altre convenzioni che Salvini accartoccia. “La verità è che i suoi trattenimenti sono illegittimi perché mancando il riconoscimento dei migranti si è di fronte a uomini senza reati. Dei corpi”. È un groviglio che ha coinvolto anche docenti di diritto e che si è ancora più imbrogliato dopo il decreto sicurezza che, come aggiunge Magi, “cerca di punire a livello amministrativo quanto non riesce a fare a livello penale. Del resto, come si è visto ad Agrigento, è inapplicabile. Carola Rackete è stata liberata e non convalidato il suo arresto”. I giuristi si dividono anche sull’applicabilità in mare del decreto. “Rifacendosi al nostro Testo, c’è un caso in cui si potrebbe impedire l’accesso in un porto italiano”. Quale? “Quando ci si trova di fronte a una nave di conclamati trafficanti. E però, anche in quella circostanza non basta semplicemente impedire di avvicinarsi ma dovrebbero essere catturati”. Per Magi è la prova di quanto il decreto di Salvini sia “disumano, ricattatorio” e scritto in maniera “arruffona”. “Con le sue azioni, Salvini, trascina i funzionari, anzi, li sottopone a procedure extra legem”. Per colpa sua rischiano anche loro ? “Il problema è che vengono costretti. Secondo la legge italiana, c’è un ministro che la oltrepassa. È Salvini il vero fuorilegge”. Egitto. 130 prigionieri in sciopero della fame da sei settimane di Chiara Cruciati Il Manifesto, 1 agosto 2019 La protesta nel famigerato carcere di Tora, la reazione del regime sono pestaggi e trasferimenti. La denuncia delle ong: “In prigione condizioni di vita medievali”. Trenta morti nel 2019. Sono 130 i prigionieri politici in sciopero della fame da sei settimane nel carcere di massima sicurezza di Tora, simbolo della brutalità del regime egiziano. Protestano per le condizioni di vita, al limite della sopravvivenza, a cui sono costretti. Dal 17 giugno chiedono la fine di trattamenti disumani e l’accesso a regolari visite familiari. Alcuni di loro, imprigionati da oltre due anni, non hanno mai più visto la famiglia o un legale. La risposta del Cairo, scrive Amnesty International, è la rappresaglia: picchiati, sottoposti a elettrochoc, privati dello zucchero, alcuni trasferiti in celle speciali. Per convincerli a desistere. La maggior parte, aggiunge Amnesty, sono scomparsi per un periodo compreso tra 11 e 150 giorni: con gli arresti mai notificati alle famiglie, sono “riapparsi” di fronte ai tribunali dell’intelligence e intercettati per pochi secondi dagli occhi dei familiari, accorsi per vederseli portare via di nuovo. Un fatto non nuovo, riemerso nei giorni della morte dell’ex presidente Morsi, rapidamente archiviata. La carenza cronica di cure mediche è denunciata da anni dalle Ong per i diritti umani che con difficoltà tengono il conto dei morti in custodia. Dopo la morte di Morsi, l’Egyptian Initiative for Personal Rights (Eipr) ha chiesto “un urgente esame dei casi simili”: prigionieri isolati, a cui sono negate da mesi o anni la visita dei familiari e cure mediche adeguate. Già nel marzo 2016 l’Eipr parlava di “deterioramento senza precedenti” delle condizioni di prigionia, “medievali, con maltrattamenti, torture, deprivazione di cibo e cure”. Secondo il centro Nadeem, nei primi sei mesi del 2019 in 30 sono morti in custodia. Celle sovraffollate, sporche, infestate da insetti, con temperature che d’estate raggiungono i 40 gradi: lo sciopero della fame è l’ultimo mezzo di lotta per chi scompare in una cella. Brasile. Quattro detenuti uccisi in evacuazione carcere Altamira sda-ats, 1 agosto 2019 Quattro detenuti che erano stati sfollati dal carcere di Altamira, nello Stato brasiliano di Parà, dopo i brutali incidenti nei quali sono morti altri 58 prigionieri, sono stati uccisi all’interno di un furgone penitenziario. Il crimine è stato perpetrato mentre venivano trasferiti verso Belem, la capitale dello Stato. Lo ha reso noto la Globo News, citando fonti della sicurezza, secondo le quali i detenuti sono stati soffocati. Le fonti hanno aggiunto che i quattro detenuti, che appartenevano alla stessa fazione criminale, erano ammanettati e viaggiavano in un furgone diviso in due celle, insieme ad altri 26 prigionieri. I loro corpi sono stati ritrovati stamane a bordo del veicolo, e i quattro sarebbero stati uccisi durante la notte scorsa, mentre il furgone viaggiava da Novo Repartimento a Marabà, in direzione est verso la capitale del Parà. Gli altri 26 detenuti che erano trasferiti dal centro penitenziario di Altamira sono stati posti in isolamento. Con queste quattro morti e i due cadaveri ritrovati nelle ultime 24 ore nel carcere di Altamira sale a 62 il bilancio di vittime della brutale rivolta scoppiata lunedì scorso all’interno del centro di detenzione, dove prigionieri appartenenti a una organizzazione criminale locale, il Comando Classe A (Cca) hanno attaccato i rivali del Comando Vermelho (Comando Rosso), uccidendone 58, dei quali 16 sono stati decapitati. Si tratta della peggiore strage registrata in un carcere brasiliano dopo quella avvenuta nell’ottobre del 1992 nel penitenziario di Carandirù, nello Stato di San Pablo, nella quale erano morti 111 detenuti. Messico. Presentato programma di lavori di pubblica utilità di Marco Belli gnewsonline.it, 1 agosto 2019 Partirà con cinque giovani detenuti dell’istituto penitenziario Ceresova la fase sperimentale del Programma di lavori di pubblica utilità che sarà avviata nel settembre prossimo a Città del Messico. Lo ha annunciato ieri mattina il Sottosegretario del Sistema Penitenziario Antonio Hazael Ruiz Ortega nel corso di un incontro con la delegazione del Ministero della Giustizia - Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria nel quale è stato presentato il progetto mutuato dal modello italiano “Mi riscatto per…”. I detenuti si occuperanno della manutenzione dell’arredo urbano in alcuni punti strategici della metropoli messicana, particolarmente significativi e importanti anche da un punto di vista della loro visibilità. I soggetti saranno scelti da un gruppo di 15, che a loro volta hanno passato una serie di selezioni che rispondevano a specifici profili di garanzia, che li hanno portati ad essere prima a 200 e poi 75. Due saranno le direzioni verso le quali si muoverà il progetto messicano: interventi di miglioramento urbano in alcune zone strategiche di Città del Messico e realizzazione di laboratori di prevenzione dei reati in alcune zone ad alto grado di incidenza criminale con l’aiuto della compagnia di teatro penitenziario “Foro Shakespeare”, stabile da oltre 10 anni all’interno del Centro Penitenziario Marta Varonil. La notizia del progetto ha provocato subito grande entusiasmo e molte aspettative fra i detenuti del carcere prescelto per l’avvio della fase sperimentale, come dimostrano le numerose richieste di candidatura avanzate. L’obiettivo prioritario dell’intero Programma è quello di abbattere la recidiva. Nel solo Stato di Città del Messico, infatti, il tasso di recidiva fra la popolazione detenuta nel suo complesso si aggirava intorno al 40%. Un apposito studio effettuato per 4 anni su un campione di circa 5mila reclusi lavoranti ha dimostrato successivamente che la recidiva per questi soggetti era scesa al 4%. Obiettivo dichiarato dal Governo è quello di portare a zero il suo valore attraverso lo svolgimento di lavori di pubblica utilità. Esperti delle Nazioni Unite e del Ministero della Giustizia - Dap assisteranno e accompagneranno la Segreteria del Sistema Penitenziario di Città del Messico nell’applicazione del progetto di reinserimento sociale. I detenuti lavoreranno allo scopo di dimostrare che è possibile convertire il tempo trascorso in carcere in tempo passato svolgendo un lavoro all’esterno del carcere al servizio della comunità. Quasi 600mila pesos (circa 29mila dollari) saranno investiti nel primo semestre di sperimentazione: una parte servirà a sostenere un piccolo aiuto economico ai 20 detenuti che saranno interessati dal progetto nei primi sei mesi; altri soldi saranno spesi per l’acquisto di macchinari e strumenti, uniformi e equipaggiamento di lavoro, per la sottoscrizione di un’assicurazione contro eventuali incidenti sul lavoro, nonché per le spese di sostentamento del progetto (pasti, combustibile, costi amministrativi, ecc.). In un momento di crisi del sistema penitenziario globale l’avvio di questo Programma costituisce, per le autorità di Città del Messico, l’occasione di attirare l’attenzione del mondo sui problemi del settore. Ma anche, e soprattutto, di dimostrare che esistono soluzioni per superarli. Colombia. Lotte tra narcos nelle carceri per controllare il mercato dello spaccio droghe.aduc.it, 1 agosto 2019 La lotta di gruppi criminali per controllare il micro-traffico di stupefacenti all’interno del carcere di El Bosque, nel sud di Barranquilla, è alla basa della rivolta dei detenuti nel fine settimana. Ieri 30 luglio è scoppiata una violenta disputa che ha lasciato 14 feriti e ha costretto la polizia a prendere il controllo della situazione. La denuncia, raccolta dalle autorità, è stata fatta da parenti dei detenuti e persone che abitano vicino al carcere; i responsabili delle ultime due rivolte sono due temibili gang criminali. Secondo un parente di un detenuto, come riferisce il quotidiano El Tiempo, si tratta dei gruppi conosciuti coi nomi “Los Costeños” e “Papa López”, in lotta fra loro per il controllo del mercato delle droghe all’interno del carcere. Da sabato 27 mattina c’è stata la minaccia di impossessarsi della prigione, occupazione che è diventata tale da domenica 28 luglio. Cinque detenuti sono stati portati via dal carcere dopo essere stati feriti con armi da taglio. “All’interno della prigione, dopo quello che è successo domenica, l’atmosfera era tesa e lunedì sera è iniziata la rivolta anche con colpi di armi da fuoco. Sapevamo già che era iniziata una battaglia campale, mio fratello mi aveva avvisato. È stato ferito con un coltello nello stomaco”, ha detto un parente di questo detenuto. “Le guardie hanno spento le luci alle 10 di sera e i detenuti hanno tirato fuori coltelli, pugnali, machete, tutto quello che avevano e hanno iniziato ad attaccare tutti quelli che potevano; non sapevano se avrebbero fatto del male a un amico o meno, perché erano sotto l’effetto di droghe e alcol “, ha detto un funzionario della Barranquilla Personería. I 14 feriti sono stati portati in diversi centri sanitari. La prigione è stata danneggiata, “i rivoltosi hanno distrutto servizi igienici, tubature e attrezzature dell’infermeria. Ci sono molti danni fisici”, ha aggiunto il colonnello Yesid Peña, comandante operativo della polizia metropolitana di Barranquilla. Diofanor Beleño, che abita vicino a questo carcere ed è anche un leader sociale, ha affermato che vivere vicino a questa prigione è preoccupante, poiché è normale che ci siano costantemente problemi. “La polizia antisommossa lancia gas lacrimogeni e dobbiamo allontanarci dalle nostre case per evitare di essere colpiti”, ha spiegato Beleño.