Carceri anno zero: sovraffollamento e mancanza di personale di Giacomo Galeazzi interris.it, 19 agosto 2019 I risultati dei tre giorni del tour di parlamentari e avvocati in 70 luoghi di detenzione italiani. Le criticità delle carceri sono legate alla mancanza di una riforma del sistema giustizia e dell’ordinamento penitenziario. Nessuno dei governi né di destra né di sinistra pongono al tema la giusta attenzione”. Viaggio di tre giorni dei Radicali nelle carceri per denunciare ciò che non va dietro le sbarre. Sono 70 i luoghi di detenzione visitati, dal 15 al 18 agosto, da 278 tra dirigenti e militanti del partito, avvocati dell’Unione camere penali, parlamentari e garanti delle persone private della libertà. A Roma il segretario dei Radicali Maurizio Turco e il tesoriere Irene Testa hanno visitato Regina Coeli. Al termine del tour le delegazioni hanno riferito le emergenze. A Tolmezzo sovraffollamento, carenze igieniche, mancanza di personale: “234 persone, di cui 198 in alta sicurezza, a fronte di una capienza regolamentare di 149 unità”. A Palermo l’Ucciardone è una “struttura monumentale che va chiusa: un centinaio di stranieri sono senza un mediatore culturale”. A Taranto “condizioni igieniche al limite”. A Bari “serve un nuovo carcere”. Una pioggia di psicofarmaci - Il carcere si trova ad affrontare il problema di una parte della sua popolazione che necessita di una coazione, seppur benigna, di un’altra che di quella coazione non ha bisogno, ma che la ricerca. Come poteva finire? La risposta è stata quasi esclusivamente farmacologica. Il biperidene (un farmaco antiparkinsoniano con effetti euforici), la quietiapina (un antipsicotico) e il clonazepam (una benzodiazepina che ad alte dosi ha effetti disinibenti) sono diventati la scorciatoia chimica alle contraddizioni del carcere. L’iper assunzione di farmaci è un fenomeno che si riscontra anche nella società fuori dalle mura penitenziarie, ma dietro le sbarre si è accentuato. L’alternativa, la terapia psichiatrica, è quasi assente. In ogni carcere la copertura medica dello psichiatra è riconosciuta come una necessità, ma il monte ore degli specialisti è di 105.751 ore: per 54 mila detenuti significa meno di due ore all’anno. Entrano in questo gioco perverso anche le case farmaceutiche. Negli ultimi anni in molti farmaci è aumentato il principio attivo a livelli esponenziali. Problemi irrisolti - A un certo punto il detenuto, ormai soggiogato, chiede all’infermiere dosi maggiori e pur di ottenerle fa rumore di notte, si taglia, ingoia oggetti, aggredisce agenti e compagni di cella. Nascono anche così i 261 suicidi avvenuti nell’ultimo quinquennio e i 6.000 casi di autolesionismo che si registrano ogni anno. Molti detenuti, in astinenza, ricercano lo stordimento con il gas dei fornellini, quelli che l’amministrazione penitenziaria dovrebbe sostituire da anni per evitare che su 50 suicidi l’anno, dieci siano involontari e dovuti all’inalazione con un sacchetto infilato in testa. La società, senza più la maschera della missione rieducativa della pena e scossa dalle istanze populiste, ha abbandonato i suoi figli più problematici. Ci sono troppi casi di autolesionismo e troppi suicidi nelle carceri italiane. Vengono ancora oggi dimenticate la dignità e la centralità della persona. Così ogni sera, verso le 7, passa il carrello con la “terapia”. Quello che, come cantano i “Presi per caso”, gruppo nato a Rebibbia di cui fa parte anche Salvatore Ferraro, condannato per favoreggiamento nell’omicidio della studentessa universitaria romana Marta Russo, offre “venti gocce che calmano il malumore, ti fanno sentire libero e diventa bello persino questo bordello”. Quello che ti fa scordare la compagna lontana, che fa fare festa in cella e che lascia dormire sonni tranquilli al direttore del carcere, agli agenti della polizia penitenziaria e ai bravi cittadini al di là delle sbarre. Carceri italiane sempre più affollate e invivibili di Antonio Curci ilmessaggeroitaliano.it, 19 agosto 2019 Il clima d’odio che da qualche tempo avvolge la nostra società, purtroppo, rende insensibile e talvolta disumano il nostro atteggiamento verso coloro che hanno sbagliato. Un conto è la certezza della pena e la sua giusta espiazione, un altro è invece il sentimento di vendetta che serpeggia sempre più fra gli italiani e che scatena sovente i più bassi istinti nel giudizio dei fatti e delle persone. Chi ha sbagliato deve pagare per il suo errore, ma ha il diritto inalienabile di vivere la sua pena in un contesto rispettoso della sua dignità di uomo. Purtroppo le carceri italiane continuano ad essere affollate e pregne di problemi. I numeri sciorinati da Antigone sono impressionanti: “Al 30 giugno 2019 - recita il rapporto - i detenuti ristretti nelle 190 carceri italiane erano 60.522. Negli ultimi sei mesi sono cresciuti di 867 unità e di 1.763 nell’ultimo anno. Il tasso di sovraffollamento è pari al 119,8%, ossia il più alto nell’area dell’Unione europea, seguito solo da quello in Ungheria e Francia”. Il numero dei detenuti nelle carceri italiane, poi, diventa allarmante se confrontato con quello del Ministero della Giustizia secondo cui i posti disponibili nelle carceri italiane sono soltanto 50.496. È un problema aggravato anche dall’aumento della durata delle pene. Unico dato positivo è che il numero degli stranieri in carcere è diminuito del 3,68% negli ultimi 10 anni. Il Rapporto lancia un grido d’allarme anche sulle condizioni di vita all’interno delle carceri. “Stanno peggiorando”, si legge nel testo. Il 30% delle carceri visitate da Antigone non dispone di spazi verdi dove i detenuti possano incontrare i propri familiari. Solo nell’1,8% dei casi vi sono opportunità di lavoro alle dipendenze di soggetti privati. Inoltre, nel 65,6% delle carceri, nonostante la legge e le regole dell’amministrazione lo prevedano, non è possibile avere contatti con i familiari attraverso Skype, la piattaforma informatica che consente di poter interloquire a distanza attraverso una webcam. Inoltre, nell’81,3% delle carceri non è mai possibile collegarsi a internet. “Il peggioramento della qualità della vita si ripercuote anche sul numero dei suicidi. Il 2018 - evidenzia il rapporto - fu un anno drammatico e nel 2019 quelli che si sono verificati negli istituti di pena italiani sono già 26”. E ancora: il 44% dei detenuti viene da Campania, Puglia, Sicilia e Calabria. Questo è un dato da analizzare con obiettività: chi finisce in carcere arriva da situazioni di povertà economica e culturale che caratterizzano pesantemente queste regioni. Infine, dato ancora più raccapricciante, al 30 giugno 2019 sono 54 (26 stranieri e 28 italiani) i bambini presenti nelle nostre carceri insieme alle mamme detenute. Le carceri italiane, è noto da tempo, necessitano di ristrutturazione e ammodernamento. I detenuti vivono purtroppo in celle e ambienti fatiscenti che diventano insostenibili soprattutto nei mesi estivi a causa del caldo asfissiante e della riduzione delle attività dietro le sbarre. Il personale, infatti, si riduce per le ferie e d’estate tutto si ferma: finiscono i corsi e vanno via i volontari che animano un impianto di proposte sociali e lavorative che allevia le sofferenze e in qualche modo consente alle persone in situazione di restrizione della libertà di vivere condizioni di vita più accettabili e dignitose. Bancarotta, l’imputato non produce prove di Andrea Magagnoli Italia Oggi, 19 agosto 2019 Le dichiarazioni dell’imputato del reato di bancarotta non assumono alcuna efficacia probatoria nel corso del procedimento penale. La Corte di cassazione con la sentenza 19719/2019, pone il principio di diritto, per il quale nel caso di contestazione del reato di bancarotta le eventuali dichiarazioni dell’imputato non siano di per sé sole idonee ad escludere la configurabilità della condotta illecita. Il caso di specie trae origine dalla condanna per il reato di bancarotta fraudolenta patrimoniale dell’imputato per avere sottratto due autoveicoli facenti parte del capitale sociale. Rappresentava il difensore come le condotte criminose, gli erano state erroneamente ascritte data l’assenza della condotta criminosa prevista dalla normativa. Deduceva, in particolare a suo favore il legale dell’imputato come uno degli autoveicoli era stato restituito alla società che ne era proprietaria, mentre il secondo era in sua libera disponibilità sulla base di un espresso accordo con il curatore fallimentare il quale lo aveva autorizzato a fruirne liberamente. Il procedimento dopo avere compiuto il proprio corso veniva deciso da parte dei giudici della corte suprema di Cassazione. La questione è di notevole importanza dato che riguarda il valore delle dichiarazioni rese dall’ imputato nel corso del procedimento penale e la loro efficacia in relazione alla situazione che aveva dato origine alla contestazione del reato di bancarotta. Orbene secondo gli ermellini tale valore è piuttosto limitato, i giudici infatti le ritengono inidonee a far venir meno l’ipotesi accusatoria fondata sulla semplice mancanza di disponibilità dei beni societari. Nell’ipotesi infatti di perdita di beni in precedente disponibilità da parte della persona giuridica, la prova di un eventuale evento non ascrivibile all’imputato non la si può pertanto ritenere raggiunta sulla sola base delle parole di quest’ultimo che non potrà evitare la condanna per il reato di bancarotta. Ricorso per cassazione: configurabilità del vizio di travisamento della prova Il Sole 24 Ore, 19 agosto 2019 Impugnazioni penali - Ricorso per cassazione - Vizio di travisamento della prova - Contenuto. La previsione del vizio di travisamento della prova, lungi dal consentire di denunciare in sede di legittimità il “travisamento del fatto” da parte del giudice del merito, ha la funzione di rimediare a errori commessi da parte di quest’ultimo nel considerare una prova in realtà inesistente o nell’omettere una prova presente nel compendio processuale, purché l’errore sia in grado di disarticolare il costrutto argomentativo della sentenza impugnata per l’intrinseca incompatibilità degli enunciati e abbia comunque un oggetto definito e non opinabile. • Corte di cassazione, sezione VI penale, sentenza luglio 2019 n. 32389. Impugnazioni penali - Ricorso per cassazione - Casi di ricorso - Difetto di motivazione - Sindacato di legittimità - Travisamento della prova - Deducibilità - Presupposti - Doppia pronuncia conforme - Limiti. (Cpp, articolo 606, comma 1, lettera e). A fronte della duplice condanna in primo e in secondo grado (cosiddetta “conforme”), il vizio di travisamento della prova, desumibile dal testo del provvedimento impugnato o da altri atti del processo purché specificamente indicati dal ricorrente, non può essere coltivato dinanzi alla Corte di cassazione, se non nel caso in cui il giudice di appello, per rispondere alle critiche contenute nei motivi di gravame, abbia richiamato dati probatori non esaminati dal primo giudice ovvero quando entrambi i giudici del merito siano incorsi nel medesimo travisamento delle risultanze probatorie acquisite in forma di tale macroscopica o manifesta evidenza da imporre, in termini inequivocabili, il riscontro della non corrispondenza delle motivazioni di entrambe le sentenze di merito rispetto al compendio probatorio acquisito nel contraddittorio delle parti. • Corte di cassazione, sezione VI penale, sentenza 10 agosto 2018 n. 38502. Diritto processuale penale - Nozione e differenze tra travisamento della prova e travisamento della prova dichiarativa - Art. 606 cod. proc. pen. Il c.d. travisamento della prova si realizza nel caso in cui il giudice di merito abbia fondato il proprio convincimento su una prova che non esiste o su un risultato di prova incontestabilmente diverso da quello reale o quando si omette la valutazione di una prova decisiva ai fini della pronuncia (quest’ultimo è indicato anche quale fenomeno della prova omessa, rilevante e decisiva, cioè del vizio di omessa pronuncia rispetto a un significativo dato processuale o probatorio). Quanto poi al vizio del travisamento della prova dichiarativa, si ha quando abbia un oggetto definito e non opinabile, tale da evidenziare in modo palese e non controvertibile la tangibile difformità tra il senso intrinseco della singola dichiarazione assunta e quello che il giudice ne abbia inopinatamente tratto: non sussiste invece detto vizio laddove si faccia questione di un presunto errore nella valutazione del significato probatorio della dichiarazione medesima. • Corte di cassazione, sezione III penale, sentenza 16 febbraio 2018 n. 7709. Impugnazioni - Cassazione - Motivi di ricorso - In genere - Vizio di travisamento della prova dichiarativa - Contenuto - Indicazione. In tema di ricorso per cassazione, ai fini della configurabilità del vizio di travisamento della prova dichiarativa è necessario che la relativa deduzione abbia un oggetto definito e inopinabile, tale da evidenziare la palese e non controvertibile difformità tra il senso intrinseco della dichiarazione e quello tratto dal giudice, con conseguente esclusione della rilevanza di presunti errori da questi commessi nella valutazione del significato probatorio della dichiarazione medesima. • Corte di cassazione, sezione V penale, sentenza 20 febbraio 2018 n. 8188. Impugnazioni penali - Ricorso per cassazione - Vizi - Travisamento della prova - Errore accertato - Limite del devolutum - Risultato probatorio - Intangibilità della valutazione. Il vizio di travisamento della prova, desumibile dal testo del provvedimento impugnato o da altri atti del processo purché specificamente indicati dal ricorrente, è ravvisabile ed efficace esclusivamente se l’errore accertato sia idoneo a disarticolare l’intero ragionamento probatorio, rendendo illogica la motivazione per l’essenziale forza dimostrativa del dato probatorio, fermi restando il limite del devolutum in caso di dialettica decisoria connotata da doppia sentenza di merito conforme e l’intangibilità della valutazione nel merito del risultato probatorio. • Corte di cassazione, sezione I penale, sentenza 13 ottobre 2017 n. 47326. Agrigento: Casa circondariale Petrusa, terra di invisibili di Maria Brucale* Ristretti Orizzonti, 19 agosto 2019 Ferragosto in carcere. Il Partito Radicale e le Camere Penali Italiane. Delegazione composta da: Rita Bernardini, Donatella Corleo, Gianmarco Ciccarelli, Chiara Mulé, Giuseppe Arnone, tutti del Partito Radicale, Silvia de Pasquale, coordinamento associazione Capone di Bologna, Maria Brucale, responsabile della commissione carcere, Camera Penale di Roma. Il carcere maschile di Petrusa è un luogo dell’oblio, una struttura cadente connotata da problemi ormai atavici che appaiono irrisolvibili. Ci riceve il vice Comandante Giovanni Antoci e ci illustra una situazione di disagio complessivo che parte dalla grave carenza di risorse umane. Già nel 2017, la riduzione irrazionale delle unità della pianta organica ha determinato una gestione del lavoro patologica in cui, anche quando si è al completo, il personale risulta inadeguato. Inoltre il numero degli agenti previsto dalla pianta organica, in sé insufficiente, non si raggiunge mai. I nuovi ingressi che fanno seguito ai frequenti concorsi non arrivano mai a compensare le uscite per pensionamento. Petrusa è un carcere difficile, popoloso e sovraffollato, in cui coesistono circuiti di sicurezza diversificati, italiani e stranieri, malati psichiatrici, tossicodipendenti, anziani e giovani adulti. Non esistono impianti di riscaldamento, né antincendio. I luoghi sono logori e fatiscenti e i lavori di ristrutturazione mai idonei a rispondere alle tante, drammatiche esigenze. La distribuzione dell’acqua è sempre problematica. Frequenti i danni alle tubature e all’autoclave. L’acqua calda d’estate non c’è e allora è possibile fare una doccia al giorno. In inverno, l’ assoluta necessità dell’acqua calda nei locali gelidi rende assai frequente la rottura delle caldaie e l’indisponibilità delle docce Inizia la visita dalla sezione dell’isolamento. È un luogo oscuro e inquietante in cui i soffitti altissimi non riescono ad alleggerire la sensazione di claustrofobia. Ascoltiamo ognuna delle persone che si trovano lì. Un racconto si ripete, tragico e sconcertante. Quasi tutti i reclusi parlano di punizioni arbitrarie, di detenuti trascinati a terra e lasciati giorno e notte fuori, al passeggio, ammanettati, a dormire sul cemento. Un giovane eritreo racconta di avere ingerito un pezzo di ferro e di essere stato portato in una ‘cella liscia’ con addosso solo delle mutande di carta, senza neppure un materasso. Di avere anche inghiottito una vite e di avere tentato il suicidio con un cappio rudimentale realizzato con dei pantaloni stesi e di essere stato salvato dagli agenti. Tutti i reclusi lamentano gravi difficoltà di comunicazione con l’esterno. Dicono di non riuscire a inoltrare le istanze e che i tempi di trasmissione di raccomandate e telegrammi o di ricezione dei vaglia, superano i quindici giorni. Riferiscono di non aver fatto alcun colloquio al primo ingresso e di non avere mai visto un educatore, uno psicologo, un magistrato di sorveglianza. Non esiste una figura di aiuto per chi non è in grado di predisporre un’istanza. Le c.d. “domandine”, riferiscono i detenuti, vengono spesso smarrite e, comunque, rimangono per tempi indefiniti senza risposta alcuna. Chi non parla l’italiano è completamente lasciato a sé stesso. Non ci sono mediatori culturali e chi non è in grado di comunicare vive da ostaggio la privazione della libertà senza alcuna possibilità di conoscere i propri diritti e di farli valere. Solo in alcuni agenti di polizia penitenziaria i detenuti trovano aiuto per formulare le loro richieste o doglianze. Tutti riferiscono dell’applicazione arbitraria della chiusura del blindo durante il giorno, senza motivazioni o possibilità di contestazione, una misura che risulta particolarmente odiosa con il caldo estivo. Molti dei reclusi appaiono psichicamente fragili ma non è possibile rilevare se si tratti di effettive patologie o delle conseguenze di una condizione di vita oggettivamente insopportabile. Le celle sono anguste e sporche. I muri cadenti, i bagni tarlati da muffe e infiltrazioni, i passeggi individuali piccolissimi e grigliati. Non è possibile svolgere attività fisica e, a parte la scuola, non sono previste attività di svago. Le docce sono coperte di muffa e di muschi. Le tubature appaiono rugginose e consunte. Il problema dell’igiene è comune a tutto l’istituto. L ‘acqua erogata dai rubinetti è scura e carica di residui. Ci riferiscono che la situazione è perfino migliorata rispetto al passato. Quasi tutti utilizzano dei panni per filtrare l’acqua che è comunque imbevibile e inutilizzabile per cucinare. Chi può usa l’acqua minerale, chi non ha risorse per acquistarla rischia malattie e infezioni di ogni genere. Molti dei ristretti ci mostrano funghi ai piedi e lesioni alla pelle scaturiti dalle condizioni drammatiche della pavimentazione delle docce e dalla qualità dell’acqua. Riferiscono di avere fatto più volte richieste di creme antibiotiche o cortisoniche che non sono mai arrivate. Le celle sono piccole e con i muri cadenti. Gli ambienti promiscui. Il lavandino del bagno serve a tutte le esigenze della vita quotidiana, dal lavare le stoviglie e la biancheria, alla cura dell’igiene personale. Non c’è un sevizio di lavanderia e anche le lenzuola devono essere lavate in cella. Non sono disponibili stendini. C’è sempre un secchio colmo in bagno perché l’acqua spesso va via all’improvviso e deve essere possibile tenere puliti i servizi. Negli spazi ridotti della cella spesso si trovano tre persone in una situazione di gravissimo disagio. Tutti lamentano l’insufficienza e la cattiva qualità del vitto somministrato. L’accesso al lavoro, fornito dall’amministrazione penitenziaria, è assai ridotto. Di circa 53 persone in ogni sezione, solo 3 o 4 lavorano. Si registra una seria carenza di attività trattamentali e di svago. Mancano palestre, campo da calcio, attività creative o ludiche. Gli orologi dei tre piani sono fermi, succede spesso in carcere. Il tempo è immobile. Molte delle persone recluse hanno seri problemi ai denti. Alcune non possono più alimentarsi normalmente ma non riescono ad essere curate. I detenuti sembrano del tutto inconsapevoli dei loro diritti, come inoltrare un’istanza, un reclamo, una denuncia e sembrano patire una situazione di indigenza. Un giovane straniero vorrebbe parlare con noi ma non conosce nessuna lingua europea. Ci dice con disperazione: no english, no francais, no spanish, no vita. Alcuni sono lontani dalle loro famiglie che vivono in un’altra regione. Per loro sono previste particolari restrizioni nella ricezione degli alimenti. Dicono che, a differenza dei loro compagni, non possono ricevere insaccati e salumi. Non comprendono il divieto che appare loro discriminatorio. Due giudicabili ci informano di non essere in grado di difendersi adeguatamente. Il processo si celebra in Puglia e per loro non è possibile sostenere le spese per incontrare frequentemente il difensore. È consentito loro chiamare l’avvocato, previa autorizzazione, soltanto due volte al mese e per dieci minuti. Un tempo vistosamente inidoneo ad approntare qualunque linea difensiva e una contrazione di un diritto costituzionale del tutto inspiegabile tanto più alla luce della eliminazione, ad opera della Consulta, di qualunque limite temporale nel colloquio, visivo e telefonico, con i difensori anche per le persone ristrette in regime di 41 bis O.P. Due note positive: il Sert e la somministrazione delle terapie metadoniche funzionano; è stato appena attivato il servizio di collegamento Skype che, però, è, al momento, previsto solo per il sabato giorno in cui vengono esclusi i colloqui in presenza. Succede così che alcuni ristretti sono costretti a rinunciare a incontrare i propri familiari che possono andare a trovarli soltanto quel giorno per ragioni di lavoro e a perdere un’occasione insostituibile di vicinanza affettiva e di conforto. *Avvocato Pordenone: carcere, letti a castello su tre livelli e solo 4 docce per 68 detenuti di Cristina Antonutti Il Gazzettino, 19 agosto 2019 Letti a castello su tre livelli per riuscire ad accogliere le 30 persone di troppo. Visita di Ferragosto promossa da radicali e Unione Camere penali evidenzia le criticità: spazi e sovraffollamento i problemi principali. Sessantotto detenuti stipati in due sezioni, celle con letti a castello fino a tre posti e soltanto quattro docce. È questa la situazione fotografa dalla sezione di Pordenone dell’Unione Camere penali grazie all’iniziativa Ferragosto in carcere promossa con il Partito radicale. Ieri mattina gli avvocati Esmeralda Di Risio, che fa parte del direttivo della Camera penale e Sarah Soveri, delegata dell’Osservatorio carcere dell’Unione, guidate dal sovrintendente capo Francesco Bonato hanno visitato il Castello. La struttura ha una capienza di 38 persone, ma ieri i detenuti erano 68, suddivisi in due sezioni (comuni e protetti, dove viene accolto chi è accusato di omicidio o reati sessuali): 32 stanno scontando una condanna definitiva, 28 sono in attesa di giudizio e otto del processo d’appello. Sei - di cui due sottoposti a terapia con metadone - sono tossicodipendenti; due i detenuti sieropositivi; tre i malati di epatite C e due di epatite B; tre i casi psichiatrici certificati; 27 - soprattutto immigrati traumatizzati da guerre e violenze - possono contare su un supporto medico-psicologico. Gli stranieri sono 34. Al sovraffollamento si aggiunge la carenza di personale e risorse. Gli agenti di polizia penitenziaria sono 50, di cui 5 appena arrivati a Pordenone. Entro la fine dell’anno, tra trasferimenti e pensionamenti, in quattro lasceranno la città. “Gli agenti - spiegano Di Risio e Soveri - sono sacrificati, fanno turni massacranti, nonostante ciò hanno creato un clima di serenità e rispetto”. La visita è cominciata dal piano terra, dove si trovano la sezione comuni, la biblioteca e il cosiddetto passeggio, il cortile dell’ora d’aria, dove c’è anche un tavolo di ping pong. In questo spazio i detenuti delle due sezioni non possono incrociarsi, per cui l’ora d’aria viene organizzata su due turni. Le celle? Dovrebbero garantire tra i 3/4 metri quadrati di spazio per ogni ospite, in realtà i letti a castello hanno anche tre livelli. Ogni stanza è dotata di water e lavandino, ma non c’è acqua calda. Le docce, invece, sono solo quattro e per usarle servono 17 turnazioni. Le due legali pordenonesi hanno parlato con loro attraverso le grate, mentre era in corso la distribuzione di mele e uova. Avevano la sensazione di essere delle intruse. “La nostra visita non era stata annunciata - spiegano - Abbiamo avuto la sensazione di essere entrate nelle loro case senza suonare alla porta. Siamo abituate a incontrarli nella sala colloqui, ma stavolta è stato diverso, sembrava di violare la loro intimità”. Nelle celle magliette appese ad asciugare, foto di bambini, mogli e fidanzate. “Si respirava aria di casa - affermano - Grazie al personale del carcere i detenuti possono mantenere la propria dignità. Se si tralasciano i problemi strutturali del carcere, c’è il clima di grande rispetto”. Esmeralda Di Risio e Sarah Soveri sono rimaste colpite dal livello di pulizia. “Da questo punto di vista nessun rilievo”, affermano. I detenuti si danno da fare per mantenere le celle in ordine. In otto, tra l’altro, lavorano per l’amministrazione penitenziaria: due in cucina, uno ricopre il ruolo di spesino (raccoglie la lista delle necessità degli altri compagni), tre fanno gli scopini (pulizie), altri ancora si occupano di manutenzione. Ieri dalla cucina usciva un buon profumo: poco prima di mezzogiorno erano pronte le teglie con il pasticcio. In infermeria non c’erano pazienti (ogni mese vengono garantite 30 visite in ospedale). La cella di isolamento era vuota e quella antica (la segreta del Castello) è stata trasformata in magazzino. Oltre alla sala perquisizioni e alla stanza per il rilievo del Dna, c’è poi una stanza usata per l’ora d’aria quando piove. Sui muri i detenuti hanno dipinto qualche scorcio di libertà, tra cui un’enorme spiaggia con l’ombrellone: la dicitura informa che si chiama Bagni Castello ed è una spiaggia libera dalle 8 alle 20: dalle 24 diventa discoteca! Qualcuno ha dipinto una moschea, altri Gesù, alberi e uccelli. Un’intera parete è decorata con bandiere, a rappresentare le varie nazionalità rinchiuse in Castello. “Adesso ci impegneremo per la nomina di un Garante” “Ci impegneremo per fare in modo che anche a Pordenone ci sia un Garante per le persone private della libertà”. È la promessa di Esmeralda Di Risio e Sarah Soveri al termine della visita di Ferragosto in carcere per conto dell’Unione Camere penali. Il pensiero va soprattutto ai diritti dei detenuti e in particolare ai percorsi che dovrebbero aiutarli a reintegrarsi nella società a fine pena. A Pordenone ci sono corsi di alfabetizzazione (scuola elementare e media), di cucina, disegno, mosaico, legatoria e inglese. Due educatori sono sempre a disposizione. “Il problema - spiegano i due avvocati - è che non ci sono né risorse sufficienti né spazi adeguati per ospitare i corsi”. In passato, ad esempio, c’era il Progetto verde. I detenuti curavano l’orto, raccoglievano e consumavano i prodotti. Il progetto è fallito perché non c’erano fondi per portarlo avanti e non c’erano sufficienti agenti di polizia penitenziaria per vigilare i detenuti che si occupavano dell’orto e delle piante officinali (lo spazio era all’aperto, in un’area dove il muro di cinta è un po’ più basso, pertanto i detenuti dovevano essere controllati durante le loro attività). Di quell’esperienza restano le piante di lavanda che adesso hanno raggiunto la fioritura massima e i tanti roseti. Venezia: carceri strapiene, ma il vero problema è la recidiva di Carlo Mion La Nuova Sardegna, 19 agosto 2019 A Santa Maria Maggiore ci sono 230 detenuti anziché 161. Pellicani (Pd) ha incontrato il boss della baby gang e i ladri del Ducale. Ha incontrato un ergastolano, uno dei ragazzi delle bandelle baby gang, un indagato per mafia e le due donne accusate di aver ucciso l’uomo con cui vivevano nella stessa abitazione. L’onorevole del Pd Nicola Pellicani ha fatto visita ai due carceri della città il giorno di Ferragosto. Era stato in carcere anche il giorno di Natale e l’8 di marzo. “Penso sia importante, in una giornata simbolica come quella di Ferragosto, dimostrare interesse per una realtà di fronte alla quale siamo abituati a girarci dall’altra parte. Ho voluto rendermi conto da vicino dei problemi dei detenuti e del personale della polizia penitenziaria. Chi sbaglia è giusto che paghi, ma non dobbiamo mai dimenticare la funzione rieducativa della pena, prevista dalla Costituzione (art 27)” continua Pellicani. “Anche se i dati purtroppo dimostrano come le percentuali di recidiva in Italia siano ancora molto elevate, attorno al 70 per cento. Ma il reinserimento nella società dei detenuti è importantissimo, significa più coesione sociale e minori costi da sostenere per la collettività”. La situazione nei due istituti di pena a Santa Maria Maggiore (maschile) e alla Giudecca (femminile), non è certo ideale, anzi. A Santa Maria Maggiore, ci sono attualmente 230 detenuti, in leggero calo rispetto all’inverno scorso. Si tratta di un numero ben superiore rispetto ai 161 posti disponibili. I detenuti stranieri sono 147 a fronte di 83 italiani. Tra gli stranieri ci sono 32 tunisini, 25 romeni, 23 albanesi, 14 nigeriani. “Resta perciò il problema del sovraffollamento. Le celle sono inoltre piccole e soprattutto all’ultimo piano si soffre molto il caldo” spiega Pellicani. Tra i detenuti di Santa Maria Maggiore c’è molta attesa per un atto di indulto per i reati minori, l’ultimo risale al 2006, ma soprattutto per bocca del cappellano, don Antonio Biancotto, chiedono il ricorso a pene detentive alternative al carcere e poter lavorare. Qui Pellicani ha incontrato Gino Causin, appartenente alla Mala del Brenta condannato a “fine pena mai” per l’assassinio dei fratelli Rizzi che ora gode della semilibertà e quando esce va a fare il “baby sitter” ai nipoti che vivono tra Marghera e Mestre. Sempre a Santa Maria maggiore l’onorevole ha parlato con Angelo Alesini, ritenuto il leader delle violente bande giovani mestrine. Ha spiegato all’onorevole che lui non ha mai aggredito alcuno e che ha fatto solo dei furti. Ha ribadito che lo ritengono il “capo” perché su Instagram aveva postato delle foto spacciandosi per “il capo”. Ha parlato poi con i protagonisti del colpo di Palazzo Ducale Vinko Tomic e Dragan Madlenovic e Angelo Di Corrado, il professionista ritenuto il commercialista della cosca camorrista Donadio. “Il carcere femminile è una realtà certamente più accogliente dove le 81 detenute, di cui 34 straniere, possono lavorare grazie anche all’impegno del mondo cooperativo e delle associazioni in attività di reinserimento sociale” racconta Pellicani. “In particolare svolgono lavori, regolarmente retribuiti nella lavanderia, in sartoria, nel laboratorio di cosmesi e in un orto che produce frutta e verdura biologiche certificate che vengono vendute all’esterno del carcere”. Nel corso della visita ha incontrato Manuela Cacco, Patrizia Armellin e Angelica Cormaci, quest’ultime coinvolte nell’omicidio di Paolo Vaj a Serravalle (Vittorio Veneto). Nel carcere della Giudecca è presente anche un Icam (Istituto a Custodia Attenuata per Madri detenute), uno dei pochi in Italia, che attualmente accoglie una mamma con i due figli di 5 e 4 anni. “L’Icam della Giudecca è una struttura decorosa, il personale premuroso, ma i bimbi non possono vivere come detenuti. Rappresenta pur sempre una limitazione della libertà per i bambini. Sarebbe necessario chiedere la modifica della legge 62 del 2011 che presenta limiti, lacune, per prevedere che le madri con bambini non stiano più negli Icam ma in case famiglia protette”. C’è un problema anche di personale, come emerso nelle precedenti visite. “Gli agenti sono in numero insufficiente con turni molto pesanti. Serve la massima attenzione per i diritti degli agenti penitenziari che vivono anch’essi da reclusi. Ad appesantire ulteriormente le condizioni di lavoro è la presenza di detenuti psichiatrici, la cui gestione è molto complicata, spesso pericolosa. Dovrebbero essere ospitati nelle Rems (strutture riabilitative per malati psichiatrici), ma sono poche e non c’è mai posto. È di qualche giorno fa l’aggressione a un agente che ha riportato la frattura di un braccio. Come componente della Commissione Antimafia sto lavorando per mettere a disposizione alcuni dei beni confiscati alle mafie per la creazione di case famiglia per le detenute e i loro figli”. Avellino: pochi agenti, servizi carenti e detenuti che oziano in carcere ottopagine.it, 19 agosto 2019 L’analisi di Giovanna Perna responsabile regionale Osservatorio carceri dell’Unione delle camere penali. La tre giorni di ferragosto in carcere, l’iniziativa promossa dal Partito Radicale ha fatto tappa stamane nel penitenziario di Ariano Irpino. In campo, l’osservatorio carceri, dell’unione camere penali italiane. Un tema mai come in questo momento assai rovente. Le criticità sono notevolissime. La struttura arianese dedicata all’agente Pasquale Campanello, presenta una serie di problematiche notevoli, sotto il profilo strutturale. Vi è un nuovo padiglione, che si è certamente in condizioni migliori, ma il vecchio edificio risulta allo stato attuale fatiscente e ad alto rischio. Vi è una necessità di reperire fondi con la massima urgenza, per mettere in sicurezza la struttura. Presenti alla visita in carcere ad Ariano, Giovanna Perna responsabile regionale dell’osservatorio carceri, unione camere penali, Carlo Mele, garante dei detenuti, il consigliere regionale Francesco Todisco. A fare gli onori di casa il direttore della casa circondariale arianese Maria Rosaria Casaburo. “Un primo dato positivo da sottolineare e la sensibilità, dimostrata dal consigliere regionale Todisco, tra l’altro in una calda domenica di sole - afferma Giovanna Perna - il quale ha subito accolto favorevolmente il nostro invito. Quello di Ariano Irpino, è un istituto, che ripeto presenta carenze, non solo strutturali ma legate probabilmente anche alla logistica. Vi è anche una difficoltà enorme, da parte dei familiari, di raggiungere la struttura per effettuare colloqui. Rispetto a Bellizzi, qui vi è una situazione un po’ più ottimale. Si percepisce lo sforzo enorme di chi opera all’interno per fa si che la struttura possa funzionare al meglio, con i pochissimi strumenti a disposizione. Abbiamo trovato sezioni vivibili per certi aspetti, c’è stata una grande disponibilità da parte della direttrice, una donna dotata di determinazione ed esperienza, maturata sul campo. Una persona piena di buona volontà. Un carcere che ha indubbiamente delle grosse potenzialità. Attualmente ospita 338 detenuti a fronte di una capienza massima di 270, il numero esatto di pianta organica. Quindi il sovraffollamento, diciamo che è netto. La carenza rilevante attiene soprattutto alle attività trattamentali. Gli spazi esistenti non sono adibiti ad alcuna attività del genere. Alla domanda da me rivolta, ai detenuti, su come trascorrono le giornate, la maggior parte ha risposto: oziando. Non è questa la funzione della pena. Essa deve avere una finalità rieducativa. Le attività trattamentali, sono di fondamentale importanza. Da qui un appello che intendo rivolgere ai politici, al capo dipartimento della Polizia Penitenziaria, affinché questo istituto, possa essere dotato degli strumento necessari per condurre una carcerazione, degna rispetto alle norme del nostro legislatore e nel rispetto dei principi costituzionale. Vi è poi una ulteriore criticità molto grave, che è quella sanitaria. Come a Bellizzi Irpino, anche ad Ariano, vi è il problema psichiatrico. Non abbiamo figure di specialisti. Vi è solo il dentista, il dermatologo, il cardiologo di tanto in tanto. Ma il motore fondamentale è rappresentato proprio dallo psichiatra. Mancanza che crea gravi e inevitabili disservizi. Purtroppo le malattie all’interno del carcere si amplificano, la consulenza psichiatrica è necessaria e fondamentale sin dal primo accesso. La mancanza quindi di una figura che costantemente, possa monitorare le patologie dei detenuti che hanno necessità di somministrazione di farmaci specialistici, incide negativamente sul corretto funzionamento dell’istituto e sulla serenità di tutti. L’infermeria allo stato attuale, versa in condizioni pietose, sembra un deposito ed è davvero irrispettoso, per chi vi opera e per gli stessi detenuti. Tra l’altro - afferma ancora Perna - qui si ricorda una grave rivolta interna e da ultimo l’episodio del detenuto rimasto ustionato, dopo aver bruciato la sua cella. Ultimo aspetto, di non poco conto, la struttura disposta su quattro piani, con una sezione appunto su ogni piano, è dotata di un ascensore che ironia della sorte, non funziona, in quanto incompatibile con l’impianto. Ciò significa, che per somministrare ad esempio gli alimenti, bisogna fare questi 4 piani a piedi, tra non poche difficoltà. Immaginate anche chi alloggia all’ultimo piano, in che condizioni riceve il cibo. Cose all’italiana, si apre un padiglione e non ci si accorge che l’ascensore non è a norma. Imperia: muffe, degrado, pochi a agenti e detenuti malati di epatite C di Maurizio Vezzaro La Stampa, 19 agosto 2019 A Imperia le celle sono piene di muffa, le pareti scrostate, mentre a Sanremo il problema più grave è il sottodimensionamento della polizia penitenziaria, in sofferenza in quanto a numeri. È la radiografia uscita dalla visita che ieri, come tradizione, ha fatto nei penitenziari del capoluogo e in quello di Valle Armea il gruppo Radicale (in totale sono stati visitati 70 istituti di pena in 14 regioni, ndr). Alla doppia visita hanno partecipato tra gli altri Gian Piero Buscaglia, della sezione “Adele Faccio”, con i compagni di partito Deborah Cianfanelli e Stefano Petrella, e l’avvocato Marco Bosio in rappresentanza dei penalisti imperiesi (le ispezioni hanno visto l’adesione dell’Unione camere penali).”Una situazione non drammatica ma con molte criticità”, il commento di Marco Bosio, che, per lavoro, conosce bene la realtà carceraria ligure. A Imperia, come detto, le magagne maggiori sono quelle strutturali. È un carcere vetusto, inserito tra l’altro in un contesto cittadino centrale, un retaggio delle concezioni urbanistiche passate, quando i reclusori erano nel cuore della città, simbolo del potere giudiziario da lasciare come monito alla vista dei cittadini. Al di là degli aspetti architettonici e delle pecche a essi collegate (nel recente passato la casa circondariale di Imperia è stata al centro di due clamorose evasioni), sono le condizioni di vivibilità all’interno delle celle, umide e malsane, a preoccupare di più. Altro tasto dolente: il fatto che l’assistenza sanitaria ai detenuti si interrompa alle 22 e resti scoperta il resto della notte. A Sanremo invece è il rapporto deficitario tra poliziotti penitenziari e detenuti (questi ultimi sono 260), a tutto svantaggio del personale di servizio, a creare maggiori difficoltà. Mancano soprattutto assistenti e ispettori, cui si sopperisce con turni massacranti per chi è in organico. C’è quindi da registrare la difficile convivenza tra reclusi, la maggior parte stranieri e di diverse etnie e religioni, e la presenza tra essi di tossicodipendenti e malati di epatite C. Detenuti questi che hanno necessità di cure costanti e di assistenza psicologica. Trapani: delegazione del Partito Radicale in visita al carcere telesudweb.it, 19 agosto 2019 Una delegazione del Partito Radicale, composta da Rita Bernardini (consigliere generale del Partito Radicale Nonviolento Transnazionale e Transpartito), Gianmarco Ciccarelli e Donatella Corleo (militanti del Partito Radicale Nonviolento Trasnazionale Transpartito) Emanuele Lauria, Laura Ancona e Silvia De Pasquale - accompagnata per una parte della visita dal dottor Roberto Piscitello, Direttore Generale della Direzione Generale dei Detenuti e del Trattamento del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria - ha effettuato un sopralluogo alla Casa Circondariale “Pietro Cerulli” di Trapani, nell’ambito di “Ferragosto in carcere 2019. Iniziativa del Partito Radicale e dell’Unione delle Camere Penali Italiane”. La visita si è protratta dalle ore 10.30 circa fino alle ore 17:15. Emerso l’evidente degrado strutturale della Casa Circondariale, dove sono reclusi 513 detenuti, cui si aggiungono 22 permessanti, per un totale di 535 soggetti in carico all’Istituto a fronte di una capienza regolamentare di 564 posti. Una situazione non allarmante, secondo i numeri, che però si traduce diversamente nei fatti alla luce di alcune celle alcune piccolissime di 9 - 10 metri quadrati destinate a ospitare 1 detenuto e che spesso ne ospitano 2 e celle pensate per ospitarne 3 che ne ospitano 4 con letti a castello anche a tre piani. La maggioranza dei detenuti appartiene al circuito di media sicurezza: 442 i detenuti comuni e 93 i detenuti che scontano la loro pena in alta sicurezza. Con eccezione del reparto Adriatico, inaugurato 3 anni fa (che non ha tuttavia il riscaldamento, ma ha i bagni a norma e la palestra) il resto invece è stato giudicato in pessimo stato: sia il primo reparto, di isolamento, con docce esterne, senza acqua calda e il bagno a vista in tutte le celle e anche alla turca - dove è stato individuato un detenuto senza cuscino e uno straniero privo del sapone per lavarsi - che il reparto di alta sicurezza, lo Ionio, dove ci sono le docce esterne alle celle in violazione al regolamento penitenziario, il bagno senza finestre e impianto di aerazione. I detenuti scontano nella cella 20 ore su 24 e la socialità è svolta in una sorta di gabbione nelle 4 ore d’aria. Peggiori le condizioni del reparto di media sicurezza, Mediterraneo, con infiltrazioni e muri scrostati, mentre nel Tirreno che verrà inaugurato il prossimo autunno ci sarà il riscaldamento e saranno ospitati i detenuti protetti. L’acqua che esce dai rubinetti è gialla, non può essere utilizzata per cucinare ma chi può acquista, tranne i detenuti stranieri che non se lo possono permettere e devono anche berla. Registrata la carenza di polizia penitenziaria: previsti 300 agenti ma presenti 230, e le nuove immissioni non compensano i pensionamenti. Molte attività non possono essere svolte per carenza in pianta organica. Non emergono all’apparenza carenze di educatori e psicologi ma secondo i detenuti vedere gli stessi educatori, gli assistenti sociali e responsabili del Sert non è una cosa semplice. Presenti molti detenuti di tipo psichiatrico, tossicodipendenti e sieropositivi e tuttavia si registrano carenze nell’assistenza di tipo sanitaria. Nota totalmente negativa è l’assenza di lavoro: solo 70 detenuti lavorano e solo 5 con datori di lavoro esterni: una percentuale inferiore al 15 per cento. Limitate le attività scolastiche e di formazione. La condizione più grave è in assoluto quella degli stranieri, 110 in questo carcere, che non hanno mai potuto fare una telefonata alla famiglia per avvisarla. Sono i più poveri e non possono acquistare i beni di prima necessità. Un altro dato negativo è la mescolanza di detenuti in attesa di giudizio e detenuti definitivi. Rita Bernardini vuole tuttavia evidenziare una nota positiva e cioè che il padiglione completamente ristrutturato è stato realizzato con poca attesa perché non si è proceduto con l’appalto esterno ed è stato realizzato con il lavoro dei detenuti supportato da alcuni agenti che sanno fare questo mestiere. “L’ex direttore dal Dap, Santi Consolo - dice - ha voluto che le ristrutturazioni fossero fatte proprio attraverso il lavoro dei detenuti, in modo da recuperare posti e possibilità di lavoro, che sono qualificanti da spendere all’esterno. Questa è l’unica nota positiva - conclude - tutto il resto è illegalità. È costantemente negata soprattutto agli stranieri la prima telefonata a casa: non fanno colloqui e sono disperati”. Rita Bernardini, infine, lancia un appello al Ministro di Giustizia Alfonso Bonafede: “I detenuti in queste condizioni sono dimenticati dalla Legge, dalla Costituzione, dal Governo, dal Parlamento”. Larino (Cb): Ferragosto in carcere, la Camera penale in visita al carcere primonumero.it, 19 agosto 2019 Si chiama “Ferragosto in carcere” ed è l’iniziativa promossa dal Partito Radicale e da Radio Radicale a cui ha aderito anche l’Unione Camere Penali Italiane. L’evento nasce con lo scopo di manifestare la vicinanza dei penalisti ai detenuti. Alla giornata che si è svolta ieri, sabato 17 agosto, presso la Casa circondariale e di Reclusione di Larino, ha partecipato anche la Camera Penale del comune pentro con il Presidente Roberto D’Aloisio, il segretario Luigi Iavasile ed i tre componenti dell’Osservatorio carceri Nicola Banaduce, Marie Tesi e Federica Rogata, oltre ai consiglieri regionali Massimiliano Scarabeo e Nicola Eugenio Romagnuolo, accompagnati dalla direttrice del carcere Rosa La Ginestra che “con grande disponibilità ha aperto le porte della casa circondariale consentendo l’ingresso in aree e spazi normalmente non accessibili”, hanno commentato dalla Camera Penale. La visita ha fornito la possibilità di avere “contezza delle condizioni in cui versano i detenuti, sicuramente privilegiati rispetto a quelli di altri istituti sia con riguardo alle possibilità di formazione scolastica e professionale che per il godimento di, seppur limitati, spazi di libertà” continua la delegazione che aggiunge le impressioni avute durante la visita: “Nonostante il numero dei detenuti sia superiore alla capienza regolamentare, l’impressione che i visitatori hanno avuto è che i reclusi godano di adeguati spazi con celle personalizzate, ciascuna tinteggiata con colori diversi ed arredata secondo il gusto degli ospiti. L’incombere del cemento è stato smorzato, nei cortili dedicati all’ora d’aria, dalla realizzazione di murales ad opera dei detenuti stessi, sotto la direzione di un’associazione di volontariato su finanziamento del Cipia di Campobasso. All’interno dell’istituto, oltre alle aule deputate alle lezioni scolastiche e ai laboratori di cucina e sala, sono presenti zone verdi, con orto e serra, aree dedicate ai giochi per i bambini, reparto sanitario, biblioteca, sala lettura, cappella e sala delle confessioni, ed è in fase di realizzazione la sala per le videochiamate dei detenuti”. Di grande impatto il rapporto umano che si crea tra detenuti e guardie: “Fiore all’occhiello del carcere è apparso, poi, l’approccio umano dell’amministrazione penitenziaria nei confronti delle esigenze dei detenuti, come riconosciuto anche da alcuni di essi, approdati a Larino da altri istituti dove le offerte rieducative sono ridotte ed il rapporto con i vertici del tutto assente - aggiunge la Camera Penale - Il sistema trattamentale, per i detenuti che vi aderiscono in maniera attiva e costruttiva, si dimostra efficace e costituisce la chiave di accesso ai provvedimenti della magistratura di sorveglianza, ben propensa a dare fiducia ai richiedenti, ammettendoli a misure alternative alla detenzione”. È chiaro che, tra le tante note positive, ce ne siano alcune negative che andrebbero migliorate, a partire dai “collegamenti stradali per raggiungere la struttura che si riflette sulla possibilità, per i detenuti, soprattutto quelli di altre regioni, di avere colloqui con i propri familiari”, passando per la “carenza di personale, essendo prossime al pensionamento ben sei unità che probabilmente non verranno sostituite, con le inevitabili ripercussioni nella gestione dell’ordine e della sicurezza, già di per sé difficoltosa a seguito della nuova geografia carceraria che ha determinato la confluenza a Larino di numerosi detenuti delle carceri del Lazio, rivelatisi particolarmente problematici, come confermato dalla direttrice stessa”. A mancare del tutto, come sottolineato dagli avvocati in visita al carcere di Larino, “il servizio per le tossicodipendenze, con trattamenti assicurati solo dall’infermiere di turno, senza alcun professionista specializzato, come anche il supporto psicologico, demandato essenzialmente all’attività dei volontari. Purtroppo, nonostante il grande impegno profuso dalla direzione nel recupero e nella rieducazione del reo, del tutto deficitario è l’effettivo reinserimento sociale e lavorativo, che costituisce l’essenza stessa della funzione della pena. ln tal senso l’impegno della Camera Penale di Larino, per il tramite dell’Osservatorio Carceri, è quello di farsi portavoce di tutte le criticità evidenziate e di sollecitare le istituzioni affinché le numerose energie impiegate all’interno del carcere non si disperdano vanamente al di fuori delle mura, col rischio di ricaduta nel crimine per l’assenza di alternative”. Potenza: il vice presidente del Consiglio regionale in visita al carcere lasiritide.it, 19 agosto 2019 Il vice presidente del Consiglio ha visitato la Casa circondariale del capoluogo lucano con la presidente dell’Osservatorio del carcere, Francesca Sassano, e il presidente della Camera penale di Potenza, Sergio Lapenna. “Una forte emozione ma anche tanto orgoglio nel costatare il buon livello in cui versa il carcere di Potenza dove l’applicazione della legge va di pari passo con il rispetto dei diritti umani”. Queste le dichiarazioni del vicepresidente del Consiglio regionale della Basilicata, Mario Polese, recatosi in visita presso la casa circondariale di via Appia del capoluogo lucano con la presidente dell’Osservatorio del carcere, Francesca Sassano, e il presidente della Camera penale di Potenza, avvocato Sergio Lapenna, in occasione della manifestazione ‘Ferragosto in carcerè organizzato dall’Unione nazionale Camere penali e il Partito radicale. “Al momento la struttura risulta esser un buon esempio tra tutti gli istituti del sud Italia con un limite di tollerabilità e di non sovraffollamento - continua Polese - e abbiamo avuto modo di parlare con la direttrice e verificato le condizioni di assoluta vivibilità dei detenuti all’interno dell’istituto. Tra le note negative la chiusura, ancora per qualche anno, dell’aula giudiziaria e la mancanza di un ginecologo e dell’attrezzatura dentistica su cui continueremo a vigilare affinché venga garantito il diritto alla salute a 360 gradi”. “Non posso che ringraziare da cittadino e uomo delle istituzioni - sottolinea - il duro lavoro delle donne e degli uomini della Polizia penitenziaria e fare il mio plauso a tutti coloro che lavorano in questa struttura in cui il detenuto viene rieducato in un percorso non solo sociale ma di benessere psicofisico”. “L’unico rammarico - conclude Polese - che ad un appuntamento così importante sia venuta meno la presenza dei colleghi di maggioranza. Che forse il vigilare sul rispetto dei diritti umani sia meno importante del presenziare alle feste di paese? Mi auguro francamente che non sia così, perché il rispetto delle persone non conosce cittadini di serie A e cittadini di serie B, almeno per noi democratici”. L’Aquila: boss di camorra incontra la figlia in carcere, per l’ultima volta Il Centro , 19 agosto 2019 Un boss della camorra che deve scontare il carcere a vita in regime di 41bis ha incontrato per l’ultima volta, fisicamente, sua figlia che nei prossimi giorni compirà 12 anni, età che le impedirà, per legge, di vedere il padre se non con la barriera di un vetro e parlando a un microfono: è stato questo il momento più importante della visita nel carcere di massima sicurezza Le Costarelle di Preturo da parte del garante dei detenuti della Regione Abruzzo, Gianmarco Cifaldi, sociologo e criminologo, oltre che docente dell’Università D’Annunzio di Chieti-Pescara. Insieme a lui, l’assessore regionale Guido Quintino Liris, che, come ha sottolineato lo stesso Cifaldi, “è stato prezioso in particolare nella sua veste di dirigente medico”. L’ultimo incontro tra il boss e sua figlia si è consumato in seguito all’impegno del neo-garante, eletto dal consiglio regionale nella seduta del 24 luglio scorso, dopo oltre cinque anni di tentativi della precedente giunta. “L’affettività è uno dei princìpi che ispirano il mio mandato. Infatti sono convinto che le colpe dei padri non debbano ricadere sui figli”, spiega il professore. Il garante ha visitato l’intero carcere, in particolare la sezione riservata ai detenuti in regime di 41 bis dove sono recluse 120 persone, su una capienza di 80. Nel corso della visita sono state riscontrate diverse criticità che saranno oggetto di una relazione che sarà consegnata al consiglio regionale e agli altri organi competenti, quali ad esempio Asl e Dipartimento amministrazione penitenziaria, per individuare un piano per migliorare le condizioni carcerarie. Ci tengo a sottolineare che l’Ufficio del Garante, come consuetudine, prima di un’ispezione informa e invita il consiglio regionale, in questo caso la presenza dell’assessore Liris è stata importante per il suo significato tecnico-politico in quanto dirigente sanitario dell’Asl dell’Aquila”, afferma Cifaldi. Nel merito della visita, nel carcere aquilano c’è un “importante sovraffollamento. Inoltre, sono emerse anche altre criticità relative, in particolare, alle insufficienti aree ricreative e agli spazi all’aperto, come già sottolineato da una precedente ispezione del professor Mauro Palma, garante nazionale. Poi, c’è sicuramente da migliorare la condizione dell’area sanitaria e degli stessi operatori sanitari”. Cifaldi ha avuto numerosi colloqui con detenuti in regime di 41bis, anche con uno dei responsabili degli omicidi dei giudici Falcone e Borsellino. Anche in questo caso, sono state registrate “lamentele in primo luogo relative al fatto che la cella, oltre alle sbarre, ha un’ulteriore griglia metallica che impedisce una corretta circolazione dell’aria in celle che, devo dire, sono sufficientemente decenti”. Il garante ha anche visitato la sezione riservata ai cosiddetti detenuti comuni che “pagati regolarmente” lavorano all’interno della struttura nel campo della ristorazione e della pulizia dei vari settori. Napoli: l’Asl e l’Uiepe per programmi socio-riabilitativi ai detenuti tossicodipendenti napoliflash24.it, 19 agosto 2019 È stato sottoscritto il protocollo che mira a potenziare l’attuazione delle misure alternative alla detenzione per i tossicodipendenti sottoposti a provvedimenti penali. Un protocollo voluto dal direttore generale dell’Asl Napoli 1 Centro Ciro Verdoliva, quanto dal Direttore dell’Ufficio Interdistrettuale di Esecuzione Penale Esterna (Uiepe) per la Campania Maria Bove, e che vede la determinante collaborazione del Direttore del Dipartimento Dipendenze Stefano Vecchio e della Responsabile della Unità Operativa Dipartimentale (Uosd) Strutture Intermedie Marinella Scala. La normativa del settore, sulla scorta del percorso tracciato dalla storica legge del Sen. M. Gozzini e dall’impegno istituzionale multiforme di Alessandro Margara, prevede che i tossicodipendenti possano fruire di misure alternative alle pene per i reati commessi, in quanto prevalentemente collegati alla loro relazione con le droghe, seguendo programmi socio-riabilitativi all’interno di uno o più dei servizi per le dipendenze (SerD, Centri Diurni, Comunità Terapeutiche). “Si inaugura una nuova stagione di attività congiunte con Uiepe - ha commentato Ciro Verdoliva. Il protocollo e il progetto Deeply rappresentano un nuovo tassello nella realizzazione del modello territoriale diffuso e articolato di servizi afferenti al Dipartimento delle Dipendenze che rappresentano uno dei nodi strategici e innovativi della attuale Direzione strategica della Asl Napoli 1 Centro”. In questo quadro si inserisce la sottoscrizione del protocollo tra la Asl Napoli 1 Centro e la Uiepe, che prevede un finanziamento per la realizzazione del progetto Deeply con la prima attivazione di quattro tirocini formativi che prenderanno vita nei due orti sociali gestiti dal Centro Diurno Lilliput (nel quartiere Ponticelli) e dal Centro Diurno Palomar (realizzato in via Manzoni). Progetti che vanno a potenziare e rinforzare i programmi socio-riabilitativi orientati al lavoro già in corso nelle due strutture. Il Dipartimento delle Dipendenze della Asl Napoli 1 Centro ha infatti una lunga storia di progetti per l’esecuzione delle misure alternative alla detenzione, in particolare all’interno dei quattro Centri Diurni (Centro Aleph, Centro Arteteca, Centro Lilliput, Centro Palomar), afferenti alla Uosd Strutture Intermedie, con programmi socio-riabilitativi personalizzati e originali, implementati nel tempo anche con progetti finanziati dalla Regione Campania finalizzati più specificamente alla formazione professionale. In questa logica è stato istituito uno sportello di orientamento per le misure alternative, nell’ambito del “Progetto IV Piano”, che integra l’attività della Uo Serd Area Penale ed è stato attivato un circuito regionale e nazionale di Comunità Terapeutiche che consente di personalizzare e velocizzare l’esecuzione delle misure alternative. “Questo protocollo - dice il Direttore della Uiepe - conferma e rafforza la collaborazione con l’Asl Napoli 1 Centro, in particolare con il Dipartimento Dipendenze e la Uosd Strutture Intermedie. Si compie un ulteriore passo in avanti nella collaborazione istituzionale grazie a progetti che delineano il passaggio da interventi orientati esclusivamente ai singoli individui, a orizzonti più ampi, nei quali le storie individuali, pur non azzerate, vengono tuttavia ricomprese nella ricerca di efficaci politiche di servizio, che tendono a conferire alle misure alternative contenuti trattamentali di chiara evidenza”. Livorno: l’alternativa al carcere, detenuti a pulire spiagge e strade adnkronos.it, 19 agosto 2019 “Mi riscatto per Livorno”: si chiama così il progetto che consentirà ai detenuti del carcere di Livorno di mettersi a disposizione della città e contribuire a pulire spiagge, strade o occuparsi della manutenzione e di valorizzare i beni culturali livornesi. Il protocollo di intesa del progetto, ideato dal Garante comunale per i diritti dei detenuti Giovanni De Peppo in collaborazione con il sindaco Filippo Nogarin, è stato firmato oggi nella direzione della Casa circondariale “Le Sughere” di Livorno, da Francesco Basentini, direttore del Dap. “Con questo progetto - ha sottolineato Basentini - Livorno dimostra tutta la sua lungimiranza che consentirà di risolvere il problema del reinserimento dei detenuti all’interno della società”. Con la firma del protocollo prende il via, spiegano dal Comune, la prima esperienza di coinvolgimento diretto nei lavori socialmente utili di persone destinatarie di una condanna penale definitiva. “È un progetto assolutamente innovativo che mette al centro il lavoro come forma di riscatto sociale e come strumento di reinserimento all’interno della società - ha osservato Nogarin. Livorno ancora una volta si propone come modello a livello nazionale. I detenuti non saranno scortati all’esterno dalla polizia penitenziaria e non saranno sotto sorveglianza armata. Verranno, al contrario, selezionate le persone più adatte, che negli anni si sono dimostrate meritevoli, e cui è indispensabile dare una seconda possibilità”. Le persone idonee verranno segnalate al direttore del carcere che provvederà a condividere un elenco con l’Ufficio di sorveglianza. Tre le realtà che hanno già dato disponibilità a usufruire di questo servizio: Aamps, l’associazione Reset e l’associazione del Palio marinaro. Milano: Majorino contro il Cpr di via Corelli “è soltanto un carcere per immigrati” milanotoday.it, 19 agosto 2019 L’ex assessore alle politiche sociali del comune di Milano contro Salvini e il nuovo Cpr. Questo Cpr “non s’ha da fare”. Non ha dubbi Pierfrancesco Majorino, l’ex assessore alle politiche sociali del comune di Milano - attuale eurodeputato - che domenica mattina ha ribadito il suo secco no al “Centro di permanenza per i rimpatri” che dovrebbe aprire ad ottobre in via Corelli, anche su spinta del ministro dell’Interno, Matteo Salvini. “Giorni fa ho visitato il Cpr di via Corelli. Cioè un micidiale carcere per immigrati del nord Italia che sta per essere aperto. E che invece deve poter diventare una struttura temporanea per senzatetto, italiani e stranieri”, ha scritto su Facebook Majorino, proponendo già una soluzione alternativa. “Poniamo che tra qualche settimana l’orribile Salvini non è più Ministro dell’Interno. Ecco per me, rispetto al Cpr non cambia niente. La lotta per evitare che il Cpr nasca deve proseguire a prescindere. Al di là di chi è che governa. Quindi - ha concluso - facciamola”. Lo stesso Majorino, lo scorso 9 agosto, aveva fatto visita al cantiere della struttura, che a regime pieno ospiterà fino a 140 migranti in attesa dell’espulsione. E già aveva attaccato: “Il clima è teso, in città non c’erano mai state rivolte di profughi prima che Matteo Salvini diventasse ministro dell’Interno. Guarda caso si sono verificate proprio nei giorni in cui il parlamento discuteva il decreto sicurezza bis”. E ancora: “Questi spazi potrebbero tranquillamente essere usati per altre esigenze abitative, ad esempio per dare una casa ai senzatetto, invece saranno usati per rinchiudere i migranti. La verità è che molte di queste persone sono per la strada proprio a causa delle politiche di questo governo e ho il sospetto che questo faccia solo comodo al ministro Salvini per fini di propaganda elettorale”. Lo stesso Salvini a fine luglio era andato al cantiere di via Corelli - dove in passato c’era già un Cie - e aveva esultato perché i lavori procedono spediti. “Con questo - aveva commentato - potremmo espellere più persone perché avremo più posti, la cosa era ferma da anni”. Ottimati contro barbari di Ernesto Galli della Loggia Corriere della Sera, 19 agosto 2019 L’Italia sta imbarbarendosi. Ciò che sembra contrario alla verità è l’attribuzione di tale barbarie a una sola parte politica, all’Italia che “non ci piace”. E così abbiamo i Barbari in casa, almeno a quanto dice l’Italia per bene, educata e rispettosa di tutte le etichette, l’Italia degli Ottimati. La quale ha scoperto che accanto a lei ma assai diversa da lei vive un’altra Italia: un Paese maleducato, sudaticcio, incolto, ignaro di cosa siano il “bene pubblico”, la Costituzione e la London School, un Paese che detesta Greta e le Ong, frequenta spiagge troppo affollate e che quindi proprio per questo vota Lega o anche 5Stelle. L’Italia barbara, appunto. Personalmente vedo le cose in modo alquanto diverso. Ma se stanno davvero così allora però sorge inevitabilmente una domanda: mentre i “Barbari” cominciavano a dilagare, che cosa facevano gli altri, gli Ottimati? Quali battaglie ingaggiavano per proteggere la cittadella democratica? Quali difese approntavano? Non si direbbero particolarmente memorabili le prime né granché efficaci le seconde, visti i risultati. Viene insomma da pensare che parlare di “Barbari”, evocando con tale parola l’idea di una forza selvaggia e soverchiante, di una spinta incontenibile, serva oggi ai suddetti Ottimati più che altro per nascondere la propria diserzione dal campo di battaglia: la propria incapacità divenuta oggettiva complicità con il nemico. L’invasione insomma poteva benissimo essere fermata. Bastava combattere. Capire quando bisognava farlo. Sarebbe bastato ad esempio fare delle riforme della scuola diverse da quelle approvate per tanti anni. Al di là delle apparenze approvate da Destra e Sinistra insieme, entrambe convinte che la scuola dovesse servire alla società e a preparare al mercato del lavoro. Entrambe d’accordo nel riempirla di scartoffie e di burocrazia, di lavagne digitali, di famiglie saccenti, di democraticismi demagogici, di “successo formativo” obbligatorio, di circolari insulse in anglo italiano. Per tenere lontano i “Barbari” forse sarebbe bastato a suo tempo lasciare nei programmi la storia e la geografia invece di ridurre entrambe ai minimi termini o di cancellarle del tutto. Forse sarebbe bastato insistere con qualche riassunto, con qualche mezzo canto della Divina Commedia mandato a memoria, con qualche ora di matematica in più e qualche gita scolastica a Barcellona in meno. E sarebbe bastato anche che qualcuno dei tanti intellettuali che oggi soltanto scoprono il disastro accaduto avessero impiegato un po’ di tempo a occuparsi della scuola del proprio Paese anche cinque o dieci anni fa, spingendosi magari, dio non voglia, fino a fare le bucce a qualche ministro dell’istruzione Pd. Peccato che agli Ottimati, ai Buoni per definizione, quel campo di battaglia però allora non interessasse, non si accorgessero di quanto lì stava accadendo. Gli Ottimati, la classe dirigente italiana - quella com’è noto assolutamente ligia alle regole nonché sempre avvedutissima - non aveva tempo allora per certe cose. E così poi, per dirne un’altra ancora, mentre i “Barbari” crescevano e ad esempio riunivano le loro schiere sotto le bandiere del federalismo secessionista, del dileggio verso Roma ladrona e l’unità nazionale in nome del localismo filoborbonico e del “vaffa” alla casta e al Parlamento, anche stavolta l’attenzione degli Ottimati era rivolta altrove. A riformare il titolo V della Costituzione, ad esempio: come dire a fornire ai “Barbari” la migliore delle munizioni. E infatti adesso quelli, forti guarda un po’ proprio della riforma suddetta, pretendono di accrescere smisuratamente il proprio potere nei territori dove già comandano, mettendo le mani su tutto il possibile a cominciare dalla scuola, rifiutandosi di contribuire a qualunque spesa che non sia la loro, e così via barbareggiando. Da tempo insomma l’onda nemica cresceva, ma gli Ottimati non si sa dove fossero e che cosa facessero. Avrebbero potuto, per dirne qualcuna, cercare di far pagare le tasse agli evasori, impedire che nelle carceri finissero solo i poveracci, cancellare l’obbrobrio correntizio del Csm, far diminuire di almeno un milione il debito invece di farlo crescere di continuo, avrebbero potuto assumere cento ispettori del lavoro (licenziando cento portaborse) per ripulire le campagne pugliesi e calabresi dai proprietari negrieri. Avrebbero potuto tentare mille cose per fermare la “barbarie” montante: che so, inventarsi un programma anche minimo d’integrazione per gli immigrati, ridiscutere il trattato di Dublino - loro che sanno come si sta in Europa - oppure pensarci due volte prima di firmare il contratto di concessione con la società Autostrade, e magari, visto che c’erano, dare pure una controllata a qualche viadotto qua e là per la Penisola. Avrebbero potuto…. Se lo avessero fatto oggi di sicuro ci sarebbe in giro qualche “barbaro” in meno. Perché i barbari esistono davvero, sia chiaro, non vorrei che si pensasse il contrario. L’Italia sta effettivamente imbarbarendosi. Ciò che però mi sembra contrario alla verità è l’attribuzione di tale barbarie a una sola parte politica, alla solita Italia degli altri, all’Italia che “non ci piace”. Inaccettabile è il gioco dello scaricabarile di cui la classe dirigente italiana è specialista da sempre, e che si sta ripetendo puntualmente anche questa volta chiamandosi fuori come al solito ogni volta che il Paese è costretto a fare i conti (che quasi sempre non tornano) con il proprio modo d’essere, con la propria storia. L’Italia barbara esiste, ma è ben più vasta di questo o quell’elettorato. È il Paese che sta perdendo il senso delle regole e si sta abituando a violarle quasi tutte, che non ha più rispetto per ciò che è importante e degno, che non crede più nelle leggi e nella giustizia, che non ha più fiducia nell’autorità perché avverte la sostanziale mancanza di capacità di controllo da parte di quella cosa che un tempo si chiamava Stato. È il Paese che non legge, che passa le ore con lo smartphone in mano, che si sta convincendo che la politica sia qualcosa a metà tra una televendita e un’intervista di Barbara d’Urso. È l’Italia su cui gli Ottimati, in massima parte per la loro propria responsabilità, hanno perduto ogni egemonia, non sapendo dare a questa le nuove forme e i nuovi contenuti che dopo la grande frattura del 1992-94 sarebbero stati necessari. L’Italia di una classe dirigente che ancora illudersi di poter dirigere qualcosa. La beffa dell’Onu: “Conferenza contro la tortura al Cairo” di Francesca Caferri La Repubblica, 19 agosto 2019 Rabbia delle Ong per la scelta di un Paese nel mirino per l’uso di violenza e omicidi mirati. La rabbia espressa dalle organizzazioni internazionali che da anni monitorano i diritti umani nella regione non è bastata: le Nazioni Unite nel giorno di Ferragosto hanno confermato che a inizio settembre organizzeranno una conferenza sulla definizione e la criminalizzazione della tortura nel mondo arabo al Cairo. Ovvero nel cuore di quell’Egitto che dozzine di studi internazionali, da quelli di Human Rights Watch a quelli di Amnesty International passando per decine di organizzazioni minori. considerano uno dei Paesi che della tortura fa un uso sistematico e indiscriminato. “È un incontro standard”, ha dichiarato ai reporter dell’agenzia Reuters Rupert Colville, portavoce dell’Ufficio diritti umani dell’Onu. Lo stesso che a febbraio aveva denunciato le condanne a morte basate su confessioni estratte con la violenza come pratica comune in Egitto. Cosa abbia spinto Romena, l’ufficio regionale dell’Onu che si occupa di diritti umani, a unirsi all’agenzia governativa egiziana per i diritti umani a organizzare l’incontro previsto per il 4 e 5 settembre, con la partecipazione di altri Paesi della regione, non è chiaro. Quel che è certo però è che dal programma saranno escluse le organizzazioni che da anni lavorano per i diritti umani nel Paese. Primo fra tutti quel Nadeem center che a lungo è stato un punto di riferimento per le vittime di tortura in cerca di aiuto legale e psicologico: il centro è stato chiuso dal governo del presidente Abdel Fatah Al Sisi e la maggior parte dei suoi collaboratori posti sotto divieto di espatrio. Un mese prima dei sigilli apposti dalla polizia ai loro studi nel febbraio 2016, gli esperti del Nadeem avevano accusato le autorità egiziane di aver ucciso 500 persone e di averne torturate 600 solo nel 2015. Secondo le stime di Human Rights Watch 60mila persone sono finite in carcere in Egitto dal 2013, quando il presidente Al Sisi ha preso il potere: la maggior parte di loro ha subito torture. “La conferenza servirà soltanto agli sforzi dell’Egitto per ripulire la sua immagine” - ha denunciato alla Reuters Mohamed Zaree, ricercatore del Cairo Institute for Huma Rights: un altro dei gruppi messi al bando negli ultimi anni. Zaree, che dal 2016 non può lasciare l’Egitto, pur essendo riconosciuto a livello internazionale come uno dei maggiori esperti sul tema, all’incontro di settembre non è stato invitato. Stati Uniti. Dopo 22 anni di carcere, scoperto innocente grazie ad indagini della madre businessonline.it, 19 agosto 2019 L’accusa, palesemente falsa, era quella, infamante, di omicidio. La giustizia terrena ha inteso riconoscere l’errore solo dopo ventidue anni. Anni che Christopher Tapp ha trascorso in carcere. L’ennesima storia, e che storia, di malagiustizia questa volta arriva dagli Stati Uniti d’America. Dallo stato dell’Idaho per la precisione. Dove solo l’amore infinito e potente di una madre in cerca di verità ha salvato la vita al presunto assassino della figlia. Una vicenda intricata, che ha dell’incredibile e che per Christopher Tapp, si è risolta solo dopo un calvario durato ventidue anni. Anni trascorsi in cella per un’accusa infamante, omicidio, che era palesemente falsa, ma che la giustizia terrena ha inteso riconoscere tale solo a distanza di ventidue anni. L’uomo, oggi quarantaduenne, che all’epoca dei fatti aveva appena venti anni, deve ringraziare la madre della vittima, una ragazza di nome Angie Dodge trovata senza vita il 13 giugno del 1996 trafitta da alcune coltellate nella sua abitazione a Falls. Sono state infatti le indagini condotte in maniera privata dalla donna a svelare il tremendo errore della giustizia. E a restituire la libertà a Christopher Tapp. Proprio grazie alle indagini condotte in maniera privata dalla madre, la verità è venuta a galla e Christopher ha potuto riassaporare il gusto della libertà dopo ventidue anni trascorsi in cella con la consapevolezza di essere innocente. Un destino tragico, che sembrava ormai segnato se non fosse stato per il coraggio di Carol, la madre di Angie Dodge, la ragazza assassinata con una coltellata la sera del 13 giugno 1996. La tragedia scuote la comunità di Falls, un piccolo paesino dello stato americano dell’Idaho anche perché sul corpo della ragazza vengono trovati i segni di una violenza sessuale. Il caso diventa subito scottante e gli inquirenti impiegano circa un anno per arrestare uno stupratore armato di coltello che potrebbe essere lo stesso uomo che ha accoltellato la giovane Angie. Per verificare le eventuali attinente gli agenti convocano Christopher Tapp in qualità di amico della vittima per capire se, anche secondo lui, può essere la pista giusta. Ma questa mossa, che sorprende Christopher al punto da non consentirgli di rendere una deposizione serena, sarebbe coincisa con l’inizio del calvario per l’uomo. Le sue indecisioni insospettiscono gli inquirenti e da testimone, ben presto Christopher diventa l’unico indiziato. Viene arrestato immediatamente e nonostante il test del Dna dica che non è stato lui l’autore della violenza sessuale, per il giovane, allora ventenne, si apriranno le porte del carcere. Fine pena, mai. Una sentenza che non poteva saziare la sete di giustizia di Carola, la madre della ragazza uccisa e stuprata. Era evidente che l’assassino della figlia era ancora in circolazione e dunque non restava che condurre le indagini privatamente per scardinare la versione dei fatti totalmente infondata che aveva inchiodato all’ergastolo l’incolpevole Christopher Tapp e giungere alla verità provata dai fatti. Nel 2014 la donna riesce finalmente a far valere la prova del Dna che era stata trascurata in maniera davvero incredibile dal tribunale in virtù della confessione dell’uomo. Ma nonostante questo sul capo di Tapp pende ancora l’accusa di omicidio, sebbene il movente della violenza sessuale fosse chiaramente infondato. La madre di Angie non si è arresa e dopo aver assoldato un esperto di genealogia è riuscita ad inchiodare il vero colpevole. Un uomo che, all’epoca dei fatti, abitava davanti alla casa di Angie e che non ha esitato a confessare, a distanza di ventidue anni, appena la polizia ha bussato alla sua porta. Afghanistan. Il rompicapo tra stragi Isis, talebani e i rischi del ritiro Usa di Franco Venturini Corriere della Sera, 19 agosto 2019 La soluzione potrebbe essere per gli americani di conservare qualche base in Afghanistan e di continuare a svolgere operazioni anti-terrorismo contro i nuovi nemici (l’Isis) dei nuovi alleati ed ex nemici. Per chi vuole compiere una strage (e a Kabul questa genia non è poi tanto rara) i matrimoni in stile afghano sono occasioni da non perdere. Se i genitori degli sposi possono permetterselo gli invitati sono centinaia, uomini e donne sono separati nelle loro “zone” e formano così bersagli indipendenti, la confusione provocata dal kamikaze di turno facilita la fuga di eventuali complici. Purtroppo non stupisce, allora, che le vittime dell’attacco di sabato siano state 63, e i feriti 180. Con due particolarità: il massacro non è stato rivendicato dai Talebani bensì dai locali adepti dell’Isis ; e ad essere colpiti dai terroristi sunniti, non per la prima volta, sono stati membri della minoranza Hazara di fede sciita. Due elementi che aiutano a capire quanto arduo sia il negoziato tra americani e talebani che dovrebbe portare entro la fine del 2020 al ritiro di tutte le forze straniere, compresi beninteso gli italiani. In particolare il Pentagono teme che dopo un ritiro statunitense molti talebani possano sentirsi “traditi” dai negoziatori e vadano così ad ingrossare le fila dello “Stato islamico del Khorasan” (etichetta locale dell’Isis) creando così le premesse di una nuova guerra civile. La soluzione potrebbe essere per gli americani di conservare qualche base in Afghanistan e di continuare a svolgere operazioni anti-terrorismo contro i nuovi nemici (l’Isis) dei nuovi alleati ed ex nemici (i talebani). Ma l’equazione, che peraltro è stata respinta dai talebani, non tiene in alcun conto l’attuale governo di Kabul, per non parlare della popolazione civile che nello scorso mese di luglio ha subìto le perdite più alte degli ultimi due anni. Donald Trump ha confermato ieri ai suoi più stretti collaboratori che vuole ritirare le sue forze prima delle elezioni del novembre 2020. Ha aggiunto soltanto due parole : “se possibile”.