Tra i bimbi in carcere. Per incontrare papà di Matteo Marcelli Avvenire, 18 agosto 2019 Sono 70mila i bambini che ogni anno entrano in cella per poter incontrare padri e madri detenuti. Nel 2018, grazie al Telefono azzurro, 12mila minori sono stati presi in carico. Ma le strutture adeguate agli incontri sono ancora poche e il sistema penitenziario si presenta ancora inospitale per i più piccoli. I volontari che li seguono: così li aiutiamo ad affrontare senza traumi un mondo difficile e sconosciuto. Marco ha sei anni e vive con la mamma a Milano. Ogni settimana va a trovare il papà, un detenuto in attesa di giudizio nella casa circondariale di Monza. Non c’è molto tempo a disposizione, soltanto due ore, e spesso non è facile sfruttarle al meglio. Il bimbo vede la madre passare attraverso le sbarre e firmare delle carte. Alcuni uomini in divisa le controllano la borsa, Marco non sa che quello è un carcere e si chiede come mai il padre sia costretto a vivere lì, la mamma gli ha detto che sta lavorando. In quelle due ore può giocare, disegnare, fare quello che fanno tutti i bambini. C’è uno spazio apposito per l’incontro, la ludoteca. D’estate poi c’è anche la possibilità di stare all’aperto, correre, giocare a pallone con il papà. Poi però arriva qualcuno: “Colloquio finito”, scandisce a voce alta. E il piccolo capisce che è giunto il momento di andare via. Sono 70mila i bambini che ogni anno entrano in carcere per incontrare i genitori ed è pensando a tutti loro che Telefono azzurro, dal 1993, ha avviato il progetto ‘Bambini e Carcerè, reso possibile grazie alla collaborazione con il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria del ministero della Giustizia. Un accordo che è stato rinnovato il 30 luglio scorso, con la firma del protocollo di intesa che regola le attività dell’associazione nelle strutture carcerarie di tutta Italia. L’obiettivo è quello di tutelare i bambini coinvolti in situazioni di detenzione genitoriale, in ottemperanza a quanto sancito dall’articolo 9 della Convenzione Onu sui diritti dell’infanzia. Non è un lavoro facile però, come spiega ad Avvenire Anna Giussani, psicologa di Telefono azzurro: “Cerchiamo di rendere le ludoteche, spazi idonei all’incontro genitore-figlio ma nonostante si tratti di una struttura dedicata, il bimbo deve abituarsi e a volte è molto spaesato”. Ci sono procedure di ingresso particolari e regole comportamentali specifiche. “A volte l’attesa di incontrare il papà rende il figlio agitato. Siamo chiamati ad affiancarlo e a prepararlo all’incontro, è un momento particolare. Senza contare che anche per il padre è molto difficile: non possono esserci avvicinamenti troppo stretti tra coniugi, non si può parlare con altri genitori - continua la psicologa -. A volte il bimbo finisce per essere lasciato a se stesso. Il tempo è poco e il nostro compito è quello di farlo fruttare e trasformarlo in un momento di qualità nella relazione padre-figlio”. Anche le mamme fanno fatica, in molte credono sia meglio mentire ai propri i figli, quando invece ci sono parole adatte a rendere la situazione comprensibile anche a un bambino. Grazie a 240 volontari adeguatamente formati, nel 2018 sono stati oltre 12.000 i bambini seguiti dal progetto in 24 istituti di 21 città italiane. Ma sono ancora molti i minori che vivono direttamente o indirettamente l’esperienza del carcere e hanno bisogno di essere aiutati. Inoltre, dalle statistiche del Dap, risulta che dei 59.655 detenuti, più di 26mila sono anche genitori, e sono solo 52 i bambini, fra i 0 e i 6 anni, che vivono negli istituti con le proprie madri grazie a cosiddetti “nidi”. Per loro ci sarebbero anche gli Icam, istituti a custodia attenuata per madri detenute, ma in tutta Italia ce ne sono solo 5 e spesso i giudici non sanno neanche cosa siano. “Si tratta di strutture dedicate in cui le madri possono vivere con i figli da 0 a sei anni, ma si è comunque in un carcere con regole proprie di un istituto - spiega ancora Giussani. Sono concepiti come un grande appartamento, gli agenti vestono in borghese e i bambini possono andare all’asilo. Uno spazio rispettoso del diritto alla continuità della relazione padre-figlio e di quello dell’adulto all’esercizio del ruolo genitoriale”. Anche in questo caso, però, non mancano controindicazioni, specie nella capacità del bambino di rapportarsi allo spazio esterno. Sabrina e Valentina, ad esempio, vivono con la madre nell’Icam di San Vittore. Hanno cinque anni e quella è la loro casa. Anche se la mattina possono andare all’asilo, nel pomeriggio devono rientrare. C’è la possibilità di uscire, ma solo se accompagnate dai volontari. Qualche mese fa, racconta Emanuela, un’operatrice di Telefono azzurro, sono state accompagnate a una festa di compleanno e per la prima volta hanno visto il laghetto dell’idroscalo di Milano. La domanda che hanno fatto all’accompagnatrice dà l’idea di quello che può significare vivere in un carcere: “È il mare?”. Don Grimaldi: “Rendere le carceri luoghi rispettosi della dignità umana” di Gigliola Alfaro agensir.it, 18 agosto 2019 Intervista a don Raffaele Grimaldi, ispettore generale dei cappellani nelle carceri italiane. Le carceri italiane continuano a essere sovraffollate. Ad attestarlo il nuovo rapporto “Numeri e criticità delle carceri italiane nell’estate 2019” presentato da Antigone, a Roma. Numeri impressionanti. “Al 30 giugno 2019 i detenuti ristretti nelle 190 carceri italiane erano 60.522. Negli ultimi sei mesi sono cresciuti di 867 unità e di 1.763 nell’ultimo anno. “Il tasso di sovraffollamento, rileva il rapporto, è pari al 119 per cento, ossia il più alto nell’area dell’Unione europea, seguito solo da quello in Ungheria e Francia”. Un dato preoccupante se messo a confronto con quello del Ministero della Giustizia secondo cui i posti disponibili nelle carceri italiane sono 50.496, e che, sempre secondo Antigone, non tiene conto delle sezioni chiuse. Una situazione esplosiva che si spiega, prosegue il rapporto, “con l’aumento della durata delle pene”. Gli stranieri in carcere poi, negli ultimi 10 anni, “sono diminuiti del 3,68 per cento”. Una sezione a parte riguarda le condizioni di vita all’interno delle carceri. “Stanno peggiorando”, si legge nel testo. Nel 30 per cento delle carceri visitate da Antigone non risultano spazi verdi dove incontrare i propri cari e i propri figli. Solo nell’1,8 per cento vi sono opportunità di lavoro alle dipendenze di soggetti privati. Inoltre, nel 65,6 per cento delle carceri non è possibile avere contatti con i familiari via Skype, nonostante la stessa amministrazione e la legge lo prevedano, mentre nell’81,3 per cento delle carceri non è mai possibile collegarsi a internet. “Il peggioramento della qualità della vita si ripercuote anche sul numero dei suicidi. Il 2018 - evidenzia il rapporto - fu un anno drammatico e nel 2019 quelli che si sono verificati negli istituti di pena italiani sono già 26”. E ancora: il 44 per cento dei detenuti viene da Campania, Puglia, Sicilia e Calabria, ossia chi finisce in carcere arriva da situazioni di povertà economica e culturale. Infine, al 30 giugno 2019 sono 54 (26 stranieri e 28 italiani) i bambini presenti nelle nostre carceri insieme alle mamme detenute. Riflettiamo su questi dati con don Raffaele Grimaldi, ispettore generale dei cappellani nelle carceri italiane. Le nostre carceri sono quelle più sovraffollate in Europa… Nelle 190 carceri italiane nell’ultimo periodo effettivamente il problema è aumentato. Alcuni reparti sono chiusi perché avrebbero bisogno di una ristrutturazione. La mancata manutenzione è, quindi, un aspetto di cui tener conto. Girando per le carceri italiane, tante volte trovo reparti fatiscenti, ma non ci sono i fondi per le ristrutturazioni. D’estate, poi, i detenuti soffrono particolarmente, anche perché i corsi si fermano, diminuiscono i volontari, parte del personale va in ferie: tutte figure che, di solito, li aiutano a superare momenti di crisi, legati anche alle condizioni di vita. Il sovraffollamento non è legato tanto a nuovi ingressi, ma all’allungamento delle pene… Bisognerebbe dare fiducia ai detenuti. Molti di loro potrebbero usufruire dei benefici delle misure alternative, ma poi questo non avviene perché c’è la paura di investire su chi ha sbagliato in passato. Dal rapporto emerge che quasi la metà dei detenuti viene dal Sud: è più facile finire in carcere quando c’è povertà economica e culturale? Ovunque vado, trovo detenuti del Mezzogiorno: fasce deboli che provengono dalle aree periferiche, di solito in carcere proprio per motivi legati a difficoltà economiche e culturali. Questo dimostra che investire sul lavoro è un antidoto al delinquere. Molti mi confidano che vorrebbero lavorare, uscire da certi meccanismi, ma hanno problemi di sussistenza che non li aiutano a tagliare i fili con il crimine e li costringono a continuare a vivere di espedienti. Secondo Antigone peggiorano anche le condizioni di vita all’interno delle carceri… Ci sono istituti che potrebbero offrire maggiori opportunità, ma tanti altri dove, pur volendo realizzare, ad esempio, aree verdi, non ne hanno la concreta possibilità per motivi di spazio. Quando queste strutture sono nate, a certe questioni non si pensava proprio. Oggi le esigenze sono mutate: servirebbe tanta buona volontà per rendere questi luoghi rispettosi della dignità della persona, dando loro un aspetto più umano. Nel 2019 si contano già 30 suicidi: come evitare questo dramma? Sono tanti quelli che per una fragilità psicologica compiono un gesto estremo. Per evitare questi drammi serve l’attenzione all’altro: se uniamo le nostre forze noi cappellani, i volontari e gli stessi operatori all’interno delle carceri, come polizia penitenziaria ed educatori, creiamo una catena di solidarietà per sostenere i detenuti più fragili, come quelli che non hanno più rapporti con la famiglia o sono stranieri o vivono in una povertà estrema e si sentono abbandonati all’interno del carcere. A queste persone dobbiamo far sentire la nostra vicinanza, il calore umano. Ci sono ancora 54 bambini in carcere con le mamme detenute… Non ci dovrebbero essere. Dopo la tragedia di Rebibbia, quando una madre ha ucciso i suoi due figli, è stato ribadito questo: tutti concordi, dai politici agli operatori del settore, ma poi, passata l’emergenza, il discorso è stato accantonato. L’auspicio è che, invece, si risolva al più presto la questione e che non ci siano più bambini costretti a vivere in carcere. Il cammino come rinascita sociale, 6 giovani detenuti sulla via Francigena ansa.it, 18 agosto 2019 “Boez. Andiamo via”. Dal 2 settembre al 13 settembre andrà in onda su Rai Tre alle 20 e 20. 900 km da Roma a Santa Maria di Leuca. Sei ragazzi detenuti in cammino su via Francigena, la guida è Marco Saverio Loperfido, ripercorrono un cammino come rinascita sociale, un documentario di Roberta Cortella e Marco Leopardi che ha visto Marco Saverio Loperfido, inventore di Ammappalitalia, come guida escursionistica e Ilaria D’Appollonio come educatrice di comunità. Io non tengo libertà, non mi ricordo neanche più da quando. Mi sa da quando tenevo 14 anni. Perché tra sorveglianza e carcere la libertà vera non l’ho mai avuta”, racconta Francesco, cresciuto all’ombra del padre boss della malavita locale, quasi un enfant prodige per il suo curriculum di reati. “Nella strada non sei libero, mai. Anche se sei libero per la giustizia, non sei libero dentro te”, dice. “A me piaceva incutere il terrore nelle persone e adesso se ci ripenso mi faccio schifo da solo”, confessa invece Alessandro, che dopo un’esistenza in strutture per minori e carceri, oggi sogna di studiare per diventare astrofisico. E poi ancora, Maria, cresciuta in una comunità Rom, costretta a sposarsi ancora bambina a 14 anni e poi a rubare; Omar, metà napoletano e metà tunisino, che l’obesità ha mortificato a lungo, mentre entrava e usciva dal carcere minorile; Kekko, corpo tatuato e un passato di violenze e privazioni; Matteo, che dopo cinque anni di carcere spera di far contenta sua madre, almeno ora che non c’è più. Sono i sei ragazzi protagonisti di “Boez. Andiamo via”, serie tv di forte impatto sociale, un po’ documentario un po’ reality, realizzata da Rai Fiction e Donatella Palermo per Stemal Entertainment con la collaborazione del Ministero della Giustizia. In onda dal 2 al 13 settembre alle 20.20 su Rai3, la serie racconta, senza filtri né falsi paternalismi, il singolare esperimento di recupero di sei ragazzi, tutti condannati per aver infranto la legge e in regime di detenzione, interna ed esterna, ora letteralmente in cammino. Scarponi ai piedi e zaino in spalle, accompagnato da Marco Saverio, guida ambientale escursionistica Aigae, e da Ilaria D’Apollonio, educatrice di comunità ad orientamento psico dinamico, il gruppo ha percorso in 50 tappe e 10 puntate oltre 900 km, lungo la Via Francigena dei pellegrini medioevali, da Roma a Santa Maria di Leuca in Puglia, come misura di pena e recupero alternativi sul modello di iniziative già praticate in altri paesi europei, abbattendo fortemente la percentuale di recidive. “Chi è nato in montagna come me - racconta Roberta Cortella, autrice di Boez insieme a Paola Pannicelli e regista con Marco Leopardi - cresce con i sentieri che scorrono sotto i piedi e guardando alla cima come a un’impresa dura e faticosa”. Il progetto Boez, che prende il nome dalla firma di un writer “nel nome del quale raccontiamo una storia di speranza e rinascita”, è nato con l’obbiettivo di “portare in Italia il metodo del cammini come strumento di rieducazione e reinserimento sociale di giovani con trascorsi criminali. Una misura già praticata in Belgio e Francia da quasi quarant’anni”. La serie racconta così la “realizzazione di un sogno: quello di sperimentare il metodo in Italia, ma anche il sogno di sei giovani che per due mesi hanno lasciato il loro contesto sociale per ripartire verso una nuova consapevolezza di sé e del mondo”. Il cammino diventa infatti un percorso di conoscenza, un gesto quasi rivoluzionario in un quotidiano comune sempre più sedentario, ancora più per chi è vissuto ristretto nei limiti di un contesto marginale e deprivato. Un viaggio pieno di meraviglie, dagli incontri alla sorpresa di dormire sotto le stelle, con la libertà che fa quasi paura. Ma anche di ostacoli, brusche frenate: il caldo asfissiante, lo zaino che pesa tantissimo, momenti di sconforto personale, dinamiche interpersonali (e sentimentali) tutte da imparare. Ma il seme del cambiamento è piantato. E chissà che una volta arrivati al mare, cominci a germogliare. Quelle madri coraggio che salvano i figli allontanandoli dai padri boss di Giovanni Tizian L’Espresso, 18 agosto 2019 Bambini destinati a diventare i padrini di domani vengono sottratti alla tradizione di famiglia. Grazie all’intervento e alla forza delle loro mamme. Che con l’aiuto del tribunale sfidano l’arroganza dei mariti al 41bis. Ecco le loro storie. Lorenza non è ancora maggiorenne, ma è già adulta: costretta a fare i conti con un padre padrone, affiliato a Cosa nostra, in Lombardia. Monica, invece, è madre di due bambini di 12 anni e ha fatto di tutto per strapparli al destino certo di capi clan in Calabria. Poi c’è Giorgio: rischiava di diventare manovalanza dei padrini, è stato testimone oculare di un omicidio di ‘ndrangheta e porta sul corpo le ferite della lupara. Bambini, ragazzi, donne, età diverse, latitudini del Paese differenti. Uniti nella ricerca di una vita normale, nulla di più. Tutti salvati dai giudici minorili. Il tribunale per i minori di Milano nel caso di Lorenza, quello di Reggio Calabria per Monica e Giorgio. Uffici giudiziari poco conosciuti che lontano dai riflettori, e nel disinteresse dei ministri che dovrebbero occuparsi di lotta alle mafie, provano a offrire una via d’uscita ai figli dei mafiosi. Il tribunale calabrese lo fa in maniera sistematica dal 2012. Il giudice Roberto Di Bella insieme alla sua piccola squadra ha firmato un protocollo che indica la via da seguire fuori dal recinto della mera repressione giudiziaria. Ma è un atto solitario, che resta locale e che avrebbe bisogno di essere istituzionalizzato con una legge ad hoc che stanzi anche più risorse per servizi sociali e assistenza alle famiglie che vogliono recidere i legami di mafia. A oggi sono 60 i provvedimenti firmati dal giudice Di Bella di allontanamento dei ragazzi dai nuclei di ‘ndrangheta. La formula tecnica è “decadenza della responsabilità genitoriale”. E può colpire uno o entrambi i genitori a seconda del contesto. Il tribunale interviene sulla base di evidenze certe di maltrattamento psicologico: bambini costretti a sparare, obbligati a fare le vedette, a trafficare cocaina. Ai più scettici un’azione così decisa potrà richiamare alla mente i fatti di Bibbiano, dei bambini tolti alle famiglie e dati in affido ad altre. Nulla di più fuorviante. E mentre la politica strumentalizza i fatti di accaduti in Emilia, resta indifferente al modello vincente di prevenzione antimafia inventato da un giudice schivo e allergico ai palcoscenici. Di Bella in questi anni ha subito qualunque tipo di attacco senza mai indietreggiare. Lo hanno accusato di confiscare i figli dei boss, di usare metodi da dittatura sudamericana e di causare traumi irreparabili ai minori. Gli slogan a effetto dei critici si sgonfiano di fronte alla realtà toccata con mano dal giudice e da chi conosce a fondo le dinamiche familiari dell’organizzazione mafiosa calabrese fondata sui vincoli di sangue. Qui l’erede del capo si sceglie tra le mura domestiche, non per strada pescando tra la carne da macello pronta a entrare nella “famiglia”. Per questo i bambini maschi fin da piccoli subiscono un indottrinamento costante. Imbottiti di codici di comportamento, di regole criminali dalle quali difficilmente riescono a liberarsi senza l’aiuto di qualcuno. La pedagogia mafiosa è lo strumento con cui si allevano i padrini di domani. Il tribunale dei minorenni di Reggio Calabria ha provato a sovvertire la regola del destino ineluttabile. Dei 60 casi trattati che equivalgono almeno ad 80 minori (in un nucleo familiare c’è spesso più di un figlio), la maggior parte ha avuto un lieto fine. Che vuol dire soprattutto adolescenti che hanno ripreso gli studi con diligenza, possono coltivare interessi che prima non gli erano concessi, vanno al cinema, al teatro, immaginano il loro futuro con un lavoro onesto. In molti casi, poi, l’allontanamento ha prodotto una reazione a catena. Molte madri hanno chiesto al giudice di dare loro una seconda possibilità insieme ai figli. Con l’aiuto del tribunale e sfidando l’arroganza dei mariti al 41bis hanno raggiunto i pargoli lontano dalla Calabria. Fuori dai contesti della famiglia di ‘ndrangheta hanno ricominciato una nuova vita, in una casa vera, rinunciando alla reggia dei loro feudi. Anche qualche marito che ha giurato fedeltà alla ‘ndrina ha compiuto un passo impensabile fino a qualche anno fa. Come un importante boss della provincia di Reggio Calabria: dopo aver scontato 23 anni di carcere ha contattato il giudice Di Bella, che in passato aveva allontanato i figli e la moglie. “Giudice”, ha esordito il capo clan, “ho scontato più della metà della mia vita in galera, non posso più sopportare il peso di una vita così”. Ha chiesto così di potersi ricongiungere con la famiglia andata via dalla Calabria. Una crepa, non l’unica, nel monolite di omertà qual è la mafia calabrese. Ne è consapevole anche lo stesso boss, che al magistrato ha confidato: “Vedrà che appena si sparge la voce, molti detenuti faranno la mia stessa scelta”. La resa dello ‘ndranghetista risale a due mesi fa. Il tribunale si è mosso subito cogliendo il potenziale devastante della scelta di rottura col passato. L’uomo ha già trovato un lavoro. E non ha mai smesso di amare sua moglie, la prima grande accusatrice che con le sue dichiarazioni rilasciate ai magistrati aveva contribuito alla sua condanna. Il riscatto in Calabria vale doppio. In una terra in cui i diritti essenziali sono ridotti a brandelli. Per esempio i servizi sociali. Nelle zone più dense di ‘ndrine della Locride, lato Jonico del reggino, gli assistenti sociali e gli educatori sono spesso un miraggio. E molte situazioni di devianza pre-mafiosa sfuggono ai radar di scuole e comuni. Questo vuoto intermedio garantisce alla ‘ndrangheta di avere un bacino di giovani leve pronte a prendersi il potere nel momento in cui i senatori delle cosche muoiono o finiscono in cella per molti anni. L’unico sostegno concreto per questi ragazzi arriva proprio dal tribunale dei minori e della rete di associazioni che hanno siglato il protocollo “Liberi di scegliere”, tra queste Libera e Unicef. Uno degli ultimi ragazzi a essere salvato è un adolescente di un paesino dell’Aspromonte. Il ragazzo, che chiameremo Giorgio, si trovava in campagna con Fabio Giuseppe Gioffrè, detto “Siberia” “ritenuto esponente di vertice dell’omonima cosca”. Il 21 luglio dello scorso anno due killer a volto coperto fanno irruzione nel terreno di proprietà di Gioffrè e lo uccidono a colpi di lupara. Giorgio non ha fatto in tempo a scappare, è rimasto ferito al braccio e al torace. “Ha ancora i pallini dei colpi nel corpo, ma sta meglio”, ci spiega chi ha seguito le indagini. Il giovane è così diventato un testimone chiave dell’inchiesta. Il giudice Di Bella lo ha seguito da vicino, oggi vive protetto fuori dalla Calabria ed è uno dei giovani salvati dal protocollo “Liberi di scegliere”. Dopo qualche tempo lo hanno raggiunto anche i genitori. Nel frattempo ha pure testimoniato contro i killer, senza esitazioni. Ma è un bambino che dovrà convivere per sempre con il trauma impresso sulla carne dai macellai delle ‘ndrine. Neppure le ferite di Monica si cicatrizzeranno presto. Porta nell’anima i segni dell’arroganza mafiosa. Monica non è il suo vero nome. Non può apparire, ha scelto di togliere i piccoli eredi al boss recluso al 41bis. Lo ha fatto accettando ogni tipo di rischio. Al suo fianco Di Bella e l’associazione Libera. Monica è stata anche in carcere. E neppure la sua scelta di portare via i figli lontano dal clan le ha garantito la clemenza della Corte. Dopo aver portato i due gemelli in una famiglia affidataria della rete di Libera, il giudice della Cassazione ha reso definitiva la condanna. Ha salutato i figli con le lacrime agli occhi e poi è partita per consegnarsi, consapevole che una volta uscita sarebbe iniziata davvero la sua nuova vita. “Sono stati anni terribili”, racconta Monica, “perché ho dovuto condividere tutto quel tempo con altre detenute che invece continuavano a seguire i codici criminali”. Poi una bella notizia: l’avvocato Enza Rando ottiene la scarcerazione e l’affidamento in prova ai servizi sociali. La data è simbolica in questa storia dove le donne hanno un ruolo decisivo. Monica lascia il carcere il giorno della festa della donna, l’8 marzo 2019. Ma per comprendere fino in fondo il coraggio di Monica è utile tornare indietro di qualche anno. Al giorno in cui lei e i bambini lasciano per sempre Reggio Calabria. “Ho lasciato la città in cui vivevo il 26 luglio 2016”, ricorda Monica. “Alle sei di mattina è arrivata a prendermi la polizia per portarmi in aeroporto. All’epoca vivevo da mia suocera, perché l’abitazione in cui abitavo con il mio ex era stata confiscata. La casa era vuota, erano tutti in carcere, e così mi ero trasferita lì con i miei figli”. Si è innamorata del boss nel 2006, hanno avuto due figli. L’atteggiamento amorevole del capo muta repentinamente: “Ha voluto che smettessi di lavorare, mi diceva che non era necessario. E in effetti di soldi ne giravano molti, ma lui era molto tirchio. Gli avevo chiesto da dove venisse quel denaro, ma mi rispondeva “conta e non fare domande”“. Prepotente. Arrogante. Violento. Si drogava molto. “Una volta mi ha anche picchiata quando gli ho urlato: “Drogato”. Non mi permetteva neppure di lavorare. Quando ho iniziato a informarmi per un lavoro in giro, tra i suoi amici, spiegando che ne avevo bisogno per mantenere i bambini, ottenevo alcune risposte evasive, altre, invece, più sincere: “la moglie di Nico vuol fare le pulizie? Ma siete pazza?”. In quel luogo era una richiesta folle e mio marito l’avrebbe vissuta come un’offesa. La donna deve stare muta, diceva mio cognato. Una volta mi ha detto: se non stai buona, ti ammazzo... a pensarci bene mi avevano reso una serva”. Sembra trascorso un secolo, invece sono passati solo pochi anni. Monica adesso pensa solo ai suoi due piccoli che stanno crescendo lontani dall’influenza del padre. Frequentano la scuola, vanno al mare, studiano, corrono per le strade di una ignota e ordinata cittadina del Nord Italia. Vivono la normalità che in passato gli era stata negata nel nome del clan. “La mia scelta è maturata pensando al loro futuro. Così, quando il giudice del Tribunale dei minorenni di Reggio Calabria mi ha convocata per un colloquio, ho capito cosa dovevo fare. Lì, in quella saletta dove il giudice Di Bella mi attendeva, è diventato tutto più chiaro. Fuggire, rifugiarmi, tutelare chi amavo più della mia stessa vita”. Così Monica e i suoi bambini lasciano la Calabria. “All’inizio, ai miei figli, ho spiegato che ci saremmo allontanati per cercare un lavoro fuori. Credevano che loro padre fosse in carcere per non aver pagato delle multe. Ma alla fine, dopo qualche mese, ho spiegato loro la verità: “Vostro padre è dentro per associazione mafiosa”. La loro risposta continua a farmi sorridere: “Ma cos’è, una cosa tipo il clan?”. Ho dovuto spiegare che anch’io ero stata in galera. Ma gli ho detto di stare tranquilli, perché la mamma non ha mai fatto male a nessuno. È solo che a volte le persone non percepiscono in che guai si stanno per cacciare. Per molto tempo non hanno mai chiesto del padre. Adesso, però, da un po’ vogliono informazioni su di lui. Avvertono l’esigenza di sentirlo. Una volta al mese vanno in carcere a trovarlo, non hanno molta voglia ma io faccio il possibile perché accada. Non cerco vendetta”. Qualche tempo fa il boss ha scritto una lettera diversa dal solito. Concordava con lei sul fatto che per i piccoli è necessaria una vita migliore della sua. La testardaggine di Monica è riuscita a scalfire ciò che decenni di repressione non sono riusciti nemmeno a scheggiare. Come Monica, anche Lorenza ha visto la mafia in faccia ogni giorno. Non in un paesino della Sicilia o della Calabria, ma in un ricco comune della Lombardia. Qui ha vissuto quotidianamente a contatto con il boss. Non per scelta, è suo padre. Lei è una piccola donna, che ha perso l’innocenza molto presto. Costretta a osservare inerme le violenze fisiche subite dalla madre, ostaggio del padre padrone affiliato a Cosa nostra. Da quasi un anno Lorenza e la mamma vivono in un luogo sicuro, segreto, protetto dagli occhi indiscreti della mafia di Gela. Sono testimoni di giustizia, perché hanno denunciato le violenze fisiche e psicologiche subite. Finto onore e violenza. L’alfa e l’omega del codice non scritto delle cosche. Dal Sud al Nord. E così il tribunale dei minorenni di Milano ha applicato il metodo di Reggio Calabria: allontanare i figli dai padrini per offrire loro un’opportunità di vita libera dal ricatto criminale. È il primo caso al Nord. L’Espresso è in grado di raccontarlo pur con tutte le cautele del caso vista la giovanissima età della ragazza, che abbiamo chiamato appunto Lorenza. Negli atti dell’indagine, che vede il padre indagato per reati gravi di violenza sulla madre, emerge un quadro di machismo e prepotenza. Insieme a lui sono coinvolti altri parenti dell’affiliato a Cosa nostra, contribuivano al controllo totale sulla vita della donna. Che cosa ha dovuto subire Lorenza? Ha visto picchiare la madre: schiaffi, pugni e persino con una bottiglia di vetro sul collo. Alla mamma di Lorenza veniva impedito di uscire liberamente. Anche solo per farsi un giro, prendersi un caffè o sbrigare una commissione doveva essere accompagnata dal marito o dalle sorelle del boss. Hanno persino attaccato una tenda scura davanti al balcone: per essere certi che i vicini non la vedessero. L’hanno obbligata a vivere al buio, con le tapparelle perennemente chiuse. Lorenza ha assistito all’umiliazione della madre. Una sera il padre l’ha presa a calci e pugni. La sua colpa? Aver salutato un ex compagno di scuola. Scene che sembrano di altri mondi, da medioevo. E invece questa è una storia dei nostri tempi, che si svolge in un paesone della Lombardia. Tra fabbriche, uffici e ospedali all’avanguardia. Il giudice Roberto Di Bella: “Così ho liberato da un destino mafioso decine di ragazzi” di Carmine Fotia L’Espresso, 18 agosto 2019 La chiave di tutto è il dolore. Inflitto dai padrini alle mogli, ai figli e anche a se stessi. Il giudice Roberto Di Bella racconta la sua esperienza. Vado a trovare Roberto Di Bella - presidente del Tribunale dei Minori di Reggio Calabria, 55 anni, messinese, aspetto mite e fisico minuto da judoka, sposato con un figlio - nel suo minuscolo ufficio all’interno dell’edificio un po’ sgarrupato che ospita il Tribunale, per capire a che punto è una sfida - cui è stata dedicata la fiction tv Liberi di Scegliere, dove Alessandro Preziosi interpreta Di Bella - che sembrava impossibile: sottrarre al destino mafioso decine di ragazzi e ragazze, oltre settanta fino ad oggi. A settembre, il presidente lascerà il suo incarico. È dunque l’occasione per un bilancio di un impegno lungo un quarto di secolo. È stato un viaggio tormentato, e tuttavia tenacemente proseguito, malgrado sconfitte, polemiche, minacce: “Ho fatto qui tutta la mia carriera lavorativa. Sono arrivato nel 1993 e, dopo una parentesi fuori, sono tornato nel 2011 come presidente e mi sono trovato a dover giudicare i figli o fratelli minori di quelli che avevo giudicato negli anni 90. Ma non era solo una mia sconfitta personale: era anche la sconfitta della giustizia e dello stato che sembravano non poter cambiare un destino ineluttabile Ci domandavamo perché il tribunale intervenisse su genitori tossicodipendenti che non assicuravano il benessere dei minori allontanandoli provvisoriamente dall’ambiente familiare e non potessimo farlo per famiglie che inculcavano un’educazione criminale, esponendo i figli a una condizione di sofferenza. Voglio essere chiaro: nessuna “pulizia etnica”, né interventi preventivi: se il genitore mafioso tiene lontani i figli da quell’ambiente noi non interveniamo. Né vogliamo imporre ideologie, solo educare al rispetto delle leggi, al rispetto dell’altro. Non ho mai detto a nessuno di rinnegare il padre e la madre, ma di rinnegare la cultura criminale. Certo, all’inizio è stata dura, quando scrivevano che non esistono deportazioni a fin di bene, quando ci accostavano alle magistrature di stati totalitari, accusandoci di voler inculcare in questi ragazzi un’ideologia di stato. Abbiamo attraversato la bufera isolandoci e concentrandoci sui singoli casi, poi i risultati positivi ci hanno aiutato a far comprendere che la nostra azione era rivolta al bene del minore”. Se si vuole capire qualcosa di come la ‘ndrangheta trasmetta attraverso la famiglia la propria eredità fatta di sangue e morte, non bisogna fermarsi allo stereotipo del male assoluto. Il male, qui, non viene da fuori. Viene dalle viscere, ti viene trasmesso con il latte materno, mi disse qualche anni fa Emilio Argiroffi, poeta, comunista e omosessuale. Lo stavo intervistando per un reportage sulla storia di un giovane omosessuale che era stato massacrato di botte ad Africo - piccolo paese sull’Aspromonte, simbolo insieme di povertà, di violenza e di riscatto di cui aveva magistralmente scritto negli anni 70 Corrado Stajano in un libro pubblicato da Einaudi - perché il fratello di un boss si era innamorato di lui e quel luogo m’apparve in qualche misura il paradigma di quell’impasto di arcaismo e modernità, di familismo e business, di violenza e senso dell’onore che ha fatto della ‘ndrangheta una potenza criminale globale. Ecco perché la sfida di Roberto Di Bella, dei suoi colleghi, di Libera, della Cei, appare omerica. “Vuol sapere qual è la chiave di tutto? - mi spiega Di Bella - È la sofferenza. Non solo quella procurata al di fuori della famiglia, ma quella causata ai figli, alle mogli, alle madri, a se stessi. È il dolore di bambine e bambini cresciuti in notti insonni popolate da incubi in attesa di un’irruzione delle forze dell’ordine; condannati al Natale trascorso in un covo nascosto nel cuore della montagna; allevati, come dice un padre al figlio, per diventare “Vangelo” della ‘ndrangheta al posto suo; che devono imparare, anche questo l’ho sentito in un’intercettazione, “a tagghiari a purviri”, cioè la droga; educati all’uso delle armi. Ci sono ragazzi che sputano in terra al passaggio di una volante, altri che si fanno tatuare sotto la pianta del piede la fiamma dei carabinieri, per poterla calpestare a ogni passo. È capendo che dietro questi comportamenti spavaldi si cela spesso una sofferenza che abbiamo fatto breccia nel muro della ‘ndrangheta e salvato decine e decine di ragazzi, allontanandoli dalle famiglie mafiose e mostrando loro che c’è un altro destino possibile, che possono essere liberi di scegliere. Il minore - continua Di Bella - è sottoposto a un comportamento molto maltrattante, sia dal punto di vista psicologico che fisico. Questi ragazzi sono plagiati. Dobbiamo demistificare il mito mafioso e aprire gli occhi a questi ragazzi sulla vita che sono destinati a vivere. Il futuro che la mafia offre loro è carcere, sofferenza, morte. Spesso i ragazzi neppure sanno di essere portatori di sofferenza, perché quello in cui vivono è l’unico mondo che conoscono. Pensi che ho conosciuto ragazzi che di musica conoscevano solo la tarantella. Cerchiamo di far capire loro che questa non è la vita normale: che normale è essere liberi, poter scegliere gli amici, lo sposo o la sposa, la musica che vuoi ascoltare, senza imposizioni familiari. Quando i ragazzi, magari conoscendo loro coetanei che vivono in altri ambienti, scoprono che queste scelte posso essere fatte in base ai sentimenti che si provano, per loro diventa più difficile tornare al mondo di prima”. Le prime a recepire questo messaggio sono state le madri: “Con le donne più anziane è più difficile anche parlare, ma le donne più giovani, che hanno figli adulti che hanno già conosciuto il carcere, spesso si aprono, anche al di là degli atti ufficiali, mostrandoci un grumo di sofferenza. E paradossalmente a noi dicono quel che non riescono a dire in famiglia. Ci dicono che hanno paura, che stanno sveglie tutta la notte finché i figli non sono rientrati: “abbiamo paura che un giorno possano non tornare più, o che vengono arrestati”. Ci sono donne giovani che hanno figli piccoli, mariti all’ergastolo, figli in carcere o che magari hanno provato esse stesse il carcere e che di fatto sono imprigionate dalle famiglie di appartenenza. Questa sofferenza comincia a essere così diffusa che raccoglierla è quasi un bisogno sociale. Ma è quasi per caso che l’abbiamo intercettata, non era questa la nostra intenzione iniziale. Vengono qui per i figli, ma anche per loro stesse: sono piene di dolore, piangono, ma forse intuiscono che qui possono coltivare un speranza di riscatto. Spesso sono le stesse madri che ci pregano di mandare fuori i loro figli e di poterli seguire. In questo modo le proteggiamo dalla famiglia di appartenenza: se siamo noi a decidere, loro non saranno colpite. Alcune di esse hanno sono diventate collaboratrici di giustizia e quindi sono nel programma di protezione, ma la maggior parte sono donne che si dissociano dalla vita criminale pur senza pentirsi”. Confesso di essere molto colpito dall’umanità di questo giudice di frontiera, molto lontano da quell’idea di onnipotenza che spesso è connessa alla figura del giudice. Dall’attenzione al dolore che inevitabilmente le sue sentenze, pur necessarie, generano. È, la sua, un’idea mite della legge che è l’unico modo per far sì che sia anche giusta: “Ho rapporti epistolari con alcuni boss. Ho trovato spesso riflessioni intense e un grumo di umanità che non mi aspettavo. Noi possiamo giudicare i loro comportamenti dal punto di vista penale, ma cosa li spinga a tali scelte lo sa solo Dio”. Per fare diventare questa esperienza, finora affidata ai protocolli siglati tra le procure e alla collaborazione con Libera e la Cei (che mettono a disposizione case famiglia e famiglie che si offrono di accogliere i ragazzi), una vera e propria strategia di recupero secondo Di Bella serve che “quanto previsto nei protocolli che abbiamo stilato sia cristallizzato in una normativa nazionale, con risorse da destinare alla formazione degli operatori, all’assistenza alle famiglie, al problema del lavoro. I successi sarebbero più forti e duratori se potessimo disporre di risorse per il reinserimento lavorativo dei ragazzi. Penso a una specie di Piano Marshall per i giovani che vogliono uscire dalla ‘ndrangheta, e dobbiamo aiutare le donne che vogliono comunque allontanarsi e allontanare i figli dal sistema criminale”. Sono stati 25 anni difficili. “Il momento più brutto - ricorda Di Bella - fu quando ordinammo l’allontanamento in una casa famiglia di una ragazzina 12 anni, figlia di un capomafia, padre e madre in carcere, che viveva con la nonna in un ambiente davvero degradato e terribile. Pianse, si disperò, dovette essere accompagnata dalla polizia. Allora ho pensato che forse stavamo infliggendo sofferenze superiori al beneficio che avremmo ottenuto. Per fortuna in pochi giorni la situazione si è ribaltata. Adesso che ha sedici anni questa ragazza vuole fare l’assistente sociale per aiutare i ragazzi come lei e ci ringrazia. E così mi ha regalato anche il momento più bello, quando è venuta qua e ci siamo abbracciati”. E il boss di ‘ndrangheta ordinò al bambino: “Ora uccidi quell’infame di tua madre” di Giovanni Tizian L’Espresso, 18 agosto 2019 La drammatica storia vera del piccolo Rocco, che avrebbe dovuto ammazzare la mamma su ordine del padre. La racconta il libro “Rinnega tuo padre”, viaggio tra le storie dei minorenni allontanati dal tribunale dalle famiglie appartenenti ai clan. “La devi ammazzare. Due colpi nella faccia di quell’infame di tua mamma e chiudiamo ‘sta tragedia una volta per tutte. Devi farlo tu. Con l’età che c’hai non andrai in galera”. Il padre fissava il piccolo Rocco, da lui si aspettava la stessa determinazione nel tenere lo sguardo alto. Non rimase deluso. Erano uno di fronte all’altro nella campagna stretta tra l’Aspromonte e il mar Ionio. Seduti su poltroncine di plastica sotto un albero di arance in fiore, protetti da un lungo arbusto di gelsomino, che segnava il confine della tenuta. L’intenso e dolce profumo di gelsomino strideva con il cinico progetto di morte che don Nicola aveva appena consegnato nelle mani del suo erede. Al racconto shock e inedito è dedicato il primo capitolo del libro appena pubblicato da Laterza dal titolo “Rinnega tuo padre”. Il piccolo Rocco è nato nel 2004, alcuni anni dopo l’ingresso di Nicola nella ‘ndrina del paese. Rocco, tuttavia, non è il suo vero nome e sul paese possiamo dire poco. Non per omettere qualcosa, ma solo per tutelare il ragazzo, che oggi vive in una località protetta. Lontano da quel padre che voleva diventasse un killer, battezzato col sangue della madre come nelle più classiche delle tragedie greche. L’inizio di una carriera. Per diventare magari un giorno capomafia. Rocco non vede più suo padre da oltre un anno. Vive con la mamma e la sorella fuori dalla Calabria. È uno degli ultimi ragazzi allontanati per decreto del Tribunale dal genitore ‘ndranghetista. Il termine tecnico della procedura è “decadenza della responsabilità genitoriale”. Finora il presidente del Tribunale, Roberto Di Bella, ha firmato quasi 50 decreti di questo tipo. La decisione di intervenire non è indiscriminata. Si fonda su notizie provenienti da indagini della magistratura da cui emerge il degrado educativo di cui sono vittime questi ragazzi. Degrado educativo inteso come trasmissione di valori mafiosi e perciò trattato alla pari di un maltrattamento fisico. Per comprendere fino in fondo cosa si intenda per trasmissione della cultura ‘ndranghetista e come questa venga inculcata nella mente di adolescenti indifesi, è necessario leggere gli atti che sono alla base delle decisioni del Tribunale. Nelle pagine di “Rinnega tuo padre”, infatti, troviamo i tratti di una pedagogia parallela, l’educazione di un figlio al crimine. Il più piccolo degli “allontanati” nel 2016 aveva 12 anni. Per Rocco e altri ragazzini come lui, figli di latitanti, di boss, di soldati semplici, il destino familiare aveva riservato un posto nell’organizzazione. La ‘ndrangheta, però, non aveva fatto i conti con un giudice altrettanto determinato e coraggioso. Il magistrato che ormai da cinque anni offre una via d’uscita all’obbligatorietà della pena. E che ha cambiato il corso degli eventi. Dimostrando come il destino non sia immutabile. Rocco aveva impugnato per la prima volta la pistola a 12 anni. Gracile com’era, non era stato facile per lui premere il grilletto e resistere al rinculo. Suo padre aveva improvvisato un poligono artigianale nella campagna del nonno. Su un tavolo piazzato tra due alberi aveva sistemato alcuni barattoli di latta. Rocco aveva preso la mira con l’aiuto del papà. Poi in un attimo il colpo era partito e la tensione che aveva fatto tremare quelle gambe incerte di bambino si era sciolta. La seconda volta aveva sparato con il fucile del nonno. La terza di nuovo con la pistola. In un mese aveva ormai acquisito la sicurezza di un pistolero esperto. Agli occhi di suo padre stava diventando finalmente un uomo. Passavano gli inverni e le estati, e Rocco era pieno di ammirazione per quel padre autoritario e violento. Rocco respirava ‘ndrangheta e piombo. Chissà quale ruolo gli sarebbe toccato. Di certo, un giudice ha impedito che Rocco diventasse un killer bambino. Ha impedito che la vita di sua madre diventasse lo scalpo da portare in dono al capotribù in segno di riconoscenza. L’iniziazione, dopo la quale non è più possibile tornare indietro, non si è ultimata. Ancora qualche anno e avrebbe giurato fedeltà a san Michele Arcangelo con il sangue. La madre aveva paura, per se stessa e per il figlio. Ecco un passaggio della sua testimonianza contenuta in Rinnega tuo padre: “Io non riesco più a controllare la pericolosità di mio figlio, che è manipolato dal padre e dal nonno, persone pregiudicate e molto pericolose. Dopo la denuncia, il mio ex marito mi ha fatto sapere, tramite mio figlio, che mi brucerà viva. Ho paura [...] mio figlio è abituato a usare armi, che gli dà il padre, e temo possa utilizzarle per commettere gravi reati contro noi familiari e sé stesso”. Il dramma di una famiglia, devastata dal senso distorto dell’onore. Mafie. Chi comanda dietro le sbarre di Lirio Abbate L’Espresso, 18 agosto 2019 Se si vuol comprendere meglio com’è strutturata la mafia sul territorio occorre guardare dentro il carcere, analizzare i movimenti di chi sta nelle sezioni di alta sicurezza o in quelle riservate ai detenuti sottoposti al 41bis, guardare da vicino la vita carceraria e quali tipi di rapporti si creino tra detenuti. Questo esame sui boss reclusi può aiutare a capire come si muovono i mafiosi che sono fuori. I dettagli della vita carceraria illuminano, agli occhi degli investigatori, gerarchie e le alleanze che rispecchiano quelle che si organizzavano sul territorio. Si parte dal primogenito di Salvatore Riina, Giovanni. 43 anni, in cella dal 1996 a scontare la condanna all’ergastolo per quattro omicidi compiuti a Corleone. È stato lui fino a poco tempo fa il mafioso di riferimento per tutti i detenuti sottoposti al 41bis nel carcere di Spoleto dove è rinchiuso dal 2008. Un riflesso condizionato dovuto al potere che aveva suo padre. E così, per “rispetto” del capo dei capi, è toccato al giovane Riina “aprire” il “saluto” del mattino con tutti i detenuti della sezione. Lo ha fatto dalla sua cella: urlando attraverso feritoie e canali d’aria il suono della voce raggiungeva tutti. Un modo per augurare il buon giorno e, dopo questo “benestare”, si apriva la giornata, mentre gli altri a turno, si mettevano in linea con la scala gerarchica. Un gesto simbolico ma chiaro per il popolo dei carcerati. Perché la mafia vive e si nutre di simboli e gesti. Giovanni Riina è nato in clandestinità, durante la latitanza del padre, come i suoi tre fratelli. È stato partorito in una delle migliori cliniche di Palermo, è cresciuto nel lusso. L’ultima abitazione fino al 15 gennaio 1993, giorno dell’arresto del capo di Cosa nostra, è stata una sfarzosa villa in via Bernini alla periferia della città, con tanto di piscina e boiserie in quasi tutte le stanze, di proprietà della società Villa Antica di Giangiuseppe Montalbano, mai indagato per questi fatti. La carriera di assassino di Giovanni inizia dopo la maggiore età. Ha 19 anni quando il 22 giugno 1995 strangola a mani nude un uomo, innocente, per “provare agli altri boss della cosca la freddezza e la capacità di sopprimere una vita umana”. Questo omicidio è stato il battesimo del fuoco per il rampollo della famiglia, deciso dallo zio, Leoluca Bagarella, all’epoca latitante, e sconvolto per la morte della moglie, Vincenzina Marchese. Oggi è ancora ignoto se la donna si sia suicidata per colpa del marito o sia stata uccisa. Il suo corpo non è stato mai trovato. Il primogenito di cava Riina ha partecipato ad altri tre delitti, sempre nel 1995, due uomini e una donna, vittime innocenti che non avevano nulla a che fare con la mafia. Dopo dieci anni di “apertura del saluto”, il rampollo di casa Riina ha smesso dal giorno seguente alla morte del padre. Scomparso il capo dei capi, è scomparso anche lui dalla gerarchia carceraria. E questo fa comprendere come gli assetti dentro Cosa nostra sono immediatamente cambiati dal momento in cui è deceduto Salvatore Riina. Nel frattempo il carcere di Spoleto si è arricchito di nuovi arrivi, il primo è Leandro Greco, 29 anni, nipote di Michele Greco, il “papa” di Cosa nostra. Dal nonno ha ereditato il carisma mafioso, diventato presto, nonostante la giovane età, un boss della zona di Ciaculli a Palermo dove aveva grande influenza il “papa”. È nella stessa sezione di Mila jr. Il secondo arrivo è Giuseppe Sirchia, affiliato di spicco della famiglia mafiosa di Passo di Rigano, una delle più importanti del capoluogo siciliano. Entrambi potrebbero portare un nuovo assetto del potere mafioso in carcere, rispecchiando quello di fuori. Nel carcere dell’Aquila il “saluto” lo aprono i mafiosi palermitani Gianni Nicchi, Ignazio Fontana e Andrea Adamo. Sono loro a gestire con il loro carisma criminale la vita carceraria dei mafiosi al 41bis. Prima di loro la linea veniva data da un altro capomafia, Leonardo Vitale senior, adesso trasferito nel carcere di Sassari dove è molto complicato fare il “saluto” o dare la linea al popolo delle mafie che è rinchiuso li, perché questa struttura ultra moderna, realizzata appositamente per i 41bis, è un carcere “impermeabile”, cioè che blocca la comunicazione con l’esterno. E di questo i detenuti hanno timore, rispetto agli altri istituti dove i vecchi edifici hanno sempre qualche crepa in cui il mafioso riesce a infilarsi, sfuggendo al controllo. A Sassari è rinchiuso Leoluca Bagarella e pure Massimo Carminati, il capo di mafia Capitale, in attesa della decisione della Cassazione in calendario a ottobre. Carminati, che nel frattempo ha cambiato squadra di legali, per preparare meglio la difesa, è rimasto impassibile alla notizia dell’omicidio di Fabrizio Piscitelli, detto Diabolik, avvenuto in un parco di Roma con modalità in pieno stile mafioso. Il cecato conosceva bene la vittima, e apprendendo la notizia non ha mosso Prima Pagina un muscolo, non ha fatto alcun commento. È apparso così tranquillo come quando due giorni prima dell’agguato ha incontrato in carcere il figlio per il solito colloquio con i familiari. L’uccisione di Diabolik non è un fatto che si possa ignorare, perché il calibro della vittima e la sua importanza criminale modificano gli equilibri tra i clan romani. Se l’omicidio è stato concordato dai “re di Roma”, allora significa che è stata infranta la pax mafiosa che nel 2012 era stata imposta proprio da Carminati, per non attirare l’attenzione degli inquirenti sui propri affari. L’ordine era stato rispettato fino adesso. Il controllo dei 41bis è affidato in carcere agli agenti del Gom (Gruppo Operativo Mobile) della Polizia penitenziaria, un gruppo non “speciale” ma specializzato, chiamato a operare su problemi specifici come la detenzione dei boss. Sono agenti poco noti al pubblico, di notevole competenza e capaci di lavorare con grande sacrificio. Ma il loro reparto è a rischio. Un decreto che di fatto lo avrebbe svuotato era sul tavolo del ministro della Giustizia Bonafede, al vaglio del suo capo di gabinetto, Fulvio Baldi e del capo Dap, Francesco Basentini. Nell’ultimo anno il regime di carcere “impermeabile” sta subendo una serie di criticità per l’applicazione di una circolare varata due anni fa che vuole rendere omogeneo in tutte le carceri il 41bis. Provvedimento impugnato dai detenuti che ha portato la magistratura di sorveglianza a renderlo difforme tra i vari istituti. La volontà di uniformare questo regime detentivo si è così dimostrata un tentativo poco lungimirante di disciplinare gli aspetti della vita dei mafiosi carcerati. I detenuti fanno parte di un micro-sistema sociale capace di sviluppare una serie di regole non scritte, condivise da tutti e rivolte a tutti. Chi non le applica viene punito dal popolo carcerario, guidato sempre, nei reparti in cui si trovano i mafiosi, da un boss rispettato e riverito. “Le “buone maniere” non riguardano soltanto il saluto” racconta chi è stato detenuto. “Per esempio, il sedersi a tavola ha una simbologia particolare che non ha niente a che fare con il bon ton, ma piuttosto con il potere del “capo cella” che solitamente è una persona “di rispetto”. La disposizione dei posti a tavola è gerarchica: c’è il capotavola e al suo fianco le sue persone di fiducia, i suoi “ragazzi”; gli altri vengono disposti secondo un ordine dettato dal capo-tavola e sempre rispettato; le persone in fondo al tavolo sono le meno considerate. Addirittura, una tipologia di punizione può essere quella di far scalare un componente verso il basso, che è la parte opposta al posto principale. Di fronte, dal lato opposto della tavola non ci deve essere nessuno, in quanto, essendo disposta la tavola verticalmente al cancello d’ingresso - il “blindo” deve essere tassativamente accostato o chiuso - nessuno deve poter rivolgere le spalle a chi potrebbe presentarsi fuori dalla cella per qualsiasi motivo, agenti penitenziari compresi. E il capo cella deve poter avere sempre la visuale libera”. Preparare la tavola, sedersi e, alla fine del pranzo, alzarsi. Tutto è un rito, con gesti, movimenti e linguaggio che sottolineano la supremazia di uno sugli altri. Una rappresentazione visiva del potere, della gerarchia, di chi comanda e di chi sono gli alleati. Silenzi e omissioni, così il caso Regeni è stato dimenticato di Giuliano Foschini La Repubblica, 18 agosto 2019 La lettera al premier Conte e gli appelli dei genitori non sono serviti. Il governo italiano tace: e gli scambi commerciali con l’Egitto aumentano. Il 30 novembre dello scorso armo il ministro dello Sviluppo Economico, Luigi di Maio disse: “Pretendiamo risposte entro dicembre, altrimenti prenderemo conseguenze”. Quelle risposte, chiaramente, non arrivarono e così qualche settimana dopo, il 24 gennaio, nel giorno dell’anniversario del sequestro di Giulio Regeni, assicurò: “I rapporti commerciali con l’Egitto sono al minimo e lo saranno sempre di più”. Gli ultimi dati dicono che nel 2019, per la prima volta dall’omicidio e la tortura di Giulio, l’export italiano con il Cairo è aumentato. I127 aprile del 2019, dopo aver ricevuto una lettera aperta dai genitori di Giulio Regeni, pubblicata da Repubblica, il presidente del consiglio, Giuseppe Conte, incontrò il presidente egiziano, Abdel Fattah Al Sisi. “Non possiamo trovare pace finché non avremo una verità acclarata. La lettera dei genitori mi ha molto colpito, sono rimasto tanto turbato”, disse il nostro premier al termine dell’incontro. Per poi aggiungere: “lo parlo con Al Sisi e non con la magistratura. Ma non mi fermerò fino a quando non avrò una verità plausibile”. Il 15 agosto l’ambasciatore italiano ha inviato una lettera alla procura del Cairo per sapere se ci sono novità nelle indagini. Da quasi un anno, infatti, tutto tace: il sostituto procuratore di Roma, Sergio Colaiocco, ha iscritto cinque agenti della National security con l’accusa di sequestro di persona. E ha inviato una rogatoria per avere risconti al racconto, dettagliato, di un supertestimone che ha raccontato di aver ascoltato, nel corso di un pranzo tra ufficiali di polizia arabi, proprio uno degli agenti della National security raccontare dei pedinamenti, delle intercettazioni e del sequestro di Giulio, “il ragazzo italiano”. Andando ancora più indietro nel tempo il 14 agosto del 2017, l’allora presidente del consiglio Paolo Gentiloni, aveva annunciato trionfalmente il ritorno dell’ambasciatore italiano al Cairo, Gianpaolo Cantini. Proprio sulla base di una ritrovata collaborazione con l’autorità giudiziaria egiziana, la procura generale del Cairo. Gentiloni aveva dettato anche delle condizioni: Cantini doveva essere affiancato da una figura specifica per gestire la cooperazione giudiziaria investigativa, un magistrato o un ufficiale di Polizia giudiziaria. Doveva essere bloccata ogni fornitura bellica, mantenuta l’allerta sul sito della Farnesina, congelati i rapporti commerciali. Bene, due anni dopo l’arrivo di Cantini la figura di cooperazione giudiziaria non è mai arrivata. La vendita di armi con l’Egitto è schizzata, così come ha fatto boom il turismo e i rapporti commerciali sono aumentati. Come ha raccontato Repubblica, Confindustria ha appena tenuto un meeting e i dati del Mise, il ministero di Di Maio, quello che “i rapporti sono al minimo”, parlano chiaro: si diceva che l’export è aumentato (+1,8) per la prima volta dall’omicidio di Giulio. E complessivamente gli scambi sono quasi al +7 dopo il -6 fatto registrare dopo gennaio 2016, quando Regeni fu ammazzato dagli apparati di Al Sisi. Ed è proprio contro questa “indifferenza” davanti alla tortura e omicidio di un cittadino italiano, che in queste ore si sta mobilitando il “popolo giallo”, i cittadini italiani che nelle piazze, sui social network non hanno mai lasciato soli Paola e Claudia Regeni. Su change.org sono state raccolte poco meno di ventimila firme per raccogliere l’appello dei genitori di Giulio e del loro avvocato, Alessandra Ballerini, e chiedere al premier Conte il rientro dell’ambasciatore italiano Conte. “La situazione - hanno avevano detto i signori Regeni dopo l’ultimo incontro con il presidente del consiglio, accompagnati dall’avvocato Ballerini - non è mai stata così negativa, l’ultima rogatoria non ha avuto risposta, non ci sono contatti tra le procure. Serve un segnale forte”. D’altronde nelle ultime settimane gli sfregi alla memoria sono stati troppi, non soltanto in Italia: le Nazioni Unite hanno organizzato una conferenza al Cairo sulla tortura con un’organizzazione statale egiziana. Le università britanniche hanno ripreso a mandare i loro studenti al Cairo. Come se fosse possibile cancellare “tutto il male del mondo”, quello che Paola e Claudio Regeni dissero di aver visto sul viso di loro figlio. “È gay e rischia il carcere”. Migrante non sarà espulso di Angela Pederiva Il Gazzettino, 18 agosto 2019 Trieste, la Corte d’Appello ribalta il giudizio di Commissione e Tribunale su un gambiano. Il 23enne era arrivato in barcone dalla Libia. “Sussiste un fondato timore di persecuzione”. Il suo racconto era apparso confuso sia alla Commissione territoriale di Gorizia, sia al Tribunale di Trieste, fra contraddizioni nel percorso del viaggio effettuato e discrepanze nella tipologia e nella durata del lavoro svolto. Ma per la Corte d’Appello del capoluogo giuliano, quelle incongruenze valgono assai meno del rischio corso dal 23enne proveniente dal Gambia e dichiaratamente gay: “Una sua persecuzione nel paese d’origine, dove l’omosessualità è ancora considerata reato, punito con 14 anni di carcere”. Così, ribaltando i due giudizi precedenti, la sentenza pubblicata nei giorni scorsi ha salvato il migrante dall’espulsione, concedendogli lo status di rifugiato. Nella sua richiesta di protezione internazionale, il giovane aveva spiegato di aver frequentato la scuola solo per un mese, di aver cominciato a fare il saldatore all’età di 10 anni e di aver avuto tre rapporti sessuali proprio con un collega, che era però stato arrestato in quanto omosessuale e che aveva fatto il suo nome alla polizia. Temendo di fare la sua stessa fine, il ragazzo era fuggito prima in Senegal e poi in Libia, dov’era stato assunto da un libico conosciuto in Gambia ed era entrato in confidenza con suo figlio. Quella frequentazione era risultata tuttavia sgradita al datore di lavoro, il quale temeva che l’amicizia potesse nascondere dell’altro, così aveva cacciato il gambiano senza stipendiarlo, ma soltanto pagandogli la traversata su un barcone gestito da un trafficante. Il migrante era così arrivato in Italia nel maggio del 2016 e aveva iniziato un percorso di consapevolezza sulla propria omosessualità, ma né la Commissione di Gorizia né il Tribunale di Trieste gli avevano creduto, a causa di alcune difformità nella narrazione degli accadimenti, nonché del fatto che gli amplessi fossero avvenuti “senza che vi fosse tra i due una relazione sentimentale”. La prima sezione civile della Corte giuliana ha invece reputato che le imprecisioni fossero “marginali”, in quanto “l’elemento essenziale” era un altro: “Ai fini del riconoscimento della protezione internazionale per ragioni legate all’orientamento sessuale non è necessario indagare quale sia l’effettivo orientamento del soggetto, essendo sufficiente il modo in cui lo stesso viene percepito nel paese d’origine e la sua idoneità a divenire fonte di persecuzione”. Accogliendo l’appello presentato dagli avvocati Roberta De Simone e Claudio Faggion contro il ministero dell’Interno, i giudici di secondo grado hanno stabilito che “il racconto è compatibile con le informazioni sulla condizione delle persone Lgbt in Gambia tratte dal rapporto Easo (European Asylum Support Office, l’Ufficio europeo di sostegno per l’asilo, ndr) del dicembre 2017”, ed in particolare “con l’inasprimento delle disposizioni sull’omosessualità intervenuto nel 2014 ad opera dell’ex presidente Jammeh, con la riferita attività della Nia (National Intelligence Agency, il Servizio segreto gambiano, ndr) che di porta in porta ricercava omosessuali, e con i conseguenti arresti, maltrattamenti e torture degli arrestati”, anche perché non risulta che “le leggi contro l’omosessualità siano state modificate dal nuovo presidente Adama Barrow, dimostratosi molto cauto quanto alla sua posizione relativamente alla normativa gambiana sull’omosessualità”. Essendo stato “ritenuto sussistente un fondato timore di persecuzione” del 23enne, in ragione “della sua appartenenza al gruppo sociale dei soggetti Lgbt”, nei suoi confronti non sono scattate le semplici protezioni umanitaria o sussidiaria, ma è stato disposto lo status di vero e proprio rifugiato. E il Viminale è stato condannato a pagare oltre metà delle spese di lite. Napoli: carcere di Poggioreale, tra sovraffollamento e scarsa igiene di Andrea Aversa vocedinapoli.it, 18 agosto 2019 Il report dopo l’iniziativa “Ferragosto in carcere” del Partito Radicale e Camere penali. Visite nella maggior parte dei penitenziari d’Italia. Qualche timido passo avanti ma ancora un’enorme montagna da scalare. La montagna rappresenterebbe il Mostro di cemento ovvero il carcere di Poggioreale. La scalata che dovrebbe seguire ai piccoli passi, sarebbe una forte attività legislativa che trasformi il penitenziario da luogo di morte a contesto di recupero e rinascita dei detenuti. Un percorso dettato dalla nostra Costituzione ma per ora soltanto scritto e mai messo in pratica. La situazione, più o meno, è relativa a quasi tutte le carceri italiane. Ma a Poggioreale la crisi umanitaria è più forte. Secondo il rapporto fatto dagli avvocati Riccardo Polidoro e Sergio Schlitzer, in visita nel penitenziario guidati dalla Direttrice Maria Luisa Palma, le principali piaghe del carcere sono sovraffollamento, scarsa igiene, mala sanità, azzeramento della privacy e strutture fatiscenti. Per entrambi i legali, che hanno partecipato all’iniziativa “Ferragosto in carcere” promossa dal Partito Radicale, “rispetto all’ultima visita qualcosa è stato fatto, ma moltissimo resta da fare”. Una piccola stoccata, in merito alle docce, è stata fatta all’Asl che non è stata in grado di, “ordinare di ottemperare a lavori che dovrebbero essere fatti immediatamente, per evitare il propagarsi di malattie e altro”. Infine un pensiero è stato rivolto al Ministro degli Interni e Vice Premier Matteo Salvini: “Era stata annunciata la visita del ministro dell’interno, che poi è stata annullata. Peccato il sig. Salvini avrebbe potuto constatare come si marcisce in cella, secondo i suoi desideri in violazione della Costituzione”. Il comunicato dell’Osservatorio carcere dell’Unione delle Camere penali Si è conclusa la visita alla Casa Circondariale di Poggioreale da parte dei penalisti che quest’anno hanno aderito all’iniziativa Ferragosto in carcere organizzata dal Partito Radicale e da Radio Radicale. Gli avvocati Riccardo Polidoro - Responsabile nazionale dell’Osservatorio Carcere dell’Unione Camere Penali Italiane - Sergio Schlitzer - componente del direttivo della Camera Penale di Napoli - e Elena Lepre - componente il direttivo de Il carcere possibile onlus - hanno visitato l’istituto e incontrato i detenuti, accompagnati dalla direttrice Maria Luisa Palma. Rispetto all’ultima visita qualcosa è stato fatto, ma moltissimo resta da fare. C’è un’impressionante disparità di condizioni igienico sanitarie tra un padiglione e un altro, mentre in tutti si soffre un insopportabile caldo, in alcuni casi mitigato da un ventilatore donato da un’associazione. Ventilatore che rappresenta per i detenuti che non ne usufruiscono - ne sono cento e sono insufficienti - un’ennesima ingiustizia nei loro confronti e c’è da chiedersi com’è possibile che l’amministrazione penitenziaria non affronti una spesa irrisoria in una situazione di emergenza come quella che stiamo vivendo in questi giorni. Vi sono stanze che hanno il bagno con la doccia, ma anche stanze con 9 detenuti, con mura umide e intonaco fatiscente, bagni vergognosi comunicanti con il vano dove si prepara il cibo ed in alcuni casi addirittura a vista. Le docce comuni sono in uno stato pietoso e non si comprende le previste visite ispettive dell’Asl come possano non ordinare di ottemperare a lavori che dovrebbero essere fatti immediatamente, per evitare il propagarsi di malattie e altro. La direzione fa il possibile, ma occorre la volontà politica di intervenire. Era stata annunciata la visita del ministro dell’interno, che poi è stata annullata. Peccato il sig. Salvini avrebbe potuto constatare come si marcisce in cella, secondo i suoi desideri in violazione della Costituzione. Riccardo Polidoro, Avvocato e Responsabile Osservatorio Carcere Ucpi Firenze: a Sollicciano sovraffollamento del 170%, igiene impossibile e degrado strutturale stamptoscana.it, 18 agosto 2019 La delegazione coordinata con il Partito Radicale e l’Osservatorio Carceri dell’Unione Camere Penali, che per l’iniziativa nazionale “Ferragosto in carcere” ha visitato Sollicciano il 15 agosto, torna con una relazione rabbrividente. La delegazione, composta dagli attivisti di Progetto Firenze, Grazia Galli, Sandra Gesualdi (Fondazione Don Lorenzo Milani), Massimo Lensi, Emanuele Baciocchi e Luca Maggiora (Segretario della Camera Penale di Firenze), dai consiglieri comunali Antonella Moro Bundu e Dmitrji Palagi (Sinistra Progetto Comune) e da Tommaso Grassi già consigliere comunale nel gruppo “Firenze riparte a Sinistra”, è stata accolta e accompagnata, nel corso della mattinata, dall’ispettore capo Gallucci e dal cappellano Don Vincenzo Russo; nel pomeriggio dall’ispettore capo Vento, dal comandante Mencaroni e dalla vice direttrice Margherita Michelini. La vice direttrice ha raggiunto il gruppo non appena conclusa la visita del sindaco di Firenze, Dario Nardella, visita distinta e separata da quella organizzata dai Radicali e dall’Osservatorio. I visitatori hanno sottolineato la grande cortesia e la disponibilità a collaborare del personale di Polizia Penitenziaria. Le sezioni visitate sono state le otto del reparto giudiziario maschile, la tredicesima sezione del reparto penale destinata ai “protetti”, il centro medico, le sezioni giudiziaria e penale del reparto femminile, il reparto transgender, il reparto di degenza, l’articolazione per la tutela della salute mentale (Atsm), l’accoglienza, e l’ufficio matricola. I detenuti presenti, al momento della visita, erano 767, suddivisi fra 659 uomini e 108 donne, oltre ad un bambino di meno di un anno detenuto insieme alla madre. Percentuale stranieri, 62,11%. Tra i 659 detenuti maschi, 407 (61,8%) hanno una condanna definitiva, mentre 252 (38,2%) si trovano ancora in attesa di un’eventuale condanna definitiva. Tra di questi, si legge nella relazione della visita, ben 108 (16,4%) sono risultati essere in attesa del giudizio di primo grado. Tra le 108 donne detenute, 88 (81,5%) ad ora hanno ricevuto una condanna definitiva, 20 si trovano in attesa di condanna definitiva e 12 (11,1%) sono risultate essere in attesa del giudizio di primo grado. La capienza regolamentare dell’istituto, che in condizioni ottimali sarebbe di 500 persone, è ridotta al momento a 456, con 26 stanze detentive non disponibili, come dichiarato anche nella scheda dell’istituto pubblicata nel sito del ministero di Giustizia. L’indice di sovraffollamento riscontrato è quindi pari al 170,04%. Fra le irregolarità emerse nel corso della visita, una riguarda il fatto che in gran parte delle stanze detentive dei reparti maschili è stata riscontrata la presenza di letti a castello a tre piani, pur essendo il loro uso vietato dai regolamenti, con una distanza tra il terzo letto e il soffitto talmente ridotta da non consentire di starvi sopra seduti. Il sovraffollamento rilevato ha varie conseguenze. Fra le tante, il fatto che non permette più di separare dal resto della popolazione detenuta le persone con problemi di tossicodipendenza. Le sezioni precedentemente loro dedicate, la settima e l’ottava, come spiegano i comonenti della delegazione, ospitano ora una popolazione disomogenea per problematiche e necessità, e “ciò genera una situazione di tensione e conflitti, di cui i detenuti in condizioni di maggior fragilità risentono in modo particolare, come ci è stato riferito sia dai detenuti sia dagli agenti in servizio nelle sezioni”. Nel caso del sovraffollamento del reparto femminile, le cause sono da ricondursi principalmente alla chiusura dei reparti femminili di altri istituti toscani. Le conseguenze, “uno stato di tensione e conflittualità generalizzato, rispetto al quale gli stessi agenti di Polizia Penitenziaria ci hanno segnalato con franchezza non banali difficoltà di gestione”. La situazione è molto difficile anche per quanto riguarda il regime di sorveglianza. I visistatori hanno infatti rilevato che il regime a celle aperte, con possibilità di spostarsi liberamente all’interno della sezione durante alcune ore del giorno, vige solo nei reparti penali e per alcune ore al giorno. Nelle sezioni del giudiziario i detenuti restano chiusi in cella, potendo uscirne per recarsi nei passeggi durante i due turni “all’aria”, o nel pomeriggio per le due ore di “socialità” che possono essere spese, su richiesta, in una cella diversa dalla propria per socializzare con altri detenuti. “Come in precedenti visite - ricorda la delegazione - abbiamo riscontrato maggior libertà di movimento nei reparti femminili, grazie anche alla possibilità di accedere a un’ampia area verde. In una cella della sezione giudiziaria, abbiamo incontrato tre detenute qui trasferite dal penale e sottoposte a isolamento “protettivo” in seguito a insanabili conflitti con il resto della popolazione detenuta”. La situazione del Personale di Polizia Penitenziaria in forza all’istituto, sembrerebbe, secondo quanto si legge nella relazione della delegazione, cui è stato dichiarato dal comandante, “in miglioramento” in quanto sono giunti una ventina di nuovi agenti. Gli addetti previsti sono 566. Al momento della visita, ne risultavano effettivi 475. Un nodo molto problematico riguarda quello degli educatori e operatori: dei 9 operatori previsti in organico, ne risultano effettivi 7 (meno di uno ogni cento detenuti). Nel giorno della visita, fanno sapere dalla delegazione, “non ne abbiamo incontrati nessuno”. Inoltre sembra che in tutte le sezioni la difficoltà principale sia quella di riuscire a incontrare gli educatori. Nel reparto giudiziario maschile, secondo quanto riferito, i tempi di attesa per un incontro possono corrispondere a vari mesi, e ci sono detenuti che “ignorano addirittura l’identità del proprio educatore di riferimento”. Le segnalazioni corrispondono a quelle degli agenti di Polizia Penitenziaria, che “riferiscono particolari difficoltà a ottenere interventi tempestivi per l’invio di mediatori culturali, che, oltretutto, si limiterebbero nella maggior parte dei casi a operare da semplici traduttori, fornendo poca assistenza dal punto di vista della mediazione”. “La mancanza di un rapporto puntuale con gli operatori dell’area trattamentale - oltre a minare alla radice la possibilità di un percorso di rieducazione, si traduce per molti tra i detenuti che abbiamo incontrato in mancata consapevolezza dei propri diritti e doveri, e in una sensazione di totale abbandono. Non sono poche poi le persone in condizioni di estrema povertà, per le quali i compagni di cella o di sezione ci hanno segnalato la mancanza di beni essenziali (scarpe, vestiario, strumenti per la pulizia personale e ambientale)”, continua la relazione.. Il settore che riguarda lavoro, formazione, attività rimane difficoltoso: garantire ai detenuti l’accesso al lavoro continua a essere pressoché impossibile. Gran parte dei 767 detenuti non svolge alcun lavoro, riferiscono i membri della delegazione. Chi riesce ad accedere al lavoro lo fa per poche ore al giorno e per un massimo di 20-30 giorni ogni 4 (reparti femminili) o 6 mesi (reparti maschili). “Gli unici lavori che garantiscono maggiore durata e turnazioni meno frequenti risultano essere quelli nelle cucine e nelle biblioteche del femminile e del maschile, per i quali sono necessari specifiche certificazioni o competenze per cui le turnazioni avvengono tra numeri ristrettissimi di persone. Alla base di questa difficoltà, come già segnalatoci dalla direzione nella precedente visita, c’è soprattutto il fatto che, nonostante sia stato stabilito per le mercedi un finanziamento fisso per gli anni 2017-2019, quest’anno c’è stata una riduzione ulteriore del 10% dei fondi ad esse destinate”. Corsi di formazione, migliora la possibilità di accesso alle biblioteche, ma per gran parte delle persone ristrette continua ad essere difficile accedere a corsi di formazione e scolastici. Il problema è maggiormente accentuato per le donne dopo la sospensione delle classi miste. Il nodo dell’assistenza sanitaria è e rimane grave. Lunghissimi i tempi di attesa denunciati, difficoltà ad accedere a cure appropriate, quasi impossibile ottenere visite specialistiche causa la lunghezza dei tempi. Appropriatezza delle terapie percepita come relativa. Dalle segnalazioni dei detenuti, sembra che i presidi di prima scelta si basino su un abbondante ricorso a ibuprofene e psicofarmaci per ogni tipo di patologia e per sedare il disagio psichico assai diffuso. “Vari detenuti - denunciano i membri della delegazione - incontrati nelle sezioni ordinarie erano in evidente condizione di sofferenza in attesa di visita medica. Tra questi, uno con un ascesso al dente, un altro con evidente rigonfiamento del collo, uno che piangeva per dolori alla schiena, un altro in attesa da tempo di un intervento al naso per rimuovere una cisti ostruttiva che gli ostacola la respirazione” Inoltre, sembrano permanere problemi di comunicazione con i familiari, in particolare per i detenuti stranieri per quanto attiene alla sfera dell’affettività. La posta interna è stata sospesa e la comunicazione tra il femminile e il maschile può avvenire solo con il panneggio (sventolare i panni dalle finestre tra una sezione e l’altra) o tramite la posta esterna. Cucine e qualità del cibo, meglio per la sezione femminile, che ha una propria cucina che funziona tutto sommato discretamente, anche se le detenute riferiscono un peggioramento del vitto rispetto ai mesi scorsi. Nel reparto maschile è ancora in funzione una sola cucina. La seconda cucina, attesa da anni, sarebbe, secondo quanto ci hanno riferito gli agenti e la stessa vice direttrice, pronta a entrare in funzione in autunno. Anche allora però i reparti maschili potranno contare solo sul servizio di una cucina, sia perché l’attuale dovrà essere ristrutturata, sia perché la riduzione del fondo mercedi non consentirebbe comunque di pagare un numero di lavoranti adeguato a mantenere in funzione entrambe le cucine. Inoltre, i detenuti dei reparti maschili riferiscono che nelle giornate festive non c’è passaggio del carrello per la distribuzione della cena, per la quale i detenuti possono contare solo su porzioni preconfezionate di formaggio molle e di wurstel, o, chi ha sufficienti soldi per farsi un po’ di spesa, su quanto riescono a procurarsi e cucinare da soli. “A nostra richiesta gli agenti che ci accompagnavano hanno confermato che una simile sospensione del servizio serale nei giorni festivi avviene in tutti gli istituti detentivi italiani”. Per quanto riguarda la qualità del cibo, da tutti i detenuti delle sezioni maschili è stata lamentata la pessima qualità, non solo quello cucinato, ma anche quello confezionato. Quest’ultimo sarebbe di bassa qualità e spesso prossimo alla scadenza, talvolta addirittura scaduto, mentre alcuni segnalano la presenza di scarafaggi nelle confezioni di frutta e verdura. Nelle condizioni date, si segnala anche la grande difficoltà a seguire una dieta conforme alle prescrizioni mediche per le patologie di cui alcuni detenuti sono portatori. Ancora scadenti risultano al sopralluogo le condizioni generali d’igiene e pulizia, seppur leggermente migliorate rispetto al passato. Ancora irrisolto il problema igienico legato alla infestazione di piccioni, richiamati dai rifiuti che vengono gettati dalle celle formando cumuli sotto gli edifici e negli spazi tra i passeggi. In tutte le sezioni maschili del giudiziario, la delegazione ha riscontrato problematiche strutturali gravi. Le celle in molti reparti presentano grandi macchie di muffa e infiltrazioni sia dall’esterno, sia interne. “In alcune sezioni, e particolarmente nella quinta, sono visibili pozze di acqua che da tubi rotti infiltrano i muri per propagarsi poi nei corridoi e nelle celle - si legge nella relazione - sia i detenuti sia gli agenti ci hanno spiegato che nel corso della notte tutto ciò si traduce in veri e propri allagamenti, tanto che in vari casi i detenuti hanno costruito sotto la rete del letto più basso del castello una sorta di porta scarpe sospeso, evitando così di trovarsi al mattino con le scarpe inzuppate”. Le docce di sezione, teoricamente 4 per ciascuna ma in nessun caso veramente tutte funzionanti, sono prive di diffusore e situate in locali malsani per la poca aereazione e la presenza di infiltrazioni nei muri; lavabi e piatti doccia sono difficilmente igienizzabili perché usurati e pesantemente incrostati. I bagni nelle celle hanno nella maggior parte dei casi scarichi otturati, vi si segnala diffusa mancanza di seggette (anche nel penale, dove i detenuti della 13ma sezione sarebbero disposti a comprarsele da soli ma non appare possibile). “In alcune celle abbiamo riscontrato la presenza di cavi penzolanti - riferiscono i “visitatori” - nei corridoi molte lampade al neon sono rotte e gli agenti in servizio ci hanno mostrato le torce che tengono in tasca (e che hanno dovuto procurarsi a proprie spese) per potersi muovere nelle sezioni di notte”. Varie celle, al momento della visita, “erano chiuse perché inagibili”. Teatro e chiesa inagibili nella sezione femminile. “Il progetto, di cui avevamo avuto notizia nella precedente visita dell’8 marzo 2019, di trasferire al vicino istituto Gozzini le sezioni femminili, per ospitare nei reparti ora loro destinati i detenuti di alcune sezioni maschili, procedendo gradualmente alla ristrutturazione del giudiziario e poi del penale maschile, non ha ancora avuto seguito, né risulta al momento programmato. Ci è inoltre stato riferito che perdura l’indisponibilità del Giardino degli Incontri, chiuso per lavori di ristrutturazione già da tempo, e non si hanno notizie sulla data di riapertura”. Tutti i passeggi risultano al momento agibili. Nei reparti maschili i passeggi del giudiziario sono recintati da mura in cemento, quelli del penale da reti che permettono almeno la vista del verde e la comunicazione a distanza tra le sezioni. Il problema dei piccioni e dell’igiene è ancora pesante: “Sopra tutti i passeggi sono state poste delle reti per proteggere dalla caduta di pezzi di intonaco, o di oggetti e rifiuti lanciati dai detenuti nelle sezioni soprastanti. Al nostro arrivo le reti, seppur ripulite in coincidenza della nostra visita, trattenevano nuovamente oggetti caduti e offrivano appoggio ai tanti piccioni che continuano a creare grossi problemi di igiene esternamente e internamente al carcere. La delegazione ha visitato due passeggi, uno al giudiziario (ottava sezione) e uno al penale (13ma sezione), riscontrandovi la presenza di una doccia nel cortile e di una zona non esposta direttamente al sole e parzialmente riparata in caso di pioggia. L’area accanto al passeggio della 13ma sezione (a sinistra guardando l’area verde) era totalmente ricoperta di rifiuti tra i quali si aggiravano piccioni e gatti”. Problemi in evidenza anche per la nuova articolazione per la tutela della salute mentale (Atsm) e presenza di internati in attesa del trasferimento in Rems (residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza). Questa sezione è stata inaugurata il 21 febbraio 2019, le celle sono quasi tutte singole. La delegazione al momento della visita ha riscontrato la presenza di 9 persone, di cui 7 assegnate e due osservandi con la presenza di un’infermiera e di un operatore sociosanitario, senza nessun medico di reparto. Situazione disagevole anche per il personale di polizia penitenziaria, dal momento che esiste una sola stanza destinata agli operatori psichiatrici, mentre l’agente di turno dispone di una piccola scrivania appoggiata in corridoio. All’interno della nuova sezione Atsm la delegazione ha potuto verificare la presenza di 3 internati (persone ritenute incapaci di intendere e di volere al momento del compimento reato, ma sottoposte a misure di sicurezza per pericolosità sociale) in attesa del trasferimento in Rems (residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza), in violazione della legge che prevede per le persone internate il divieto di esecuzione della misura di sicurezza in carcere. Infine, il reparto accoglienza, che si mostra di recente apertura e in buone condizioni. Le celle sono chiuse e vi sono ospitati sia i nuovi giunti dall’esterno sia i detenuti in isolamento. Al momento della visita ospitava 17 persone, di cui 2 in isolamento; vi erano presenti due infermieri intenti al passaggio di consegne per il cambio di turno. Il nido ospita al momento una madre con il suo bimbo; è in buone condizioni, fornito di cucina e di uno spazio verde, separato dalla restante area verde del femminile da una rete metallica. Bari: la denuncia di Radicali e penalisti “c’è bisogno di un nuovo carcere” Gazzetta del Mezzogiorno, 18 agosto 2019 Solo 299 posti, mai i detenuti sono 428. È urgente la costruzione di una nuova struttura più capiente. “Bari ha bisogno di un nuovo carcere”. È l’appello che rivolge al Governo la delegazione del Partito Radicale, guidata da Anna Briganti, che ieri ha visitato il penitenziario barese “Francesco Rucci”, che ha sede fra corso De Gasperi, via Giovanni XXIII e via Giulio Petroni, nell’ambito dell’iniziativa “Ferragosto in carcere”. La casa circondariale ospita attualmente 428 detenuti a fronte di una capienza di 299 persone, “con celle che contengono fino a sei detenuti” denuncia Briganti. Le criticità principali rilevate riguardano quindi la struttura e il sovraffollamento. Anche nel carcere di Bari, come già evidenziato nei penitenziari di Lecce e Taranto visitati nei giorni scorsi, c’è carenza di organico nella Polizia penitenziaria in servizio, con 237 unità rispetto alle 376 necessarie. Buone le condizioni rilevate per quanto riguarda il centro clinico attrezzato interno alla struttura, con 80 persone al lavoro fra medici e paramedici. Risulta preoccupante il dato dei detenuti psichiatrici, ben 150, di cui 40 sono in gravi condizioni. Altro dato positivo è la presenza di mediatori di ogni etnia, grazie ad una convenzione con l’Arci (Associazione ricreativa e culturale italiana), per gli 80 detenuti stranieri. La delegazione dei Radicali, formata da Anna Briganti e Giovanni Zezza, è stata accompagnata dall’avvocato Guglielmo Starace, presidente della Camera Penale di Bari, insieme con i colleghi penalisti Filippo Castellaneta, Vincenzo Miccolis e Claudio Solazzo. “Abbiamo potuto constatare un impegno incredibile degli agenti di custodia e di tutto il personale. Ma i numeri sono impietosi, soprattutto nel rapporto tra personale e detenuti” ha dichiarato Starace, evidenziando che “nel 1924, quando è stato costruito il carcere di Bari, la pena era solo punizione. Oggi la pena deve cercare di restituire la persona migliore di come è entrata e per questo occorrono spazi e personale, impossibile in una struttura così”. Radicali e penalisti hanno visitato nella stessa giornata di ieri anche l’istituto penale minorile “Fornelli”, in via Giulio Petroni, definito dal presidente dei Penalisti Starace “un modello, dove tutto funziona e dove il trattamento dei detenuti è quasi personalizzato”. Attualmente la struttura ospita 20 detenuti a fronte di una capienza di 35, dei quali 12 adulti fino ai 25 anni e 8 minori dai 14 anni, gestiti da 46 agenti e 8 educatori. “Una comunità più che un carcere” ha detto Briganti, evidenziando la presenza di progetti di ristorazione ed ebanisteria, scuola e spazi per fare sport. L’Aquila: il Garante regionale incontra i detenuti in regime di 41bis di Marina Moretti rete8.it, 18 agosto 2019 Il Garante dei detenuti della Regione Abruzzo, Gianmarco Cifaldi, ha visitato il carcere di Preturo, a L’Aquila. Nella sezione per i detenuti in 41bis Cifaldi ha raccolto la storia di un boss della camorra. Nel corso della visita Cifaldi ha riscontrato diverse criticità in tutto il carcere, le problematiche saranno oggetto di una relazione da consegnare al Consiglio regionale, alla Asl e al Dipartimento amministrazione penitenziaria. Nella sezione riservata ai detenuti in regime di 41bis sono recluse 120 persone, su una capienza di 80. La relazione finale che verrà stilata da Cifaldi punta ad individuare un piano per migliorare le condizioni carcerarie. Tra le storie che hanno maggiormente colpito il garante dei detenuti, c’è quella di un boss della camorra che deve scontare il carcere a vita in regime di 41bis. L’uomo ha incontrato per l’ultima volta da vicino sua figlia, visto che nei prossimi giorni la ragazzina compirà 12 anni, età che le impedisce per legge di vedere il padre se non attraverso la barriera del vetro e parlando al microfono. L’ultimo incontro tra il boss e la figlia si è consumato in seguito all’impegno del neo garante, eletto dal Consiglio regionale nella seduta del 24 luglio scorso. “L’affettività - ha dichiarato Cifaldi - è uno dei principi che ispirano il mio mandato, infatti sono convinto che le colpe dei padri non debba ricadere sui figli”. Nel carcere aquilano si registra un importante sovraffollamento, mentre mancano sufficienti aree ricreative e spazi all’aperto. Da migliorare anche lo stato dell’area sanitaria. Per Cifaldi, sociologo, criminologo e docente dell’Università D’Annunzio di Chieti-Pescara, è stato questo il momento più importante della sua visita nel carcere di massima sicurezza. Alla visita ha partecipato anche l’assessore regionale al Bilancio e al Personale, Guido Quintino Liris. Cifaldi ha avuto numerosi colloqui con detenuti in regime di 41bis, anche con uno dei responsabili degli omicidi dei giudici Falcone e Borsellino. Anche in questo caso sono state registrate “lamentele in primo luogo relative al fatto che la cella oltre alle sbarre ha una ulteriore griglia metallica che impedisce una corretta circolazione dell’aria in celle che - ha detto il Garante - sono sufficientemente decenti’“. Cifaldi ha anche visitato la sezione riservata ai cosiddetti detenuti comuni che, pagati regolarmente, lavorano all’interno della struttura nel campo della ristorazione e della pulizia. “Insieme al garante, - ha aggiunto l’assessore Liris - che ringrazio per il suo impegno, abbiamo constatato che si deve intervenire partendo dalle Infrastrutture sanitarie, che dipendono dall’amministrazione della giustizia, sugli operatori che invece sono gestiti dall’azienda sanitaria. È stata una esperienza psicologicamente impattante ma che è servita per conoscere meglio uno spaccato delicato e complesso della nostra società”. Livorno: il Garante “no al raddoppio delle Sughere senza attenzione alla riabilitazione” di Simone Consigli costaovest.info, 18 agosto 2019 Con i lavori già iniziati quest’anno, il carcere livornese delle Sughere raddoppierà il numero dei suoi detenuti. È prevista la ristrutturazione di otto sezioni e la creazione di nuovi spazi per i colloqui, ma al tempo stesso non è prevista nessuna struttura per le pratiche riabilitative. Per il giorno di Ferragosto, Giovanni De Peppo, Garante dei detenuti succeduto a Marco Solimano, ha voltato le spalle alla visita programmata al carcere organizzata dal Partito radicale e da Radio Radicale, in linea con il comportamento del garante nazionale Mauro Palma, e ha scritto una nota in riferimento all’aumento del numero dei detenuti: “Non possiamo permettere che nella nostra città si concretizzi il rischio di un carcere di fatto raddoppiato, in una logica della sola attenzione alla capacità di accoglienza e senza la necessaria attenzione a tutti i possibili spazi della riabilitazione. Lo dobbiamo pretendere per i percorsi di riabilitazione di chi è ristretto, per la sicurezza della comunità cittadina”. In alternativa alla visita programmata ai detenuti organizzata dai Radicali, De Peppo ha optato per un confronto con due delegazioni di detenuti delle Sughere dell’alta e media sicurezza. Ne è emersa la richiesta, da parte dei detenuti con pene lunghe, di avere accesso a un’attività lavorativa e produttiva, seppur all’interno dell’istituto, in linea con una reale produttività economica, come accade in altri istituti italiani, mentre per i detenuti a media e breve percorrenza si muove qualcosa nei percorsi riabilitativi. A tal fine saranno infatti istituiti dei circuiti già programmati che permetteranno ai detenuti più meritevoli di impegnarsi in attività socialmente utili per il decoro cittadino. Questi interventi sono previsti all’esterno dell’istituto carcerario. Un elemento che coincide con le volontà di tutti i detenuti e delle strutture di stato sociale che ne fanno da garanti ed è l’ennesima rivendicazione, sottolineata in una nota inviata dallo stesso De Peppo, tesa a ripristinare la sala teatro, inagibile da troppo tempo per problemi strutturali. Per giustificare il diniego all’iniziativa targata Partito Radicale, il garante dei detenuti si è infine espresso così: “Non ho aderito all’invito di una visita programmata dal Partito radicale e da Radio Radicale in carcere per il Ferragosto, apprezzando la posizione del garante nazionale Mauro Palma che ha rifiutato lo stesso invito, rivendicando, pur nell’assoluto rispetto dei Radicali, un ruolo di autonomia e di carattere istituzionale che, anche a mio avviso, deve rimanere tale per la funzione dei garanti dei detenuti”. Il comunicato stampa del Garante dei detenuti Giovanni De Peppo Non ho aderito all’invito di una visita programmata dal Partito Radicale e da Radio Radicale in carcere per il Ferragosto apprezzando la posizione del Garante Nazionale dott. Mauro Palma che ha rifiutato lo stesso invito rivendicando, pur nel assoluto rispetto dei Radicali, un ruolo di autonomia e di carattere istituzionale che, anche a mio avviso, deve rimanere tale per la funzione dei Garanti dei detenuti. A Ferragosto ho chiesto altresì la collaborazione della Direzione della Casa Circondariale per incontrare due delegazioni di detenuti dell’Alta e della Media sicurezza per confrontarmi, nel giorno della “vacanza” per eccellenza. Alle “Sughere”, come alla Casa di Reclusione di Gorgona non dobbiamo mai dimenticare di ringraziare il personale della Polizia Penitenziaria e tutto il personale della Amministrazione Penitenziaria che, nella mia concreta esperienza nelle tante difficoltà assicura il buon andamento degli Istituti. Seppure giornalmente incontro tanti detenuti, è nella normalità che, singolarmente, si affrontino tematiche attinenti alla detenzione di ciascuno e sentivo la necessità di una condivisione e un confronto con chi è ristretto, su criticità e prospettive possibili su una vita carceraria che possa rispondere al dettato della nostra Costituzione, che mette al centro dell’attenzione i percorsi di riabilitazione. Ho trovato assai preziosi i due incontri nei quali si sono evidenziate proposte e posti problemi che devono trovare l’attenzione sia della Amministrazione Penitenziaria e, dove possibile, della Amministrazione della nostra Città. All’Alta sicurezza, tre sezioni e detenuti con pene mediamente lunghe, emerge con forza la necessità di attrezzare ipotesi di lavoro e lavorazioni all’interno dell’Istituto che possano dare risposta ad una giusta rivendicazione su attività lavorative. In tante carceri del nostro Paese è stato possibile e Livorno non deve essere da meno. Le idee, le possibilità, i progetti non mancano, partendo dall’”economia circolare”. Ritengo e auspico, che la nostra Città debba stringersi con le sue rappresentanze politico amministrative e le realtà produttive in uno sforzo comune per rivendicare un Istituto capace di offrire veri percorsi di formazione e riabilitazione. Nelle due sezioni della Media sicurezza, pene più brevi, dobbiamo affrontare con determinazione la possibilità che, il tempo della detenzione, possa diventare ancora un’occasione di formazione per una possibile alternativa di vita. Grazie alla lungimiranza della attuale Direzione dell’Istituto, alla forte collaborazione con l’Ufficio di Sorveglianza e con una importante sintonia con l’Amministrazione Comunale da poco insediata, si stanno mettendo in atto percorsi di riabilitazione che vedranno persone meritevoli spendersi in attività esterne per il decoro di Livorno, una strategia che mette in gioco l’impegno di chi sconta una pena e l’attenzione di Livorno: “più buone prassi nelle carceri più sicurezza nelle nostre comunità”. Le rappresentanze dei detenuti che ho incontrato, in uno spirito di collaborazione, segnalano anche problemi strutturali dell’Istituto e difficoltà di carattere organizzativo che rappresenterò al dott. Carlo Mazzerbo, da poco alla Direzione dell’Istituto che manifesta costantemente attenzione e grande professionalità, nella soluzione delle tante criticità. C’è sul futuro delle “Sughere” di Livorno inoltre una concreta e pesante criticità e un rischio incombente che non ho mancato di segnalare al dott. Francesco Basentini, capo del Dipartimento della Amministrazione Penitenziaria del Ministero della Giustizia e al dott. Antonio Fullone Provveditore degli Istituti Penitenziari della Toscana e dell’Umbria. Nel carcere di Livorno da ormai svariati anni vi sono condizioni di abbandono per tanti spazi ed aree dedicate al “trattamento” e alla riabilitazione, tra le quali un’ ampia sala polifunzionale, di fatto “teatro” dell’Istituto, aree queste davvero strategiche per tante funzioni preziose per le attività culturali, di socializzazione, di formazione, di lavoro L’abbandono è tra l’altro conseguente a mancati lavori di manutenzione, di fatto da sempre sottovalutati e trascurati che a giudizio di vari tecnici, non comporterebbero nemmeno costi elevatissimi. Quest’anno sono iniziati i lavori per una ristrutturazione di ben 8 sezioni (in tempi di rischi sovraffollamento, lodevole intervento) che terminati i lavori, porteranno a raddoppiare la presenza di detenuti nel nostro istituto, passeremo da 250 a circa 500 detenuti: camere di pernottamento e qualche piccolo spazio per i colloqui, ma niente spazi funzionali alle strategie rieducative/lavorative. Non possiamo permettere che nella nostra Città, si concretizzi il rischio di un carcere, di fatto raddoppiato, in una logica della sola attenzione alla capacità di accoglienza e senza la necessaria attenzione a tutti i possibili spazi della riabilitazione, lo dobbiamo pretendere per i percorsi di riabilitazione di chi è ristretto, per la sicurezza della comunità cittadina perché la nostra Costituzione ci chiede di prevedere un sistema penitenziario che abbia come fine il riscatto di chi ha sbagliato. Novara: l’On. Giachetti (Pd) “sovraffollamento, pochi mediatori e problemi sanitari” di Marco Foti buongiornonovara.com, 18 agosto 2019 Il parlamentare Roberto Giachetti ha fatto il punto al termine della visita ispettiva presso il carcere di Novara, nel contesto dell’iniziativa “Ferragosto in Carcere”. Problemi comuni ad altri istituti, ma anche qualche nota di speranza, come l’ottimo rapporto fra detenuti e direttrice. Se la qualità della democrazia di un Paese si può misurare dallo stato delle carceri, l’Italia non sta messa benissimo. Lo dicono le recenti condanne e lo testimoniano diverse denunce in tal senso, le quali però non trovano molto riscontro nell’opinione pubblica, a quanto pare poco interessata a migliorare la discutibile qualità della vita dei ristretti. Non è così per il Partito Radicale, che da sempre dimostra di aver a cuore il destino dei detenuti ed anche quest’anno insieme all’Osservatorio Carcere dell’Unione Camere Penali, ha promosso l’iniziativa “Ferragosto in carcere”. Accompagnati dalla direttrice dott.ssa Rosalia Marino e dal Comandante Rocco Macrì, la delegazione aveva come capo fila il parlamentare Roberto Giachetti (Pd anche iscritto al Partito Radicale Transnazionale Transpartito) con Roberto Casonato (storico esponente radicale novarese), Ilaria Cornalba (segretaria del circolo Pd di Cerano), don Dino Campiotti (garante dei detenuti di Novara) e l’avvocato Fabio Fazio rappresentante delle Camere Penali di Novara. Tre ore abbondanti di visita, nelle quali la delegazione ha potuto scambiare almeno qualche battuta con tutti i detenuti. Come è noto, il carcere di via Sforzesca, è nato negli anni ‘70 come struttura di Massima Sicurezza destinata ad ospitare condannati per reati per terrorismo, con due sezioni maschile e femminile. “Il padiglione destinato alle donne però si è deteriorato col tempo ed ora è praticamente fatiscente - ha spiegato Roberto Giachetti ai microfoni di Radio Radicale, nel commentare la visita al termine dell’approfondito giro ispettivo - malgrado la direttrice Rosalia Marino abbia presentato all’amministrazione penitenziaria diverse proposte per il recupero della struttura, che quanto meno potrebbe di molto alleggerire la pressione dovuta al sovra affollamento evidente registrato nel resto dell’edificio utilizzato per la detenzione”. La struttura è predisposta ad ospitare 158 persone, a tollerarne fino a 186, ma in realtà al momento ci sono 206 detenuti “anche se i numeri non dicono abbastanza - spiega Giachetti, certamente non nuovo ad iniziative simili - perché le stanze idealmente utilizzabili da 3 persone, al massimo da 4, prevedono invece la presenza di 6 detenuti. Una questione, quella del sovra numero che in un carcere di massima sicurezza si acuisce ancora di più, perché a gestire i casi di 41bis ci vorrebbe maggiore e più qualificato personale”. Secondo il parlamentare radicale “c’è poi un problema legato alle condizioni igienico sanitarie, perché i bagni, tutto sommato sufficientemente grandi rispetto ad altri penitenziari, sono però stati attrezzati alla belle e meglio per cucinare, con tutto ciò che ne consegue per la salubrità e la privacy”. Problemi sanitari a quanto pare, anche se non meglio precisati, per quel che concerne il rapporto con l’Asl locale. Ci sono 137 detenuti comuni, 69 in regime di 41bis (reati di mafia); 113 hanno ricevuto condanne definitive, 93 sono in attesa di giudizio, dei quali 48 imputati: 23 appellanti e 22 ricorrenti. Dei 206 ristretti in via Sforzesca, più o meno 1/3 sono stranieri (58) mentre coloro che hanno problemi di tossicodipendenza sono 12, 3 invece i casi di epatite C. A lavorare come dipendenti dell’amministrazione penitenziaria sono in 38, solo 3 coloro che operano per cooperative o imprese appaltatrici esterne per la tipografia presente nella struttura, un solo lavoratore autonomo invece fra i detenuti semi liberi. La pianta organica prevedrebbe 195 guardie carcerarie, in realtà ne sono assunte 180, ma ad operare in effetti ci sono solo 170 agenti. Il problema esiste, ma da questo punto di vista, Giachetti che di carceri ne ha girati molti, spiega che “non è la situazione più critica che abbia visto, ciò non toglie che il problema esista, mi ha colpito invece la grande carenza di educatori e mediatori culturali, fatto che è stato lamentato un po’ da tutti”, mentre uno dei problemi maggiormente riscontrato proprio a Novara, riguarda la “palese difficoltà nell’ottenere udienza presso il giudice di sorveglianza” che a quanto pare deve gestire 4 case circondariali in tutto il Piemonte e quindi non può dividersi rispetto all’ammontare delle richieste ricevute. In generale un po’ tutti vorrebbero poter introdurre più cibo da fuori, anche perché al di la della qualità, viene denunciato il maggior costo degli alimenti disponili all’interno della struttura, rispetto ai costi di mercato disponibili nei supermercati tradizionali. I detenuti in regime di 41bis, faticano persino a praticare il loro diritto alla cosiddetta “ora d’aria”. Dopo la recente riforma della norma infatti, per i ristretti in regime di 41bis, è possibile recarsi all’ora d’aria in un massimo di 4 persone (prima erano 8), il che unitamente agli spazi ridotti ed alla carenza di personale, rende le cose parecchio difficili e “spesso capita che debbano rinunciare a quanto previsto in realtà dalla legge, trascorrendo magari anche un giorno intero senza uscire di cella”. Particolare la situazione di alcuni detenuti stranieri, che si sono detti disponibili a scontare la loro pena nei paesi di origine, ma ai quali l’amministrazione avrebbe chiesto una “partecipazione alle spese di trasferimento”, alla quale sarebbero impossibilitati, ma secondo la direttrice il problema principale sarebbe “la mancanza di tutti i documenti utili” al trasferimento stesso. “La dottoressa Marino è una direttrice molto dinamica con grande spirito d’iniziativa - ha concluso Giachetti a Radio Radicale - ma come succede per tutte le realtà penitenziarie nazionali, trova poco riscontro nello Stato, anche visto lo scarso per non dire negativo sentimento rispetto ai problemi carcerari che si respira nell’opinione pubblica, è comunque riuscita ad ottenere qualche miglioria, soprattutto grazie alla disponibilità ed alla cooperazione dei detenuti stessi, che si sono adoperati anche in qualche lavoro di manutenzione straordinario”. Dalla delegazione c’è anche qualche nota positiva, come l’attrezzata e molto funzionale biblioteca interna, realizzata con il contributo della Camera Penale, che a quanto pare svolge un positivo ruolo di conforto ed istruzione; così come il campetto in sintetico recentemente sistemato. Secondo Roberto Giachetti a Novara, a mitigare gli evidenti problemi riscontrati anche nella visita ispettiva e riscontrati dalle testimonianze raccolte “c’è l’ottimo rapporto di collaborazione fra la direttrice ed i detenuti, con la piena disponibilità del personale”. Un idem sentire che prova a rendere meno pesanti le carenze e le difficoltà, ma che solo parzialmente mitiga una qualità della vita che non a caso ogni anno, porta il nostro Paese a pagare un conto salato anche in termini di sanzioni, comminate all’Italia ad esempio anche recentemente dalla Corte di Strasburgo, proprio per la cattiva gestione delle carceri. Taranto: troppe carenze nel carcere, le condizioni igienico-sanitarie sono al limite Corriere di Taranto, 18 agosto 2019 Il Partito Radicale nell’ambito dell’iniziativa “Ferragosto in carcere”: sovraffollamento, organico insufficiente e precarie condizioni delle celle. Nel carcere di Taranto sono detenute 568 persone a fronte di una capienza regolamentare di 306. Anche nella struttura ionica c’è carenza di agenti di polizia penitenziaria: 259 a fronte di un organico previsto di 277. Sono alcuni dei dati forniti dalla delegazione del Partito Radicale, guidata da Anna Briganti, che ieri ha visitato il carcere di Taranto nell’ambito dell’iniziativa “Ferragosto in carcere”. Tra i 568 detenuti, 54 dei quali attualmente in permesso premio, 25 sono donne, 20 sono pazienti psichiatrici, 204 tossicodipendenti e 35 stranieri, ma “manca la figura del mediatore” evidenzia Anna Briganti. Il dato più allarmante, oltre quello del sovraffollamento, è la condizione delle celle, con “intonaci che si staccano, finestre che non si chiudono, acqua che si infiltra dalle pareti e gabinetti che si muovono. Le condizioni igienico-sanitarie sono al limite. Tutti i detenuti - riferisce Briganti - hanno lamentato la totale assenza dell’area sanitaria e di un’area a verde dove poter fare attività sportiva”. L’esponente radicale ha anche riferito che sul totale dei detenuti “solo 101 lavorano e 100 frequentano le scuole all’interno del carcere”. Domani l’iniziativa itinerante prosegue a Bari con due visite nel carcere Francesco Rucci e poi nell’istituto minorile Fornelli. “Invitiamo i ministri Salvini e Di Maio a venire domani con noi a Bari - dice Briganti - per rendersi conto delle condizioni nelle quali sono le nostre strutture penitenziarie. La soluzione non è costruire nuove carceri ma fare progetti che siano davvero rieducativi e risocializzanti”. Tolmezzo (Ud): carcere sovraffollato e manca personale ansa.it, 18 agosto 2019 Sovraffollamento, carenze igieniche nei bagni e mancanza di personale: sono alcune criticità emerse durante la visita di una delegazione del Partito Radicale oggi al carcere di Tolmezzo (Udine), dove sono detenute “234 persone, di cui 198 in alta sicurezza, a fronte di una capienza regolamentare di 149 unità”. “In ogni cella che abbiamo visitato concepita per una persona sono detenute due - dice all’Ansa Elisabetta Zamparutti, del Consiglio Generale del Partito Radicale e tesoriere di Nessuno Tocchi Caino - nei bagni delle celle non c’è acqua calda, mentre nella sezione B dell’alta sicurezza funzionano solo 1,5 docce su 3 per 50 detenuti”. Nelle celle inoltre c’è “un’anacronistica rete metallica saldata alle sbarre che filtra la luce naturale e impedisce la visione all’esterno”, mentre “l’illuminazione artificiale interna è insufficiente”. Per quanto riguarda il personale, aggiunge Zamparutti, “mancano in particolare educatori: dei tre previsti, solo uno è effettivamente in servizio”. E “su una pianta organica di 218 agenti di polizia penitenziaria, ce ne sono 181”, i quali segnalano “un numero inadeguato di divise a disposizione”. La delegazione dell’iniziativa “Ferragosto in carcere”, composta tra gli altri dal segretario di Nessuno Tocchi Caino, Sergio D’Elia, è stata accompagnata dal comandante dell’istituto penitenziario Raffaele Barbieri. Tra le altre “ombre” emerse, “un numero elevato di detenuti, 40, con patologie psichiatriche, l’assenza di un regolamento di istituto e il fatto che non siano stati ancora attivati pc per i colloqui con i familiari via internet”. Note positive invece i laboratori in cui sono coinvolti i detenuti e l’occupazione di 52 persone alle dipendenze dell’Amministrazione penitenziaria. Reggio Calabria: Ferragosto in carcere, il Garante incontra i detenuti di Serena Guzzone strettoweb.com, 18 agosto 2019 Una delegazione dell’Ufficio del Garante metropolitano di Reggio Calabria incontra i detenuti: riflettori accesi sulle criticità in ambito sanitario. Nella giornata di ieri una delegazione dell’Ufficio del Garante metropolitano della città di Reggio Calabria per le persone private nella libertà personale, rappresentata dal Garante Dott. Paolo Praticò e dall’Avv. M. Cristina Arfuso, ha partecipato all’iniziativa “Ferragosto in carcere” promossa dal Partito Radicale, in collaborazione con le camere penali italiane composta tra gli altri, dal presidente nazionale Gian Domenico Caiazza, dagli avvocati Cherubino, Catanzariti, Belcastro, Genovese, Tommasini e dalla responsabile di Radio Radicale Pagliaruolo, a cui si è aggiunta la presenza di Enza Bruno Bossio deputata Pd al parlamento, recandosi in visita ai detenuti del carcere “Panzera” di Reggio Calabria (comunemente conosciuto come “San Pietro”). La delegazione è stata guidata nella visita dal direttore del carcere dott. Calogero Tessitore e dal comandante della polizia penitenziaria dott. Stefano Lacava. “Pochi i rilievi fatti sulle condizioni di detenzione-racconta Paolo Praticò-sui quali ci si concentrerà a parte e prossimamente attraverso i colloqui individuali programmati dal Garante metropolitano e dai componenti l’ufficio. C’è da segnalare, però, un problema importante che riguarda l’area sanitaria e quindi il diritto alla salute per quanto concerne il carcere di Arghillà che è un tutt’uno con San Pietro. Il direttore con molto rammarico ci ha comunicato come oltre trecento visite specialistiche richieste dai detenuti di Arghillà, siano rimaste inevase, nonostante le numerose segnalazioni effettuate all’Asp competente. Il problema è grave e merita particolare attenzione, perciò l’ufficio del Garante si è impegnato ad interessare gli organi competenti, perché trovino le giuste soluzioni. La visita del penitenziario e dei suoi ospiti nella giornata del 16 agosto rappresenta per l’ufficio del Garante metropolitano una chiara manifestazione della linea che intende seguire: vigilare e stare al fianco di chi, purtroppo, al momento non gode della propria libertà portando un vento di speranza proprio nei giorni di festa che - per ovvie ragioni - pesano come un macigno sulle loro vite quotidiane”- conclude. Teramo: i Radicali in visita al carcere denunciano “sovraffollato più della media” di Diana Pompetti Il Centro, 18 agosto 2019 Una delegazione incontra detenuti: “Realtà difficile, anche per gli agenti di polizia che sono pochi” Appello per una mamma in cella con la figlia di tre mesi: “Respinte le istanze per i domiciliari”. A testimoniare una presenza mai occasionale il ricordo di Marco Pannella che i detenuti nel carcere della sua Teramo li incontrava più volte l’anno per andare, come diceva, “oltre le sbarre”. Lo sa bene Maurizio Turco, segretario del Partito Radicale, che tra le visite programmate nelle carceri italiani durante Ferragosto ha scelto proprio Teramo e che appena uscito da Castrogno dice alla cronista: “Ora andiamo al cimitero a trovare Marco”. I temi restano gli stessi perché nonostante interrogazioni e proposte di legge poco o nulla è cambiato, a cominciare da quel sovraffollamento che fa dell’istituto teramano uno dei più pieni d’Abruzzo e d’Italia con i suoi quasi quattrocento reclusi a fronte di una capacità di circa duecento. “Un sovraffollamento che va ben oltre le percentuali della media nazionale”, dice Turco, “in una realtà sicuramente difficile anche per la carenza di agenti della polizia penitenziaria con una presenza molto al di sotto della pianta organica”. A sollevare l’attenzione della delegazione anche la questione legata alla gestione sanitaria, in particolare per quanto riguarda la presenza di malati psichiatrici. Una questione più volte evidenziata in passato dagli stessi sindacati degli agenti di polizia penitenziaria visto che il carcere teramano è l’unica struttura che garantisce una presenza medica di 24 ore su 24 e proprio per questo vede la presenza di un alto numero di detenuti malati psichiatrici che arrivano anche da fuori regioni. “In questo riteniamo ci siano delle responsabilità a livello dell’azienda sanitaria locale visto che la gestione della sanità in carcere oggi dipende dalla Asl”, dice Turco, “abbiamo constatato una massiccia presenza di detenuti malati psichiatrici e quindi difficili da poter gestire anche in considerazione del numero di agenti notevolmente inferiore a quello previsto”. E questo in un istituto che pur non avendo reclusi in regime di 41bis ospita vari settori, tra cui l’alta criminalità e la sezione protetti. E poi c’è la questione legata alle detenute mamme. “C’è una nigeriana in attesa di processo che è in cella con la sua bambina di tre mesi”, dice l’avvocato Enrico Miscia dell’Unione Camere Penali con cui il Partito Radicale ha organizzato gli incontri, “le istanze fatte per i domiciliari sono state tutte respinte”. Il reparto femminile del carcere di Castrogno ospita detenute che arrivano da ogni angolo della regione, dalle Marche e dal Lazio. Tre anni fa a Teramo è stata inaugurata una sezione femminile a trattamento avanzato con l’ex caserma vigilatrici che, grazie al mondo del volontariato, è stata recuperata e trasformata: quattro camere da letto per una mamma e un figlio, una sala giochi, una cucina. Tutto quello che serve, anche se vivi in un carcere, per respirare aria di casa. Ma oggi è chiusa e così per mamme e piccoli c’è solo la cella. Paradossi di un’Italia in cui a leggere le condanne che periodicamente arrivano dalla Corte europea dei diritti dell’uomo appare evidente come poco o nulla sia cambiato sul fronte degli istituti penitenziari sempre più affollati, con sempre meno agenti di polizia penitenziaria e progetti rieducativi ancorati a fondi sempre più inconsistenti. Migranti. Open Arms, Salvini finge di cedere a Conte: sbarcano 27 minori di Leo Lancari Il Manifesto, 18 agosto 2019 Scambio di lettere tra il premier e il leghista. Che cede alla richiesta di far scendere almeno i minori. Ma precisa: “La responsabilità è tua”. Non si parlano. Né di persona né al telefono. Ma si scrivono, forse perché scripta manent e, come ha sottolineato non senza polemica Giuseppe Conte a Ferragosto, “per migliore trasparenza anche nei confronti dei cittadini”. Che tradotto significa che la fiducia che dovrebbe legare gli (ormai ex) alleati di governo è cosa del passato e quindi ognuno si assume la responsabilità delle decisioni che prende. È per questo che alla seconda lettera che il premier gli invia in due giorni, questa volta per chiedere che dalla nave Open Arms vengano fatti scendere almeno i minori, Matteo Salvini risponde facendo attenzione a mettere bene in chiaro le cose: “Autorizzo lo sbarco, ma è una scelta del premier e rappresenta un precedente pericoloso”, dice il ministro dell’Interno. È un modo per obbedire e smarcarsi allo stesso tempo, per continuare il gioco di chi sta al governo ma anche all’opposizione, una risposta alla pancia del Paese ma anche un gesto di attenzione verso quell’alleato che, dopo averlo sfiduciato platealmente, con una marcia indietro che sa di disperazione il leghista cerca ora di recuperare in tutti i modi. È sulle navi delle Ong che si consuma il miglio finale che separa Matteo Salvini da quando, martedì al Senato, Conte gli chiederà la fiducia. E lo scambio di lettere tra i due rappresenta il termometro di questo scontro. Dopo 14 mesi di silenzio-assenso suo e del Movimento 5 Stelle il premier sembra aver improvvisamente trovato consapevolezza del proprio ruolo, un cambio di passo frutto probabilmente anche delle pressioni che a livello internazionale gli arrivano per una situazione che diventa più imbarazzante ogni giorno che passa, con 134 migranti imprigionati da 16 giorni sulla nave della ong spagnola. “È necessario che sia autorizzato lo sbarco immediato delle persone di età inferiore agli anni 18 presenti a bordo della nave Open Arms” scrive quindi il premier, ricordando come dall’Europa siano arrivate aperture all’accoglienza a prescindere dall’età dei migranti: “Ci è stata confermata la disponibilità di una pluralità di Paesi - scrive Conte - (Francia, Germania, Lussemburgo, Portogallo, Romania e Spagna) a condividere gli oneri dell’ospitalità per tutte le persone di cui ci stiamo occupando, anche indipendentemente dalla loro età”. A Salvini il nuovo corso non piace ma si adegua, almeno in parte. “La linea del Viminale non cambia” si affretta infatti a precisare, ma poi dispone lo sbarco di quelli che definisce sempre “presunti” minori. E lo fa, come ci tiene a sottolineare in un tentativo di riavvicinamento al M5S, con “spirito di collaborazione”. “Prendo atto che disponi che vengano sbarcati i (presunti) minori attualmente a bordo della nave Open Arms”, è la risposta a Conte del ministro. “Darò pertanto, mio malgrado, per quanto di mia competenza e come ennesimo esempio di leale collaborazione, disposizione affinché non vengano frapposti ostacoli all’esecuzione di tale tua esclusiva determinazione”. Senza per questo cambiare linea, ribadisce Salvini, “per evitare che la tua decisione per il caso Open Arms costituisca un pericoloso precedente per tutti coloro che potranno ritenere normale individuare il nostro paese come unico responsabile dell’accoglienza e dell’assistenza di tutti i minori non accompagnati (o presunti tali) presi a bordo in qualsiasi angolo del Mediterraneo o del mondo”. E ieri sera, dopo che il primo gruppo di minori era sbarcato e trasferito all’hotspot di Lampedusa, il ministro ha twittato: “Mi riferiscono da Lampedusa che dei 27 immigrati per i quali è stato ordinato lo sbarco in quanto minorenni, già 8 si sono dichiarati maggiorenni! Vedremo gli altri… Dopo i “malati immaginari”, ecco i “minorenni immaginari”. Punzecchiature, quelle del leghista, che però non cambiano la sostanza delle cose e soprattutto il momento di difficoltà attraversato. Dopo essere stato contraddetto prima dal Tribunale di minori di Palermo e poi dal Tar, Salvini sa che potrebbe dover fare i conti con un nuovo caso Diciotti. E questa volta con il rischio di non poter più contare sull’aiuto che in passato gli hanno fornito gli alleati 5 Stelle. Migranti. È in ballo il cuore del Vangelo e della Costituzione di Alex Zanotelli Il Manifesto, 18 agosto 2019 Quello che sta avvenendo di nuovo nel Mediterraneo con le navi Open Arms e Ocean Viking è uno spettacolo indecente, immorale e criminale. Il rifiuto del ministro dell’Interno Matteo Salvini di aprire i porti per accogliere queste due navi cariche di 500 rifugiati salvati in mare, esprime un cinismo e un disprezzo verso l’altro inaccettabile. Perché queste sono persone che fuggono da terrificanti lager libici, dalle torture, dagli stupri, da una guerra tra il generale Haftar e el Serraj, l’uomo forte di Tripoli. E quindi non sono migranti, ma rifugiati che hanno diritto all’accoglienza per i Trattati Internazionali Onu, firmati anche dall’Italia. Per di più, di questi 500 rifugiati, ora nelle due navi, ben 150 sono minorenni, particolarmente protetti nei Trattati internazionali e solo a una piccola parte dei quali ieri è stato concesso di sbarcare dalla Open Arms. Infatti il Tribunale dei minori di Palermo ha dichiarato che “trattenere a bordo minori in prossimità delle frontiere con lo Stato italiano equivale a un respingimento”. Anche il presidente del Consiglio Giuseppe Conte è subito intervenuto chiedendo a Salvini di rispettare le norme a tutela dei minori e autorizzare lo sbarco. Salvini gli risponde che una nave di una Ong straniera non può entrare in un porto italiano. In questa bagarre è intervenuto il Tar del Lazio, affermando che “data l’eccezionale gravità della situazione a bordo, Open Arms può entrare nelle acque italiane”. La ministra della Difesa, smarcandosi da Salvini, manda due navi della Marina militare a scortare Open Arms. Salvini, infuriato, rilancia la sua litania di no allo sbarco, ma i ministri Toninelli e Trenta non firmano. E così la Open Arms arriva a150 metri dal porto di Lampedusa, ma Salvini non cede. E così i 130 rifugiati di Open Arms dopo sedici giorni di attesa sulla nave, stanno ancora attendendo di scendere a terra. Tutto questo è disumano e disumanizzante! Dobbiamo svergognare Salvini che ha già ricevuto uno schiaffo clamoroso in Parlamento, quel Parlamento da lui snobbato sia per la Diciotti che per Moscopoli. Se Salvini da ministro dell’Interno si è comportato come se incarnasse lui il governo, chissà cosa succederà quando il popolo italiano, come lui chiede, gli darà “pieni poteri”. Ha ragione Papa Francesco a dire che certi discorsi gli ricordano quelli di Hitler! Mi appello ai giudici perché, nella loro autonomia, interpretino il decreto sicurezza bis dando priorità al principio della vita. Come ha fatto il giudice Alessandra Vella del Tribunale di Trapani, che ha rimandato libera Carola Rackete, la comandante della Sea-Watch, perché ha agito obbedendo al principio della vita. Abbiamo bisogno di giudici e magistrati che riescano così a smantellare il decreto sicurezza che è un decreto immorale perché dichiara reato salvare vite in mare. Siamo arrivati al sovvertimento dell’ordine costituzionale e del Sistema internazionale dei diritti umani universali. Mi appello ai militari, alle forze dell’ordine, ai poliziotti, alle guardie costiere perché riscoprano l’obiezione di coscienza e la disobbedienza civile davanti a leggi ingiuste e disumane. Mi appello soprattutto ai vescovi italiani (Cei) perché abbiano il coraggio di bollare con parole di fuoco, come facevano gli antichi profeti e Gesù, quello che sta avvenendo in questo paese. Mi appello sempre ai vescovi perché abbiano il coraggio di chiedere ai fedeli dei gesti pubblici contro questo pauroso crescendo di razzismo come un digiuno collettivo, preghiere speciali. Dobbiamo farci sentire sulla pubblica piazza: è in ballo il cuore del Vangelo. Mi appello ai preti e alle comunità cristiane perché risuoni chiaro il messaggio che la politica leghista è antitetica al Vangelo: non ci si può dichiarare cristiani e votare Lega. “Amerai il prossimo tuo come te stesso-afferma il libro del Levitico - e amerai lo straniero come te stesso” (Levitico 19, 18,34). E Gesù ha espresso tutto questo con la parabola del Samaritano. La situazione è molto grave: è in ballo la nostra Costituzione e per i cristiani, il cuore del Vangelo. Usa, Cina e Russia: ecco il Terzo Mondo di Roberto Saviano L’Espresso, 18 agosto 2019 Sono paesi ricchi, certo. Ma vengono negati i più elementari diritti civili. E i cittadini muoiono di atti violenti o per le carenze del sistema sanitario. Nella Russia di Putin essere all’opposizione significa finire in prigione. Ljubov Sobol, 31 anni, attivista russa, è stata arrestata mentre si recava alla manifestazione organizzata a Mosca dopo che 57 candidati indipendenti erano stati esclusi dalla corsa alla Duma per le elezioni del prossimo 8 settembre. Era rimasta solo lei a guidare la protesta in piazza contro Putin. In circa un mese di proteste, tutti gli altri attivisti sono finiti in carcere. Ljubov era stata già arrestata ma poi rilasciata perché madre di una bimba di 5 anni. Da allora aveva iniziato uno sciopero della fame. Poi arriva l’arresto, insieme ad altri 800 manifestanti che chiedono elezioni democratiche e non la solita farsa putiniana. Più a Est, assistiamo da anni a un attacco proditorio da parte del Governo cinese all’accordo siglato con il Governo inglese “One Country, Two Systems” (Un Paese, due Sistemi) che garantisce, a partire dal primo luglio 1997, 50 anni di indipendenza da Pechino ad Hong Kong. La legge sull’estradizione interromperebbe lo status speciale della ex colonia e, anche se la governatrice Carrie Lam ha revocato il provvedimento, spingendosi a dichiararlo “morto”, le proteste non si fermano. La legge che dovrebbe portare gli indagati di Hong Kong direttamente in Cina per essere processati da una parte delineerebbe una considerevole diminuzione della autonomia promessa a quel territorio fino al 2047, dall’altra metterebbe a rischio gli avversari politici del governo centrale di Pechino. E qui, negli ultimi scontri, accade qualcosa, un punto di non ritorno: nella stazione di Yuen Long uomini in maglia bianca, armati di spranghe aggrediscono i manifestanti. 45 persone sono rimaste ferite e si sospetta che i loro assalitori siano appartenenti alle Triadi, un’organizzazione mafiosa cinese. La polizia di Hong Kong sarebbe rimasta ad assistere senza intervenire o, peggio, sarebbe intervenuta solo tardivamente, come ha denunciato il parlamentare Lam Check-Ting, anche lui ferito negli scontri: “Hong Kong permette alle Triadi di fare quello che vogliono, di assalire la gente per strada?”. Ma la Cina avverte - sarebbe meglio dire minaccia - i manifestanti di Hong Kong e li dissuade dallo “scherzare con il fuoco”. I cittadini diventano nemici e i fatti si possono ribaltare a proprio uso, come è abituato a fare il nemico numero 1 di Pechino, Donald Trump. Spostiamoci quindi a Ovest, negli Stati Uniti d’America, nello stato più ricco del Terzo mondo. Sì, avete letto bene; perché non basta gestire il potere economico per uscire dal Terzo mondo o per non entrarci, è necessario che esista uno Stato di Diritto che consenta alle persone di non morire di violenza o di malattia. Di violenza come è accaduto a Chicago alle due donne che stavano manifestando contro il dramma che la presenza massiccia e praticamente indiscriminata di armi porta con sé. Chantell e Andrea sono state raggiunte da colpi esplosi da un’auto in corsa. Nella sola capitale del Michigan, ogni anno, sono circa 600 le vittime da arma da fuoco e nonostante queste cifre Trump accusa i media di raccontare fake news, di creare panico e alimentare la tensione. Nelle ultime settimane negli Stati Uniti sono morte nei due attentati di El Paso, in Texas, e Dayton, in Ohio, 31 persone. Di più, non è forse da Terzo mondo far morire oggi pazienti che hanno bisogno di iniezioni di insulina per l’elevato costo delle cure? E continuare liberamente a utilizzare l’amianto nell’edilizia? Russia, Cina e Usa: a questi tre (più o meno) ricchi paesi del Terzo mondo i nostri governanti volgono il loro sguardo e mentre lo fanno mi sento orgoglioso di appartenere a qualcosa di profondamente diverso, mi sento orgoglioso di essere europeo. L’Europa ha una storia radicata non nelle tradizioni da difendere dall’invasore, ma nella cultura del diritto, nel rispetto dell’individuo, della sua vita e della sua salute. Delle sue idee e delle sue inclinazioni. Hong Kong. Sulle proteste è piombata l’offensiva mediatica cinese di Simone Pieranni Il Manifesto, 18 agosto 2019 Un video di un paio di minuti nel quale sono state montate scene di film ambientati a Hong Kong e immagini delle recenti proteste. Un montaggio da kolossal e un’atmosfera epica e finale. Lo scopo del video: dimostrare al pubblico cinese il supporto del governo centrale alla polizia dell’ex colonia britannica alle prese con le proteste in corso da ormai undici settimane. Si tratta di uno dei metodi con i quali Pechino prova a dare la propria versione dei fatti accaduti a Hong Kong in Cina e non solo. Se nei primi giorni delle manifestazioni a Hong Kong gli accadimenti erano stati silenziati sulle reti sociali cinesi, ben presto invece Pechino ha cambiato strategia, inondando WeChat e Weibo di messaggi a favore del governo e della polizia della città e sottolineando le “violenze” dei manifestanti che poi lo stesso governo ha bollato come prodromo di “terrorismo”. Ma la potenza degli uffici della propaganda di Pechino è arrivata anche in Occidente, dove ormai il peso dei media cinesi non è più ininfluente come qualche tempo fa. I network televisivi e informativi cinesi sono ormai in grado di fare breccia anche nel panorama mediatico occidentale, spesso anche grazie a collaborazioni con importanti media e agenzie, fornendo strumenti sia ai cinesi all’estero che mal hanno sopportato le manifestazioni a Hong Kong sia agli occidentali che parteggiano, come se fosse una partita di calcio, con la Cina contro i manifestanti di Hong Kong (naturalmente c’è anche chi “tifa” allo stesso modo contro la Cina). In questo modo Pechino ha tentato di veicolare una narrazione più omogenea e facilmente comprensibile rispetto alla complessità di quanto sta accadendo a Hong Kong: la città è stata descritta come un luogo di perdizione e decadenza, in preda ai criminali e come un ricettacolo di mafiosi e businessmen senza scrupoli. I manifestanti sono stati rappresentati come studenti benestanti e inglese-parlanti (quindi “privilegiati”) e in balia dell’ingerenza americana, quando non direttamente sospettati di esserne “agenti” con finalità anti cinesi. Questo sforzo riguardo ai fatti di Hong Kong da parte dell’apparato statale cinese - comprese alcune ambasciate, come quella di Roma che ha organizzato una conferenza ad hoc sui fatti dell’ex colonia britannica, conseguenza di una tendenza generale, iniziata da alcune ambasciate in Africa capaci di usare i media con molta sicurezza - costituisce comunque una novità e dipende da alcuni elementi fortemente radicati nel sentimento più nazionalista cinese: una diffidenza ovvia, storica, nei confronti dei media occidentali e la sensazione - spesso giustificata - che in ogni diatriba che coinvolga la Cina, gran parte della stampa occidentale sia pervasa da sentimenti anti-cinesi pregiudiziali e per interesse o in ogni caso si dimostri acriticamente favorevole a qualsiasi richiesta di democrazia arrivi da una piazza contrapposta a Pechino (da qui lo sforzo attuale di penetrazione nel sistema dei media occidentali, dopo aver provato a comprarsi direttamente gruppi editoriali stranieri). Da parte loro i manifestanti oltre ad aver dimostrato la propria variegata composizione, scegliendo anche di manifestare in zone più periferiche per non incorrere in divieti ma anche per sensibilizzare altre fasce di popolazione (operazione riuscita) hanno attivato diversi canali su Telegram e hanno cercato di gestire l’impatto mediatico come meglio hanno potuto, chiedendo perfino scusa a seguito di alcuni eventi cavalcati dalla propaganda cinese, come il caso del giornalista del Global Times (quotidiano costola del partito comunista e su posizioni ultra nazionaliste) bloccato e malmenato dai manifestanti all’aeroporto. Un’altra chiave con la quale la Cina ha provato a fare pressione sulle proteste è stata la minaccia più o meno velata di un intervento dell’esercito. Dopo alcuni articoli allarmistici sulla stampa internazionale è stato proprio il Global Times a escludere, per ora, l’eventualità, dimostrando quanto in realtà in tanti avevano scritto: siamo di fronte a qualcosa di diverso da quanto accaduto trent’anni fa a Pechino, a Tiananmen. La Cina è più potente di allora, ma ha anche molti più strumenti per reagire. Uno di questi è la tattica utilizzata ad ora da Xi Jinping: non fare niente, se non utilizzare minacce verbali e aspettare che tutto quanto sta accadendo finisca per spegnersi da solo. Il problema di questa opzione è la straordinaria capacità della mobilitazione a Hong Kong: anche ieri la città è stata percorsa da tre diverse manifestazioni, una delle quali organizzata dagli insegnanti a dimostrare l’ampio fronte anti Pechino. Si è trattato di una giornata di proteste pacifiche, ennesimo tentativo dei manifestanti di mostrare che le proprie ragioni non hanno bisogno di violenza, almeno se non a seguito di provocazioni e violenti pestaggi come quelli messi in atto dalla polizia di Hong Kong (guidata, per altro, da due ufficiali britannici). Insieme alle proteste contro il governo della città e Pechino, si è svolta anche una manifestazione contro le proteste e a favore del governo di Carrie Lam. La Somalia in mano agli shabaab, i terroristi che diventano mafiosi di Domenico Quirico La Stampa, 18 agosto 2019 I guerriglieri sono cambiati: controllano il territorio, sperando in un’intesa con l’Occidente Nonostante bombe e racket Mogadiscio vuole rinascere: “Serve qualcuno che creda in noi”. La ragazza ha gli occhi spalancati, in uno spasmo verso l’alto. Ti segue con lo sguardo bianco, illividito dalla morte. Sì, in tutto quello scempio sono gli occhi che ti afferrano come una calamita. I morti sono gelosi e vendicativi, non hanno più paura di nulla, nemmeno della morte; non lasciano la presa, combattono fino all’ultimo con te che sei vivo con un coraggio freddo e testardo, pallidi e muti, gli occhi sbarrati, stravolti o da folle. E poi ci sono i capelli della kamikaze che ha compiuto il suo orrendo lavoro: neri, densi, lunghissimi ora che il velo non li trattiene e li nasconde più. Sembrano, con gli occhi, un’altra cosa di lei che è rimasta viva, che non si rassegna a morire. Ti aspetti che si animino di colpo come le serpi a cui hanno mozzato la testa e guizzano ancora. Coprono di un velo nero quello che resta del collo, appena fili esili di carne. Sul foglio bianco si cui hanno appoggiato per terra il capo mozzato non c’è un filo di sangue: raggrumato, essiccato dalla violenza dell’esplosione. Perché il resto del corpo non c’è più. Disintegrato, intatta è rimasta la testa di Maryam, così si chiamava l’attentatrice del municipio di Mogadiscio. Davanti alla finestra del sindaco c’è lo scheletro della vecchia cattedrale: ora è un parcheggio. Il sindaco ucciso - Quante volte abbiamo vissuto in questi anni, in mille parti del mondo, questo strazio? Lo stomaco si stringe, ti ripeti: dio fai che non metta i piedi su qualche frammento umano. E poi c’è l’odore dolce e grasso della morte, che monta, ti afferra subito nel calore. Tutta questa vita, 29 anni aveva, questa giovinezza gettata via non per spaccare il mondo e ricostruirlo migliore, semplicemente per uccidere! Come hanno fatto gli shabaab, i fondamentalisti, a convincerla, lei che aveva studiato, che lottava per aiutare profughi e malati, che era famosa? Otto persone ha ammazzato, tra loro anche il sindaco della capitale Omar Osman. Anche lui era celebre qui: lo chiamavano il piccolo ingegnere, era tornato dall’Inghilterra dove aveva trovato rifugio e un’altra vita sicura. Ma restare lontano gli sembrava un tradimento, voleva aiutare la Somalia adesso che il suo Paese cominciava a risorgere da trent’anni di guerra infinita. Avrebbero dovuto incontrarsi, Maryam e Osman, in un frammento di vita calma, una vita come quella del passato dove la guerra e il fanatismo non esistevano, i discorsi sul futuro, che fare per rendere la Somalia migliore. Perché fuori dalle stanze devastate splende il sole, l’odore del mare ti stordisce, sulle ossa bianche di questa città si leva una striscia di cielo palpitante. Tutto è così bello e vivido e perfetto. E invece ci sono persone che uccidono, ambulanze che corrono inutilmente, cadaveri in fila uno accanto all’altro. Ci sono luoghi in cui da trent’anni, trent’anni!, arrivi e ti pare che la guerra sia sull’intero pianeta che ovunque tutti ammazzino tutti, che il dolore abbia impregnato ogni angolo di questo mondo raggiungendo anche te anche il luogo dove vivi. Non può essere diversamente. La città viva - Ma fuori dal municipio della strage, a poca distanza, c’è l’oceano, il tiepido azzurro oceano profondo. Increspato dal vento, tutto arricciato di lunghe onde. Sulla spiaggia ragazze esili sfilano avvolte in pepli coloratissimi, alcune si pettinano guardando il cielo come se si guardassero in uno specchio. I caffè divorano gli uomini a piena gola. Buon segno. Bande di ragazzi corrono qua e là; scalzi, vestiti di stracci corrono gridando, sudati esaltati, presi da qualche gioco avventuroso. Ma poi li ritrovi nelle discariche, attenti come operai silenziosi, a cercare rifiuti ancora utili. Famiglie di mosche grasse e pigre dalle ali dorate ronzano quiete. Sì Mogadiscio vive rinasce palpita riedifica sé stessa. Soldati in nera uniforme sorvegliano i cantieri dei nuovi palazzi. Svetta, alta montagna di cemento e di acciaio, quella che sarà la torre di un albergo a cinque stelle. Le sottili matite dei minareti ne escono umiliate. Lo costruisce una vecchia conoscenza degli italiani, Ali Madhi, che fu presidente della Somalia dei signori della guerra. Mezza città era sua, lui conosce tutti i nostri segreti di allora, i destreggiamenti, le nostre vastissime indulgenze. Ha attraversato immune questi decenni di dogmatismi invasati, armato gesuiticamente di traffici e business. Scommette denaro sulla rinascita di Mogadiscio, unendo il suo capitale ai soldi della diaspora, a quelli che tornano dopo decenni dai rifugi in Uganda, in Kenya, negli Emirati. Tornano per restare. I terroristi sono cambiati - Dicono che sia lui a pagare agli shaabab una grossa quota di tangenti per non colpire i suoi cantieri. I talebani del Corno d’Africa, senza che noi ce ne accorgessimo, sono cambiati. Controllano, armi in pugno, ancora vaste zone del Paese, soprattutto a sud verso il confine keniota. Ma alla guerra santa hanno affiancato il racket. Si calcola che soltanto Mogadiscio renda loro ogni anno trenta milioni di dollari. Come molte organizzazioni rivoluzionarie dall’Eta basca alle colombiane Farc è scivolata dalle prepotenze salafite a quelle del malaffare. Riesce ormai difficile, forse anche ai miliziani nella ipocrisia farisaica che mescola tangenti mafiose e attentati kamikaze, stabilire quale siano quelle a cui dedicare maggior malizia, separare il penitenziale, il politico e il criminale. Intanto shabaab “pentiti” si infiltrano nell’apparato dello Stato. E solo noi continuiamo, nel nostro primitivo semplicismo, a pensare che il problema si risolverà con qualche drone ben piazzato. Gli shabaab come i talebani guadagnano tempo. Sanno che alla fine anche la nostra pazienza cederà e si prospetterà una soluzione appunto afgana: in cambio di una onorevole ritirata lasceremo loro il potere. Eppure incontri straordinari esempi somali di tenacia e di volontà di ricostruire. Come Abdirisak Amin che ha il compito di cercare in Europa investimenti economici per la Somalia e che ha scelto come base l’ambasciata a Roma. “Finora la Turchia ha fatto la parte del leone, ritagliandosi spazi importanti. Ma noi vogliamo anche altri partner - prosegue - l’esempio dell’italiana Leonardo che si è assicurata la costruzione dei radar in tre aeroporti. Altri speriamo abbiano lo stesso coraggio. Il mio è un Paese difficile, certo, i terroristi controllano ancora parte del territorio anche se ormai si dedicano soprattutto alle estorsioni. Chi vuole tornare nella legalità sarà accolto e perdonato. Ma per vincerli ci vuole sviluppo e ricostruzione”. “Dopo 30 anni di guerra civile tutto va rimesso in piedi, aeroporti, strade, opere idriche, i tribunali. E il sistema giudiziario per cui l’Italia potrebbe esser fondamentale - conclude Abdirisak Amin - Noi registriamo chi vuole venire a operare in Somalia, li assistiamo nella logistica e nella sicurezza. Credetemi, è una scommessa che funzionerà. È una grande sfida anche per l’Europa”. Sudan. Iniziato il processo per corruzione all’ex dittatore. Ma i suoi crimini sono ben altri di Riccardo Noury Corriere della Sera, 18 agosto 2019 Possesso di valuta estera, corruzione e ricevimento illegale di regalie. Per questi reati, è iniziato oggi in un’alluvionata Khartoum uno dei processi cui la giustizia sudanese (un altro potrebbe riguardare l’uccisione di manifestanti negli ultimi mesi) sottoporrà l’ex presidente Omar al-Bashir. In sé, che un capo di stato deposto dopo 30 anni di dominio assoluto venga processato è una notizia positiva. Ma la giustizia interna non dovrebbe entrare in contrasto con quella internazionale. Al-Bashir è il più antico ricercato dal Tribunale penale internazionale, cui deve rispondere da una decina d’anni di crimini di guerra, crimini contro l’umanità e genocidio commessi in Darfur quando era al potere. Per questo, le nuove autorità sudanesi dovrebbero trasferire al-Bashir al Tribunale penale internazionale, non prima di aver ratificato lo Statuto di Roma - firmato da Khartoum nel 2000 - che ha istituito nel 1998 il massimo organo della giustizia internazionale.