In Italia meno delitti ma più morti sulle strade di Alessandra Ziniti La Repubblica, 17 agosto 2019 Il dossier di Ferragosto del Viminale fa il quadro della sicurezza in Italia. L’80 per cento degli omicidi nella sfera affettiva o familiare. Sembra un’Italia più sicura quella messa a fuoco dal consueto dossier di Ferragosto del Viminale. Un’Italia dove calano omicidi, rapine e furti ma dove - a fronte di una diminuzione degli incidenti stradali - aumentano i morti. Calano notevolmente gli sbarchi di migranti ma, nonostante Salvini, il ministero dell’Interno certifica la diminuzione dei rimpatri forzati e addirittura il dimezzamento di quelli assistiti a conferma di quanto la promessa elettorale di Matteo Salvini di rimandare a casa i 600mila presunti immigrati irregolari si sia rivelata un nulla di fatto Delitti - Secondo il “Dossier Viminale”, tra agosto 2018 e luglio 2019 in Italia sono stati commessi 307 omicidi volontari, il 14% in meno rispetto all’anno scorso. Di questi solo 25 sono attribuibili alla criminalità organizzata (-19,4%) e ben 145 alla sfera familiare/affettiva (-4%). Sempre negli ultimi dodici mesi sono in calo le rapine (-16,2%), i furti (-11,2%) e le truffe (-2,1%, eccetto quelle con vittime ultrasessantacinquenni aumentate dell’1,2%). Immigrazione - Calano gli sbarchi (8.691 contro i 42.700 dell’anno precedente, dunque il 79,6% in meno) ma calano anche i rimpatri: dal 1 agosto del 2018 al 31 luglio del 2019 sono diminuiti dello 0,7% mentre quelli assistiti si sono più che dimezzati passando da 1.201 a 555, con un calo del 53,8%. Un altro dato che balza agli occhi è la drastica riduzione dei costi del sistema d’accoglienza, dove attualmente sono ospitati 105.142 migranti, il 34% in meno rispetto al 2018: dai 2,2 miliardi spesi dal 1 agosto 2017 al 31 luglio del 2018 si è passati infatti ai 501 milioni dell’ultimo anno. Terrorismo - Sono 141 i foreign fighters che hanno un qualche legame con l’Italia e che sono andati a combattere in Siria e Iraq, 29 dei quali sono già rientrati in Europa. Rispetto all’anno scorso il numero dei soggetti costantemente monitorati è salito del 4,4% (erano 135). Sostanzialmente invariato è invece il numero dei soggetti espulsi con decreto del ministro dell’Interno perché ritenuti pericolosi per la sicurezza dello Stato: erano 108 l’anno scorso, sono stati 109 quest’anno. Sul fronte interno sono invece stati arrestati 15 estremisti di area anarchica (erano 11), il 36,4% Femminicidi e stalking - È del 63,4% la percentuale di donne vittime degli omicidi commessi in ambito familiare/affettivo tra agosto 2018 e luglio di quest’anno. Al capitolo “violenza di genere” figurano 12.733 denunce per stalking presentate (in tre casi su 4 da donne) nell’ultimo anno, il 13% in meno rispetto all’anno precedente. Sempre tra agosto 2018 e luglio 2019 crescono del 32,5% gli ammonimenti del questore e del 76% quelli per violenza domestica mentre calano dell’1,2% gli allontanamenti. Incidenti stradali - Cala il numero degli incidenti stradali in Italia ma cresce quello delle vittime. Tra il 1 agosto 2018 e il 31 luglio 2019 gli incidenti su strade e autostrade sono stati 73.408, il 2,8% in meno rispetto all’anno precedente (75.541). Nonostante ciò è cresciuto del 6%, arrivando a 1.727, il numero di quanti hanno perso la vita. L’anno prima le persone decedute erano state 1.630. Ordine pubblico - Cala il numero delle manifestazioni di piazza in Italia e a scendere sono soprattutto gli episodi di disordini. Secondo il ministero dell’Interno le manifestazioni sono scese del 10,3%, passando dalle 11.824 a 10.609. Nello stesso periodo le proteste con disordini sono passate da 389 a 287, con un calo del 26,2%.Ma si è alzato il numero dei feriti tra le forze dell’ordine, passando da 184 a 210. Criminalità organizzata - Sono 51 i latitanti di rilievo arrestati nell’ultimo anno, uno dei quali ritenuto di massima pericolosità, e 155 le operazioni di polizia giudiziaria svolte nell’ambito delle attività di contrasto alla criminalità organizzata. Nell’ultimo anno sono stati inoltre eseguiti 6.802 sequestri per un valore complessivo dei beni pari a 3,8 milioni di euro, e 3.644 confische per 3,7 milioni di euro. In aumento gli enti locali posti sotto gestione commissariale per infiltrazioni della criminalità organizzata: sono stati in tutto 37, tra scioglimenti (16) e proroghe (28), rispetto ai 34 del periodo precedente, mentre sono stati 30 gli accessi ispettivi antimafia nei Comuni, 18 dei quali attualmente in corso, per un aumento del 15,4%. Un paese sempre più sicuro, ma non in famiglia e per le donne di Giorgio Beretta Il Manifesto, 17 agosto 2019 Il dossier del Viminale. Nel 2018 il 64,6% di omicidi familiari commessi da chi aveva un regolare porto d’armi. Un Paese sempre più sicuro, ma non negli spazi della vita quotidiana. Che, anzi, manifestano una crescente pericolosità, soprattutto per le donne. È quanto emerge dal Dossier Viminale presentato a Castel Volturno (Caserta) in occasione della tradizionale riunione di Ferragosto del Comitato nazionale per l’ordine e la sicurezza pubblica presieduto dal ministro dell’Interno, Salvini. Nell’ultimo anno sono calate le rapine (-16,2%), i furti (-11,2%) e le truffe (-2,1%, tranne quelle con vittime ultrasessantacinquenni (+1,2%). Ma soprattutto sono calati gli omicidi (-14%): i 307 omicidi volontari commessi tra agosto 2018 e luglio 2019 costituiscono il numero più basso mai registrato dagli anni Cinquanta. Sono diminuiti, ma di poco (-4%), anche gli omicidi nella sfera familiare e affettiva: ma proprio questo sta diventando l’ambito di maggior pericolosità per la vita delle persone. I dati del Viminale mostrano, infatti, che oggi quasi la metà degli omicidi in Italia sono commessi nel contesto familiare-affettivo: 145 su un totale di 307. Mentre calano gli omicidi compiuti dalla criminalità comune e della criminalità organizzata (25 nell’ultimo anno) rimangono, invece, pressoché invariati proprio quelli in ambito familiare: e di questi, la maggior parte (il 63,4%, cioè 92) ha visto come vittime le donne. Che la famiglia sia sempre più pericolosa per le donne è confermato da un altro dato del dossier: gli ammonimenti dei Questori per violenza domestica sono più che raddoppiati nell’ultimo anno, passando da 666 a 1.172 (+76%), ma il numero degli allontanamenti è stato pressoché identico. Sono diminuite, invece, le denunce per stalking presentate, in tre casi su quattro da donne: sono state 12.733, il 13% in meno rispetto all’anno precedente. Questi dati mostrano, innanzitutto, che il fenomeno dell’immigrazione non ha comportato un aumento generale degli omicidi in Italia, che sono in costante calo dagli anni Novanta. Inoltre evidenziano che, mentre gli omicidi della criminalità, mafiosa e comune, si possono ridurre con adeguate misure di prevenzione e controllo è molto più difficile ridurre la piaga degli omicidi familiari e in ambito affettivo: questi dipendono soprattutto da una cultura patriarcale che vede la donna e i figli come una proprietà. È necessario pertanto contrastare questa cultura. Ma non basta. C’è infatti un dato che emerge dal rapporto Omicidi in Italia pubblicato dall’Istituto di Ricerche Economiche e Sociali Eures. Negli omicidi familiari gli strumenti più utilizzati non sono quelli più a portata di mano (coltelli, armi improprie, lacci…), ma le armi da fuoco. Ammontano, infatti, a 1.139 le vittime degli omicidi in famiglia uccise con un’arma da fuoco tra il 2000 e il 2018 (il 32,2% del totale), mentre sono 1.118 gli omicidi familiari commessi con armi da taglio (il 31,6%) e in minor numero con armi improprie o percosse. Ma c’è di più. Eures segnala che nel 2018 in almeno 42 casi (il 64,6%) negli omicidi familiari l’assassino risultava in possesso di un regolare porto d’armi, di cui in 10 casi per motivi di lavoro. Il dato è compatibile con le informazioni presenti nel database dell’Osservatorio Opal che nel 2018 riporta 52 casi di omicidi, anche extra-familiari, compiuti con armi legalmente detenute. Ciò significa che oggi le armi da fuoco legalmente detenute nelle case degli italiani ammazzano di più della mafia. È il dato di un solo anno, ma non va sottovalutato. “Avere un’arma in casa rappresenta una formidabile tentazione di usarla e molti assassini sono in possesso di regolare licenza”, evidenziava il rapporto Censis sulla sicurezza. Un avvertimento di cui il Viminale farebbe bene a tener conto restringendo le maglie sulle licenze per armi ed introducendo maggiori controlli. Bambini vittime di reato: ecco il modello islandese di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 17 agosto 2019 Il 12 settembre si presenterà il documento elaborato nel progetto europeo E-Protect. Il 12 settembre verrà presentato il documento metodologico, elaborato nell’ambito del progetto europeo E-Protect, in collaborazione con il Dipartimento della giustizia minorile. Il progetto volto a qualificare la valutazione individuale dei minorenni vittime di reato prevista dalla Direttiva 29/ 2012 ai fini di assicurare che il superiore interesse di ogni minorenne sia considerato in maniera preminente in tutti i procedimenti che lo riguardano. Alla presentazione, seguirà una tavola rotonda di scambio e indirizzo a cui parteciperanno alcuni attori chiave che hanno preso parte al percorso progettuale. Il progetto, co-finanziato dalla Commissione Europea, E-Protect, avviato nel mese di settembre 2017, ha fatto propria tale direttiva e sviluppato tutta una serie di azioni con l’obiettivo di qualificare il supporto che ricevono i minorenni vittime di reato in Europa. Attraverso il potenziamento delle capacità dei professionisti e degli operatori che lavorano nell’ambito della protezione dei minorenni, tale progetto si è posto l’obiettivo di rafforzare un approccio multidisciplinare fondato sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza, che ribadisca la centralità del superiore interesse del minorenne. A questo scopo, il progetto ha promosso lo scambio di esperienze, il trasferimento di conoscenze e la creazione di un network transnazionale. E-Protect ha, inoltre, cercato di contribuire a potenziare il diritto dei minorenni ad essere ascoltati, il diritto all’informazione, il diritto alla protezione e alla privacy e il diritto alla non discriminazione. Il progetto ha visto la partecipazione di 5 organizzazioni di 5 Stati Membri - Bulgaria, Austria, Italia, Grecia e Romania. In Italia il progetto è stato sviluppato e implementato da Defence for Children International Italia in collaborazione con il Dipartimento per la Giustizia Minorile e di Comunità del ministero della Giustizia. La collaborazione fra le diverse organizzazioni è nata dalla volontà di contribuire a promuovere la Direttiva 2012/ 29 Ue (la cosiddetta “Direttiva Vittime”) da una prospettiva basata sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza secondo una logica fondata sul diritto che invita a predisporre le condizioni affinché la presa in carico dei minorenni vittime di violenza, abuso o altro reato sia volta a ristabilire una situazione di normalità caratterizzata dal rispetto di tutti i loro bisogni e diritti, e riconosca in modo olistico la centralità della persona di minore età. Ma il modello principale che viene esposto - e promosso dal Consiglio d’Europa per affrontare gli abusi sessuali su minori - è quello islandese. Si chiama Barnahus (Children’s House) ed è stato istituito in Islanda nel 1998. Porta sotto lo stesso tetto tutti i professionisti rilevanti (il giudice, il pubblico ministero, la polizia, gli assistenti sociali e professionisti medici come psicologi, medici legali) per ottenere dai minori coinvolti le informazioni necessarie allo svolgimento di indagini e procedimenti giudiziari, nonché per aiutarli prevenendo la ritraumatizzazione e fornendo sostegno, tra cui assistenza medica e terapeutica. Il Consiglio d’Europa ha promosso per molti anni il modello Barnahus come una buona pratica di creazione di servizi multidisciplinari a misura di bambino. L’efficacia del modello Barnahus è stata confermata dall’organo di esperti del Consiglio d’Europa sulla prevenzione dell’abuso sessuale e dello sfruttamento sessuale dei bambini, il Comitato di Lanzarote. In Italia, Defence for Children Italia, mediante il progetto europeo E- Protect e la metodologia elaborata ha dunque voluto proporre una riflessione condivisa su come avvicinare la realtà italiana a un modello di questo tipo, integrato, multidisciplinare e inter- agenzia che metta al centro la persona minorenne. Non garantita la dignità dei detenuti, l’estradizione in Polonia non si fa Il Gazzettino, 17 agosto 2019 La Corte scarcera un imprenditore accusato di rapina. Era appena arrivato a Venezia per trascorrere un breve periodo di vacanza, quando è stato arrestato dalla polizia in esecuzione di un mandato di arresto europeo emesso dalle autorità polacche, secondo le quali si sarebbe reso responsabile dei reati di rapina e furto con scasso. Un imprenditore polacco di 49 anni, Jacek Szezepan Lewandoski, è rimasto detenuto in Italia per quasi due mesi, prima in carcere e poi agli arresti domiciliari, fino a quando, la vigilia di Ferragosto, la Corte d’appello di Venezia, presieduta da Aldo Giancotti (a latere Vincenzo Santoro e Vincenzo Sgubbi) ha respinto la richiesta di consegna dell’indagato, presentata dalla Polonia, ritenendo che l’autorità giudiziaria di quel Paese non abbia fornito garanzie sufficienti in relazione al rispetto di quanto stabilito dalla Convenzione europea dei diritto dell’uomo, e in particolare che l’uomo non avrebbe subito un trattamento carcerario degradante. Rispondendo alla richiesta formulata dai giudici veneziani, l’autorità polacca non è stata in grado di indicare il penitenziario nel quale l’imprenditore sarebbe stato ristretto né di assicurare che gli sarebbe stata assegnata una cella di almeno tre metri quadrati (esclusi i servizi igienici) compre previsto dalle norme europee. La Corte d’appello ha quindi revocato la misura cautelare e rimesso in libertà Lewandoski, come richiesto dal suo difensore, l’avvocato Giorgio Pietramala. Il quarantanovenne da anni è residente a Londra dove gestisce un’azienda e, dopo l’arresto, ha negato con determinazione di avere qualcosa a che fare con gli episodi finiti sotto accusa. Davanti ai giudici veneziani ha anche sostenuto di essere stato in passato minacciato da un poliziotto polacco. Gli episodi per i quali è finito sotto accusa risalgono al 2003, ma sono venuti alla luce soltanto nel 2012, dopo l’arresto e il pentimento di un altro soggetto e da allora le autorità polacche non sono mai riuscite a processare Lewandoski poiché non ha fatto più rientro in patria. Trieste: morto a 21 anni in cella, mistero al Coroneo Il Piccolo, 17 agosto 2019 Deceduto un detenuto iracheno. Scartata l’ipotesi del suicidio. Non ci sono segni di violenza sul corpo. Aperta un’indagine. Morto nel sonno, da solo, in una cella del Coroneo. Ventun anni, iracheno, in Italia da pochi mesi, richiedente asilo. Nessun segno di violenza apparente sul corpo. Nulla che al momento possa spiegare, nemmeno minimamente, il perché di una fine del genere. È un mistero il decesso del giovane straniero trovato senza vita martedì mattina in carcere, sembra da altri detenuti. Il cuore avrebbe smesso di battere la sera prima. Il ventunenne, già inserito nel sistema di accoglienza Ics, era in carcere a causa di un’effrazione di una vetrina in piazza Oberdan. Era una persona “agitata”, così viene definita da chi l’ha conosciuta. Sembra trattato con tranquillanti. Il pm Massimo De Bortoli ha aperto un’indagine. Con molta probabilità nelle prossime settimane ordinerà l’autopsia, proprio per capire la causa della tragedia. Andrà quindi accertato se il ventunenne ha assunto farmaci (è un’ipotesi), di quale tipo e le modalità di somministrazione. Ma, soprattutto, se aveva problemi di salute. Nel caso, erano noti? Se sì, il ragazzo è stato sottoposto a tutte le visite mediche? E ancora: ci sono state valutazioni adeguate sulla compatibilità con la detenzione? Interrogativi a cui il magistrato titolare del fascicolo punterà a dare una risposta. Quella di un possibile abuso di farmaci è soltanto una voce, per quanto insistente, circolata nelle ultime ore. Circostanza, questa, che se fosse avvalorata, aprirebbe una serie di domande sui livelli di controllo al Coroneo (correlati anche al problema della carenza di personale) e sullo scambio di medicinali tra detenuti. La notizia dell’episodio è trapelata a Ferragosto, dopo un sopralluogo al Coroneo organizzato da una delegazione della Camera Penale di Trieste: gli avvocati Alessandro Giadrossi (presidente) con i colleghi Paola Bosari e Marco Fazzini. I legali hanno constatato il sovraffollamento della struttura “pari a circa il 25% in più rispetto a quello previsto - si legge in un comunicato della Camera penale - che rende ancor più gravosa la condizione dei detenuti, specialmente nelle giornate più calde, non essendo dotate le aree di detenzione di nessun sistema, nemmeno quelli più elementari, di raffrescamento, e le aree di passeggio di strutture di ombreggiamento”. La stessa Camera segnala la “preoccupante condizione di vari detenuti affetti da disagio psichico e posti in celle di isolamento, in assenza di un’assistenza di personale infermieristico specializzato. Un’area nella quale vi è stato il decesso di un detenuto iracheno”. Ma lo straniero non è morto in un’area di isolamento, chiarisce il direttore del Coroneo Ottavio Casarano, bensì in una cella singola. Un cugino di secondo grado della vittima ieri è stato accompagnato in obitorio per il riconoscimento della salma. La Garante comunale per i diritti dei detenuti Elisabetta Burla è informata della vicenda. Napoli: Poggioreale, il caldo di Ferragosto rende la vita ancora più difficile di Valentina Stella Il Dubbio, 17 agosto 2019 Le condizioni dell’istituto napoletano segnalate dopo la visita effettuata il 15 agosto. Riccardo Polidoro, responsabile dell’Osservatorio carcere dell’Ucpi: “se il ministro dell’interno fosse venuto avrebbe potuto constatare come si marcisce in cella”. Si conclude domani l’iniziativa “Ferragosto in carcere”, promossa dal Partito Radicale con l’Osservatorio Carcere dell’Unione Camere Penali: dal 15 al 18 agosto 70 i luoghi di detenzione visitati da 278 tra dirigenti e militanti del Partito, avvocati dell’Ucpi, parlamentari, Garanti delle persone private delle libertà personali. La situazione in molte carceri risulta notevolmente critica e ciò spinge, giorno dopo giorno, i detenuti, ma anche i detenenti, ad assumere condotte a volte disperate. In particolare c’è da segnalare la condizione della Casa Circondariale di Poggioreale a Napoli dove il 15 agosto si sono recati gli avvocati Riccardo Polidoro, Responsabile nazionale dell’Osservatorio Carcere dell’Ucpi, Sergio Schlitzer della Camera Penale di Napoli, Elena Lepre, dell’associazione “Il carcere possibile onlus”. La direttrice Maria Luisa Palma li ha guidati nei vari padiglioni e al termine dell’ispezione l’avvocato Polidoro ha stilato una relazione dalla quale si evince che “rispetto all’ultima visita qualcosa è stato fatto, ma moltissimo resta da fare. C’è un’impressionante disparità di condizioni igienico sanitarie tra un padiglione e un altro, mentre in tutti si soffre un insopportabile caldo, in alcuni casi mitigato da un ventilatore donato da un’associazione. Ventilatore che rappresenta per i detenuti che non ne usufruiscono un’ennesima ingiustizia. C’è da chiedersi com’è possibile che l’amministrazione penitenziaria non affronti una spesa irrisoria in una situazione di emergenza come quella che stiamo vivendo in questi giorni”. Vi sono stanze che hanno il bagno con la doccia, ma anche stanze con 9 detenuti, “con mura umide e intonaco fatiscente - prosegue Polidoro - bagni vergognosi comunicanti con il vano dove si prepara il cibo ed in alcuni casi addirittura a vista. Le docce comuni sono in uno stato pietoso”. Conclude il penalista: “Era stata annunciata la visita del ministro dell’Interno, che poi è stata annullata. Peccato, il sig. Salvini avrebbe potuto constatare come si marcisce in cella, secondo i suoi desideri in violazione della Costituzione”. E secondo i numeri riassunti in una nota dell’Osservatorio Carcere: “nel 2018 vi sono stati 148 detenuti morti, tra cui 67 suicidi. Al 7 agosto 2019, i morti sono 81 ed i suicidi 30. Un decesso ogni tre giorni. I dati del ministero di Giustizia relativi ai detenuti presenti nelle carceri italiane al 31 luglio 2019 sono impietosi: a fronte di una capienza regolamentare di 50.480 sono presenti 60.254 detenuti di cui ben 18.518 in custodia cautelare. Il dato della capienza regolamentare peraltro deve essere ulteriormente ridimensionato per via delle celle attualmente indisponibili per manutenzione che riduce di ulteriori 4.600 unità la detta capienza. In generale il trend di crescita è di circa 2.000 detenuti all’anno, incremento oramai costante e ciò dimostra ancora una volta che il fenomeno del sovraffollamento carcerario nel nostro Paese è strutturale e sistemico”. Il sovraffollamento non è il solo “morbo” che affligge le carceri italiane: “nel 35,3% non c’è acqua calda - prosegue il comunicato - il 7,1% non dispone di un riscaldamento funzionante, nel 20% non ci sono spazi per permettere ai detenuti di lavorare (dove ci sono, lavorare è un privilegio di pochi) e nel 27,1% non ci sono aree verdi per i colloqui coi familiari”. Palermo: visita all’Ucciardone del Partito Radicale e delle Camere Penali italiane di Maria Brucale Ristretti Orizzonti, 17 agosto 2019 Delegazione composta da: Donatella Corleo, coordinatrice, Gianmarco Ciccarelli, Chiara Mulé, Marco Traina, Avvocato, Giuseppe Arnone, tutti del Partito Radicale, Silvia de Pasquale, coordinamento associazione Capone di Bologna, Maria Brucale, Avvocato, responsabile commissione carcere Camera Penale di Roma. Il carcere Ucciardone ha un bellissimo edificio storico e si colloca nel cuore di Palermo, non in periferia, in una zona distante dall’abitato, ma al centro della città, a significare che il carcere è parte della società, non qualcosa di altro e di lontano ma un segmento del tessuto sociale. È una casa di reclusione che ospita, dunque, persone condannate in via definitiva (solo dieci con posizioni miste di ricorrenti e definitivi) distribuite nei diversi circuiti detentivi tra i quali il più restrittivo è quello di ‘media sicurezza’. La delegazione è accolta con viva cordialità dalla Direttrice vicaria, Dott.ssa Carmen Rosselli che fornisce i dati di interesse e accompagna i visitatori all’interno dell’istituto. i reclusi sono 395, tra i quali 24 giovani adulti e circa 72 stranieri. Il tasso del sovraffollamento è decisamente sottodimensionato rispetto a tante altre realtà carcerarie ed appare rilevante solo per i ristretti nella Sezione IX. Si tratta di una sezione estremamente disagiata all’interno della quale i detenuti vivono in condizioni igieniche drammatiche, in spazi ristretti e fatiscenti, con muri cadenti e fradici. I bagni non sono provvisti di doccia, le tubature sono spesso rotte, l’ambiente è promiscuo e il solo lavello in uso serve a tutte le esigenze di vita, alla cucina, alla pulizia delle stoviglie, all’ igiene personale. Anche le docce comuni sono usurate e logore. Per gli ospiti della IX, è possibile uscire dalla cella solo per quattro ore al giorno, due la mattina e due il pomeriggio, per accedere a un passeggio decisamente insufficiente, di circa 15 metri quadri, con il cielo grigliato che non consente sostanzialmente l’esercizio di alcuna attività fisica. Le persone ristrette segnalano la presenza massiccia di scarafaggi e zanzare e la assenza di fornitura da parte dell’amministrazione di prodotti disinfettanti per gli ambienti. La IX sezione è, comunque, destinata in tempi rapidi alla chiusura in attesa dell’apertura di una sezione, la VI, in via di completa ristrutturazione. Due giovani, un tunisino e un siriano, lamentano una condizione di isolamento. Le loro famiglie sono lontane, hanno chiesto da circa venti giorni la scheda per chiamare a casa ma ancora, per lungaggini burocratiche e attese di riscontri dai rispettivi consolati, aspettano. Grahmi, tunisino, è detenuto da dieci anni e non ha mai avuto un colloquio visivo né telefonico con nessuno dei suoi familiari, gli occhi grandi di un bambino e una tristezza inconsolabile addosso. Non ricorda bene il cognome dei suoi, l’indirizzo, non sa scriverli. Il carcere dell’Ucciardone non ha mediatori culturali, una carenza grave per le tante persone che non conoscono la nostra lingua e le nostre leggi e vivono da ostaggi un sistema all’interno del quale non sono in grado di fare valere i loro diritti. Il carcere ammette la comunicazione via Skype sostitutiva del colloquio con i propri congiunti, per tutti i ristretti senza alcuna preclusione o condizione soggettiva. I familiari devono previamente essere identificati attraverso un documento valido di identità e vengono poi riconosciuti prima che inizi il colloquio che avviene, comunque, con il controllo degli agenti di polizia penitenziaria che possono, in ogni momento, interromperlo in caso di irregolarità o violazione delle regole imposte. I detenuti stranieri con cui parliamo dicono di non conoscere tale opportunità, indice, anche questo, di un difetto di comunicazione con l’ambiente che li circonda che sarebbe alleviato dalla presenza di mediatori culturali. Le altre sezioni sono dotate di doccia in cella (anche se l’acqua calda è un lusso spesso non disponibile), di spazi destinati alla socialità, di aree passeggio più decorose dotate di una bocca d’acqua e di un nebulizzatore. Sono soltanto per ii malati i quattro bidet esistenti. Ci viene fatto notare che nessun carcere dota le proprie stanze di bidet. E forse si dovrebbe partire da cose in apparenza piccole e chiedersi: perché a una persona privata della libertà è precluso l’utilizzo del bidet? Le attività dell’istituto sono molteplici, quelle lavorative vengono offerte ai ristretti attraverso sistemi di turnazione e sono quasi interamente offerte dall’amministrazione penitenziaria. Ci sono corsi di studio e di formazione e, sebbene il carcere non sia Polo universitario, garantisce a chi lo richieda un collegamento con le facoltà di interesse. All’interno della casa di reclusione c’è un pastificio che produce pasta artigianale venduta all’esterno con il proprio marchio ”Ucciardone”, un vero fiore all’occhiello. La struttura ospita diverse persone con patologie psichiatriche. Il dramma della malattia in ambito detentivo senza adeguati supporti terapeutici si sovrappone alla oggettiva difficoltà del personale di polizia penitenziaria di gestire situazioni di pericolo di atti auto ed etero lesivi. Proprio per aiutare tali soggetti particolarmente vulnerabili, il carcere ha avviato un progetto denominato “Pandora” a loro prevalentemente indirizzato, che prevede corsi di lettura, laboratori di stucchi, giardinaggio. Per la gestione dei malati psichiatrici particolarmente problematici è previsto il sostegno di un peer supporter. L’area del supporto psicologico si compone di tre medici deputati al trattamento, due alla tutela della salute mentale, due per i disagi scaturenti dalla tossicodipendenza. Non ci sono detenute trans, un ristretto lamenta una condizione di sofferenza e di emarginazione derivata dalla sua palesata omosessualità. Alcuni reclusi lamentano disfunzioni dell’area sanitaria che non provvederebbe in tempi ragionevoli, in relazione alla gravità delle patologie sofferte, a fare sottoporre i reclusi alle cure ed ai controlli necessari. L’area educativa è funzionante e dotata di personale numericamente adeguato (12 unità). L’osservazione è avviata già all’ingresso in istituto e la c.d. sintesi viene aggiornata, in raccordo con l’Uepe, una volta l’anno, salvo che sussistano specifiche esigenze di urgenza in ragione delle quali l’aggiornamento viene anticipato. Gli spazi per i colloqui sono gradevoli e colorati. Le postazioni non sono separate da vetro a mezza altezza e all’interno di ognuna vi sono giochi destinati a rendere meno drammatico per i bambini l’impatto con la privazione della libertà del loro caro. C’è un’area giochi piccola ma curata e allegra. L’area verde è in un quadrato di prato circondato da alberi e offre uno spazio di vista libera che consente di vivere l’incontro con i propri congiunti in un’atmosfera non reclusa. Il personale penitenziario è numericamente insufficiente e patisce, insieme alla popolazione ristretta, le inefficienze del sistema scontrandosi con la necessità di garantire al contempo sicurezza e qualità trattamentale e, anche, quando necessario, scorte ed assistenza alle traduzioni dei ristretti in udienza e delle persone malate nei luoghi di cura. *Avvocato Palermo: “struttura antica e inadeguata”, i Radicali chiedono la chiusura dell’Ucciardone palermotoday.it, 17 agosto 2019 Sopralluogo di una delegazione del partito nell’ambito dell’iniziativa “Ferragosto in carcere”, promossa con l’Unione delle Camere penali: “Potrebbe ospitare non più di 200 persone, d’inverno è gelata e d’estate bollente”. “L’Ucciardone va chiuso, è una struttura antica, un bene monumentale che non è adatto ad accogliere neppure gli ospiti previsti dalla pianta organica”. A dirlo all’Adnkronos è Donatella Corleo del Partito Radicale, in città per un sopralluogo nell’istituto programmato nell’ambito dell’iniziativa “Ferragosto in carcere”, promossa dal partito con l’Osservatorio carcere dell’Unione delle Camere penali e che vede impegnati in tutta Italia 278 tra dirigenti e militanti, avvocati, parlamentari, garanti delle persone private delle libertà professionali. Settanta i luoghi di detenzione oggetto di sopralluoghi sino a domenica 18 agosto. Una tesi, quella della chiusura, sposata già “30 anni fa” da Marco Pannella. “È vero che negli anni sono stati fatti investimenti economici importanti - dice ancora Corleo - ma si tratta di una struttura monumentale stupenda che resta inadeguata e andrebbe utilizzata per altro”. L’ultima visita nel carcere borbonico dei Radicali risale allo scorso maggio. “I problemi sono quelli comuni a molti carceri italiani - aggiunge -: il sovraffollamento, la mancanza di possibilità di lavoro e di mediatori culturali e un tasso di malati psichiatrici elevato, che durante l’ultimo nostro sopralluogo erano in isolamento diurno. Rita Bernardini ha fatto anche una segnalazione al Dap, ma i problemi della sanità penitenziaria sono enormi, qui come altrove”. Criticità che per l’esponente politica non possono essere attribuite ai vertici del carcere che “fanno un lavoro straordinario”, ma alla struttura in sé. “Potrebbe ospitare non più di 200 persone, d’inverno è gelata e d’estate bollente”. Secondo Corleo “Le criticità delle carceri sono legate alla mancanza di una riforma del sistema giustizia e dell’ordinamento penitenziario, che certo non sono la panacea di tutti i mali ma potrebbero aiutare. Invece nessuno dei Governi né di destra né di sinistra pongono al tema la giusta attenzione. Il motivo? È un tema che non porta consensi elettorali evidentemente”. Catania: i Radicali a Piazza Lanza “serve riforma dell’ordinamento penitenziario” cataniatoday.it, 17 agosto 2019 Ieri tappa a Catania al carcere di Piazza Lanza, come ogni Ferragosto da diversi anni a questa parte. “Le criticità delle carceri sono legate alla mancanza di una riforma del sistema giustizia e dell’ordinamento penitenziario, che certo non sono la panacea di tutti i mali ma potrebbero aiutare. Invece nessuno dei Governi né di destra né di sinistra pongono al tema la giusta attenzione. Il motivo? È un tema che non porta consensi elettorali evidentemente”. A dirlo è Donatella Corleo dei Radicali che oggi insieme a una delegazione del partito ha visitato il carcere Ucciardone di Palermo. Un’iniziativa dal titolo “Ferragosto in carcere”, promossa con l’Osservatorio carcere dell’Unione delle Camere penali e che vede impegnati in tutta Italia 278 tra dirigenti e militanti, avvocati, parlamentari, garanti delle persone private delle libertà professionali. Settanta i luoghi di detenzione oggetto di sopralluoghi sino a domenica 18 agosto. Ieri tappa a Catania al carcere di Piazza Lanza, oggi al Pagliarelli con Rita Bernardini, presidente di Nessuno Tocchi Caino e membro del Consiglio generale del Partito Radicale. “Anche il Governo gialloverde non ha fatto nulla - ha aggiunto Corleo. Il ministro Bonafede aveva annunciato la costruzione di nuovi istituti, ma non c’è traccia neppure di un progetto”. Al contrario dall’amministrazione del Dap “abbiamo ricevuto grande attenzione, anche nell’organizzazione di queste visite. In questo possiamo dire che abbiamo registrato un decisivo passo avanti”. Avellino: carceri al collasso, la Camera Penale al fianco dei detenuti ottopagine.it, 17 agosto 2019 Oggi in visita all’Istituto di Bellizzi e l’Icam di Lauro, domenica ad Ariano. La condizione carceraria in Italia è ormai emergenziale. Nel 2018 vi sono stati 148 detenuti morti, tra cui 67 suicidi. Al 7 agosto 2019, i morti sono 81 ed i suicidi 30. Un decesso ogni tre giorni. I dati del Ministero di Giustizia relativi ai detenuti presenti nelle carceri italiane al 31 luglio 2019 sono impietosi: a fronte di una capienza regolamentare di 50.480 sono presenti 60.254 detenuti di cui ben 18.518 in custodia cautelare. Il sovraffollamento, che pure di per sé integra una violazione dell’ art.3 della Cedu, rappresenta soltanto uno dei fattori di crisi: nel 35,3% delle carceri italiane non c’è acqua calda, il 7,1% non dispone di un riscaldamento funzionante, nel 20% non ci sono spazi per permettere ai detenuti di lavorare (dove ci sono, lavorare è un privilegio di pochi) e nel 27,1% non ci sono aree verdi per i colloqui coi familiari; nella stragrande maggioranza delle carceri italiane non può svolgersi alcun trattamento, per la mancanza degli educatori carcerari e di risorse umane dedicate. In relazione a tale drammatica situazione l’attuale governo ha definitivamente affossato la riforma dell’ordinamento penitenziario, non approvando l’eliminazione delle preclusioni e degli automatismi per accedere alle misure alternative alla detenzione, che pure sono previste dalla nostra Carta Costituzionale. Rispetto al sovraffollamento carcerario, la strategia governativa è fuori dalla realtà: da una parte vi è il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, che nega la sussistenza del fenomeno; dall’altra si punta sull’edilizia penitenziaria, in una visione carcerocentrica del tutto inattuale ed inattuabile. Per tali ragioni l’Unione delle Camere Penali Italiane, con il proprio Osservatorio Carcere, dopo aver proclamato la giornata di astensione dalle udienze il 9 luglio scorso, con un convegno nazionale a Napoli, ha deciso di aderire all’iniziativa “Ferragosto in carcere”, promossa dal Partito Radicale. Il “Ferragosto in Carcere” ha soprattutto il valore simbolico di evidenziare l’importanza che deve avere nell’agenda politica il tema della detenzione. L’iniziativa prevede la visita agli istituti di pena in uno dei giorni tra il 15(giovedì) e il 18 (domenica) di agosto. La Camera Penale Irpina visiterà la casa Circondariale di Bellizzi Irpino e l’Icam di Lauro il 17.08. ed il Carcere di Ariano Irpino il 18.08.2019.Alla visita prenderanno parte, oltre che il Presidente della Camera Penale Irpina Avv. Luigi Petrillo ed il Responsabile Regionale dell’ Osservatorio Carcere dell’ Unione Camere Penali, Avv. Giovanna Perna, il Garante provinciale delle persone private della libertà personale, Carlo Mele, ed i Consiglieri regionali Maurizio Petracca e Francesco Todisco. Cremona: in carcere ancora problemi e sovraffollamento cremonaoggi.it, 17 agosto 2019 451 detenuti contro i 393 che sarebbero previsti, con un sovraffollamento, quindi, di circa 60 unità: questa la situazione del carcere di Cremona, che in mattinata è stato meta di una visita dei Radicali insieme alla Camera Penale. “La situazione è di stallo: le problematiche sono sempre le stesse, addirittura in alcuni casi aggravate” spiega Gino Ruggeri dei Radicali. “Il sovraffollamento è uno di questi, così come il turnover: ogni anno circa 800 nuovi detenuti varcano le porte della casa circondariale”. Un’altra criticità è “la percentuale altissima di stranieri, che sono 295 (il 65% del totale)” continua Ruggeri. Senza contare i problemi di tipo sanitario: “Ci sono molti tossicodipendenti e malati psichiatrici, più di quanto la struttura sanitaria interna possa sostenere. Pazienti che sono dislocati in tutta la struttura insieme agli altri detenuti, con tutti i problemi che questo può comportare”. E ancora, c’è il problema del lavoro: “Molti detenuti vorrebbero lavorare o fare altre attività all’esterno ma sono pochissimi quelli che ci riescono, perché comunque le possibilità in questo senso sono scarse” continua Ruggeri. Ma c’è anche un aspetto positivo: “Da settembre si potranno fare colloqui coi familiari via Skype, e questo è senza dubbio un buon passo avanti”. Insomma, se il carcere di Cremona “non è certo il peggiore carcere d’Italia, ci lascia l’amaro in bocca il fatto che i problemi non vengono risolti. Soprattutto considerando che ospita tutti detenuti con condanne inferiori ai 5 anni, che quindi presto sono destinati a uscire e che non hanno alcun tipo di supporto”. Oristano: il Ferragosto tra i detenuti “una situazione drammatica” La Nuova Sardegna, 17 agosto 2019 Alle impressioni poco incoraggianti si affiancano i numeri e i dati di fatto che dicono che il carcere di Oristano gode di pessima salute. L’esito della visita dei rappresentanti dell’Unione delle Camere Penali nel giorno di Ferragosto è servito ai rappresentanti locali Rosaria Manconi, Anna Maria Uras, Franco Villa e Maria Teresa Pintus, assieme al garante per i detenuti Paolo Mocci e ai rappresentanti del Partito Radicale Matteo Angioli e Tania Felice, per evidenziare una situazione al limite della sostenibilità. In cinque ore di visita e incontro con ogni detenuto presente a Massama, gli aspetti su cui si è posto l’accento sono quelli dell’impossibilità di svolgere lavori - sono impegnati solo 56 detenuti su 270 per un mese all’anno - e dell’impossibilità di andare a scuola alla quale sono ammessi solo 70 detenuti. Sono ben 70 i malati psichiatrici e, così come tutti gli altri, trascorrono ben 22 ore al giorno all’interno della propria cella senza la possibilità di svolgere alcun tipo di attività. Prato: in carcere, poco personale e sovraffollamento notiziediprato.it, 17 agosto 2019 I Radicali: “Impossibile in queste condizioni rieducare il condannato”. Presente anche il consigliere comunale del Pd Lorenzo Tinagli che ha posto l’accento sulla mancanza di educatori. Il senatore La Pietra (FdI): “Ennesima iniziativa propagandistica”. La consueta visita di Ferragosto dei Radicali al carcere di Prato accende nuovamente i riflettori sulle condizioni dei detenuti, del personale in servizio e della struttura. A colpire la delegazione politica, che quest’anno ha visto anche la partecipazione del consigliere comunale del Pd, Lorenzo Tinagli, l’inadeguatezza degli agenti della polizia penitenziaria rispetto alla pianta organica prevista e rispetto al numero dei detenuti. “È una carenza - dichiara Matteo Giusti, tesoriere di Radicali Prato - che pesa in egual misura sui detenuti e sugli agenti impedendo, di fatto, di realizzare quello che si prefigge l’articolo 27 della Costituzione, ovvero che le pene debbano tendere alla rieducazione del condannato”. Tinagli pone l’accento sulla mancanza di educatori: “Il lavoro da fare riguarda innanzi tutto il reinserimento lavorativo - spiega il consigliere del Pd - riteniamo che uno sportello a disposizione di chi si trova nell’ultimo anno di detenzione potrebbe essere utile per fornire una concreta opportunità di recupero a chi lascia il carcere. Inoltre tra le criticità segnalate dagli agenti della Polizia Penitenziaria, così come purtroppo accade in altre zone d’Italia, c’è la carenza di educatori: psicologi e mediatori culturali sono infatti fondamentali per creare i presupposti necessari per dar vita a percorsi seri e integrati che non finiscano per gravare solamente sugli agenti stessi”. Di “ennesima iniziativa propagandistica” parla Patrizio La Pietra, senatore di Fratelli d’Italia. “Senza un intervento serio sulla situazione carceraria e sulle condizioni di lavoro di uomini e donne della polizia penitenziaria, la visita di Ferragosto nelle carceri rischia di essere fine a se stessa. C’è un incremento notevole e preoccupante degli eventi critici all’interno delle carceri: disordini e aggressioni puntualmente denunciati dai sindacati e dal Sappe in particolare”. La Pietra pone l’accento sulle condizioni di lavoro degli agenti e chiede un intervento che risponda a richieste ed esigenze ormai datate. “Basta slogan - ancora il senatore - occorre agire con determinazione per ristabilire le giuste priorità in un sistema carcerario imbevuto di demagogia che lede lo “stato di diritto” tanto invocato dalla sinistra salottiera e lede i lavoratori onesti. Occorre tornare alle urne per dare agli italiani un Governo coeso capace di risolvere una volta per tutte questo problema”. Ai problemi cronici evidenziati dai politici si aggiungono quelli denunciati alla nostra redazione da un gruppo di detenuti che attraverso una lettera non firmata ha ricordato le difficoltà di vivere ogni giorno in un carcere sovraffollato e sporco, caldissimo d’estate e freddissimo d’inverno, in cui anche sentirsi male diventa un problema di fronte a pochissimo personale in servizio. Confermata l’assenza di educatori e le difficoltà di seguire attività lavorative e di reinserimento. “Se le persone si tolgono la vita - scrivono - con pene minime c’è un perché. Non tutti sono fuori di testa ma qui dentro sono destinati a impazzire. Speriamo che la nostra richiesta di aiuto arrivi al ministro della giustizia. Il carcere sta per scoppiare e prima o poi accadrà qualcosa di brutto”. Venezia: visita di Pellicani (Pd) alle carceri “tanto sovraffollamento e pochi agenti” Il Gazzettino, 17 agosto 2019 Sovraffollamento, celle piccole, caldo torrido e pochi agenti penitenziari: sono le condizioni del carcere maschile di Santa Maria Maggiore. Mentre alla Giudecca - considerato un modello tra gli istituti femminili - si presenta il problema degli Icam, le strutture per accogliere le madri detenute. Al momento ospita una mamma con i suoi due figli di 4 e 5 anni. Problemi sollevati dal deputato Pd Nicola Pellicani che la giornata di Ferragosto l’ha passata in visita alle due carceri cittadine. “Ho voluto rendermi conto da vicino dei problemi dei detenuti e del personale della polizia penitenziaria - ha commentato Pellicani - Non va dimenticata la funzione rieducativa della pena”. A Santa Maria Maggiore, ci sono attualmente 230 detenuti, “in leggero calo rispetto all’inverno scorso - fa notare Pellicani - ma comunque un numero ben superiore rispetto ai 161 posti disponibili”. Alla Giudecca sono ospitate 81 detenute, di cui 34 straniere di diverse nazionalità possono lavorare grazie anche all’impegno del mondo cooperativo e delle associazioni in attività di reinserimento sociale. L’Icam della Giudecca è una struttura decorosa, il personale premuroso, ma i bimbi non possono vivere come detenuti. Come componente della Commissione Antimafia sto lavorando per mettere a disposizione alcuni dei beni confiscati alle mafie per la creazione di case famiglia per le detenute e i loro figli. Novara: l’onorevole Giacchetti (Pd) in visita al carcere newsnovara.it, 17 agosto 2019 Con lui l’esponente del Partito Radicale Roberto Casonato, il garante cittadino dei detenuti, don Dino Campiotti e l’avvocato Fabio Fazio del foro di Novara. Qualche problema di sovraffollamento, le difficoltà burocratiche e strutturali comuni a tutto il sistema penitenziario italiano, ma un importante sforzo nella direzione delle attività di risocializzazione per i detenuti. È questo in sintesi il bilancio della visita alla Casa Circondariale di Novara, compiuta nella giornata di ieri da una delegazione, composta da Roberto Giachetti, parlamentare del Partito democratico, da Roberto Casonato, esponente del Partito Radicale, dal garante cittadino dei detenuti, don Dino Campiotti, dall’avvocato Fabio Fazio del foro di Novara. L’iniziativa, promossa in tutta Italia dai radicali, aveva l’obiettivo di verificare le condizioni di detenzione della popolazione ristretta e sensibilizzare l’opinione pubblica sullo stato delle carceri italiane. La delegazione, spiega una nota della Camera Penale novarese, “da un lato, ha potuto constatare lo stato di sovraffollamento di alcune celle, dove vengono ospitate fino a 6 persone e la inadeguatezza del sistema penitenziario (edilizia obsoleta, regole farraginose, pastoie burocratiche) a fronte di esigenze di sicurezza e recupero sociale sempre nuove; ma, dall’altro, ha potuto anche apprezzare le tante attività di risocializzazione (biblioteca, corsi scolastici, palestra e campo sportivo, lavori di pubblica utilità) che l’Istituto di pena novarese offre per il riscatto dei detenuti, pur nella cronica carenza di personale e fondi”. Rovigo: il carcere si allarga, via al progetto di due palazzine per 240 detenuti di Alberto Lucchin Il Gazzettino, 17 agosto 2019 L’ampliamento del penitenziario porterà a 510 il numero di persone che sarà possibile accogliere. La casa circondariale di Rovigo si allargherà e arriverà a ospitare in caso di necessità fino a 510 detenuti. Alla attuale struttura, inaugurata tre anni fa lungo la Tangenziale Est, saranno affiancare due nuove palazzine, ciascuna in grado di contenere 120 detenuti, per le quali sono già state rilasciate le autorizzazioni edilizie. Così Rovigo, grazie anche all’arrivo da Treviso dell’istituto di pena minorile, diventerà una città penitenziaria. Ieri mattina la struttura carceraria è stata visitata dagli avvocati della Camera Penale rodigina, per valutarne l’utilità riabilitativa e l’efficacia detentiva. Si tratta dell’iniziativa nazionale Ferragosto in Carcere, organizzate dall’Osservatorio Carcere dell’Unione delle Camere Penali Italiane come segno di grande generosità ed impegno della comunità dei penalisti per una sempre più diffusa sensibilità per le strutture detentive. Una sorta di controllo qualità conclusosi con (quasi) il massimo dei voti, visto le lodi che ne hanno tessuto gli avvocati del foro rodigino: “È una struttura perfettamente all’altezza, dove per ogni cella i detenuti hanno a disposizione quattro metri quadrati e possono usufruire di diverse attività ricreative, come il teatro e i corsi di rieducazione. Abbiamo visto gli ambulatori medici, tra cui l’eccellente unità fisioterapica, aperta anche alle altre case circondariali, ed è tutto a norma. Abbiamo visto anche i reparti a regime aperto, ovvero quelli in cui le celle sono aperte per alcune ore del giorno e i detenuti possono muoversi” ha spiegato l’avvocato Federica Doni. Il collega avvocato Franco Fedozzi ha celebrato anche “l’estrema cortesia e disponibilità del personale di Polizia penitenziaria”. Proprio riguardo questo corpo, però, emerge l’unico problema del penitenziario rodigino: “Sono sotto organico spiega il sindacalista della Cgil Davide Benazzo perché lì dentro lavorano 120 agenti, incluso anche il personale amministrativo. Un po’ pochi considerati gli attuali 160 detenuti”. La preoccupazione del sindacato è che l’ampliamento del carcere porti a un peggioramento delle condizioni di pena per i detenuti e, soprattutto, di quelle lavorative degli agenti penitenziari, dovendo in futuro accogliere ulteriori persone con problemi psicologici. Attualmente, infatti, sono circa una decina i detenuti con problemi comportamentali o mentali, che dovrebbero essere custoditi in apposite strutture come il Rems (Residenza Sanitaria per l’Esecuzione delle Misure di Sicurezza) di Legnago: “Avere in tutto il Veneto un solo posto come quello in provincia di Verona è davvero poco, per cui ci troviamo dei carcerati psichiatrici per i quali noi non siamo attrezzati, oltre ad avere problemi di personale. Qui a Rovigo va totalmente rivista la dotazione organica, perché a regime dovrebbero esserci 123 agenti su un massimo attuale di 270 detenuti, ma con l’ampliamento previsto bisognerà capire come fare ad affrontare la situazione”. Il penitenziario, in questo periodo attraversato anche da pesanti problemi amministrativi visto che non è ancora stato individuato un direttore che guidi la struttura, ha recentemente assunto ben 29 nuovi agenti ma è un numero ancora insufficiente se si considera che, al di là del futuro ampliamento, a breve sarà aperto il terzo piano della struttura, riservato ai detenuti più pericolosi. Considerando che sono già partiti i lavori di adattamento del vecchio penitenziario di via Verdi per trasferirvi il carcere minorile di Treviso, Rovigo si appresta a diventare la seconda città veneta con più detenuti dopo Verona (a Montorio possono ospitare un massimo di 530 detenuti). A metà luglio, infatti, gli operai incaricati dal Ministero della Giustizia hanno cominciato la ristrutturazione del carcere chiuso nel 2015, facendo così definitivamente calare il sipario sul potenziale ampliamento del tribunale nelle vecchie celle del centro storico, soluzione a lungo caldeggiata da gran parte dei legali rodigini per scongiurare il trasloco delle aule di giustizia in una nuova sede fuori dal centro città. Firenze: il sindaco “Sollicciano va demolito e ricostruito”. Da Roma: “Fazioso” di Antonio Passanese Corriere Fiorentino, 17 agosto 2019 La visita di Ferragosto del sindaco. Il ministero: la sua attenzione dovrebbe essere costante. Dario Nardella lo ha ripetuto anche dopo la sua visita di Ferragosto: “Il carcere di Sollicciano è il peggiore d’Italia. Va abbattuto e ricostruito da zero”. Il sindaco di Firenze, come anticipato nei giorni scorsi, giovedì 15, è tornato a toccare con mano in quale situazione lavorano gli agenti della polizia penitenziaria e in che modo vivono i 700 detenuti. Sovraffollamento, condizioni igienico-sanitarie precarie, temperature sopra i 40° nelle celle, insicurezza e una struttura fatiscente, da cui continuamente si staccano calcinacci: ecco i problemi riscontrati da Nardella in circa quattro ore di sopralluogo nel reparto maschile. Il primo cittadino - che era accompagnato dall’assessore alla Sicurezza Andrea Vannucci, da Eros Cruccolini, dal presidente del Consiglio comunale Luca Milani e dal consigliere comunale Ubaldo Bocci - ha sottolineato ciò che aveva già detto alla vigilia del “tour ferragostano”: “Carceri in queste condizioni non servono né a rieducare né a riabilitare i detenuti, ce lo hanno detto i detenuti stessi che quando escono tornano a delinquere. A Sollicciano c’è una condizione sociale di estrema difficoltà, povertà, disperazione”. Il sindaco ha anche aggiunto che “la situazione a livello di personale è positiva, nel senso che gli agenti sono preparati e ultimamente è arrivato un contingente di giovani poliziotti, ma il problema è strutturale”. Massimo Lensi, presidente di progetto Firenze, però, bolla la proposta del sindaco (demolire e ricostruire) come “una classica uscita agostana, affascinante ma priva di concretezza. Visitiamo quel carcere ormai da quindici anni senza aver mai notato significativi cambiamenti”. Ma che Sollicciano sia “uno dei carceri peggiori d’Italia” lo aveva detto anche il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede al termine dei suoi due sopralluoghi (a dicembre 2018 e a gennaio 2019), sottolineando che “ormai è indifferibile l’avvio di consistenti lavori di manutenzione straordinaria”. Insomma, nel penitenziario di Scandicci, come racconta in un post su Facebook Antonella Bundu di Sinistra Progetto Comune, la situazione è difficile e preoccupante. La consigliera comunale di opposizione - che insieme agli attivisti radicali di Progetto Firenze, per 9 ore giovedì, ha passato in rassegna tutte le celle senza incrociarsi con il sindaco- attraverso flash e immagini parla di quei detenuti che non possono scrivere ai propri compagni o compagne perché per spedire le lettere ci vogliono i francobolli e “l’amministrazione penitenziaria non li dà per mancanza di fondi”. Bundu parla della donna che vorrebbe venisse ripristinata la scuola superiore, di quelli che vogliono lavorare ma non possono farlo e poi del dentifricio che manca e che “se non lo portano i volontari i detenuti continueranno a lavarsi i denti con il sapone”. Infine la consigliera racconta anche la storia della “medicina di Padre Pio”, come in carcere chiamano il Brufen, “che viene dato quando lamenti un dolore, come fosse un rimedio miracoloso per tutto, così raccontano in diversi, dal signore con la gotta a quello con un ascesso che chiede una visita medica da 2 mesi ma gli viene dato sempre e solo il Brufen”. E ieri anche il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria è intervenuto attraverso una nota del suo capo, Francesco Basentini: “Mi fa piacere che al sindaco di Firenze stia a cuore il carcere della sua città. Mi piacerebbe - spiega Basentini - tuttavia che l’attenzione per i “tanti agenti della polizia penitenziaria che lavorano in condizioni disumane e anche tanti detenuti che vivono come bestie” fosse massima e costante sempre e non secondo l’appartenenza politica del titolare del Ministero della Giustizia. È un carcere particolarmente difficile da mantenere a causa soprattutto di problemi nella sua concezione, sui quali stiamo intervenendo grazie ai fondi messi a disposizione da questo Governo”. Firenze: carcere di Sollicciano, il capo del Dap replica al sindaco di Firenze di Marco Belli gnewsonline.it, 17 agosto 2019 Con riferimento alle dichiarazioni rilasciate due giorni fa dal Sindaco di Firenze Dario Nardella a proposito della Casa Circondariale di Firenze Sollicciano, il Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria Francesco Basentini fa notare quanto segue: “Mi fa piacere che al sindaco di Firenze stia a cuore il carcere della sua città. Mi piacerebbe tuttavia che l’attenzione per i “tanti agenti della polizia penitenziaria che lavorano in condizioni disumane e anche tanti detenuti che vivono come bestie” fosse massima e costante sempre. E non secondo l’appartenenza politica del titolare del Ministero della Giustizia. Sollicciano è indubbiamente una struttura nata male: lo ha riconosciuto il ministro Alfonso Bonafede per primo in occasione della visita a sorpresa che fece in istituto nel dicembre scorso. È un carcere particolarmente difficile da mantenere, a causa soprattutto di problemi nella sua concezione, sui quali tuttavia l’Amministrazione sta intervenendo grazie ai fondi messi a disposizione da questo Governo”. “Abbiamo finalmente sbloccato nel giugno dello scorso anno - aggiunge Basentini - l’appalto per i lavori di manutenzione straordinaria delle coperture e delle facciate dei reparti detentivi, per la revisione delle sotto-centrali termiche e per la realizzazione delle dorsali degli impianti idrico-sanitari. Si tratta di un investimento importante, di circa due milioni e mezzo di euro. Proprio nei giorni scorsi il Consiglio di Stato ha respinto l’ultimo ricorso contro l’assegnazione dell’appalto e quindi dopo l’estate si partirà con la realizzazione di questo intervento che punta a consolidare le coperture e la loro coibentazione, migliorando la ventilazione all’interno della struttura. Un altro intervento è stato sbloccato grazie ai fondi dell’ex Piano-carceri: circa 1 milione di euro per la realizzazione di un capannone da mille metri quadrati che servirà ad ospitare le lavorazioni dei detenuti. Infine, grazie a un finanziamento di Cassa delle Ammende per la Mof (il servizio di Manutenzione Ordinaria Fabbricati, ndr) del carcere fiorentino, sono stati installati i piatti-doccia nelle celle di alcune sezioni. Se ne stanno occupando gli stessi detenuti lavoranti e presto saranno installati nelle sezioni rimanenti”. “Per ultimo - conclude il Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria - voglio ricordare che Cassa delle Ammende finanzierà, tra le varie iniziative, anche progettualità finalizzate alla realizzazione di attività formative e lavorative nel settore della dematerializzazione e della digitalizzazione dei documenti d’archivio. Il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria ha già individuato un primo elenco di istituti, presso i quali già sussistono idonei locali che potranno essere adibiti a laboratori di digitalizzazione dei documenti d’archivio e a depositi per la gestione logistica dei materiali e delle attrezzature necessarie. Questo permetterà di aumentare le opportunità di lavoro per la popolazione detenuta negli istituti dove sarà avviato il progetto. Fra cui, proprio Sollicciano”. Napoli: carcere di Poggioreale, arrivano i ventilatori per i detenuti di Ciro Cuozzo anteprima24.it, 17 agosto 2019 Napoli - Ventilatori per i detenuti del carcere di Poggioreale. Nel giorno di ferragosto una delegazione del Partito Radicale insieme all’associazione “Il carcere possibile onlus” ha visitato la sovraffollata casa circondariale napoletana per appurare le condizioni di degrado e disumanità in cui vivono i detenuti. Oggi, martedì 16 agosto, è l’attivista per i diritti dei detenuti a sottolineare la donazione di un centinaio di ventilatori distribuiti tra il padiglione San Paolo e il padiglione Roma. “A breve - spiega Ioia - si potranno comprarli anche sul prezzario della spesa”. Una donazione accolta con gioia dai familiari dei detenuti e da chi si batte per un carcere migliore e riabilitativo: “Finalmente uno spiraglio di umanità, meglio tardi che mai” commentano alcuni utenti. Altri invece sottolineano il ritardo con il quale sono stati messi a disposizione i ventilatori: “Dopo una estate da record, vengono messi a disposizione ora, dopo ferragosto, quando per mesi i detenuti hanno sofferto notte e giorno”. Esaustivo il commento di un ex detenuto, da poco tornato in libertà: “Dovevo andare via io per far arrivare i ventilatori. Mi stavano facendo soffocare dal caldo ma meglio tardi che mai. Mi fa piacere per gli amici ancora lì dentro”. Governo, l’appello del Terzo settore: “Il sociale non può più aspettare” di Paolo Foschini Corriere della Sera, 17 agosto 2019 Claudia Fiaschi, portavoce del Forum nazionale, e i tempi della crisi: “Non ci riguarda come finirà, ma milioni di persone attendono da oltre due anni l’attuazione della riforma e l’economia sociale è una priorità. Non blocchiamo il lavoro già fatto finora”. Appello dal Terzo settore ai naviganti del governo prossimo venturo, qualunque dovesse essere il governo e chiunque dovesse esserci al timone in autunno o quando sarà: “So che tutti i partiti ne sono già consapevoli ma proprio perché stiamo attraversando un momento delicato voglio ricordarlo a tutti lo stesso. Il Terzo settore attende da oltre due anni l’attuazione di una riforma già approvata e c’è un elenco di priorità sociali di cui tenere conto nella prossima legge di stabilità. Il nostro auspicio, mentre continuiamo a lavorare su questi fronti, è che lo stesso impegno venga mantenuto e portato avanti dai nostri interlocutori istituzionali futuri. Sia nel caso in cui continuino a essere quelli con cui abbiamo lavorato finora, sia in quello in cui dovessero essere altri”. Lo chiede Claudia Fiaschi, portavoce del Forum nazionale del Terzo settore. Preoccupati? “Come tutti, certo. Ma non per l’aspetto politico della crisi. Noi siamo il Terzo settore, non un partito. E i nostri interlocutori sono le istituzioni in quanto istituzioni, a tutti i livelli, a prescindere dalla persona o dal partito che in un certo periodo occupa quel posto. Per questo a preoccuparci è un altro aspetto, vale a dire da una parte il possibile ulteriore rallentamento di lavori connesso ai tempi di una crisi di governo e dall’altra la possibilità di dovere in futuro ripartire daccapo rispetto a discussioni già avviate da tempo su temi importanti non per noi ma, a nostro avviso, per tutto il Paese”. Cosa chiedete dunque nello specifico? “In primo luogo, più che chiedere, semplicemente ci teniamo a ricordare che per il Terzo settore - il che vuol dire per migliaia di associazioni, cooperative sociali, imprese sociali, nonché in concreto per milioni di persone che un servizio sociale lo svolgono e milioni di altre, molte di più, che quel servizio lo ricevono - è importante che l’attuazione della riforma approvata nel 2016 sia completata. Esiste una agenda che con questo governo era stata definita e vogliamo aspettarci che qualunque governo futuro la mantenga”. Il Terzo settore ultimamente non brilla per popolarità nei sondaggi, la sigla ong è terreno di scontro, c’è tutta una corrente per la quale “sociale” significa “buonismo” e chi “aiuta” andrebbe processato prima che sostenuto. Perché il Paese dovrebbe considerarla una priorità? “I sondaggi come è noto non sono sempre una fotografia della realtà. E la realtà, i fatti, dicono una cosa molto semplice e ormai universalmente riconosciuta: la vocazione sociale dell’economia è nell’agenda internazionale. La funzione sociale dell’economia rappresenta un interesse dell’Italia, non è l’atto generoso di un filantropo. I soggetti attivi e passivi che stanno aspettando l’applicazione completa della Riforma sono un pezzo consistente d’Italia, e quindi anche di economia italiana. E occuparsi di loro vuole dire occuparsi di un interesse dell’Italia. Di tutta l’Italia. Per questo, proprio perché si parta di “tutta” l’Italia, il secondo punto del nostro appello riguarda la legge di stabilità”. E qui però i partiti c’entrano. Sul come spendere i solti dello Stato le priorità non sono mica tanto condivise, o no? “Lei dice? I capitoli della legge di stabilità sono quelli che consentono di dettare una rotta su come allocare la spesa pubblica per far funzionare e possibilmente migliorare il Paese. Secondo noi alcune priorità sono evidenti. Una è invertire il declino demografico: il che significa destinare risorse a sostegno delle famiglie, dei giovani, dell’infanzia. Poi c’è il tema della non-autosufficienza, quella dei disabili e quella degli anziani: fronte su cui servino investimenti in termini quantitativi ma anche qualitativi. E in modo omogeneo, su tutto il territorio nazionale. Quindi ancora giovani, cultura, lavoro. E alla fine sono io a chiedere: davvero qualcuno non ritiene che questi siano temi prioritari? Io non credo. Penso piuttosto che il pericolo sia un altro. Cioè il fatto che una crisi, come ho detto, possa tradursi in tanto tempo di ulteriore attesa. Per un Paese il quale invece ha bisogno di risposte che non possono aspettare”. Quali sarebbero stati i prossimi appuntamenti in calendario? “Il primo, importantissimo, quello sulla cabina di regia condivisa fra Terzo settore e governo per l’attuazione della riforma. L’istituzione stessa della cabina di regia è stato un grande risultato raggiunto la scorsa primavera. Il primo incontro sarebbe stato previsto per settembre, dopo il consiglio nazionale del Terzo settore. Non so cosa succederà ora. Il mio augurio e la mia speranza, come già detto, è semplicemente che si possa riprendere a lavorare tutti presto. Ripeto: con chiunque ci sarà. Nell’interesse di tutti”. Migranti. L’Ue alza la voce: “sbarcate i migranti della Open Arms” Il Dubbio, 17 agosto 2019 “Situazione insostenibile”. L’Ue usa parole dure e commenta in questo modo la situazione della nave Open Arms, bloccata in mare da diversi giorni con oltre 140 migranti a bordo, e chiede “un immediato sbarco”. “La situazione in cui le persone sono bloccate in mare per giorni e settimane è insostenibile. Ricordiamo ancora una volta che servono soluzioni sostenibili nel Mediterraneo affinché quelle persone possano sbarcare in modo sicuro e veloce e che possano ricevere l’assistenza di cui hanno bisogno”, ha dichiarato la portavoce della Commissione, Vanessa Mock. “Non è la responsabilità di uno o di un paio di Stati membri ma di tutta l’Europa”, ha aggiunto. E non c’è dubbio che il destinatario della durissima nota europea sia il ministro dell’Interno Matteo Salvini il quale si ostina a perseguire la linea dell’intreansigenza. Questo nonostante l’opposizione del premier Conte e della ministra della Difesa Trena che mercolsì scorso ha inviato navi militari in soccorso dei naufraghi. Nel frattempo, dopo la decisione del Tar di sospendere la chiusura dei porti, due nuovi esposti sul caso Open Arms sono stati presentati oggi alla Procura di Agrigento. Il primo è stato presentato dai giuristi democratici in cui viene contestata la condotta del Prefetto di Agrigento Dario Caputo. In particolare i giuristi parlano di un “mancato rispetto dell’ordinanza del Tar del Lazio” sulla gestione dello sbarco dei migranti. L’altra denuncia è stata presentata dalla Ong spagnola “per ribadire - come spiegano all’Adnkronos - quanto già chiesto lo scorso 10 agosto, considerando il peggioramento delle condizioni sulla nave”. Secondo i legali della Open Arms non sarebbe stato dato seguito alla ordinanza del Tar del Lazio che ha consentito alla nave di entrare nelle acque territoriali per consentire il soccorso immediato delle persone bisognose. I legali chiedono di procedere per sequestro di persona, violenza privata e abuso in atti d’ufficio. E sulla vicenda interviene anche la sindaca di Barcellona: “La crudeltà a cui stiamo assistendo da 15 giorni non ha alcuna giustificazione possibile. Salvare vite non è solo un dovere morale, ma anche legale: la Ue deve obbligare Matteo Salvini a rispettare la legge. Tutto l’appoggio a Open Arms, sbarchiamoli”, scrive su twitter Ada Colau. Nel frattempo al situazione a bordo della nave è sempre più drammatica: “Tutte le persone rimaste a bordo necessitano di essere sbarcate con urgenza”, spiegano i volontari dopo la quindicesima notte passata con i migranti salvati nelle acque del Mediterraneo. “Dopo le ultime evacuazioni, sono rimasti in 134”, spiega all’Agi la portavoce dell’Ong, Veronica Alfonsi: giovedì in serata ne erano stati sbarcati 9 due minori con i rispettivi cugini, due coppie di marito e moglie e un altro adulto - per “cause psicologiche”; nella notte è toccato ad altri 4, tre bisognosi di “cure mediche specializzate” ed un accompagnatore. “La situazione ormai è critica - denuncia Alfonsi - ma più che un problema di condizione fisica è una questione di stress psicologico, divenuto insostenibile: con il passare delle ore mantenere la calma è sempre più difficile, anche perché le persone vedono la soluzione a portata di mano e non capiscono perché l’attesa debba prolungarsi ancora”. La pronuncia del Tar, che ha sospeso il divieto di ingresso in acque territoriali, sembrava aver rappresentato la svolta, ma una volta ottenuto un punto di fonda bisogna comunque aspettare l’autorizzazione ad entrare in porto a Lampedusa. E al momento, in mancanza di indicazioni dal Viminale (che ha annunciato ricorso urgente al Consiglio di Stato), la speranza è che sia la procura di Agrigento ad intervenire. E l’ultimo accorato appello arriva da David Sassoli, presidente del parlamento europeo: “Oggi la mia segreteria è entrata in contatto con il comandante della missione Open Arms che ci ha descritto condizioni al limite del sopportabile. La situazione è diventata drammatica”, riferisce Sassoli in una nota. “Gli immigrati - continua il presidente dell’Europarlamento sono bloccati sulla nave da 14 giorni a un chilometro dal porto di Lampedusa, cedendo ad atti di autolesionismo e perdendo la percezione della realtà. Le condizioni igieniche a bordo sono ormai precarie ed è necessario consentire immediatamente lo sbarco”. Il presidente del Parlamento europeo ha aggiunto: “Auspico che le autorità italiane capiscano la gravità e l’urgenza umanitaria a bordo della nave consentendo loro di entrare in porto oggi stesso”. Migranti. Sequestro di persona, la procura indaga. Open Arms in stallo di Alfredo Marsala Il Manifesto, 17 agosto 2019 La crisi è umanitaria. I magistrati di Agrigento indagano anche per violenza privata e abuso d’ufficio. Mentre Guardia Costiera e ministero dei Trasporti si smarcano dal Viminale: “Da noi nessun impedimento all’ong”. Due nuovi fronti si aprono sull’Open Arms, con i suoi 138 naufraghi ammassati come sardine da due settimane nello scafo della ong spagnola: uno riguarda l’aspetto giudiziario, l’altro quello medico. Dopo l’esposto degli avvocati della ong, la Procura di Agrigento guidata da Luigi Patronaggio ha aperto un fascicolo, al momento senza indagati, per sequestro di persona, violenza privata e abuso d’ufficio. Sul versante delle condizioni mediche, lo scontro è tra i medici del Cisom e di Emergency e il responsabile del Poliambulatorio di Lampedusa, Francesco Cascio, che ha dichiarato: “Le 13 persone sbarcate non avevano alcuna patologia”. Parole che spingono Matteo Salvini a definire “balle” l’emergenza medica. La decisione della procura è un “atto consequenziale” alla denuncia, dicono i pm che già indagano per favoreggiamento dell’immigrazione e che hanno anche ricevuto un altro esposto, quello dell’Associazione dei giuristi democratici contro il prefetto di Agrigento, Dario Caputo, per non aver dato seguito all’ordinanza del Tar con cui veniva chiesto di dare “immediata assistenza” alle persone più vulnerabili. La Procura dei Minori di Palermo ha invece nominato i tutori per i 31 minorenni ancora a bordo. Tutte mosse che almeno per il momento non sbloccano la situazione, visto che Salvini continua a non autorizzare l’approdo a Lampedusa, dopo aver fatto sbarcare 9 persone nella giornata di Ferragosto e 4 ieri, sempre per ragioni mediche. Il ministro dell’Interno ha rilanciato le accuse verso il premier Conte e gli ex alleati di governo Toninelli e Trenta, che non hanno controfirmato il nuovo divieto d’ingresso dopo l’ordinanza del Tar del Lazio. Da Toninelli arriva addirittura la sconfessione del collega al Viminale. Il Comando generale delle Capitanerie di porto e il ministero delle Infrastrutture in serata fanno sapere: “Non vi sono impedimenti all’attracco della nave nel porto di Lampedusa”. L’unico ostacolo, quindi, arriva dal ministero dell’Interno. Dal Viminale si cerca di resistere ripetendo che “non c’è alcun passo formale dai sei paesi europei” (Francia, Germania, Romania, Portogallo, Spagna e Lussemburgo) che secondo Conte hanno dato disponibilità ad accogliere i migranti dell’Open Arms. E poi annuncia di aver dato mandato all’Avvocatura dello Stato di impugnare la decisione del Tar del Lazio, che ha sospeso il divieto di ingresso nelle acque territoriali italiane. L’Avvocatura deve però avere il via libera da Palazzo Chigi e al momento non c’è traccia del provvedimento al Consiglio di Stato. Di tutto ciò a bordo della Open Arms interessa poco. “La situazione è drammatica e ingestibile. Le condizioni di salute psicofisica dei migranti si sono ulteriormente aggravate con atti di autolesionismo e minacce di suicidio” ripete l’Ong che trova una sponda a Bruxelles. “La situazione delle persone bloccate in mare è insostenibile”, sottolinea un portavoce della Commissione europea. A dare la stura alle polemiche è Francesco Cascio, l’ex presidente dell’Assemblea siciliana tornato a fare il medico dopo avere abbandonato la politica e alcuni guai giudiziari. “Dei 13 naufraghi fatti sbarcare dall’Open Arms solo uno aveva l’otite, gli altri non avevano alcuna patologia come abbiamo accertato in banchina. Infatti, sono stati tutti condotti nell’hotspot”, sostiene Cascio, che non si torva nell’isola ma rimane in stretto contatto con il suo staff. “C’è qualcosa che non funziona - osserva Cascio - perché solo uno aveva i sintomi segnalati, mentre gli altri stavano bene. Eppure dalla relazione dello staff Cisom (il Corpo italiano di soccorso dell’Ordine di Malta) risulta che a bordo ci sarebbero persone con diverse patologie”. Cascio spiega che i medici del Poliambulatorio hanno visitato i migranti sulla banchina subito dopo lo sbarco: “Come da prassi - afferma - siamo intervenuti sul molo quando i naufraghi sono scesi dalla motovedetta della Guardia costiera sulla quale erano stati imbarcati per motivi di salute. I miei colleghi però hanno verificato che le loro condizioni non erano quelle sostenute da chi li ha visitati a bordo della Open Arms”. Leggendo la relazione del Cisom, però la realtà sarebbe ben diversa. “La situazione generale vede condizioni igienico-sanitarie pessime: spazi non idonei a ospitare un così ingente numero di persone - scrivono il medico Katia Valeria Di Natale e l’infermiere Daniele Maestrini dello staff Cisom -. I naufraghi vivono ammassati gli uni sugli altri, non c’è possibilità di deambulare, sono presenti solo due bagni chimici e spesso i naufraghi sono costretti a espletare i loro bisogni fisiologici nello stesso spazio in cui dormono e mangiano”. E ancora: “Non ci sono docce o lavabi - si legge nel documento - non c’è possibilità di provvedere all’igiene personale e degli indumenti, né di lavarsi se non con acqua di mare”. E infine: “Rileviamo condizioni di salute mentale precarie, lo stato d’animo a bordo è di profondo sconforto”. Per lo staff Cisom, salito a bordo della Open Arms, tra i 147 naufraghi (95, uomini, 21 donne e 31 minori) ci sarebbero diversi casi di scabbia ma anche di cistite emorragica e altre patologie. “Venti migranti hanno la scabbia con sovra infezione batterica e pustole. A bordo non è presente permetrina per il trattamento della parossistosi. Numerosi sono i casi di cistite semplice ed emorragica resistente al trattamento antibiotico, che scarseggia”. Quei migranti che diventano ostaggi politici di Luigi Manconi La Repubblica, 17 agosto 2019 I 134 esseri umani che da 16 giorni si trovano sul ponte della nave della Ong Open Arms a tre miglia da Lampedusa, probabilmente non lo sapranno mai. E se in qualche modo ne venissero a conoscenza, rimarrebbero sbalorditi. Quanto è accaduto è decisamente singolare: quei naufraghi hanno rappresentato per 48 ore (e chissà per quanto ancora) il cuore e la posta in gioco (e l’apertura dei tg) di uno scontro politico incandescente. Pretestuoso e strumentale, senza dubbio, ma infine salutare perché, se è in corso una profonda crisi di governo, che potrebbe portare a una svolta politica e perfino a nuove alleanze, quei 134 naufraghi, e ciò che rappresentano non possono più essere ignorati. E con essi, il diritto-dovere assoluto e universale di soccorrere chi si trovi in stato di pericolo. È impensabile, infatti, che il lacerarsi degli equilibri precedenti e l’inseguirsi di ipotesi di nuove coalizioni possa fare a meno di ciò che, della politica, costituisce (dovrebbe costituire) il fondamento. Ovvero le persone in carne e ossa, i corpi esausti dei naufraghi, così come di quelle decine di migliaia di lavoratori, logorati dalle tante crisi industriali, e quelli stressati degli abitanti delle periferie corrose e devastate. Dunque, l’attenzione per la nave di Open Arms è una buona notizia: la crisi di governo è costretta a interessarsene, dopo che per settimane l’esecutivo Lega-5 Stelle l’aveva totalmente ignorata. Così come aveva voltato la testa, per 14 mesi, di fronte a tutte le altre vicende di naufragi e di soccorsi. La politica è costretta a cercare soluzioni per temi che un sovranismo cialtrone e dilettantesco ha creduto di trattare con metodi autoritari e campagne di manipolazione, riducendo l’enorme problema sociale, economico e culturale dell’immigrazione a questione criminale. Ed è significativo che il tema degli sbarchi si riproponga con forza nei giorni in cui il ministro dell’Interno è costretto a riconoscere che, nel bilancio del suo dicastero, la voce “rimpatri”, così tanto enfatizzata, registra una flessione. In ogni caso non va dimenticato nemmeno per un attimo quali danni irreparabili questo governo del Viminale abbia già causato: nella concreta vita materiale di tante persone e nel sentimento morale di un intero Paese. Le responsabilità di Matteo Salvini sono sotto gli occhi di tutti ed è istruttivo (vorrei dire “educativo”) vederne emergere l’intima debolezza che la sua incontinente iracondia e il suo narcisismo patologico non riescono a celare; e così si scorge quella paura del buio davanti al rischio, appena un rischio, di vulnerabilità, che la sua tracotanza, lungi dallo scongiurare, rivela impietosamente. Ma la formula infame che ha bollato le Ong come “taxi del mare” è un’idea, si fa per dire, non di Salvini, ma di Luigi Di Maio e della sua futile irresponsabilità. Tutto ciò per ricordare che qualunque sia l’esito dell’attuale crisi, la questione dell’immigrazione e quella degli sbarchi e dell’accoglienza, dovranno essere tra le future priorità. E non per un sentimento umanitario: non solo per questo, bensì perché, i temi dei flussi migratori e delle frontiere, della denatalità e dell’invecchiamento della società, dell’inclusione delle seconde e terze generazioni di stranieri e dell’assistenza a chi (italiano o no) ne abbia bisogno, costituiscono un solo, grande problema che investe il nostro sistema di welfare e il nostro modello di sviluppo. Chi ha seguito da vicino le vicende dei naufragi nel Mediterraneo e, in particolare, la “battaglia navale” simulata condotta dal governo negli ultimi 14 mesi contro le Ong, conosce due circostanze: la prima è che il premier Giuseppe Conte, pur tra mille cautele, non ha assecondato, né la protervia di Salvini, né l’opportunismo di Di Maio, e ha cercato di sostenere una posizione relativamente autonoma. La seconda è che nel corso di oltre un anno, il governo, in tutte le sue componenti, non è stato capace di gestire uno straccio di politica nei confronti delle Ong, trattate non come soccorritori di vite umane, ma quasi fossero le nuove Brigate Rosse alle quali rifiutare qualsiasi forma di riconoscimento politico (peraltro mai richiesto). Ai volontari di Sea Watch, Medici Senza Frontiere, Sea Eye e Open Arms è stata negata qualunque interlocuzione politica, perfino nella forma più elementare, quella che si concede anche al più sparuto dei sindacati di base. A chi aveva appena salvato decine di vite umane non è mai giunta una telefonata che attivasse un rapporto, una proposta di dialogo, un’ipotesi di mediazione. Ed è proprio questa incapacità politica che rivela il drammatico infantilismo di questi pomposamente autoproclamatisi soggetti del “cambiamento”. Eppure, cambiare si deve. Migranti. Open Arms, il Garante segue con preoccupazione gli sviluppi della situazione Ristretti Orizzonti, 17 agosto 2019 Nella giornata di ieri il Presidente Mauro Palma, dopo una lunga e cordiale interlocuzione telefonica con il Presidente del Consiglio Giuseppe Conte, ha inviato una lettera al Ministro dell’Interno che ieri aveva dato notizia di un decreto di divieto di sbarco e ai Ministri della Difesa e delle Infrastrutture e trasporti, oltre che allo stesso Presidente del Consiglio. Nella lettera il Garante esprime forte preoccupazione per la perdurante situazione di privazione de facto della libertà delle persone a bordo della nave e per l’impatto che tale situazione ha sui diritti fondamentali delle persone soccorse, sul loro precario equilibrio psico-fisico, certificato anche da una équipe medica di Emergency, sul concretizzarsi di una condizione di “trattamento inumano o degradante”, vietato in modo inderogabile dall’articolo 3 della Convenzione europea per i diritti umani. La mancata designazione di un luogo dove sbarcare, così concludendo l’operazione di soccorso avviata più di quindici giorni fa, dove ricevere cura e assistenza, dove essere identificati e dove poter avere accesso in concreto agli strumenti di tutela previsti dal diritto internazionale, non ha soltanto effetti gravi nei confronti delle persone, ma espone anche il Paese al rischio di censure sul piano internazionale per il non adempimento di obblighi sottoscritti e ratificati in trattati e convenzioni di cui l’Italia è parte. Da oltre 24 ore l’imbarcazione è in acque italiane, pur senza l’autorizzazione a far sbarcare le persone a bordo: solo nei casi di deterioramento grave delle condizioni fisiche e psichiche viene concesso lo sbarco. Non è possibile che per godere di diritti che attengono alla persona in quanto tale e delle garanzie che sono costituzionalmente assicurate a chiunque si trovi nel territorio del nostro Paese, si debba giungere a condizioni così estreme. Mentre l’Autorità giudiziaria si sta pronunciando sul profilo di rilevanza penale che la situazione in essere potrebbe avere, il Garante nazionale torna a inviare monito e appello alle Autorità responsabili del nostro Paese perché possa concludersi nel modo meno rischioso per i singoli e per le istituzioni quanto tuttora si verifica nelle acque di fronte a Lampedusa. Nella lettera inviata ieri il Garante nazionale ha dichiarato il proprio impegno a sostenere le iniziative che il nostro Paese assumerà per un’effettiva responsabilizzazione degli altri Paesi europei, per l’affermazione del principio della corresponsabilità dell’Unione nella ricerca di soluzioni a un problema che non può essere lasciato soltanto ai Paesi del confine marittimo meridionale. Stati Uniti. Ancora un’esecuzione: detenuto muore sulla sedia elettrica Avvenire, 17 agosto 2019 Le sue ultime parole sono state: “Dio ha creato l’uomo. Gesù pianse. È tutto”. Poi, la sedia elettrica è stata azionata e Stephen West è morto a 59 anni. Erano le 19.27 del 15 agosto, la notte in Italia. L’undicesima esecuzione del 2019, negli Stati Uniti, si è consumata nel carcere di massima sicurezza di Nashville, in Tennessee: là il detenuto era rinchiuso dopo la condanna per stupro e duplice omicidio, trentatré anni fa. È stato lo stesso recluso a scegliere la sedie elettrica al posto dell’iniezione letale, forse in un intento - non riuscito - di guadagnare tempo. Giovedì, il governatore repubblicano, Bill Lee, ha respinto la richiesta di clemenza mentre la Corte Suprema ha negato il rinvio. All’epoca del delitto, West aveva 23 anni. Insieme al 17enne Ronnie Martin, secondo l’accusa, avrebbe fatto irruzione in casa di Wanda Romines e massacrato a coltellate lei e la figlia 15enne, Sheila. Quest’ultima, violentata prima di essere uccisa, frequentava la stessa scuola di Martin e ne aveva rifiutato il corteggiamento. Questo sarebbe stato il movente del piano omicida, scattato dopo una notte di bevute. Martin non era ancora maggiorenne allora: così, al posto della pena capitale, in base al pronunciamento della Corte Suprema, era stato condannato all’ergastolo. Nel 2030 potrà chiedere la libertà sulla parola. La sentenza per West, invece, era stata la pena capitale. Fino alla fine, il detenuto si è proclamato innocente del duplice omicidio e ne ha addossato la responsabilità a Martin, il quale ha confermato la versione del complice. Questo, però, non è bastata a salvarlo dal boia. Libia. Ancora nessuna notizia della parlamentare rapita un mese fa di Riccardo Noury Corriere della Sera, 17 agosto 2019 La parlamentare libica Siham Sergiwa è stata rapita la notte del 17 luglio a Bengasi e a distanza di un mese non si hanno sue notizie. Decine di uomini armati hanno fatto irruzione nella sua abitazione, hanno sparato al piedi del marito Ali, picchiato il figlio Fadi di 16 anni e l’hanno portata via. Sebbene l’identità dei rapitori non sia stata ancora accertata, testimoni oculari hanno parlato di uomini legati all’Esercito nazionale libico del generale Khalifa Haftar, che parlavano con l’accento di Bengasi e erano arrivati e ripartiti a bordo di veicoli con l’insegna “polizia militare”. Un familiare ha dichiarato che quella notte tutta l’area era finita al buio. Su un muro esterno dell’abitazione sono state lasciate la scritta “L’esercito è una linea rossa” e una firma inequivocabile: “Awliya al-Dam”. I “vendicatori del sangue” sono una milizia affiliata all’Esercito nazionale libico, composta da parenti delle vittime degli attacchi mortali compiuti a Bengasi dal 2011. Poche ore prima di essere stata rapita, Siham Sergiwa aveva rilasciato un’intervista alla tv libica Al Hadath in cui aveva criticato l’offensiva militare del generale Haftar contro Tripoli. Il marito e il figlio di Siham Sergiwa sono ancora ricoverati (o trattenuti?) in un ospedale di Bengasi, senza poter ricevere visite. Ecco dunque l’ennesimo esempio degli enormi rischi che corrono le donne libiche che osano criticare le milizie, hanno ruoli pubblici o non si conformano alle norme e agli stereotipi di genere. Negli ultimi cinque anni tre attiviste e politiche sono state assassinate: la parlamentare Fariha al-Barkawi, la difensora dei diritti umani Salwa Bugaighis e l’attivista Entisar El Hassari. Dal 2014 non si contano i tentati omicidi, i sequestri, le aggressioni, le violenze sessuali, le minacce di morte e le campagne di diffamazione sui social media. Un anno fa, in questo blog, avevamo raccontato alcune storie di queste donne coraggiose. Messico. Incendio in una prigione, 3 detenuti morti sicurezzainternazionale.luiss.it, 17 agosto 2019 Un incendio in una prigione situata in un quartiere orientale di Città del Messico ha ucciso, giovedì 15 agosto, almeno 3 uomini, ferendone altri 7. È quanto hanno dichiarato con una nota le autorità cittadine, specificando che i funzionari stanno ancora lavorando per determinarne le cause. L’episodio è avvenuto nel quartiere di Iztapalapa alle 5.25 di mattina, ora locale. I 3 detenuti uccisi sono stati identificati e rispondono ai nomi di Luis Enrique Tejeda, Mauricio Espindola e Carlos Enrique Perez. I 7 feriti, invece, sono stati portati in ospedale e aspettano di essere sottoposti ai trattamenti necessari in caso di inalazione di fumi. L’ufficio del procuratore generale si sta occupando di indagare accuratamente sull’incidente, ha riferito un portavoce del sistema penitenziario della città. Il distretto sudorientale di Iztapalapa è entrato nell’occhio della stampa anche per un’altra questione, relativa alle condizioni riportate nei centri di detenzione e internamento dei migranti, in particolare minori. Secondo le descrizioni degli stessi detenuti e le segnalazioni delle Ong, è emerso che i bambini sono rinchiusi in stanze con brande di cemento e materassi, da cui molti escono con infezioni per cimici, pustole, diarrea e tonsillite. Alcuni dormono nei corridoi, stipati con un altro centinaio provenienti dall’America Centrale, dall’Asia e dall’Africa con alle spalle un passato di violenza, privazioni e traumi. Possono vedere i genitori solo tre volte a settimana per quindici minuti. Tre pasti al giorno, un cortile e un televisore sono il loro mondo durante quei giorni o mesi. Il centro di Iztapalapa condivide con altri centri di detenzione del Paese un precedente di denunce per sovraffollamento e per trattamento disumano. Tuttavia, continua ad accogliere i minori detenuti in Messico, più di 33.100 nel 2019, sotto il Governo di Andrés Manuel López Obrador, che ha rafforzato il controllo migratorio a seguito dell’accordo firmato a giugno con gli Stati Uniti. Per quanto riguarda la questione della sicurezza e il livello di criminalità, due temi caldi per la storia politica del Messico, negli ultimi anni una grande ondata di violenza ha colpito il Paese. Ciò è riconducibile, in gran parte, alle lotte tra cartelli, o addirittura tra fazioni rivali di uno stesso cartello, per il controllo del transito di droga verso gli Stati Uniti. Nel 2018, il Messico ha registrato un numero record di omicidi. Il Ministero della Sicurezza ne ha riportati più di 33mila. Questa cifra ha battuto il record registrato l’anno precedente, quando gli omicidi sono stati circa 31mila. Nigeria nord-orientale. Msf: “Condizioni di vita e bisogni umanitari restano gravissimi” articolo21.org, 17 agosto 2019 Sono passati 10 anni dallo scoppio del conflitto in Nigeria nord-orientale tra gruppi armati e l’esercito nigeriano. A distanza di un decennio, il conflitto è tutt’altro che finito. Le persone continuano ad essere costrette a lasciare le proprie case a causa della violenza e molte famiglie sfollate vivono ora in campi gestiti dalle autorità statali o allestiti informalmente a fianco delle comunità locali. La maggior parte degli sfollati sono donne e bambini che dipendono perlopiù dall’assistenza umanitaria per sopravvivere. Si stima che siano 1,8 milioni le persone sfollate negli stati nord-orientali di Borno, Adamawa e Yobe. Dal 2009, livelli crescenti di insicurezza e sfollamenti forzati continuano a sconvolgere la vita delle persone nello stato di Borno. Medici Senza Frontiere (Msf) ha iniziato a rispondere a questa crisi nel 2014, ma la più ampia risposta umanitaria è iniziata più lentamente. Nel 2016 Msf ha lanciato l’allarme a Bama, nel Borno, per i livelli elevati di malnutrizione riscontrati dalle nostre équipe. Sebbene la risposta umanitaria sia aumentata negli ultimi anni, le lacune nel sostegno alle comunità di sfollati non sono state adeguatamente affrontate. Molte aree dello stato di Borno restano ancora oggi insicure, il che rende difficile fornire assistenza. Gli operatori umanitari possono lavorare solo nelle enclavi controllate dall’esercito nigeriano e non possono accedere ad altre aree al di fuori del controllo militare. Ma anche in queste enclavi i bisogni delle persone restano insoddisfatti. Per questo molte persone hanno lasciato la relativa sicurezza dei campi, rischiando la vita al di fuori di essi per cercare cibo e legna da ardere. Nei campi sfollati ufficiali la restrizione della libertà di movimento mina le opportunità di autosufficienza e impedisce alle persone di coltivare i campi, rendendole fortemente dipendenti dall’assistenza umanitaria per sopravvivere, oltre ad aggravare i traumi fisici e psicologici vissuti in un decennio di violenza. Nei campi informali le persone vivono in condizioni di sovraffollamento in piccoli appezzamenti di terra, con scarse infrastrutture e supporto umanitario per garantire che i loro bisogni di base vengano soddisfatti. Molte famiglie dormono in minuscole capanne fatte di teli di plastica, vestiti o tessuti strappati, che non riescono a resistere nemmeno a brevi periodi di pioggia. “Da quando siamo arrivati in questo campo otto mesi fa, non abbiamo avuto nemmeno una latrina da poter usare. Defechiamo tutti all’aperto, in un’area qui vicino”racconta Lami Mustapha, una donna di 40 anni che vive con i suoi otto figli in un campo informale a Maiduguri, la capitale dello stato di Borno. Rabi Musa, una madre di 50 anni con 10 figli, ha raccontato agli operatori di MSF di come la vita nei campi informali non sia affatto facile. “Dobbiamo tutti chiedere l’elemosina, compresi i miei figli, o svolgere lavori molto umili per sopravvivere. Non c’è nessuna forma di assistenza per noi”. “Negli ultimi sei anni sono stata costretta a spostarmi tre volte. Le prime due volte sono fuggita da violenti attacchi, la terza per le difficili condizioni di vita”racconta Yakura Kolo, una donna di 30 anni che vive in un campo sfollati con i suoi cinque bambini. A Maiduguri, l’afflusso di sfollati da tutta la regione ha raddoppiato il numero degli abitanti, da uno a due milioni di persone. Nonostante l’alta concentrazione di organizzazioni umanitarie e aiuti in quest’area, i bisogni sono enormi e i servizi medici non hanno sufficienti risorse. MSF gestisce il più importante programma di nutrizione terapeutica nel distretto di Fori a Maiduguri, dove si prende cura di bambini gravemente malnutriti con complicazioni mediche. Qui vengono ammessi fino a 300 bambini ogni mese. A maggio e giugno 2019, MSF ha visto un aumento di pazienti malnutriti perché le persone non hanno abbastanza cibo per coprire il periodo tra un raccolto e l’altro. Alcuni di loro non sono riusciti a essere ricoverati perché il centro nutrizionale era pieno. Nel distretto di Gwange, MSF gestisce un ospedale pediatrico per gli abitanti di Maiduguri e le persone sfollate, con un’unità di terapia intensiva che può anche rispondere a epidemie di malattie infettive. Nel 2019, più di 3000 bambini col morbillo sono stati ricoverati e curati all’ospedale di Gwange. Fuori Maiduguri, Msf fornisce assistenza nelle cittadine di Pulka, Gwoza e Ngala, tra cui cure mediche di base o specialistiche, trattamenti per la malnutrizione, servizi di maternità e supporto per la salute mentale. “Essendo l’unica struttura in grado di offrire cure specialistiche in tutta l’area, stiamo facendo il possibile per assorbire l’aumento dei pazienti e il peggioramento delle condizioni sanitarie dovuto a fattori stagionali e alle precarie condizioni di vita” spiega Ewenn Chenard, coordinatore di MSF a Ngala. “In questi campi arriva una media di oltre 750 persone ogni mese. Oltre 60.000 persone sfollate vivono in meno di un chilometro quadro di terra, per la maggior parte in fragili ripari di fortuna che vengono facilmente danneggiati dalle tempeste di vento e sabbia e dalle forti piogge”. Con l’arrivo della stagione delle piogge, la salute degli sfollati può facilmente peggiorare. È verosimile che possa esserci un aumento dei casi di malaria e le persone che non hanno ricevuto trattamenti di prevenzione sono particolarmente esposte. MSF ha iniziato a trattare casi di malaria nelle proprie cliniche a Maiduguri, dove il numero di posti letto è stato aumentato da 80 a 210. Oltre a questo, Msf sta implementando una campagna di prevenzione a Banki, Bama, Rann, Ngala e Pulka, per fornire dosi di farmaci anti-malarici per i bambini di età compresa tra i tre mesi e i 5 anni. In tutto il Borno, le inondazioni durante la stagione delle piogge hanno danneggiato le infrastrutture igienico-sanitarie e la mancanza di acqua pulita sta aumentando la vulnerabilità delle persone, in particolare dei bambini, a malattie trasmesse dall’acqua come il colera. MSF ha allestito centri di trattamento del colera, con 100 posti letto a Maiduguri e 60 posti letto a Ngala, per rispondere tempestivamente a una potenziale epidemia. “In Nigeria nord-orientale le persone sono ancora esposte a un elevato livello di violenze ed esperienze traumatiche, in un conflitto che non è per nulla risolto”spiega Luis Eguiluz, capo missione di Msf in Nigeria. “La loro sofferenza e vulnerabilità si estende ai campi sfollati, dove i bisogni umanitari più urgenti non trovano risposta adeguata”. MSF lavora in Nigeria dal 1996 e ha una presenza permanente nell’area nord-orientale del paese dal 2014. Le équipe di MSF oggi forniscono cure mediche a Gwoza, Maiduguri, Ngala e Pulka nello stato di Borno, mentre le équipe di emergenza rispondono all’insorgere di epidemie e altri bisogni umanitari urgenti. Kashmir. Armi e minacce, così muore la valle incantata di Arundhati Roy* La Repubblica, 17 agosto 2019 L’India festeggia il suo 73° anno di indipendenza dal dominio britannico e bambini vestiti di stracci si fanno largo nel traffico di Delhi per vendere bandiere e souvenir con la scritta: “Mera Bharat Mahan”. La mia India è grande. Onestamente, è difficile sentirsi grandi in questo momento, perché sembra proprio che il nostro governo abbia perso ogni scrupolo. La settimana scorsa ha violato lo Statuto speciale con cui l’ex Stato principesco di Jammu e Kashmir aderì all’India ne11947. Prima, però, a mezzanotte del 4 agosto, ha trasformato l’intero Kashmir in un gigantesco campo di prigionia: 7 milioni di kashmiri sono stati costretti a barricarsi in casa, le connessioni internet sono state interrotte e i telefoni isolati. Il 5 agosto, il ministro dell’Interno ha proposto in Parlamento di revocare l’articolo 370 della Costituzione, che stabilisce gli obblighi derivanti dallo Statuto speciale. La sera dopo, la Legge di Riorganizzazione di Jammu e Kashmir è stata approvata. La legge priva lo Stato di Jammu e Kashmir del suo status speciale. Lo priva anche della sua qualità di Stato e lo divide in due territori dell’Unione. Il primo, Jammu e Kashmir, sarà amministrato direttamente da New Delhi, anche se continuerà ad avere un’assemblea legislativa locale. Il secondo, il Ladakh, sarà amministrato da Delhi e non avrà un’assemblea legislativa. I cittadini indiani potranno acquistare dei terreni e stabilirsi nella loro nuova proprietà. I nuovi territori, sostiene il governo, sono “aperti al mercato”. Che cosa questo possa significare per la fragile ecologia himalayana del Ladakh e del Kashmir, terre dei grandi ghiacciai, dei laghi d’alta quota e dei cinque grandi fiumi, non è preso in considerazione. Di fatto, “aperti al mercato” può significare anche insediamenti in stile israeliano e trasferimenti di popolazione, come è accaduto in Tibet. Per i kashmiri questa è un’antica paura: il loro incubo ricorrente di essere spazzati via da un’ondata di indiani che vogliono una casetta nella loro valle silvestre potrebbe facilmente avverarsi. In mezzo a queste volgari celebrazioni, tuttavia, ciò che risuona più forte è il silenzio mortale delle strade pattugliate e bloccate del Kashmir e dei suoi abitanti intrappolati e umiliati, circondati dal filo spinato, spiati dai droni, costretti a un totale blackout delle comunicazioni. Che in quest’era dell’informazione un governo possa con tanta facilità isolare un’intera popolazione per giorni e giorni ci fa comprendere quanto sia grave il momento. Il Kashmir, dicono spesso, è il lavoro incompiuto della “Partizione”. Se la Partizione, con l’orribile violenza che provocò, è una profonda ferita aperta nella memoria, la violenza di quei tempi, e degli anni successivi, sia in India che in Pakistan, è dovuta tanto all’assimilazione che alla Partizione. In India, il progetto di assimilazione, definito “costruzione della nazione”, ha significato che tutti gli anni dal 1947, l’esercito indiano è stato schierato all’interno dei confini dell’India contro il “suo popolo”. In Kashmir, Mizoram, Nagaland, Manipur, Hyderabad e Assam. Il processo di assimilazione è costato la vita a decine di migliaia di persone. Quello che si sta realizzando oggi, su entrambi i lati del confine dell’ex Stato di Jammu e Kashmir, è l’incompiuto processo dell’assimilazione. Oggi il Kashmir è forse una delle zone più densamente militarizzate del mondo, se non la più militarizzata in assoluto. Più di mezzo milione di soldati sono stati schierati contro ciò che lo stesso esercito ora ammette essere solo un manipolo di “terroristi”. Ciò che l’India ha fatto in Kashmir negli ultimi trent’anni è imperdonabile. Si ritiene che nel conflitto siano state uccise circa 70.000 persone, tra civili, militanti e militari. Migliaia di persone sono “scomparse” e altre decine di migliaia sono passate nelle camere di tortura disseminate nella valle come una rete di piccole Abu Ghraib. Negli ultimi anni, centinaia di adolescenti sono stati accecati dall’uso di fucili a pallini, la nuova arma preferita dalle forze di sicurezza. La maggior parte dei militanti che oggi opera nella valle sono giovani kashmiri, armati e addestrati sul posto. Fanno quello che fanno sapendo che dal momento in cui prendono in mano un fucile è improbabile che la loro “durata di conservazione” sia superiore a sei mesi. Ogni volta che un “terrorista” viene ucciso, i kashmiri si presentano a decine di migliaia per seppellire un giovane che venerano come uno shahid, un martire. Nel primo mandato di Narendra Modi come premier, la durezza del suo approccio ha esacerbato la violenza in Kashmir. Ma ora, a due mesi dal secondo mandato, il governo Modi ha giocato la carta più pericolosa di tutte. Ha gettato un fiammifero acceso in una polveriera. Se questo non bastasse, il modo vile e disonesto in cui l’ha fatto è vergognoso. Nell’ultima settimana di luglio, con vari pretesti, sono stati trasferiti in Kashmir altri 45.000 militari. Il pretesto più grande è stato che c’era una minaccia “terrorista” pachistana per l’Amarnath Yatra, il pellegrinaggio annuale durante il quale centinaia di migliaia di devoti indù si recano in Kashmir. Il E di agosto, alcune reti televisive indiane hanno annunciato di aver trovato lungo il percorso del pellegrinaggio una mina con il marchio dell’esercito pachistano. I12 agosto, il governo ha chiesto a tutti i pellegrini di lasciare la valle. Sabato 3 agosto i militari avevano occupato l’intera valle. A mezzanotte di domenica, i kashmiri erano costretti a chiudersi in casa e tutte le reti di comunicazione avevano smesso di funzionare. L’8 agosto, quattro giorni dopo l’inizio del coprifuoco, Narendra Modi è apparso in televisione. Sembrava un’altra persona. Era scomparsa l’abituale aggressività e il tono irritante e accusatorio. Parlava, invece, con la tenerezza di una giovane madre. La voce gli tremava e gli occhi gli brillavano di lacrime mentre elencava gli innumerevoli benefici che sarebbero piovuti sul popolo dell’ex Stato di Jammu e Kashmir, adesso governato direttamente da Nuova Delhi. Ha evocato le meraviglie della modernità indiana come se stesse educando dei contadini dei tempi feudali usciti da una macchina del tempo. Ha parlato di come i film di Bollywood sarebbero stati nuovamente girati nella loro valle verdeggiante. Non ha spiegato però perché ai kashmiri fosse imposto il coprifuoco e il blocco delle comunicazioni. Non ha spiegato perché questa decisione sia stata presa senza consultarli. Non ha detto come un popolo che vive sotto un’occupazione militare possa godere dei grandi doni della democrazia indiana. Quando tutta questa farsa finirà, perché deve finire, la violenza si riverserà inevitabilmente dal Kashmir in India. Sarà usata per infiammare l’ostilità contro i musulmani, che sono già demonizzati, ghettizzati, spinti nei gradini inferiori della scala economica e, con terrificante regolarità, linciati. Lo Stato ne approfitterà per stringere il cerchio anche su altri - attivisti, avvocati, artisti, studenti, intellettuali, giornalisti - che hanno protestato. Il pericolo arriverà da molte direzioni. L’organizzazione più potente dell’India, l’estrema destra nazionalista indù Rashtriya Swayamsevak Sangh, o R.S.S.S., con più di 600.000 membri tra cui Modi e molti dei suoi ministri, ha una milizia “volontaria” addestrata, ispirata alle Camicie Nere di Mussolini. Ogni giorno che passa, la R.S.S.S. avanza in ogni istituzione dello Stato: ha già raggiunto un punto in cui più o meno è lo Stato stesso. Intellettuali e accademici sono una delle loro maggiori preoccupazioni. A maggio, la mattina dopo che il partito Bharatiya Janata aveva vinto le elezioni generali, Ram Madhav, segretario generale del partito ed ex portavoce del R.S.S.S., ha scritto che gli “avanzi” dei “cartelli pseudo-secolar/liberali che avevano un’influenza e una presa sproporzionate sull’establishment intellettuale e politico del Paese... devono essere eliminati dal panorama accademico, culturale e intellettuale del Paese”. Il 1° di agosto, in vista di questa “eliminazione”, la già draconiana Legge sulla prevenzione degli atti illegali è stata modificata. Un emendamento ora consente al governo di definire qualsiasi individuo come terrorista senza seguire la procedura legale di una denuncia, di un atto d’accusa, di un processo e di una condanna. Mentre il mondo sta a guardare, prende forma l’architettura del fascismo indiano. *Traduzione di Luis E. Moriones