Agosto, tempo di delusioni e sofferenze per i detenuti di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 15 agosto 2019 Nel 2017 la mancata riforma, nel 2018 quella svuotata, ora il nulla. Sono due i momenti più duri della vita in carcere: il periodo di agosto e quello natalizio. L’ estate produce situazioni di abbandono, soprattutto dove non c’è una presenza esterna organizzata come il volontariato, la sola che si adoperi affinché i detenuti possano trascorrere un po’ di tempo per rendersi occupati durante queste giornate torride. In inverno muori dal freddo. In estate muori e basta. Quindi niente bagni refrigeranti, niente sabbia sotto i piedi, nemmeno un semplice ventilatore, ma, per chi vuole, sole a degli orari assurdi, “perfetti” per un’insolazione da ospedale. Lo sa bene l’ex ergastolano e scrittore Carmelo Musumeci che in un suo recente articolo pubblicato su Ristretti Orizzonti ha scritto: “Quando ero detenuto, ricordo che d’estate l’afa mi faceva aumentare l’ansia e l’angoscia: dormivo di meno, ed era peggio, perché di notte la nostalgia e il desiderio di libertà si fanno più forti”. Lo sanno bene gli esponenti del Partito Radicale che hanno organizzato, assieme alle Camere penali, le visite di ferragosto in quasi tutte le carceri. Un’occasione per monitorare le condizioni di vita in penitenziari spesso sovraffollati e invivibili, ma anche per dare conforto a persone che stanno scontando la propria pena. Ma ricorre anche un anniversario particolare. Esattamente un anno fa, ad agosto, il Consiglio dei ministri del governo gialloverde ha approvato l’ennesima versione della riforma dell’ordinamento penitenziario, di fatto tagliando fuori i decreti principali della riforma penitenziaria originale portata avanti dall’ex ministro della Giustizia Andrea Orlando. La riforma originale, finalmente orientata verso la risocializzazione delle persone recluse, la giustizia riparativa, l’implementazione delle pene alternative e il diritto all’affettività, era il risultato di un lavoro portato avanti da una squadra di giuristi guidata da Glauco Giostra, notoriamente sensibile alle reali criticità e mancanze degli istituti penitenziari italiani. Il nuovo esecutivo, invece, ha ritenuto opportuno intervenire con una revisione e riscrittura del testo, in modo da tenere conto delle indicazioni espresse dal nuovo Parlamento. Ma se l’estate scorsa è stata, di fatto, la perdita della speranza, anche quella precedente - nel 2017 aveva deluso le aspettative di chi aveva acceso i riflettori su una diversa idea di pena e di sicurezza. Era stato l’ex ministro Orlando che a promettere ai microfoni di Radio Radicale che la delega sull’ordinamento penitenziario sarebbe stata attuata subito e entro agosto, cosa che puntualmente non si verificò. Il venticello del populismo penale tirava già fortemente. Il governo di Renzi, e dopo il rimpasto, quello di Gentiloni, non ha opposto resistenza alle polemiche della Lega e del Movimento 5 Stelle: entrambi hanno da sempre cavalcato l’idea carcerocentrica della società. Ad agosto, quello del 2017, la riforma non venne approvata subito. Così come, quando mancò l’ultimo traguardo, il governo Gentiloni preferì non approvare la riforma e lasciare la palla al nuovo governo. L’estate scorsa è morta così definitivamente la speranza. Ora rimane solamente la delusione dei detenuti e i loro familiari che - come disse il garante nazionale Mauro Palma - stavano aspettando Godot. Ferragosto nelle carceri per il rispetto dei diritti umani fondamentali di Rita Bernardini Il Dubbio, 15 agosto 2019 La visita del Partito Radicale e dell’Unione camere penali italiane in 70 istituti di 14 regioni. Ma come? Sta succedendo il finimondo, cade il governo e voi andate a visitare le carceri? Crediamo, e non siamo certo i primi, che il carcere sia il luogo più adatto per testare il grado di civiltà di un Paese e la tenuta della sua democrazia. Con l’esperienza che il Partito Radicale ha potuto fare grazie a Marco Pannella e alla sua instancabile attenzione per il mondo penitenziario, potremmo tracciare un grafico incredibilmente esatto dei cedimenti allo stato di diritto che si sono via via concretizzati con chiunque abbia governato nel corso degli ultimi decenni. Certo, oggi ascoltiamo comizi, interviste, tweet e post che incutono spavento a chi abbia un minimo di cultura democratica: “dovete marcire in carcere”, “è finita la pacchia” (rivolto ai migranti sopravvissuti ai naufragi), “ruspa su tutti i campi rom” (in occasione della giornata internazionale dei rom e dei sinti), “tolleranza zero per gli spacciatori”. Per non parlare della pratica esibizione degli arrestati su tutte le “piazze televisive”, così a mo’ di trofeo da esporre al pubblico ludibrio, o dei provvedimenti già divenuti leggi dello Stato come lo “spazza corrotti” o l’abolizione della prescrizione varata nel Paese più condannato d’Europa per l’irragionevole durata dei processi. Ai meravigliati di oggi - quasi tutti facenti parte della classe politica dei governi precedenti, tutti di centro-sinistra - chiedo: ma dove eravate nei momenti cruciali in cui questi rischi venivano denunciati come concreti e imminenti da Marco Pannella e dal Partito Radicale? Per richiamarne uno di questi momenti cruciali, ricordo quando il leader radicale rischiò prematuramente la pelle per convincere l’allora Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano a fare quel messaggio alle Camere che è - e rimane pietra miliare del diritto penale democratico, messaggio volto all’immediato ripristino della legalità costituzionale sia nell’esecuzione penale che nell’amministrazione della Giustizia attraverso la seria e concreta presa in considerazione di un provvedimento di amnistia e di indulto. Andiamo a rivedere, rileggere, riascoltare - alla luce dei fatti e dei comportamenti di oggi - quale fu, nell’ottobre del 2013, la risposta del Parlamento a quel messaggio, redatto ai sensi dell’art. 87, secondo comma della Costituzione, e inviato pochi mesi dopo l’umiliante condanna dell’Italia da parte della Corte Europea dei Diritti Umani (Cedu) per violazione dell’art. 3 della Convenzione, cioè per i trattamenti inumani e degradanti sistematicamente praticati nelle nostre carceri ai danni della popolazione detenuta. Messaggio liquidato alla Camera con un misero dibattito di poche ore per nulla corrispondente alla solennità del suo contenuto e, al Senato, con il silenzio più assoluto. È stata l’epoca dei governi di centro-sinistra Letta, Renzi e Gentiloni, quella che si è conclusa con la mancata riforma dell’ordinamento penitenziario e che ha preceduto il governo giallo- verde, oggi crollato dopo poco più di un anno di vigenza. Se non c’è tenuta sul rispetto dei diritti umani fondamentali, cioè quei diritti che sono protetti dalla violenza del potere degli Stati, tempi sempre più bui si avvicenderanno nel nostro futuro e in quello delle future generazioni. Per questo, noi del “ferragosto in carcere”, vogliamo ringraziare uno per uno quei (pochi) parlamentari che si sono resi disponibili a visitare la comunità penitenziaria esercitando quel potere-dovere che gli attribuisce l’art. 67 dell’Ordinamento penitenziario. Grazie, dunque, a Enza Bruno Bossio (Pd), Federico Conte (Leu), Gigi Casciello (Forza Italia), Manuela Gagliardi (Forza Italia), Luca Paolini (Lega), Roberto Giachetti (Pd), Gennaro Migliore (Pd) e Diego Zardini (Pd) per il loro impegno civile e per la speranza che rappresentano. Concludo con il silenzio di un’immagine, figlia del nostro tempo e che vorrei fosse possibile cancellare nell’agire futuro delle nostre istituzioni. L’immagine è quella di un corpo gelido disteso su un letto di marmo dell’istituto di Medicina Legale di Bari, in attesa di sepoltura. Sabino Di Fronzo, questo il suo nome, era un detenuto sessantunenne del carcere di Bari, ricoverato d’urgenza ad aprile e deceduto in ospedale a giugno. Era solo al mondo, dimenticato da tutti fino a che un suo vecchio zio ottantunenne si è chiesto che fine avesse fatto... scoprendo così che l’Autorità giudiziaria aveva bloccato il rilascio della salma in attesa di un’autopsia che non si sa quando verrà eseguita. Sembra, da quel che scrive la Gazzetta del Mezzogiorno, che non siano pochi i dimenticati nelle celle frigorifere degli istituti di Medicina Legale: nessuno li reclama. Sono migranti, clochard, ex detenuti ai quali viene persino negata la pace di un’umana sepoltura. Ferragosto nei luoghi di detenzione Il Manifesto, 15 agosto 2019 Il “Ferragosto in carcere” è l’iniziativa promossa dal Partito Radicale insieme all’Osservatorio carcere dell’Unione camere penali che si svolge tra oggi e il 18 agosto in 70 luoghi di detenzione visitati da 278 tra dirigenti e militanti del Partito Radicale, avvocati dell’Unione camere penali, parlamentari, Garanti delle persone private delle libertà personali. Maurizio Turco e Irene Testa, segretario e tesoriera del Partito Radicale, saranno oggi alle al carcere romano di Regina Coeli mentre Riccardo Polidoro, dell’Osservatorio carcere, sarà a Napoli Poggioreale. Gian Domenico Caiazza, Presidente dell’Unione camere penali, e Gianpaolo Catanzariti, responsabile dell’Osservatorio Carcere, saranno domani a Reggio Calabria Panzera. Ieri è arrivata anche l’adesione all’iniziativa della senatrice del Movimento 5 Stelle Cinzia Leone (Irene Testa aveva segnalato che tra i parlamentari presenti “M5S non è pervenuto”) che domani parteciperà “a nome del mio gruppo” alla visita nelle carceri di Paterni° Pagliarelli e Ucciardone. L’iniziativa sarà anche l’occasione per avere “un quadro complessivo delle condizioni delle nostre carceri e delle relative criticità che spingono, giorno dopo giorno, i detenuti, ma anche i detenenti, ad assumere condotte a volte disperate”, spiegano dall’Osservatorio Carcere. “Nel 2018- ricordano i penalisti -vi sono stati 148 detenuti morti, tra cui 67 suicidi. Al 7 agosto 2019, i morti sono 81 ed i suicidi 30. Un decesso ogni tre giorni”. Quanto al sovraffollamento, dati del ministero di giustizia relativi ai detenuti presenti nelle carceri italiane al 31 luglio 2019 sono impietosi: a fronte di una capienza regolamentare di 50.480 sono presenti 60.254 detenuti di cui ben 18.518 in custodia cautelare. In generale il trend di crescita è di circa 2.000 detenuti all’anno, incremento oramai costante e ciò dimostra ancora una volta che il fenomeno del sovraffollamento carcerario nel nostro paese è strutturale e sistemico”. Violenza sui detenuti, un circolo vizioso che si può spezzare di Patrizio Gonnella* Il Manifesto, 15 agosto 2019 Visitare gli Istituti, come fanno i Radicali in queste ore, rafforza quel mondo penitenziario che conserva una cultura democratica. Stupirsi della violenza significa fare il gioco del fascismo, scriveva Walter Benjamin. La violenza è parte costitutiva dei rapporti di potere presenti nella società. La violenza è il cuore del diritto penale e della risposta punitiva dello Stato. È questa una violenza regolamentata, strutturata, limitata. La passione per le punizioni, che ha tragicamente permeato di sé il mondo contemporaneo, richiede però un tasso di violenza ulteriore, una violenza “illegale”, “arbitraria”, “rapsodica”. In momenti storici e politici come quello attuale, quando si sentono ministri evocare espressioni quali “marcire in galera” oppure ammiccare a coloro che bendano e legano un indagato durante un interrogatorio, quell’uso e abuso di una violenza “illegale”, “arbitraria” e “rapsodica” viene percepito come parte della pena stessa, nella certezza interiore dell’impunità e del giudizio comprensivo, se non addirittura benevolo, dei cattivi maestri al potere. D’altronde basta leggere alcuni siti informativi di polizia o le loro pagine social per capire di cosa stiamo parlando: i detenuti sono chiamati bastardi o nella migliore dell’ipotesi camosci, riproponendo uno slang carcerario antico, offensivo e violento. Subire violenza in carcere da parte degli agenti di polizia penitenziaria è un’esperienza drammatica. Di solito non è mai una violenza isolata. È molto più spesso una violenza ripetuta. Il detenuto che non si sa fare la galera, espressione che indica quella persona che in qualche modo obietta o si contrappone alle regole di vita interna, o il detenuto che è per suo status considerato un inferiore, ad esempio una persona accusata di reati sessuali, un collaboratore di giustizia, ma di questi tempi anche un detenuto africano, vive in una condizione di paura e di soggezione. L’uso della violenza è spesso di gruppo. Anche quando è uno solo l’agente che pratica la violenza, gli altri stanno lì a guardare, come i pali in una rapina in banca. È una violenza che avviene di solito nei reparti più isolati, al riparo da sguardi disposti a raccontare quanto visto, con lo scopo di dare una lezione, sicuri di far bene e di farla franca. Il detenuto di solito ha paura, vive nel terrore, non denuncia, essendo forte il rischio di vendette ulteriori. Per rompere il circolo vizioso della violenza è necessaria una rivoluzione culturale che comprenda una sana alleanza tra le istituzioni, il recupero della fiducia da parte di ciascun attore del sistema penitenziario, ivi compresi i detenuti, indagini rapide, meccanismi di prevenzione funzionanti. Nei giorni scorsi sarebbe accaduto un episodio di pestaggi in un reparto di isolamento. Ecco la novità. Si è costruita una santa alleanza che ha interrotto quel circolo vizioso mentre era drammaticamente in corso ed è stata aperta la strada alla sottoposizione a processo dei responsabili di quella violenza. Il ruolo vigile e rigoroso dell’autorità garante nazionale dei diritti delle persone detenute, la pressione di Antigone, la straordinaria collaborazione di alcuni dirigenti penitenziari hanno prodotto l’interruzione del ciclo di pestaggi. Non sappiamo se ci sarà una condanna per tortura o per altro delitto. È troppo presto e troppi pochi sono i dettagli che per ora si conoscono. Ma la storia insegna almeno due cose: la violenza “illegale”, “arbitraria”, “rapsodica”, anche se non può essere del tutto spazzata via, può comunque essere efficacemente contrastata anche dall’interno delle istituzioni; una significativa parte degli operatori penitenziari ha una cultura democratica così radicata che non è comprimibile da un qualsiasi cattivo maestro. A loro siamo grati. Visitare un carcere, così come fanno i radicali in queste ore, ha anche questo doppio scopo: da un lato toglierlo da quel cono d’ombra che inevitabilmente produce isolamento e, dunque, violenza; dall’altro dare dignità a quel mondo penitenziario che da sud a nord resiste alle tentazioni di liquidazione di una storia democratica della pena. Al sud, al centro e al nord ci sono dirigenti, direttori, poliziotti, educatori straordinari. Meriterebbero una ben più rilevante gratificazione sociale, economica e professionale. Nei giorni scorsi abbiamo visitato il carcere napoletano di Secondigliano. Qualche tempo prima quello di Bari. In tutte e due gli istituti, nel sud intriso di problemi anche criminali, abbiamo trovato operatori in divisa e non che con entusiasmo e fatica cercano di dare esecuzione alle norme costituzionali che prevedono che la pena non debba consistere in trattamenti contrari al senso di umanità. Le norme sono importanti, le riforme pure, ma più di tutto conta la cultura democratica e antropocentrica di chi deve gestire corpi e anime. *Presidente di Antigone È nelle prigioni che si misura il grado di civiltà di un paese di Adriano Sofri Il Foglio, 15 agosto 2019 Si può rendere il Ferragosto speciale trascorrendo alcune ore con persone che, quando farà buio, resteranno dentro col loro buio. Un articolo redazionale ha qui spiegato ieri - “Ferragosto tra le sbarre” - le motivazioni che ispirano l’iniziativa promossa dal Partito Radicale, con l’Osservatorio sulle carceri dell’Unione Camere Penali, con l’adesione di un numero di parlamentari, di dedicare il Ferragosto e i giorni adiacenti alla visita di molte decine di prigioni italiane. Le motivazioni: “Incontrare i detenuti e il personale che svolge la propria attività lavorativa per conoscere meglio le condizioni di ogni struttura carceraria”, e anche, ricorda Rita Bernardini, la quale ricorda Voltaire e così via, perché è nelle prigioni che si misura il grado di civiltà di un paese. C’è un’altra ragione, che sta sotto e sopra le altre, che Rita Bernardini conosce come pochi, e così la conosceva Marco Pannella: che trascorrere alcune ore nell’incontro fra persone che prima del buio dovranno tornare fuori e persone che resteranno dentro col loro buio fa del Ferragosto un giorno davvero speciale. Ferragosto dietro le sbarre, la buona politica va in carcere di Stefano Rizzi lospiffero.com, 15 agosto 2019 Sovraffollamento, personale sotto organico, strutture fatiscenti. Giachetti a Novara con don Campiotti, a Cuneo sindaco e vicesindaco. Nel solco della migliore tradizione radicale il garante dei detenuti Mellano denuncia un sistema prossimo al collasso. Buttare via la chiave e marcire in galera. Si fa presto a dirlo - come capita spesso a Matteo Salvini - e si prendono applausi e voti. Però, ci vuole di più a girarla la chiave e vedere quel che non è un mistero: “Il sistema carcerario italiano è quello che costa di più in Europa e quello che dà peggiori risultati, con la recidiva più alta”. In Piemonte le carceri sono 13 distribuite in 12 città (Alessandria ne conta due) e il quadro è in linea se non, in alcuni casi, peggiore rispetto alla media del Paese: “Manca personale e non solo negli organici della polizia penitenziaria, sono pochissimi gli interpreti per capire cosa dicono gli stranieri. E poi le strutture: vecchie se non antiche, si investe poco in manutenzione e questo ha un peso sia sui detenuti, sia su chi in carcere lavora”. Bruno Melano da cinque anni è il garante regionale dei detenuti e delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà. Storico militante radicale, deputato eletto nelle liste della Rosa nel Pugno nella XV legislatura, consigliere regionale dal 2000 al 2005 per la lista Bonino-Pannella, questa mattina “alle otto e mezzo, per avere tempo” varcherà i cancelli del Lorusso Cotugno alle Vallette. Come tante altre volte nell’esercizio del suo incarico, ma oggi è Ferragosto e i radicali fedeli alla tradizione, in collaborazione con l’Osservatorio delle Camere penali e dei garanti, vanno dietro le sbarre. In quel mondo che una parte della politica di oggi spesso invoca, ma altrettanto spesso pare non conoscerne la realtà, non di rado ai limiti della dignità umana, salvo incocciarla se non direttamente, comunque da vicino. E, solo in quel momento, comprendere la differenza che c’è tra la giusta durezza della pena e il declinare del rispetto, appunto, della dignità. Mellano, Ferragosto in carcere non è certo un invito allettante. C’è da scommettere che non saranno molti quelli che hanno aderito. “Dei parlamentari so che ci sarà Roberto Giachetti. Andrà a Novara insieme al garante comunale, don Dino Campiotti, una persona eccezionale. Poi a Cuneo entreranno nel carcere insieme a militanti radicali e anche in quel caso al garante, il sindaco Federico Borgna e la sua vice Patrizia Manassero. I parlamentari, così come i consiglieri regionali possono comunque presentarsi nella loro funzione ispettiva in qualunque momento, quindi non escludo che qualcuno possa farlo. Ho invitato il presidente della Regione e quello del Consiglio regionale. Sia Alberto Cirio sia Stefano Allasia sono stati molto cortesi e disponibili a occuparsi del tema, anche se non il giorno di Ferragosto, ma è comprensibile. Poi con Cirio io ho condiviso la battaglia per riaprire il carcere di Alba, è stata dura, ma ce l’abbiamo fatta”. Resta parecchio da fare, però. Il problema del sovraffollamento ormai è atavico in Italia. Il Piemonte com’è messo? “Abbiamo circa 4.400 detenuti a fronte di una capienza di 3.900”. Cinquecento carcerati in più oltre il limite non sono pochi… “No, ma non è solo quello delle condizioni di vita in carcere dovute a una popolazione che eccede la capienza ad essere un problema. Se si passa il limite saltano tutti gli schemi e così diventa normale che i nuovi giunti, quelli che entrano, finiscano insieme all’ergastolano, che le misure previste per chi è in attesa di giudizio non possano essere rispettate. E poi il personale: a Torino ci sono 14 educatori, ognuno di loro deve seguire più di cento detenuti, come fa?”. E questo accade in strutture che, come lei ha più volte denunciato, sono state costruite parecchi anni fa. Servirebbe costruirne di nuove in Piemonte? “Tutte, se si fa eccezione per tre padiglioni a Cuneo, Biella e Saluzzo, sono vecchie e in alcuni casi addirittura antiche. Se non se ne possono costruire di nuove, almeno si faccia la manutenzione che serve. Le faccio un esempio di come vanno le cose: nella sezione femminile di Torino da cinque anni, cinque anni non cinque mesi, l’ascensore e il montacarichi sono rotti. Per portare i pentoloni con il cibo si devono fare tre rampe di scale, con tutti i rischi per detenuti e personale. E poi siamo da tempo anche senza il provveditore”. Cioè manca il vertice del sistema carcerario piemontese? “Certo. Manca il dirigente che sovrintende sulla nostra regione insieme a Liguria e Valle d’Aosta, il sistema è senza testa e il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria continua a non fare la nomina”. Qual è il carcere messo peggio, il primo della classifica negativa? “Non è facile rispondere. Spesso nella stessa struttura ci sono cose molto positive, come progetti di formazione, attività lavorative e poi troviamo locali fatiscenti. Ci sono eccellenze e buchi neri insieme. Poi ci sono le statistiche sbagliate”. Come sbagliate? “Il ministero nel calcolare la capienza non tiene conto di riduzioni temporanee dovute magari all’impossibilità di utilizzare alcuni locali. Così capita che a Cuneo la capienza ufficiale sia di 430 posti, ma in quella cifra è compreso un padiglione, chiuso ormai da dieci anni. Ufficialmente risulta utilizzabile”. Parliamo degli stranieri, un terzo circa della popolazione carceraria in tutto il Paese, giusto? “Sì, su 60.500 sono circa 20mila. Ma è un dato non omogeneo: per una serie di scelte ci sono alcune regioni tra cui il Piemonte, dove la percentuale è molto più alta. Noi abbiamo istituti dove la presenza di stranieri arriva al 50, 60 e anche 70 per cento. Questo impone programmi adeguati: non puoi fare il corso per geometri, devi fare alfabetizzazione, insegnare l’italiano. E poi le misure alternative che si basano su una rete esterna risultano spesso non applicabili agli stranieri, perché non hanno casa o famiglia, né persone che li possono aiutare. Quindi è ancora più difficile fare percorsi che tendano a ridurre la recidiva”. Gli stranieri significano anche rischio di radicalizzazione, proselitismo per i terroristi. Ormai non se ne parla quasi più, come se il pericolo fosse scomparso, ma esiste. Le carenze strutturali e di organico possono incidere anche su questo aspetto della sicurezza. Non si sottovaluta il problema? “Certamente. Oltre ad avere carenza negli organici della polizia penitenziaria, mancano mediatori e interpreti. Senza personale che conosca le lingue non capiamo cosa si dicono, cosa succede e cosa può succedere. Su questo tema l’amministrazione penitenziaria è molto riservata, ci fornisce pochi dati per approfondire. Solo dopo insistenze ci hanno detto che sono 350 i detenuti monitorati in tutte le carceri italiane. E devo dire che mi sembrano pochi”. C’è un ministro dell’Interno che di fronte a delitti, senza dubbio, efferati auspica che si butti la chiave e si marcisca in galera. Senza scomodare Cesare Beccaria e la Costituzione, come si risponde senza passare per chi vorrebbe tutti fuori e nessuno dietro le sbarre? “Che le frasi ad effetto e le soluzioni apparentemente semplici sono le risposte sbagliate al problema. Il nostro sistema penitenziario è il più caro in Europa e quello con la recidiva più alta. Fosse un’azienda avrebbe dovuto già dichiarare il fallimento”. Il Ferragosto degli ultimi di Matteo Marcelli Avvenire, 15 agosto 2019 Un Ferragosto di vicinanza e solidarietà che vede la società civile in uscita e i suoi rappresentanti farsi prossimi, “con una dedizione sempre più piena alla causa degli ultimi”, per usare le parole di Papa Francesco in occasione del 40esimo convegno nazionale delle Caritas diocesane. E una lunga serie di iniziative la festa dell’Assunta che molte realtà, cattoliche e non, organizzano oggi su tutto il territorio nazionale, cercando di dare un senso a una festività donandosi agli altri. Una voce amica A volte per stare vicini a chi ne ha bisogno può bastare anche solo il tempo di una telefonata. Un gesto apparentemente banale, che l’associazione Telefono Amico ha trasformato in una missione. Solo nell’anno passato sono state 50mila le richieste di aiuto ricevute, per oltre 9mila ore di assistenza. Le ragioni che spingono le persone a chiedere aiuto sono molteplici, ma è soprattutto la solitudine (13mila chiamate) a spingere le persone più emarginate a comporre il numero, specie in giornate come quella odierna in cui non c’è nessuno con cui condividere una festa. Telefono amico è presente in Italia con 20 centri di ascolto e può contare sul sostegno di 500 volontari pronti ad ascoltare in forma anonima chi ha bisogno. L’associazionismo cattolico Nel giorno dell’Assunzione di Maria sarà in campo anche la Comunità di Sant’Egidio che ha promosso quest’anno una grande “Cocomerata per l’integrazione” su tutto il territorio nazionale. A Roma la multietnica Piazza Vittorio ospiterà assieme ai migranti anche anziani e persone emarginate, per “dimostrare che non solo è possibile vivere insieme - come specificano i volontari della Comunità - ma che questa è una grande chance per una società incapace di reagire ad un generale pessimismo”. Ferragosto di piena attività anche nei 51 centri della Caritas della Capitale che, come consuetudine, nel mese di agosto hanno intensificato le iniziative. In occasione dell’Assunzione di Maria saranno 250 i volontari che presteranno servizio nelle mense, negli ostelli, nelle comunità alloggio e nelle case famiglia. Impegnati soprattutto i giovani dei gruppi parrocchiali e delle associazioni ecclesiali provenienti dalle comunità romane. Nella giornata di oggi saranno distribuiti oltre 1.800 pasti e accolte per la notte circa 600 persone. La festività sarà aperta dalla celebrazione eucaristica nella chiesa della “Cittadella della carità - Santa Giacinta”, mentre al pranzo di mezzogiorno alla mensa “Giovanni Paolo II”, a Colle Oppio, parteciperà anche il vice sindaco di Roma, Luca Bergamo. A Milano non si ferma l’iniziativa “Volontari d’estate”, con 58 cittadini che hanno scelto di impegnarsi anche nel mese di agosto come personal shopper per gli anziani soli. Per oggi l’appuntamento è al Refettorio Ambrosiano, dove sono previste anche animazioni e altre iniziative. A Bologna il tradizionale pranzo solidale torna a Palazzo D’Accursio, dopo che l’anno scorso, per motivi logistici, si era spostato alle Cucine Popolari di Roberto Morgantini. Circa 200 gli ospiti previsti, che saranno accolti nel cortile d’onore. Ferragosto tra le sbarre Luogo di sofferenza ed emarginazione, anche il carcere vedrà la mobilitazione di molte realtà associative, guidate dall’iniziativa del Partito radicale “Ferragosto in carcere”. Circa 300 militanti, assieme agli avvocati delle Camere penali, saranno presenti in 70 istituti di pena di 17 regioni italiani. Non solo un’iniziativa di solidarietà - che vedrà impegnata tra gli altri anche la giornalista Paola Severini Melograni, a Rebibbia - ma anche un’occasione per raccogliere materiale, dati ed esperienze da trasformare in iniziative legislative tramite i dieci parlamentari aderenti. Quell’uovo di serpente covato sotto la bomba della prescrizione di Francesco Forte Il Dubbio, 15 agosto 2019 Perché l’abolizione dell’istituto prefigura vantaggi per le lobby. C’è un ossimoro, nella riforma di Bonafede: stop all’estinzione dei reati e processi quindi infiniti, ma sanzioni ai giudici lenti. l’esito sarà che l’effettiva fine dei giudizi diverrà arbitrio dei gruppi d’interesse più forti. Il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede conosce bene la legge Pinto del 2001 che introduce il diritto al risarcimento per danno esistenziale patrimoniale e morale e - fra le varie fattispecie - considera la violazione al diritto, costituzionalmente garantito, alla ragionevole durata del processo. Invero Bonafede, nel 2002, un anno dopo la legge Pinto, si è laureato in Giurisprudenza all’Università di Firenze con la tesi “Il danno esistenziale. Il nodo al pettine della responsabilità civile” e, nel 2009, ha conseguito la laurea di dottore di ricerca all’Università di Pisa col tema del danno non patrimoniale alla luce del diritto europeo. Sa dunque che abolendo la prescrizione dopo il primo grado di giudizio i tempi dei processi possono allungarsi creando danni patrimoniali e morali ingenti, per i quali il risarcimento sarebbe troppo tardivo. Cesare Beccaria, nel capitolo 13 del libro “Dei delitti e delle pene”, sostiene la necessità della prescrizione per la certezza della pena. Questa, egli scrisse, generalmente svanisce se il processo tarda a concludersi. Solo per delitti atroci come l’omicidio essa deve esser lunga, perché la atrocità del reato desta a lungo un turbamento sociale, ma dovrebbe essere minore per gli altri reati, in rapporto alla loro minor gravità. Circa i processi che durano all’infinito, Beccaria nel capitolo 19 dedicato a “La prontezza della pena”, scriveva: “Il processo deve esser finito nel più breve tempo possibile. Qual più crudele contrasto che l’indolenza di un giudice e le angosce di un reo? I comodi e i piaceri di un magistrato da una parte e dall’altra le lacrime e lo squallore di un prigioniero?”. E aggiungeva: “La prontezza delle pene è più utile perché quanto è minore la distanza nel tempo che passa fra la pena e il misfatto, tanto più forte e durevole nell’animo umano l’associazione di queste due idee, delitto e pena”. “La certezza della pena, benché moderata - scriveva altresì Beccaria nel capitolo 20 - farà sempre una maggiore impressione che non il timore di un altro più terribile castigo unito alla speranza dell’impunità”. Il teorema che se ne ricava, utilizzando gli scritti economici del Beccaria, che, come professore, non aveva una cattedra di Diritto penale ma di Economia pubblica a Milano appositamente per lui istituita, è che una pena di 100 con probabilità di applicazione del 30%, ha una valore deterrente e punitivo del 30% soltanto, ossia quanto una pena di meno di un terzo erogata in tempi certi. Immagino che Alfonso Bonafede consideri Cesare Beccaria “un superato” e non si curi della sua tesi sul contrasto fra i comodi e i piaceri di un magistrato da una parte e dall’altra le lacrime e lo squallore di un prigioniero e le angosce di un reo, in attesa del giudizio definitivo. Però sulla base della tematica del danno esistenziale derivante dalla irragionevole durata del processo, nella sua “Rousseauviana” riforma ha introdotto l’ossimoro “niente prescrizione dopo il primo grado di giudizio” e “processo breve” tramite penalizzazioni dei magistrati che ne allungano indebitamente i tempi. Ora se, a causa dell’efficacia della regola che dispone penalizzazioni, il processo funziona, a che serve abolire la prescrizione? Semmai bisogna puntare sugli ostacoli oggettivi a un processo di durata ragionevole, adottando regole procedurali che riducano i tempi processuali e quelli dei ricorsi successivi delle parti in causa, dotando gli uffici giudiziari di adeguate strutture elettroniche a somiglianza di quelle dei settori della produzione e del commercio di beni della moda, con il sistema “cross channell” in cui l’azienda, con le tecniche informatiche, personalizza le vendite e le velocizza accelerando il ciclo dalla produzione al consumo, in modo interattivo. Analogamente la produzione di perizie, di indagini e la connessa attività processuale si possono monitorare e personalizzare per via informatica, sempre in modo interattivo. Ma se la regola sul processo breve non funziona, perché le strutture non sono ammodernate e il personale è inadeguato, perché abolire la prescrizione che dispone tempi lunghi ma definiti, per processi complessi e uffici ingolfati di procedimenti? Perché supporre che giudici, pubblici ministeri e loro collaboratori si comportino come “angeli”, anziché come esseri umani che tengono condotte che giovano a loro, ma non necessariamente ai tempi brevi dei processi, sol perché loro colleghi, che non sono neppur essi angeli, dovrebbero penalizzarli quando i processi appaiono “irragionevolmente” lunghi, muovendosi lentamente negli uffici congestionati, senza che si possa addebitare ciò al comportamento specifico di qualcuno? La teoria della burocrazia della scuola di “Public choice” (scelte pubbliche) di cui io faccio parte, sostiene, anche sulla base di ampie ricerche empiriche, che, in ogni ramo della pubblica amministrazione in senso lato, ivi incluso il potere giudiziario, vi è la tendenza a condotte opportunistiche perché le persone non sono angeli ma esseri umani, e sono alla ricerca di tempo libero durante il servizio. Esso, per i funzionari di minor livello consiste nell’assentarsi dall’ufficio o nell’usarlo anche per gli affari personali. Per quelli di maggior livello consiste nel dedicarsi a ciò che dà prestigio, visibilità, eventuali futuri benefici in altre attività. Ed ecco, fra le perverse conseguenze dell’ossimoro di Bonafede, quella derivante dal principio giuridico dell’unità del diritto. Questo principio induce il Guardasigilli ad applicare il suo doppio criterio della abolizione della prescrizione dopo il primo grado e dei disincentivi ai processi “irragionevolmente” lunghi non solo al processo penale, ma ai reati, in ogni specie di processo, con effetti economici negativi per l’intreccio fra procedimento civilistico e penale, per i reati bancari e societari e per i fallimenti. Nei procedimenti amministrativi e delle autorità di controllo del mercato la distinzione fra sanzioni amministrative e penali è prevalentemente interpretativa. Nelle Commissioni tributarie ci sono tematiche penali. In tali casi, dovrebbe cadere la prescrizione dopo il primo grado? La Corte dei Conti innesta le richieste di risarcimenti per danno erariale (anche morale) sull’accertamento di reati. Qui, di nuovo, interviene la teoria di Public Choice - di cui si può leggere vuoi nei miei Principi di Economia Pubblica, vuoi nel mio Manuale di Scienza delle Finanze (edizione inglese Public Economics A Public Choice Approach) - sulle condotte opportunistiche dei burocrati (nel senso ampio che include anche la Giustizia), connesse alla pressione dei gruppi di interesse. Se le Corti possono far durare i processi discrezionalmente senza prescrizione e sono affollate, ai gruppi di interesse con molto potere di pressione converrà influenzare gli apparati in vari modi per allungare i processi agli “amici” e accorciarli ai rivali. Le persone e le compagnie finanziarie e industriali che hanno più mezzi economici e più collegamenti con i poteri politici e gli organismi di interessi (associazioni di consumatori, sindacati, organismi di industriali e di commercianti etc.) potranno mobilitarsi per “difendersi nei processi” con ogni virtuosismo. L’idea del processo senza prescrizione è la sostituzione del principio movimentista della “lotta continua” con quello della “lite continua”, della minaccia eterna della pena come principio di massimizzazione del potere giudiziario discrezionale, ottenuto quando vengono abrogate una o più regole dello Stato di diritto fra cui il principio della “riserva di legge” in base al quale il potere giudiziario non è discrezionale. Nel regime senza prescrizione si massimizza questa scelta del potere giudiziario: con una differenza, non prevista da Cesare Beccaria, ossia che quando il processo coinvolge una compagnia molto ben organizzata e influente, in luogo delle lacrime e dello squallore del prigioniero, vi è l’impunità di chi, di fatto, ha il processo ma non la pena, come in un gioco del circo in cui il domatore ha di fronte una belva che ringhia ma non morde. Il meccanismo del mercato è inceppato e reso incerto dall’arbitrio giudiziario: che non nasce dalla natura umana dei giudici, dei cancellieri, dei loro inservienti, ma dalle regole: come spiega, appunto, la teoria di Public choice, in regime di razionalità limitata e di natura umana imperfetta, quando si tolgono regole che tutelano la libertà. Cesare Beccaria diceva che il diritto a punire è un modo con cui il cittadino si priva di un po’ della sua libertà, per poterne godere una maggiore. La regola ha valore generale. Il progetto Bonafede la viola. C’è da augurarsi una crisi di rigetto dei principi rousseauviani pentastellati in cui è stato covato questo uovo di serpente. I magistrati di sorveglianza? Inamovibili di Giovanni Maria Jacobazzi Il Dubbio, 15 agosto 2019 Il Csm ribadisce che sono gli unici a non poter chiedere applicazioni ad altri uffici. Respinta l’istanza di una toga che chiedeva di essere destinata altrove per motivi personali. Rigidità che rende lineari le verifiche sui reclusi ma limita i diritti del giudice. Il magistrato del Tribunale di sorveglianza è per sempre. Lo ha ribadito recentemente il Consiglio superiore della magistratura, che ha bocciato l’istanza di applicazione ad altro ufficio per motivi personali presentata da un magistrato di sorveglianza. Tranne il caso che l’interessato non faccia domanda di trasferimento, “i magistrati che esercitano funzioni di sorveglianza non possono essere destinati ad altre funzioni, salvo l’applicazione per portare a compimento procedimenti in corso”, scrivono da Palazzo dei Marescialli. La delibera del Csm ribadisce, quindi, il ruolo fondamentale che hanno i magistrati di sorveglianza nell’esecuzione della pena per i condannati con sentenza definitiva. Già la legge del 2006 sull’Ordinamento giudiziario aveva messo alcuni importanti paletti. Pur svolgendo funzioni giudicanti a tutti gli effetti, il magistrato di sorveglianza era stato infatti esonerato dal cambiare incarico trascorsi dieci anni. Mentre tutti i suoi “colleghi”, gip, giudici penali e civili, di Tribunale o d’Appello, allo scadere dei dieci anni devono “reinventarsi” una funzione, il magistrato di sorveglianza no. Per lui nessun trasferimento, con tutte le conseguenze del caso. Il tema si presta a diverse riflessioni soprattutto per quanto riguarda la gestione dei detenuti, anche con pene particolarmente elevate. Un condannato all’ergastolo, ad esempio, avrà sempre lo stesso “interlocutore” in toga per qualsiasi genere di richiesta, ad iniziare dall’essere ammesso a misure alternative alla detenzione in carcere. Indubbiamente, sulla carta, ciò dovrebbe garantire una corretta gestione della pena sotto il profilo della diretta conoscenza del detenuto. La stessa possibilità di effettuare visite negli istituti penitenziari da parte del magistrato di sorveglianza aumenta poi tali momenti conoscitivi. Attualmente sono circa 193 i magistrati di sorveglianza in sevizio. L’organico previsto è di 204. I profili identitari del “falso innocuo”, del “falso grossolano” e del “falso inutile” di Pietro Alessio Palumbo Il Sole 24 Ore, 15 agosto 2019 Corte di Cassazione - Sezione V - Sentenza 29 maggio 2019 n. 23891. Ricorre “falso innocuo” quando la falsificazione determina un’alterazione irrilevante ai fini dell’interpretazione dell’atto non modificandone il senso. In altri termini il falso è innocuo quando l’attestazione infedele nel falso ideologico ovvero l’alterazione nel falso materiale non esplicano effetti sulla funzione documentale dell’atto stesso. Con la sentenza n°23891/2019 la Corte di Cassazione penale ha precisato che l’innocuità non deve tuttavia essere valutata con riferimento all’uso che dell’atto falso venga fatto. La Corte ha anche insegnato che ricorre invece “falso grossolano” quando il falso non è idoneo a trarre in inganno alcuno, in quanto macroscopicamente rilevabile. Precisa infine la Corte che ricorre “falso inutile” quando il falso cade su un atto o anche solo su una parte di esso assolutamente privo di valenza probatoria. La vicenda - In riforma della sentenza di condanna del Tribunale di prime cure, la Corte di Appello aveva assolto l’imputato dai reati a lui ascritti. Si trattava del reato di falsità materiale commessa da pubblico ufficiale in atti pubblici. La Corte territoriale aveva ricondotto l’ipotesi di falso contestata alla fattispecie del falso innocuo ed aveva assolto l’imputato. In particolare l’imputato, nella sua qualità di Comandante della stazione dei Carabinieri e nell’esercizio delle sue funzioni, aveva redatto un verbale di notifica di provvedimento di sottoposizione a misura cautelare degli arresti domiciliari, contraffacendo la firma di due agenti di polizia giudiziaria, anch’essi in servizio presso la stazione Carabinieri, i quali non erano affatto presenti alla redazione del verbale. Nel caso di specie in buona sostanza l’apposizione sul verbale delle firme false dei carabinieri, si sarebbe tradotta unicamente nella non veritiera attribuzione della paternità dell’atto a questi ultimi, non incidendo sulla verità sostanziale che lo stesso verbale era diretto a provare e consistente nell’esecuzione del provvedimento cautelare. Secondo la Corte territoriale il verbale aveva natura esclusivamente ricognitiva degli adempimenti esecutivi compiuti, che nel caso di specie risultavano formalmente e materialmente riconducibili al solo imputato, il quale peraltro aveva redatto in proprio la relata di notifica sullo stesso atto. Il principio di diritto - Il Procuratore generale presso la Corte di Appello e la parte civile hanno proposto ricorso per Cassazione avverso l’anzidetta sentenza di seconde cure. La Corte di Cassazione chiarisce che sussiste “falso innocuo” quando l’infedele attestazione nel falso ideologico è del tutto irrilevante ai fini del significato dell’atto e del suo valore probatorio e pertanto non esplica effetti sulla sua funzione documentale. Funzione documentale che non è solo quella immediatamente riconducibile alla natura dell’atto e allo scopo per il suo tramite realizzato, essendo la funzione documentale dell’atto pubblico, non circoscrivibile al suo contenuto in senso stretto. Contenuto funzionalmente e strettamente correlato allo specifico atto posto in essere, non essendo scindibile dal complessivo contesto probatorio-documentale in cui si inserisce, che è, a ben vedere, ciò che gli conferisce l’essenza della sua stessa natura pubblica. In altre parole anche ad esempio. L’indicazione della data o del luogo possono assumere rilievo documentale sotto il profilo penale laddove frutto di dolosa falsificazione e sebbene possa non rilevare ai fini dell’uso dell’atto. Rilievo inteso in senso stretto, funzionalmente correlato all’atto medesimo, del fatto che esso sia stato compiuto in un determinato giorno o luogo. In buona sostanza l’innocuità deve essere valutata non con riferimento all’uso che dell’atto falso venga fatto ma avendo riguardo all’idoneità dello stesso ad ingannare comunque la fede pubblica e l’affidamento che i terzi possono fare su quanto da esso risulti, non solo con riferimento al suo contenuto intrinseco ma anche alla sua provenienza. È rilevante sotto il profilo documentale non solo la circostanza che un documento pubblico sia stato posto in essere da un soggetto in luogo di un altro, quandanche con la medesima qualifica, ma anche che l’atto risulti proveniente da soggetti che in realtà non hanno partecipato all’atto. Risulta tradita in entrambi i casi la stessa natura pubblica dell’atto medesimo che è tale perché prodotta da pubblici ufficiali. A ben vedere costituisce criterio fondamentale il fatto che la condotta incriminata ha messo in pericolo il bene importantissimo della pubblica fede. È dunque sufficiente il dolo generico e mai può assumere rilevanza il motivo stesso della falsità. Di talché, insindacabile il motivo della falsa attestazione, ciò che rileva è la consapevole e volontaria falsità dell’attestazione medesima, operata da un pubblico ufficiale nelle proprie funzioni. Emoderivati, niente prova del nesso di causalità di Alessandro Galimberti Il Sole 24 Ore, 15 agosto 2019 È una lunga e articolata motivazione quella con cui la VI sezione penale del Tribunale di Napoli ha mandato assolti - lo scorso 25 marzo - i nove imputati per lo scandalo degli emoderivati. L’accusa era per tutti di aver provocato in cooperazione colposa la morte di nove pazienti emofilici, curati fino alla fine degli anni ‘80 con prodotti contenenti i virus (tra gli altri) dell’epatite C e dell’Hiv. La motivazione del verdetto, depositata extra termine per la complessità della monumentale istruttoria, spiega i termini giuridici del proscioglimento amplissimo (“il fatto non sussiste”) a partire dall’ex Direttore generale del servizio farmaceutico nazionale (e presidente della Commissione trasfusione sangue e presidente della Commissione unica del farmaco) Duilio Poggiolini, oltre a diversi apicali di aziende farmaceutiche e all’ex direttore di Aima derivati. Il giudice estensore, Antonio Palumbo, ricostruisce dall’inizio la vicenda processuale - questo dibattimento era figlio del processo per “epidemia colposa” chiuso a Trento nel 2003, anche lì con un proscioglimento generale - ripercorrendo tutte le tappe storiche del commercio dei preparati salvavita, della loro origine e della loro somministrazione. Il magistrato prende però atto della indimostrabilità di tutte le contestazioni giuridiche formulate su decessi ormai lontani nel tempo (avvenuti tra il 2000 e il 2009), nessuno dei quali peraltro seguito da autopsia, soprattutto dei pilastri attorno ai quali sono state costruite le imputazioni. In particolare, scrive il tribunale, non è stato possibile in nessun caso stabilire il momento di contrazione dell’infezione letale da parte del paziente, né individuare il lotto di emoderivato sospetto (e dimostrarne a seguire l’efficacia eziologica nell’evento morte) e quindi imputare i fatti alternativamente a una o più delle varie aziende portate a processo. La ricostruzione clinica è resa poi impossibile dalla natura della patologia emofilica - che è ereditaria, si manifesta nei primi anni di vita e veniva curata dall’inizio con una pluralità di terapie, spesso tra loro concorrenti se non anche contemporanee - con l’ulteriore complicazione delle certificazioni che all’epoca assistevano i farmaci utilizzati. In particolare, gran parte degli emoderivati veniva prodotto con plasma proveniente dagli Usa, garantito dalla Food and Drug Administration, nonostante ci fossero alla fonte donatori professionisti (vietati in Europa) in situazioni ritenute (successivamente) a rischio, come per esempio la popolazione carceraria. Le difese degli imputati hanno dimostrato che a partire dall’1987/88, quando ormai fu chiaro il veicolo di trasmissione delle patologie di causa - le norme nazionali e le prassi aziendali avevano innalzato il livello di precauzione nei preparati, facendosi autorizzare periodicamente i cicli virucidi. Anche gli omeopatici scaduti fanno scattare il reato di commercio di medicinali guasti Il Sole 24 Ore, 15 agosto 2019 Corte di Cassazione - Sezione I - Sentenze 5 agosto 2019 n. 35627. È reato vendere medicinali omeopatici scaduti. Lo ha precisato la Cassazione con la sentenza 35627. A nulla è valsa la tesi della difesa di un farmacista che sosteneva che ai prodotti omeopatici “privi di efficacia terapeutica” non si potevano applicare le fattispecie previste dagli articoli 443 (Commercio o somministrazione di medicinali guasti) e 452 (Delitti colposi contro la salute pubblica) del codice penale. I giudici di legittimità hanno precisato che “non è minimamente dubitabile le riconducibilità del farmaco omeopatico al concetto di medicinale”. Secondo i magistrati è “palesemente errato restringere il concetto di medicinale ai soli preparati che svolgono una funzione terapeutica validata”. Inoltre il Dlgs 219/2006, che recepisce la direttiva europea relativa al codice comunitario dei medicinali per uso umano, ricomprende nel suo ambito i prodotti omeopatici, sottoponendoli a procedure di registrazione, ad etichettature, al rispetto di standard di sicurezza e a farmaco-vigilanza. Quindi - chiosano i giudici - “anche il farmaco omeopatico scaduto costituisce un medicinale “imperfetto” nel senso richiesto dall’articolo 443 del codice penale”. Firenze: a Sollicciano condizioni disumane, il carcere va abbattuto e ricostruito Corriere Fiorentino, 15 agosto 2019 Alla condizione tragica in cui versa da anni il sistema carcerario italiano, all’affollamento soffocante delle celle, alla scarsità di personale qualificato, ai turni massacranti degli agenti di polizia penitenziaria e, non ultimi, agli episodi di violenza che si verificano tutti i mesi nei penitenziari sarà dedicata l’iniziativa “Ferragosto in carcere” che, oggi, vedrà il sindaco Dario Nardella, gli attivisti di Progetto Firenze, gli esponenti della Camera Penale e i consiglieri comunali del gruppo Sinistra Progetto Comune, visitare Sollicciano. Il sindaco lancia l’idea di una soluzione drastica per le condizioni del penitenziario: “La mia proposta è che il carcere di Sollicciano venga presto demolito e ricostruito più grande, penso che debba essere un fiore all’occhiello per quanto riguarda il modello di rieducazione e di reinserimento dei detenuti nel tessuto sociale e lavorativo della società”, ha spiegato Nardella nell’anticipare l’evento di questa mattina organizzato dal Partito Radicale e dall’Osservatorio Carcere dell’Ucpi. Il primo cittadino di Firenze ha aggiunto che visiterà il carcere perché “è il peggiore d’Italia, e al cui interno si verificano spessissimo risse tra detenuti, cadono i calcinacci, alcuni settori dovrebbero essere chiusi e ci sono condizioni bestiali per il sovraffollamento con le temperature che d’estate superano anche i 40 gradi”. Della stessa opinione anche il sindaco di Scandicci, Sandro Fallani: “Scriverò a Dario per un’azione congiunta” perché quel carcere “è una delle “brutture” e delle ferite lasciate in eredità dagli anni 80”. Nardella si è poi complimentato con gli attivisti Radicali “gli unici a occuparsi di questo tema”. Ma proprio loro, pur apprezzando il fatto che oggi il sindaco trascorra il suo Ferragosto “tra le sbarre”, esprimono perplessità sulla proposta di demolizione. “Quando si parla di buttare giù istituti penitenziari e ricostruirne di nuovi - afferma Massimo Lensi di Progetto Firenze - bisogna avere le idee chiare o si finisce come a Pescia: costruito nel 1986, costato 5 miliardi di lire e mai aperto”. Per un nuovo penitenziario, spiega, ci vogliono 15 anni: “Nel frattempo che ne facciamo dei 700 detenuti? Pensiamo a progetti di rieducazione e risocializzazione”. Grosseto: detenuti con problemi di alcol, riparte il progetto di ascolto e assistenza dell’Asl maremmanews.it, 15 agosto 2019 È stato riattivato, dopo un periodo di sospensione, il progetto che vede protagonisti la Asl Toscana sud est, la direzione della Casa circondariale di Grosseto e le associazioni Club alcoolici territoriali (Acat) Grosseto Green e Grosseto Nord, a sostegno della salute dei detenuti con problemi alcol-correlati. Il progetto, nato nel 2015, è stato strutturato come rete di ascolto e di assistenza per i detenuti con l’obiettivo di aiutarli nella gestione dei problemi relativi all’uso di alcol e fornire loro gli strumenti per mantenere l’equilibrio raggiunto anche nella fase post carcere. Il programma di recupero prevede l’organizzazione di un club alcoolico all’interno della struttura di via Saffi, a cui i detenuti possono aderire per partecipare a incontri periodici con gli operatori. Gli incontri sono condotti da un “servitore-insegnate”, volontario esperto dell’Acat, insieme alla collaborazione dei professionisti del Serd e degli educatori della Casa Circondariale. Nel programma i detenuti sono seguiti dai professionisti dell’Unità Funzionale Dipendenze Area grossetana (Serd), diretta dal dottor Fabio Falorni. In particolare, il coordinamento é affidato alla psicologa Paola Bovo, responsabile del Percorso Diagnostico Terapeutico Assistenziale Alcol della Asl, che insieme ad altri operatori sanitari e all’assistente sociale si dedicano alla realizzazione del progetto, partendo dalla prima fase di valutazione dei problemi legati all’abuso di alcool, avviata su richiesta del detenuto stesso o su segnalazione di sanitari o educatori che lavorano direttamente nella struttura. “Le nostre azioni sono orientate a riconoscere subito i detenuti che manifestano problemi da alcol - spiegano gli operatori Asl - attraverso l’incremento dell’attenzione di chi sta costantemente a contatto con loro. Nel percorso che facciamo insieme, cerchiamo di affinare sempre di più gli strumenti di lavoro per la soluzione dei problemi legati agli alcolici, offrendo loro una rete di supporto al cambiamento e a nuovi stili di vita senza il consumo di bevande alcoliche”. “Chi ha problemi alcol-correlati si trova in una situazione di difficoltà fisica e psicologica. - spiega Falorni - Riuscire a uscire da queste criticità necessità molto impegno e ancora di più in situazioni particolari come la detenzione. Per questo il progetto si pone il duplice obiettivo di aiutare queste persone a smettere con l’uso di alcol, sensibilizzandole anche a corretti stili di vita in generale, e quello di rappresentare un ponte che li prepara gradualmente e li accompagna verso il rientro nella comunità, in linea con il principio di continuità della presa in cura del paziente”. Porto Azzurro (Li): le borse artigianali realizzate dai detenuti di Marco Belli gnewsonline.it, 15 agosto 2019 Dalla collaborazione fra la Casa di reclusione di Porto Azzurro e l’azienda Dampaì nasce un percorso di produzione artigianale ad alto tasso di sperimentazione sociale: le borse fatte a mano nel laboratorio realizzato all’interno dell’istituto penitenziario. Un progetto creativo che si fa impresa sociale, perché mette al centro le relazioni tra detenuti lavoratori e un brand di moda e design nato all’isola d’Elba nel 2011. Dallo scorso anno Dampaì ha infatti trasferito il suo magazzino all’interno della Casa di reclusione “Pasquale De Santis”. Da questa esperienza è maturata l’idea di aprire un vero e proprio laboratorio di produzione artigianale, con due detenuti che sono stati selezionati sia per gestire il magazzino che per realizzare i nuovi accessori moda. Il percorso si è sviluppato velocemente, prima attraverso la formazione professionale dei due detenuti e con particolare attenzione agli aspetti gestionali e umani innescati dal processo produttivo che deve confrontarsi con le regole di un carcere. Successivamente, il frutto di questo delicato lavoro è stato la messa in commercio presso i Dampaì Stores dell’isola d’Elba e presso alcuni rivenditori in Italia di tre modelli di borse interamente confezionate all’interno del carcere: la Two e la Three, borse a mano e tracolla in gomma espansa, e la borsa in rete Lilly, trasformabile in zaino. Inoltre, all’interno del laboratorio del carcere, si sta lavorando a una borsa in pelle completamente realizzata a mano che il cliente potrà comporre a suo piacimento, con l’aiuto di simulazioni computerizzate, personalizzando materiali e finiture. Una volta scelta la propria combinazione, il cliente invierà l’ordine e la borsa sarà realizzata appositamente per lui nel laboratorio interno al carcere. Cinque giorni per realizzare la borsa, sette giorni per recapitarla all’acquirente. Questa filiera di produzione permetterà in qualche modo di realizzare uno scambio tra cliente e detenuto, con l’obiettivo di ridurre l’isolamento del detenuto attraverso l’abbattimento di barriere, anche psicologiche, tra il dentro e il fuori. Zhang è uno dei due detenuti lavoranti nel laboratorio. Ha già scontato gran parte della sua pena e pertanto, a seguito di un contratto di lavoro, può uscire dal carcere. Sa cucire molto bene e pertanto la direzione del carcere l’ha scelto per questo lavoro; inoltre si occupa di gestire il magazzino e il rifornimento esterno agli store presenti sull’isola d’Elba. Non avendo la patente, come quasi tutti i detenuti che non hanno avuto la possibilità di rinnovare le loro licenze di guida scadute nel corso degli anni, viene solitamente accompagnato da qualcuno dell’azienda quando distribuisce le borse nei negozi. Gli hanno comprato anche una bicicletta elettrica che lui utilizza per rifornire i vari punti vendita quando nessuno può accompagnarlo in auto. “È uscito due volte in bici e due volte ha preso la febbre”, racconta Simona Giovannetti, titolare della Dampaì. “Ma come, Zhang… Grande e grosso come sei, prendi la febbre?”, gli ha chiesto. E lui: “Non ero più abituato al vento”. Livorno: Gorgona e Pianosa, dal programma Ue fondi per l’inclusione dei detenuti di Nicola Vanni livornotoday.it, 15 agosto 2019 La Regione beneficerà di 1 milione e 300mila euro per la formazione e l’inserimento lavorativo dei carcerati. Il direttore della casa circondariale di Livorno, Carlo Mazzerbo: “Ci aiuterà a crescere”. Favorire la formazione e l’inserimento lavorativo dei detenuti di Pianosa e della Gorgona dove sono localizzate due delle cinque colonie agricole penali presenti in Italia, affinché una volta usciti dal carcere possano avere più possibilità di integrarsi nella società. È questo l’obiettivo di un progetto del Ministero di Grazia e Giustizia di cui è stata individuata come beneficiaria anche la Regione Toscana insieme a Puglia, Abruzzo e Sardegna. Il progetto, a cui la giunta regionale ha aderito nella sua ultima seduta su proposta dell’assessore all’istruzione, formazione e lavoro Cristina Grieco, vede la Toscana poter disporre di ha un budget complessivo di 1.300.000 euro, risorse che provengono dal Programma Operativo Nazionale (Pon) Inclusione. In particolare il progetto della Regione Toscana intende creare un sistema integrato ed innovativo nel quale i detenuti possano imparare un mestiere ma che contestualmente promuova lo sviluppo di attività economiche, come produzioni agricole, compatibili a quei territori e tese alla tutela del loro habitat. Il progetto avvierà quindi un’azione di potenziamento delle competenze dei detenuti attraverso attività formativa in aula e sul campo e attraverso una serie di azioni pilota che prevedranno l’inserimento lavorativo in aziende del settore agricolo - grazie alla creazione e all’animazione di una rete territoriale finalizzata all’inserimento lavorativo e sociale - e il supporto a percorsi di autoimprenditorialità. Verranno così trasmesse al detenuto le competenze che gli permettano di acquisire le professionalità necessarie a garantire continuità lavorativa al momento del ritorno in libertà. “È importante - ha sottolineato Cristina Grieco - che ai detenuti venga offerta, già negli istituti penitenziari, la possibilità di professionalizzarsi, imparare un mestiere e potersi creare un’opportunità di reinserimento lavorativo e sociale. Il lavoro è uno strumento fondamentale per la tutela della dignità umana e di “reinserimento sociale” e si inserisce nel concetto più ampio di funzione rieducativa della pena”. Recenti studi dimostrano infatti in modo inequivocabile che il tasso di recidiva dei soggetti che hanno avuto opportunità di svolgere attività formative e lavorative durante il periodo di esecuzione della pena, è molto inferiore rispetto agli altri: ciò è determinato, prevalentemente, dal reinserimento nel tessuto produttivo conseguente all’acquisizione di professionalità richieste dal mercato del lavoro. Ferrara: “Internazionale” incontra il carcere, due giornate di apertura alla cittadinanza cronacacomune.it, 15 agosto 2019 Nell’ambito del programma ufficiale del Festival di Internazionale, anche quest’anno i cancelli del carcere di Ferrara si apriranno per far entrare i cittadini interessati a conoscere due fra i diversi aspetti del lavoro culturale che si svolge al suo interno. Normalmente sappiamo poco di ciò che avviene all’interno di un carcere, ma soprattutto non conosciamo tutto ciò che si fa per attuare quella rieducazione della persona condannata a cui deve tendere la pena secondo la nostra Costituzione. Sono diverse le attività trattamentali che si svolgono a Ferrara: l’attività scolastica (dall’alfabetizzazione all’Università), la formazione professionale, la biblioteca, le attività culturali e sportive, il progetto Galeorto, il laboratorio di bricolage, gli incontri con gli studenti, il teatro, la pittura, la fotografia, il cinema, il giornale; ciascuna di queste, nel suo piccolo, contribuisce a ridefinire un pezzo di orizzonte futuro per le persone detenute che vi partecipano. Fra le varie iniziative, vista la grande partecipazione di pubblico degli anni scorsi, “Il Festival incontra il carcere” sarà riproposta anche quest’anno con lo scopo di promuovere occasioni di comunicazione e di crescita fra le persone che possano aprire una porta nelle barriere culturali ed emotive che fanno del carcere un mondo a parte. Venerdì 4 ottobre 2019, dalle 19 alle 21, la compagnia di detenuti attori diretti da Horacio Czertok e Marco Luciano presenterà “Album di famiglia”, uno spettacolo teatrale che rappresenta la conclusione di un laboratorio di due anni che si colloca nell’ambito del progetto “Padri e Figli” del Coordinamento Teatro Carcere Emilia Romagna. La proposta del Teatro Nucleo è uno studio sui temi della colpa, del lutto, dell’eredità e del conflitto generazionale attraverso la figura di Amleto nelle varie riscritture del 900, da Heiner Muller a Laforgue, suggerite ai detenuti e da questi rielaborate in scritture biografiche. Sabato 5 ottobre 2019, dalle 9.30 alle 12, si svolgerà la seconda edizione de “La città incontra il carcere”. Il programma prevede dapprima una visita alla mostra di pittura, con i quadri realizzati da persone detenute nell’ambito del laboratorio artistico attivato all’interno della Casa Circondariale e condotto da Raimondo Imbrò; a seguire ci sarà l’incontro con il comitato di redazione di Astrolabio, composto da 15 persone detenute coordinate dal curatore Mauro Presini e dall’insegnante volontaria Lorenza Cenacchi, che incontrerà e dialogherà con i giornalisti ed i cittadini sul tema della comunicazione tra carcere e società. La prenotazione è obbligatoria alle due iniziative, va fatta distinta e deve essere compiuta entro mercoledì 4 settembre 2019; per il teatro occorre scrivere a: teatroccferrara@gmail.com mentre per l’incontro con la redazione di Astrolabio bisogna scrivere a: info@giornaleastrolabio.it. In entrambi i casi occorre specificare: nome e cognome, luogo e data di nascita ed allegare la scansione della carta di identità. Maggiori informazioni si possono trovare alle rispettive pagine web: teatronucleo.org - giornaleastrolabio.it. Spoleto (Pg): cuccioli abbandonati e traumatizzati, saranno i detenuti a prendersene cura perugiatoday.it, 15 agosto 2019 Ottanta detenuti potranno diventare operatori di canile e, affiancati da operatori del settore, intraprendere un percorso per acquisire una professionalità spendibile in futuro, una volta scontata la pena. Si chiama “Usciamo dalle gabbie” il progetto realizzato dal Comune di Spoleto, dal carcere della città ducale e dalla Fondazione Cave Canem, volto a favorire la socializzazione di cuccioli abbandonati e garantire il recupero comportamentale di cani adulti traumatizzati, aumentando così le possibilità di adozione. Il tutto, grazie alla partecipazione di circa ottanta detenuti (selezionati da un’apposita commissione) che frequenteranno il corso teorico - pratico della durata di un anno per operatore di canile tenuto da docenti esperti della Fondazione. Il progetto è stato curato nella fase organizzativa dal Comandante dell’istituto di Spoleto Marco Piersigilli e dal responsabile dell’area trattamentale Pietro Carraresi, che seguiranno il coordinamento anche nella fase attuativa. “È un progetto di cui siamo molto orgogliosi - ha dichiarato l’assessore all’ambiente Maria Rita Zengoni - perché si pone un duplice obiettivo: coinvolgere i detenuti in un percorso formativo e lavorativo che gli permetterà di acquisire nuove conoscenze e, allo stesso tempo, assistere ed educare cuccioli e cani randagi. Riteniamo possa essere un’ulteriore occasione per far partecipare i detenuti anche alle attività lavorative nel nostro territorio”. Durante le lezioni pratiche detenuti e docenti lavoreranno inizialmente con cani già inseriti in famiglia accompagnati dai proprietari; una volta che i detenuti avranno acquisito competenze, conoscenze e capacità, potranno supportare i professionisti coinvolti nelle attività di assistenza di cani e gatti senza famiglia. I detenuti saranno poi impegnati anche nella realizzazione dell’area esterna alla Casa di Reclusione destinata ad ospitare alcuni cani e cuccioli del canile rifugio di Spoleto che necessitano di particolare assistenza e la colonia felina già presente nella struttura penitenziaria; cani e gatti randagi avranno a disposizione cucce accoglienti, ampi spazi verdi e potranno contare sull’assistenza e il monitoraggio costante di educatori cinofili, medici veterinari, operatori e volontari già impegnati in altri canili rifugio. “C’è grande entusiasmo intorno a questo progetto - sono state le parole del Direttore della Casa di reclusione di Spoleto, Giuseppe Mazzini - perché è il segno di un impegno fattivo e di ampio respiro, e un’opportunità straordinaria per i detenuti e per il futuro, una volta scontata la pena” Le immagini che raccontano i mondi dimenticati di Chiara Mariani Sette del Corriere, 15 agosto 2019 Ha fotografato settantaquattro carceri del Sud America nell’arco di dieci anni. Ora Valerio Bispuri ha compiuto un’altra impresa. Tre anni per superare la burocrazia italiana, varcare la soglia di dieci prigioni da nord a sud della penisola (da San Vittore all’Ucciardone, da Bollate a Poggioreale) e conquistare la fiducia dei reclusi. Un “assegnato” (cioè un incarico ufficiale) di The Washington Post ha invece portato Lorenzo Tugnoli due volte nel 2018 nello Yemen: una terra devastata da una guerra che ha scatenato, secondo la definizione delle Nazioni Unite, la peggior crisi umanitaria provocata dalla mano dell’uomo. Un reportage che gli è valso il Premio Pulitzer di quest’anno. Ai nostri giorni, assediati dalle immagini, capita che ci si scordi delle fotografie. Alcuni appuntamenti però ribadiscono la distinzione tra gli scatti nati da una casualità più o meno fortunata e quelli realizzati da chi imbraccia la macchina fotografica per mestiere. Da trentuno anni il Festival Visa pour l’Image di Perpignan (che quest’anno si svolge dal 31 agosto al 15 settembre) sottolinea la fatica, lo studio e il talento dei reporter di professione con mostre allestite nei luoghi più suggestivi della cittadina, proiezioni serali, premi. Particolarmente attesa l’incoronazione dei vincitori delle due categorie più ambite: Features e News. Gli italiani Valerio Bispuri e Lorenzo Tugnoli compaiono nella ristretta rosa dei finalisti di entrambe le sezioni con i rispettivi lavori. Sono in lizza con colleghi altrettanto meritevoli quali Frédéric Noy, indiscusso esperto d’Africa, nominato per il servizio sullo stato di salute del Lago Vittoria; Guillermo Arias, che ha seguito il peregrinare dei migranti dal Messico verso gli Stati Uniti; Ivor Prickett, autore di una serie di servizi fotografici nei luoghi dell’Isis, finanziati dal The New York Times, che sono confluiti in un libro dal titolo “La fine del Califfato”. Una sola donna: Kirsten Luce, il cui lavoro, prodotto dal National Geographic, rivela i lati oscuri del turismo wild life che troppe volte richiede lo sfruttamento degli animali, chiamati a soddisfare le esigenze degli escursionisti wild per un giorno. “Una via nel deserto”, di James Bishop. In carcere, ma resi liberi dalla Regola di Roberto I. Zanini Avvenire, 15 agosto 2019 Viviamo da prigionieri in un mondo di prigionieri. Basta guardare i titoli dei giornali o pensare a modi di dire e frasi fatte per constatare che siamo infarciti di metafore carcerarie del tipo “mi sento in gabbia”, “imprigionati nal traffico”, “prigioniero del vizio”, “dietro le sbarre della vita”. Perché le prigioni possono essere tante, a volte hanno sbarre dorate, spesso sono illusioni, trappole in cui siamo caduti e di cui tante volte nemmeno ci rendiamo conto. Vita da prigionieri, quindi. E ce lo indicano anche molti celebri autori: da “È una bella prigione il mondo” di Shakespeare a “Noi uomini viviamo come in una specie di prigione” di Socrate, per restare sul metaforico. Se poi vogliamo guardare a chi di carcere parla davvero, Le mie prigioni di Pellico sono una miniera: “Amicizia e religione sono beni inestimabili! Abbelliscono anche le ore dei prigionieri”. Ancor più numerose le citazioni che si possono trarre da Dostoevskij a cominciare dall’ottimistica “Anche in prigione si può trovare ampiezza e pienezza di vita”. Una pienezza quasi sempre legata alla propria interiorità o a quella speranza che nasce dal ricevere una visita. Lo stesso Pellico, a riguardo, annotava che visitare i carcerati è opera di misericordia fra le più meritevoli ed efficaci. Perché accade davvero che visitando un carcerato o intrattenendo con lui una corrispondenza gli si possa cambiare la vita. Ce lo dicono le storie di uomini aiutati a risorgere, che ci possono raccontare tanti cappellani di carcere e tanti assistenti sociali che amano il loro lavoro. Fra queste storie risulta davvero singolare e istruttiva quella di James Bishop, raccontata da lui stesso in “Una via nel deserto” (Lef, pagine 282, euro 20). Bishop oggi è un oblato benedettino legato alla Comunità mondiale per la meditazione cristiana. In questo libro racconta di quando, detenuto in un carcere degli Stati Uniti per gravi reati, è “rinato” grazie alla visita di un oblato della Comunità. Una vita rivoluzionata dallo scoprire che la Regola di san Benedetto poteva essere applicata alla prigione e che in essa si trovavano le motivazioni giuste per dare un senso, una profondità e uno scopo a ogni gesto e a ogni ora. Naturalmente non è stata una cosa facile. Lo dice fin dal principio: “Cambiare la mia vita è una cosa che ho deciso di fare tanti anni fa, all’inizio della mia detenzione. Oggi sarei felice di poter dire che è stata una cosa semplice, ma si è trattato della cosa più difficile che ho fatto. La mia fortuna è l’essere stato indirizzato alla Regola proprio in quei giorni difficili ed essa mi ha realmente aiutato”. Il libro nasce dalla constatazione che tutti noi possiamo incamminarci sulla strada della libertà qualunque sia la nostra forma di prigionia, basta avere la giusta guida. Così le sue pagine offrono una quotidiana meditazione della Regola evidenziandone quella straordinaria valenza liberatoria, che trae vita direttamente dal Gesù dei Vangeli e dalla sua forza di amore nell’accoglienza e nel perdono. E se la prima parola della Regola è “Ascolta”, autentica rivoluzione per la società contemporanea, l’obiettivo a cui conduce è pura libertà: “Non si tratta di innamorarsi, ma di essere noi stessi amore”. Tutto questo per spiegare “come dopo essere stato spedito in un carcere vero mi sia sentito più libero di prima”. C’è anche Instagram nel capitalismo della sorveglianza di Arturo Di Corinto Il Manifesto, 15 agosto 2019 Gmail ci legge la posta, Messenger registra i messaggi audio e li trascrive, Alexa, Siri e Assistant ascoltano le nostre conversazioni private; FaceApp immagazzina i volti, Grindr le informazioni sessuali: è il nuovo capitalismo della sorveglianza. La notizia della settimana è che anche le storie di Instagram, quelle che dovrebbero scomparire dopo un giorno, vengono catturate in rete e conservate insieme alla localizzazione degli autori. Un marketing partner di Facebook, la Hyp3r di San Francisco, secondo Business Insider ha tracciato segretamente 49 milioni di posizioni e storie degli utenti di Instagram, raccogliendo enormi quantità di dati per creare profili utente che includevano la posizione fisica degli utilizzatori, le loro biografie, gli interessi e persino le foto che avrebbero dovuto svanire dopo 24 ore. Facebook, proprietaria di Instagram, ha confermato l’accaduto e la “violazione delle regole di Instagram”, invitando il partner a desistere con una lettera. Lo faranno? In genere le multe comminate ai giganti della rete dopo che sono stati scoperti, gli fanno solo il solletico. Tutte le aziende lo negano ma agire in questo modo gli serve per calibrare meglio pubblicità, annunci e Roi (return on investment). Una massiccia raccolta di dati fatta per inserzionisti, rivenditori o persino hedge fund in cerca di informazioni preziose sul comportamento dei consumatori. Un targeting snervante e invasivo secondo la logica del “più cose so di te meglio posso indurti nuovi desideri” è agito ogni giorno a dispetto delle leggi che vincolano le piattaforme social e i siti web a garantirsi il consenso esplicito dell’utente per raccogliere dati personali a fini pubblicitari o per conto di imprese terze. È così che Gmail ci legge la posta, Messenger registra i messaggi audio e li trascrive, Alexa di Amazon ascolta le nostre conversazioni private, come pure Siri di Apple e Assistant di Google; FaceApp immagazzina i nostri volti, Grindr le informazioni sulle preferenze sessuali, Tik Tok raccoglie i dati di ragazzini non ancora tredicenni. Benvenuti nella società della sorveglianza totale. Le scuse sono sempre le stesse, i grandi gruppi registrano i nostri dati, acquisiscono i like e monitorano i follower, scelgono cosa farci vedere in base ai click precedenti e dicono di farlo per migliorare il servizio e farci accedere a un’esperienza personalizzata. Ognuno di noi dovrebbe chiedersi se questa personalizzazione serva agli utenti o non sia piuttosto finalizzata a realizzare tecnologie tunnel per farci rimanere nei loro walled garden, i giardini recintati dei big player della rete, ma è difficile confutare che questa enorme raccolta di dati serva a creare eserciti di consumatori docili e disciplinati. In parte realizzata da strumenti automatici, in parte affidata a eserciti di ragazzini sottopagati come avviene ad esempio in Cina grazie a programmi industriali che remunerano loro, la scuola e i maestri che si fanno promotori delle “vacanze di lavoro” dei baby-operai. Un affaire venuto a galla grazie a un allarmante rapporto di China Labor Watch che sottolinea anche come i lavoratori siano obbligati a fare gli straordinari, i turni di notte e a subire maltrattamenti fisici e psicologici. Una sorveglianza commerciale, diversa per quantità e qualità da quella statuale esercitata sui corpi e sui desideri teorizzata da Michel Foucault, e dal controllo dei ritmi e dei tempi di produzione della fabbrica di Max Weber, ma ad esse strettamente collegata, che ci tiene lontani da contenuti di qualità e comunità resilienti al capitalismo delle piattaforme che monetizzano ogni click, e nutre, come nel caso di Cambridge Analytica, la macchina della propaganda usata per la Brexit e l’elezione di Trump, raccontata da Jehane Noujaim e Karim Amer nel documentario Netflix “The Great Hack”. Migranti. Il Tar del Lazio boccia Salvini: “Open Arms entri in Italia” di Adriana Pollice Il Manifesto, 15 agosto 2019 L’ong catalana, dopo 13 giorni, va a Lampedusa. Il Viminale ricorre al Consiglio di stato. “Ci dirigiamo verso Lampedusa. Secondo il Tar del Lazio possiamo entrare in acque italiane”: l’annuncio è arrivato ieri pomeriggio via social da Open Arms, la nave dell’ong catalana che navigava senza porto di sbarco dall’1 agosto, giorno del primo salvataggio. I naufraghi a bordo ieri erano 147, al tredicesimo giorno di permanenza senza una fine in vista, almeno fino alla pubblicazione della sentenza che, ancora una volta, ha sconfessato norme e divieti salviniani anche se non ha espressamente disposto lo sbarco. “Chiederemo l’evacuazione medica per tutti i naufraghi”, ha spiegato Oscar Camps. Il Viminale ha già annunciato il ricorso urgente al Consiglio di Stato contro il decreto del Tar proprio mentre la ministra alla Difesa, Elisabetta Trenta (uno dei bersagli di Salvini), annunciava la scorta della Marina all’ingresso di Open Arms in territorio italiano, in modo da essere pronti a un eventuale trasferimento dei 32 minori sulle due motovedette militari. Il Tar del Lazio ieri ha innescato la svolta con la pubblicazione della sentenza con cui ha accolto il ricorso dell’ong (presentato martedì), disponendo “l’annullamento del provvedimento del ministero dell’Interno del primo agosto” (cofirmato da Trasporti e Difesa) che disponeva il divieto di ingresso per la nave in acqua nazionali. Una bocciatura del decreto Sicurezza bis, convertito in legge con i voti dei 5S. Nel dispositivo il presidente Leonardo Pasanisi rileva un “vizio di eccesso di potere per travisamento dei fatti e di violazione delle norme di diritto internazionale del mare in materia di soccorso”. Il Viminale, infatti, nel formulare il divieto riconosce che il gommone soccorso in area Sar libica “quanto meno per l’ingente numero di persone a bordo, era in distress, cioè in situazione di evidente difficoltà”. Ne consegue che “appare contraddittoria la valutazione di “passaggio non inoffensivo”“ utilizzata per bloccare i volontari. È la seconda valutazione, dopo quella della gip di Agrigento Alessandra Vella su Carola Rackete, che boccia la tesi del Viminale sulle ong. La sospensione del divieto, spiega ancora il Tar, è necessaria poiché “sussiste, alla luce della documentazione prodotta (medical report, relazione psicologica, dichiarazione del capo missione), una situazione di eccezionale gravità e urgenza, tale da giustificare una tutela cautelare”, cioè far entrare Open Arms in acque territoriali per prestare immediata assistenza alle persone soccorse, “come del resto sembra sia già avvenuto per i casi più critici”. erano già sbarcate due donne incinte al nono mese e, martedì notte, una famiglia con due gemelli di nove mesi, ma solo perché uno dei neonati aveva urgente bisogno di cure. A causa del braccio di ferro imposto da Salvini, il trasbordo è avvenuto col buio e con il mare diventato, nel frattempo, agitato. I video mostrano i soccorritori impegnati a saltare dalla barca alla motovedetta della Guardia costiera con i piccoli stetti alla tuta in una manovra rischiosa a causa del mare. Che i bambini dovessero sbarcare l’aveva chiarito la garante per l’Infanzia. Il tribunale dei Minori di Palermo ha poi chiesto spiegazioni al governo specificando che venivano violati i diritti dei più piccoli. “Il Tar ha riconosciuto le ragioni della nostra azione in mare - il commento da Open Arms - ribadendo la non violabilità delle Convenzioni internazionali e del diritto del mare”. Salvini ieri ha attaccato a testa bassa: “C’è un disegno per aprire i porti, per trasformare il paese nel campo profughi d’Europa. È un paese strano quello dove una nave spagnola in acque maltesi si rivolge a un avvocato di un tribunale amministrativo per chiedere di sbarcare in Italia. Nelle prossime ore firmerò il mio no perché complice dei trafficanti non voglio essere”. Dopo aver innescato la crisi di governo, Salvini si asserraglia al Viminale e continua la sua propaganda elettorale. Il premier Giuseppe Conte ieri mattina aveva inviato una lettera al leader leghista chiedendo almeno di “mettere in sicurezza i minori”, alla luce dell’intervento del tribunale di Palermo. “Non mi arrendo, resisto a questa vergogna - la replica di Salvini da Recco -. Staremo attenti perché a Roma non si formi una coppia contro natura tra Pd e 5S e tra Renzi e Grillo per riapre i porti”. Quindi l’annuncio del ricorso al Consiglio di stato contro il provvedimento del Tar con la motivazione: “Open Arms ha fatto sistematica raccolta di persone con l’obiettivo politico di portarle in Italia”. L’Ocean Viking, dell’ong Sos Méditerranée e Medici senza frontiere, resta in mare con 356 naufraghi (103 minori) in balia del mare grosso: “Abbiamo chiesto il porto di sbarco a Italia e Malta, stiamo valutando cosa fare dopo la novità del Tar del Lazio”, hanno spiegato ieri. Intanto il premier francese Emmanuel Macron ha attivato la Commissione europea per portare a terra i migranti. Migranti. L’assist dei giudici amministrativi per neutralizzare il decreto-sicurezza di Michela Allegri Il Messaggero, 15 agosto 2019 Una decisione senza precedenti e inaspettata: per la prima volta dall’entrata in vigore del decreto sicurezza bis, il Tribunale amministrativo accoglie l’istanza di una Ong che chiede la sospensione del provvedimento con cui il Viminale - di concerto con i ministeri delle Infrastrutture e dei Trasporti - impone alle navi cariche di migranti di non entrare nelle acque italiane. Una scelta inedita, quella del presidente della Prima sezione Ter, Leonardo Pasanisi, che potrebbe essere un precedente in grado di minare alle fondamenta il dl promosso da Matte() Salvini, fornendo un assist a chi - forte dei rilievi fatti dal presidente della Repubblica - vorrebbe modifiche del testo. Ma il vicepremier leghista è più battagliero che mai: nonostante le polemiche, il dl sicurezza - sottolinea con decisione Salvini - ha dimostrato di essere efficiente. Anche se il ricorso non è stato esaminato nel merito e anche se si tratta di un provvedimento monocratico che dovrà essere confermato in sede collegiale il prossimo 9 settembre, la decisione di ieri consente alla Open Arms di fare rotta verso Lampedusa senza incorrere nelle sanzioni - pesantissime - previste dal decreto. I ricorsi dovranno essere sempre valutati caso per caso, e non è escluso che in futuro il Tar opti per linee differenti, ma c’è un dettaglio non da poco tra le righe di quanto scrive il presidente: l’ingresso nelle acque territoriali viene consentito perché l’imbarcazione si trova in uno stato di “evidente difficoltà”, “quanto meno per l’ingente numero di persone a bordo” e nonostante i soggetti più fragili siano già stati fatti sbarcare. Non era andata così, per esempio, per la Sea Watch di Carola Rakete: lo scorso 18 giugno, lo stesso Tar aveva respinto un identico ricorso presentato dalla Ong tedesca. Una decisione che era stata giudicata “gravissima” dai legali della Sea Watch: “Il Tar ha paradossalmente sostenuto che lasciare in mare 43 persone, compresi dei minorenni, per giorni e giorni non rappresenti quelle condizioni di eccezionale gravità e urgenza che consentono di approntare misure cautelari come quella richiesta”, avevano detto. Una linea che ora, nel caso della Open Arms, è stata ribaltata. Salvini, però, non si dà per vinto e annuncia una doppia offensiva: ricorso urgente al Consiglio di Stato e un nuovo provvedimento che vieti l’ingresso alla nave. Ma i legali di Open Arms fanno notare alcune incongruenze. La prima è che “per varare un nuovo provvedimento serve la firma dei tre ministri, dell’Interno, delle Infrastrutture e della Difesa, non basta quella di Salvini”, dice l’avvocato Arturo Salerni. E anche se la firma ci fosse, “c’è un decreto del Tar che per il momento consente l’ingresso”. La decisione del Consiglio di Stato, inoltre, non arriverà dopo ferragosto. “E ho dubbi anche sul fatto che il ricorso di Salvini sia ammissibile - prosegue il legale - visto che si tratta di un decreto monocratico, che deve ancora essere confermato dal collegio, al di là della trattazione nel merito”. Intanto, due giorni fa, la Ong si è anche rivolta alla Corte costituzionale. Migranti. I costituzionalisti: prevalgono i diritti umani di Flavia Amabile La Stampa, 15 agosto 2019 Cassese: decisione nel solco del monito di Mattarella. Secondo i giuristi non regge né da un punto di vista amministrativo (come conferma la sospensione del Tar) né da un punto di vista costituzionale la decisione di non far entrare nelle acque territoriali italiane la nave Open Arms carica di minori e per 13 lunghi giorni bloccata in mare. Non regge ad esempio secondo Sabino Cassese, giudice emerito della Corte costituzionale e uno dei principali esperti di diritto amministrativo italiano: “Non conosco i dettagli della decisione del Tar ma è probabile che sia stato sollevato uno dei problemi di cui aveva parlato anche il presidente della Repubblica. I due decreti sicurezza sono stati adottati dal Parlamento italiano ma nel rispetto degli obblighi internazionali. Fra gli obblighi internazionali sono previsti il salvataggio in mare e il “non refoulement”, cioè il principio di non respingimento, un principio fondamentale del diritto internazionale: ai sensi dell’art. 33 della Convenzione di Ginevra a un rifugiato non può essere impedito l’ingresso sul territorio né può essere deportato, espulso o trasferito verso territori in cui la sua vita o la sua libertà sarebbero minacciate. Spesso poi dimentichiamo l’accoglienza umanitaria prevista dall’articolo 10 della nostra Costituzione”. Il divieto a entrare nelle acque italiane è del tutto illegittimo anche secondo Michele Massa, professore associato di diritto pubblico all’Università Cattolica di Milano: “La pronuncia del Tar si basa sulle informazioni sulla situazione critica, di stress e di pericolo delle persone a bordo. La priorità è di salvare vite umane, è un principio di civiltà riconosciuto e tutelato dall’articolo 2 della Costituzione. Si vedrà quale sarà la decisione del Consiglio di Stato ma intanto la nave sarà arrivata e il pericolo disinnescato. Non è la prima volta che c’è una decisione giudiziaria di questo tipo, lo abbiamo visto anche nel caso di Carola Rackete”. Gaetano Silvestri, presidente emerito della Corte Costituzionale, avverte che “l’autorità è legittima in quanto tutela i diritti di tutti. Nel caso di persone che si trovano in pericolo di salute, di vita, e in difficoltà a proseguire la strada verso la salvezza è evidente che i diritti fondamentali vengano lesi”. Siria. La storia di Zaid, farmacista fuggito dalla guerra: “me ne sono andato per non uccidere” agensir.it, 15 agosto 2019 Zaid Ameen, radiologo e farmacista siriano, doveva scegliere se entrare nell’esercito o unirsi ai ribelli. Ha preferito una difficile traversata del Nord Africa, fino allo sbarco sull’isola Lampedusa. Accolto dallo Sprar gestito dalla Caritas diocesana di Rieti, ha imparato la lingua e a poco a poco si è inserito nella comunità fino a trovare lavoro in una farmacia cittadina. Continua la catastrofe umanitaria in Siria: le azioni di guerra e i bombardamenti ai danni dei civili non di fermano, e torna ad alzarsi anche la voce di papa Francesco. Bergoglio ha fatto recapitare dal cardinale Turkson una sua lettera per il Presidente siriano Assad, chiedendo “protezione della vita dei civili, stop alla catastrofe umanitaria nella regione di Idlib, iniziative concrete per un rientro in sicurezza degli sfollati, rilascio dei detenuti e l’accesso per le famiglie alle informazioni sui loro cari, condizioni di umanità per i detenuti politici. Insieme a un rinnovato appello per la ripresa del dialogo e del negoziato con il coinvolgimento della comunità internazionale”. La Siria è ormai un campo di battaglia, ed è “molto difficile anche comunicare con i miei familiari rimasti lì, per fortuna ci sono i social network a darci una mano”, racconta Zaid Ameen, protagonista di una bella storia di integrazione. E di speranza. Oggi Zaid è sereno e lavora in un una farmacia del centro storico di Rieti, ma il vissuto che ha alle spalle è tutt’altra cosa, ed è pieno di dolore. Trentaquattro anni, più grande di sei fratelli, Zaid è siriano d’origine ed ha studiato farmacia nel suo Paese: “Ho preso due lauree, una in tecnico di radiologia e una in farmacia, che è sempre stata la mia passione”. Dopo il conseguimento del titolo, inizia a lavorare in un ospedale vicino Damasco, “un lavoro molto difficile e pesante, curavo tanti feriti di guerra, era una situazione di continua emergenza”. A soli 27 anni, la gestione di un compito gravoso sia materialmente che psicologicamente, perché “non era tanto la ferita in sè a far male, il dolore veniva dal motivo che l’aveva causata, da tutto lo sfondo della situazione: gente innocente che moriva inutilmente, solo per le questioni dei potenti che le persone comuni nella maggior parte dei casi ignoravano del tutto. Da noi venivano solo i civili, gli ultimi, coloro che pagavano il prezzo altissimo di uno scenario di cui non erano in nessun modo responsabili”. Nel 2012 Zaid decide di lasciare il suo Paese: una scelta quasi obbligata. “In Siria è obbligatorio fare il servizio militare, e io non volevo. O entravo nell’esercito o mi univo ai ribelli, per cui ho scelto un’altra strada. In caso contrario avrei in qualche modo partecipato alla guerra, a ciò che stava accadendo, e avrei rischiato di uccidere qualcuno”. La partenza in aereo per il Libano, poi la tappa a Il Cairo, in auto fino a Bengasi e quindi di nuovo in aereo fino a Tripoli. In Libia Zaid si mette alla ricerca di un lavoro, ma senza alcun successo. Qualche mese dopo arriva la decisione di venire in Italia via mare, a bordo di uno sgangherato peschereccio, con un “biglietto” pagato 1200 dollari. Il viaggio è terribile. “Non avevo idea di cosa significasse intraprendere un’esperienza simile, mi immaginavo una nave molto più grande, o perlomeno normale, e condizioni certamente diverse. Invece a bordo eravamo 455, assiepati l’uno sull’altro e senza neppure la possibilità di portare una piccola valigia: il nostro unico bagaglio era ciò che indossavamo”. Una traversata di circa ventidue ore, relativamente tranquilla a causa del mare calmo. Ma sulla terraferma di Lampedusa la situazione è ancor peggiore del viaggio. “C’erano tantissimi sbarchi, lo scenario era ingestibile. Ricordo che subito dopo la mia arrivò una barca dalla Libia che aveva a bordo con un carico di soli cadaveri: c’erano circa duecento persone morte a causa di un viaggio agghiacciante”. Dopo un passaggio nell’entroterra siciliano Zaid passa sette mesi in Germania, dove la sua richiesta d’asilo viene respinta, poi arriva in un campo di Roma e finalmente viene accolto in maniera stabile a Rieti, grazie al Progetto Sprar gestito dalla Caritas diocesana. “Dopo solo una settimana dall’arrivo a Rieti la situazione era già tranquilla e normalizzata”, ricorda. “Gli operatori della Caritas sono stati accoglienti e gentili, soprattutto mi hanno fatto un quadro generale sulle cose importanti da sapere per stare in Italia, a partire dall’insegnamento della lingua, della Costituzione. Sono tuttora sempre disponibili ad aiutarmi e naturalmente io ad aiutare loro”. Grazie ai corsi di italiano Zaid impara velocemente la nostra lingua e l’ordinamento giuridico italiano, e pian piano si inserisce nella comunità cittadina, anche attraverso tirocini formativi e attività aggreganti: “Ho fatto il pizzaiolo, come mestiere non riguardava certo la mia formazione ma era un modo come un altro per non rimanere a casa, per essere incluso in città”. Una città che lo ha accolto bene, fin da subito: “A Rieti mai un episodio di intolleranza, nè al lavoro nè in altre circostanze, non ricordo nulla di simile”. Nel febbraio di quest’anno, all’Università di Pavia, l’agognato traguardo dell’adeguamento della laurea siriana a quella italiana, con parecchi esami in più e la tesi. Un impegno che lo porta finalmente ad appuntare sul camice bianco la spilletta che lo identifica come farmacista a tutti gli effetti. Ogni tanto, inevitabilmente, il pensiero corre alla famiglia lasciata in Siria: “Mi mancano. Vivono nella parte peggiore, la zona in cui hanno usato le armi chimiche. Cerco di sentirli spesso, i bombardamenti sono all’ordine del giorno e non c’è un palazzo rimasto integro. Qui sto bene, ma è normale che mi manchino i familiari, gli amici e il mio Paese, anche se sento un grande distacco dalla politica che ha causato tutto questo”. Tuttavia, oggi la sua vita è serena e c’è margine anche per progettare un futuro insieme alla sua ragazza, Ola, che nonostante le difficoltà della burocrazia è riuscita a raggiungerlo a Rieti cinque mesi fa. Mentre ai telegiornali scorrono le immagini del suo Paese martoriato Zaid pensa alla stupidità della guerra, alla sua inutilità: “I risultati sono questi. Ho perso mio padre e non posso abbracciare mia mamma, le mie tre sorelle e i miei tre fratelli, ho visto morire in maniera orribile tante persone care. La guerra è davvero stupida”. Arabia Saudita. L’infame ricatto all’attivista: “libera se dici che non ti abbiamo torturata” di Riccardo Noury Corriere della Sera, 15 agosto 2019 Loujain al-Hathloul, la coraggiosa attivista saudita per i diritti umani, rimarrà in carcere e sotto processo. Come hanno fatto sapere i suoi familiari, ha rifiutato il ricatto delle autorità saudite: se avesse negato di aver subito torture e violenza sessuale durante la detenzione, sarebbe stata rimessa in libertà. Loujain, così come Samar Badawi e Nassima al-Sada, è una prigioniera di coscienza, in carcere dal maggio 2018 solo per aver esercitato in modo del tutto pacifico il suo diritto alla libertà d’espressione. Già promotrice della campagna Women4Drive - alla fine vincente - per il diritto delle donne di guidare, Loujian è stata protagonista anche di quella per l’abolizione del sistema del guardiano maschile, di cui è stata recentemente annunciata una parziale riforma. In altre parole, Loujain è stata ed è perseguitata perché ha lottato contro due dei perni del sistema discriminatorio e oscurantista in vigore in Arabia Saudita. Non è la prima volta che le autorità saudite subordinano il rilascio dei prigionieri - persino a condanna interamente scontata - alla firma di una dichiarazione in cui annunciano il loro “pentimento” o ammettono di aver ricevuto un buon trattamento. Iran. Arrestato antropologo anglo-iraniano che denunciò mutilazioni genitali femminili La Repubblica, 15 agosto 2019 La moglie ha lanciato l’allarme: il professor Kameel Ahmady è stato incarcerato domenica. Arrestato in Iran l’antropologo anglo-iraniano Kameel Ahmady. Lo studioso è stato fermato e condotto in carcere domenica 11 agosto, senza che le accuse fossero comunicate ai familiari. É stata la moglie, Shafagh Rahmani, a dare l’allarme parlando a diversi media e riportando la sua versione: Ahmady non è ancora stato incriminato, ma gli inquirenti nel carcere di Evin hanno fatto sapere che stanno indagando sulle sue attività. L’antropologo è un esperto di infibulazione e nel 2015 ha pubblicato uno studio in cui denunciava che decine di migliaia di donne iraniane hanno subito mutilazioni genitali. A Teheran porta avanti studi su questioni sensibili come le spose bambine e i matrimoni bianchi, quelli non consumati sessualmente. Non si tratta dell’unico anglo-iraniano detenuto in Iran. Un precedente è quello di Nazanin Zaghari-Ratcliffe, arrestata nel 2016 poiché accusata di “spionaggio” e detenuta nella Repubblica Islamica.