Ferragosto tra le sbarre di Claudio Cerasa Il Foglio, 14 agosto 2019 In tempi di “buttare la chiave” l’iniziativa del Partito Radicale vale di più. Il ministro Guardagalere Alfonso Bonafede, quello secondo cui l’unico modo per scontare una pena è il carcere, probabilmente toglierà il disturbo, comunque vada la faccenda del governo. Il dottor Davigo, quello secondo cui esistono solo colpevoli che non sono ancora stati acciuffati, si può sperare che avrà meno influenza sulle linee di condotta di Via Arenula. Ma il rischio che al ministero della Giustizia, prima o poi, finisca un amico fidato di Matteo Salvini, quello dei “lavori forzati” e delle chiavi da buttare via (a quest’ora avrà riempito una discarica), resta forte. Eppure, di carcere, di riforma delle carceri, della loro efficacia ai fini della sicurezza della collettività, o anche solo delle condizioni di vita e salute dei sessantamila reclusi negli istituti penitenziari su cinquantamila posti disponibili (dati del ministero al 31 luglio) non si parla più. O meno di prima. Nonostante i 28 detenuti (fonte Antigone) suicidatisi dalla fine dell’anno. Così è anche più che doveroso sottolineare l’importanza della consueta testimonianza civile e politica radicale di agosto sulle carceri. “Ferragosto in carcere” è il nome dell’iniziativa promossa dal Partito Radicale in tutta Italia, in collaborazione con l’Osservatorio sulle carceri dell’Unione Camere penali, che con una mobilitazione speciale di oltre trecento persone quest’anno entrerà in circa settanta istituti penitenziari in tutte le regioni. Lo scopo? “Incontrare i detenuti e il personale che svolge la propria attività lavorativa per conoscere meglio le condizioni di ogni struttura carceraria”, spiegano. O, per dirla con Rita Bernardini, perché è in questi palazzi che si può capire “il grado di civiltà di un paese”. Non sarà solo il giorno di ferragosto, le visite - molti i parlamentari, molti i garanti dei detenuti - dureranno quattro giorni, dal 15 al 19 agosto. Un modo per non dimenticare, nemmeno nei giorni in cui è bello dimenticarsi di tutto, che la giustizia è un bene centrale di una democrazia. I Garanti: ora il diritto alla sessualità in carcere di Grazia Zuffa Il Manifesto, 14 agosto 2019 L’iniziativa parte dalla Conferenza dei garanti regionali delle persone private della libertà, che chiedono ai consigli regionali di fare propria una proposta di legge per la “tutela delle relazioni affettive e intime delle persone detenute”, per poi presentarla alle Camere. Si riparla di affettività e sessualità in carcere. L’iniziativa parte dalla Conferenza dei garanti regionali delle persone private della libertà, che chiedono ai consigli regionali di fare propria una proposta di legge per la “tutela delle relazioni affettive e intime delle persone detenute”, per poi presentarla alle Camere. L’idea di rivolgersi ai consigli regionali è quanto mai opportuna. Il coinvolgimento di istituzioni decentrate come le Regioni darà risonanza - si spera - a una campagna di largo respiro che riaffermi i limiti (costituzionali) della pena nella sua valenza afflittiva, e di converso riproponga il tema dei diritti fondamentali che le persone mantengono pur se ristrette. Perché questa è la questione, al nocciolo. Può lo Stato privare le persone del diritto a una vita sessuale e a coltivare affetti solo perché imprigionate? Togliere ai detenuti e alle detenute una vita relazionale e sessuale non contrasta col loro diritto alla salute, inteso come diritto alla tutela del benessere psicofisico e sociale? E non è forse il diritto alla salute il primo dei diritti fondamentali per tutti i cittadini e le cittadine, liberi o detenuti? Questi quesiti, che rimandano a principi etici e costituzionali, non sono inediti e vi sono pronunciamenti autorevoli a favore del diritto alla sessualità e all’affettività in carcere. Li citeremo tra poco. E allora perché i detenuti e le detenute italiane aspettano da oltre venti anni che tali principi si calino nel concreto della vita carceraria? La prima iniziativa risale al secolo scorso, al 1999. Alessandro Margara, allora direttore dell’Amministrazione Penitenziaria, propose di modificare il Regolamento di attuazione dell’ordinamento penitenziario introducendo la possibilità per i detenuti di trascorrere coi propri cari fino a ventiquattro ore consecutive in apposite unità abitative protette da privacy all’interno dell’istituto penitenziario. Di fronte alla Commissione Giustizia della Camera, Margara asseriva: “Vogliamo tenere assieme cose che possono apparire impossibili ma non devono esserlo, cioè un carcere vivibile in cui la pena non abbia nulla di afflittivo oltre la perdita della libertà”. Con poche e acute parole, andava al fondo della questione, al conflitto fra il principio secondo cui la detenzione non deve annullare i diritti fondamentali a parte la libertà, da un lato; e i dispositivi carcerari di segregazione di corpi privati di umanità, dall’altro. Da allora, il principio evocato da Margara è stato ribadito più volte. Dalla Corte Costituzionale, con sentenza n. 301/2012 e n. 135/2013; dal Comitato Italiano di Bioetica, che in un parere del 2013 riconosce i bisogni relazionali dei detenuti e il mantenimento dei rapporti familiari come elementi costitutivi del diritto alla salute, chiedendo “la possibilità di godere di intimità negli incontri fra detenuti e coniugi/partner, in modo da salvaguardare l’esercizio dell’affettività e della sessualità” in ottemperanza al “principio etico della centralità della persona, anche in condizioni di privazione della liberta`” (p.11 La salute “dentro le mura”). Se, a distanza di tanto tempo, le persone in stato di detenzione aspettano ancora la soddisfazione di un loro diritto, ciò non può essere imputato a semplice “ritardo” o “inerzia” nel modificare il regolamento che impedirebbe i rapporti intimi tramite il dispositivo del controllo visivo; bensì alla volontà tenace, celata dall’opacità del carcere, di mantenere la “implicita proibizione” della sessualità in carcere. Una vera e propria castrazione di un diritto costituzionale, di cui parla Andrea Pugiotto in un recente saggio (Giurisprudenza Penale, 2019). Sosteniamo questa campagna, con forza e convinzione. Attuare la Costituzione è il miglior modo per difenderla. Il carcere concentratore di malattie infettive di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 14 agosto 2019 Collaborazione tra Antigone e Sism per studiare le patologie. L’associazione Antigone, in collaborazione con Sism Segretariato Italiano Studenti Medicina, ha dato vita a una collaborazione il cui scopo è accrescere la conoscenza sulle patologie presenti in carcere e sulle loro cause. Il carcere facilmente si sviluppano malattie e le si cura più difficilmente che all’esterno. Il primo approfondimento che Antigone e Sism hanno fatto è sulle malattie infettive. A firma di Silvia Asson, l’associazione non governativa che si interessa della tutela dei diritti e delle garanzie nel sistema penale, snocciola un po’ di dati. Il primo che risalta all’occhio dimostra come il carcere diventa un concentratore di malattie infettive. Lo è per due motivi: da un lato perché chi vi entra spesso proviene da gruppi più socialmente vulnerabili, con uno stato di salute più degradato rispetto alla media; dall’altro perché è il carcere stesso a costituire un elemento patogeno, che favorisce l’insorgenza e la diffusione di malattie. Ciò è attribuibile in parte alle caratteristiche dell’ambiente carcerario in sé: la frequente assenza di riscaldamento e/o di acqua calda (nel 50% delle carceri visitate da Antigone nel 2019 c’erano celle senza acqua calda, ad esempio), il sovraffollamento, l’impossibilità di usufruire di dispositivi di prevenzione (aghi sterili, preservativi), le scarse condizioni igieniche (assenza di docce in cella in quasi il 60% degli istituti visitati da Antigone, deposito degli alimenti nei bagni delle celle a causa della mancanza di altri spazi,…), la ridotta possibilità di svolgere attività fisica,.. tutte condizioni che facilitano la circolazione dei patogeni e rendono più vulnerabili gli ospiti, abbassandone le difese immunitarie. Secondo uno studio dell’Ars della Toscana, una percentuale compresa tra il 60 e l’ 80% della popolazione detenuta è affetta da almeno una patologia (anche non grave). La percentuale è dell’ 11% circa, se si prendono in considerazione solo le malattie trasmissibili. Al primo posto figurano le infezioni da virus dell’epatite, in particolare Hcv (con una prevalenza che a seconda degli studi oscilla tra il 20 e il 38%) ed in minor misura Hbv (meno del 10%). Silvia Asson di Antigone, spiega che entrambi questi virus sono trasmessi principalmente per via ematogena, tramite aghi infetti, rasoi, spazzolini, tatuaggi eseguiti con strumentazione impropria - ma anche sessuale e verticale: questo fa sì che le patologie ad essi correlati interessino per lo più pazienti giovani, con un picco nella fascia d’età dai 30 ai 49 anni, come sottolinea lo studio dell’Ars della Toscana. Questo discorso può essere esteso anche al virus dell’Hiv, la cui prevalenza è attestata da diversi studi intorno al 5%, e le cui vie di trasmissione sono anche qui soprattutto ematogena e sessuale; ciò spiega la presenza relativamente alta di soggetti interessati da coinfezione Hcv/ Hiv, condizione particolarmente grave poiché le due patologie condizionano il decorso l’una dell’altra. La dimensione del fenomeno Hiv è in realtà probabilmente sottostimata, a causa della legislazione in materia di lotta all’Aids che, per tutelare da eventuali discriminazioni, fa divieto di sottoporre qualunque soggetto ad analisi volte ad accertarne la sieropositività senza il suo esplicito consenso. Quindi molti detenuti rifiutano di sottoporsi allo screening in ingresso, ed è evidente come questo possa favorire la diffusione dell’infezione tra i ristretti. Senza dimenticare che molti di questi pazienti, specialmente in fase avanzata, richiedano numerose e periodiche prestazioni sanitarie il cui accesso è ostacolato dal regime detentivo. Non mancano anche la pediculosi, scabbia e micosi, infezioni/ infestazioni meno severe, ma piuttosto diffuse a causa del sovraffollamento e della condivisione di strumenti per l’igiene e delle docce. Il populismo di governo contro il Garante dei detenuti camerepenali.it, 14 agosto 2019 L’Ufficio del Garante nazionale delle persone detenute o private della libertà personale è una autorità indipendente posta a tutela sia delle persone recluse, sia delle persone che per qualsiasi ragione sono private della libertà. Il Garante, come è suo dovere, ha chiesto informazioni alla Guardia Costiera, circa le condizioni delle persone a bordo della nave “Open Arms”, soggetta al divieto ministeriale di ingresso nelle acque nazionali. La reazione di alcuni sottosegretari ai ministeri dell’Interno e della Giustizia circa una inesistente esondazione di competenze del Garante, con la richiesta di rendere pubblico lo stipendio dei componenti dell’ufficio, dimostra una preoccupante ignoranza dei sottosegretari circa le competenze del Garante e le indennità percepite dai componenti, entrambe notoriamente pubbliche. Ma queste dichiarazioni sono, soprattutto, l’ennesimo segnale di un populismo di governo che tende ad inquinare non solo la dialettica istituzionale del nostro Paese, ma la possibilità per le istituzioni di garanzia di svolgere la propria funzione in modo libero e indipendente. Al prof. Mauro Palma e al suo Ufficio la solidarietà dei penalisti italiani. L’Osservatorio Carcere dell’Unione Camere penali La Giunta dell’Unione Camere penali Per rivedere le intercettazioni tempo sino a fine anno di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 14 agosto 2019 Quale Governo vi metterà mano adesso non si sa. È certo però che di tempo non ce ne sarà poi molto. Perché, il decreto sicurezza bis, appena convertito in legge dal Senato, in vigore da pochi giorni, proroga, ed è la seconda volta dopo la prima che aveva rinviato ad aprile, sino a fine anno il congelamento della riforma Orlando delle intercettazioni. Detto che la riforma Bonafede della giustizia rischia di restare una delle grandi incompiute della legislatura, ma ricordato anche che nella riforma non trovava spazio un intervento sul punto, resta sul tappeto il tema della conciliazione tra necessità di tutela della privacy e obbligo di non compromettere l’efficacia di uno strumento investigativo sempre più determinante. La proroga dello stop non riguarda però due misure disposte dalla riforma Orlando con gli articoli 1 e 6 del decreto legislativo 216/2017: l’articolo 1 inserisce nel Codice penale il delitto di diffusione di riprese e registrazioni fraudolente per punire con la reclusione fino a 4 anni chiunque, partecipando a incontri o conversazioni private con la persona offesa, ne registra il contenuto all’insaputa dell’interlocutore con microfoni o telecamere nascoste per diffonderlo allo scopo di recare un danno alla reputazione. Allo stesso modo non è poi stata rinviata, ed è oggetto dell’articolo 6, la semplificazione dei presupposti per disporre le intercettazioni nei procedimenti per i reati dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione, quando tali reati siano puniti con pena detentiva non inferiore nel massimo a 5 anni. Se si procede per tali delitti, infatti, si deroga ai presupposti dell’articolo 267 del Codice di procedura penale e l’intercettazione dovrà risultare necessaria (non più assolutamente indispensabile) e saranno sufficienti indizi di reato (anche non gravi). Bloccate invece altre misure. Tra queste, con riferimento alla garanzia di riservatezza delle comunicazioni non penalmente rilevanti o contenenti dati sensibili, il divieto in base al quale, quando l’ufficiale di polizia giudiziaria ascolta una comunicazione di questa natura non la trascriva, neanche sommariamente. L’ufficiale avrà, tuttavia, un obbligo di annotazione, anche sommaria, dei contenuti di quelle comunicazioni perché il pm possa, eventualmente, compiere valutazioni diverse, chiedendo la trascrizione anche di quelle comunicazioni quando le ritenga utili alle indagini. In riferimento alla procedura di selezione delle intercettazioni, la riforma Orlando regola la fase del deposito dei verbali e delle registrazioni, con la possibilità per le parti di prenderne visione e la fase dell’acquisizione del materiale intercettato al fascicolo delle indagini. Ma un’attenzione particolare è dedicata ai trojan i captatori informatici, in grado di infettare apparecchi mobili, dai tablet ai cellulari, registrando la totalità delle comunicazioni in qualsiasi contesto. Meno di un mese fa, il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, rispondendo alle preoccupazioni del Garante della privacy, che invitava a un’estrema cautela nell’utilizzo di uno strumento così invasivo, scriveva di avere in corso di elaborazione una serie di contromisure. Come, per, esempio, il trasferimento delle comunicazioni intercettate esclusivamente verso gli impianti della Procura con controlli sull’integrità dei contenuti oppure l’introduzione di requisiti tecnici dei programmi informatici per assicurare la corrispondenza tra autorizzazioni della magistratura e operazioni effettuate. In questa prospettiva è allo studio, spiegava Bonafede, anche la disciplina dell’archivio digitale delle intercettazioni, con la previsione di uno specifico software che consentirà il tracciamento degli accessi e la gestione dei documenti e dei files audio video sui server del ministero. Lega e Fi hanno già pronte due leggi garantiste per mettere in crisi il Pd di Errico Novi Il Dubbio, 14 agosto 2019 Depositati i testi che modificano la “spazza-corrotti”. Non si può dire se l’accordo tra M5S e Pd andrà in porto. Ma di certo tra le incognite che punteggiano il sentiero dell’intesa ci sono pure quelle sulla giustizia. E non sono poche. Perché se è vero che su alcuni dossier le distanze potrebbero rivelarsi meno siderali del previsto (per esempio la riforma dell’ordinamento giudiziario) per altri versi si profila un rischio enorme, in particolare per il Pd: vedersi messo alle strette dalle iniziative garantiste del centrodestra. Il partito guidato da Nicola Zingaretti, se davvero si acconciasse a formare un esecutivo con i Cinque Stelle, finirebbe fatalmente per essere messo in gravissimo imbarazzo da alcune proposte di legge del neo- rinato centrodestra. Tra i diversi casi, ce ne sono due che spiccano: si tratta di un testo presentato dal capogruppo del Carroccio a Palazzo Madama, Massimiliano Romeo, e di un altro depositato alla Camera da Forza Italia, e certamente destinato a calamitare anche il consenso leghista. La prima proposta riguarda l’eliminazione degli effetti retroattivi delle norme con cui la spazza corrotti ha esteso ai reati contro la Pa le preclusioni nell’accesso alle misure alternative al carcere, cioè il famigerato articolo 4 bis. La seconda, firmata dal responsabile Giustizia di Forza Italia Enrico Costa, punta - udite udite - a sopprimere la “nuova” prescrizione introdotta, sempre con la spazza corrotti, a inizio gennaio. Due siluri che costringerebbero i dem a scegliere tra garantismo e sintonia con il nuovo alleato. Due azioni di disturbo che metterebbero a dura prova la tenuta di un sodalizio politico che prima ancora di nascere pare a tutti, per mille ragioni, carico di insidie. L’iniziativa di Romeo al Senato riprende in modo quasi fotostatico un’analoga proposta di legge presentata proprio da Costa alla Camera nel febbraio scorso. Nel mirino c’è appunto l’efficacia anche retroattiva della misura inserita all’articolo 1 comma 6 della spazza corrotti che, a chi è condannato per reati contro la Pa, impedisce di chiedere l’applicazione di misure alternative alla galera, salvo dimostrare, dopo l’incarcerazione, disponibilità a collaborare con la giustizia. La modifica entrata in vigore a inizio anno ha già prodotto effetti paradossali in numerosissimi procedimenti che non solo riguardavano reati commessi molto prima della promulgazione della legge, ma per i quali spesso i condannati avevano preventivamente optato per riti come il patteggiamento proprio in vista dei benefici a cui avrebbero così potuto accedere, benefici clamorosamente svaniti con la spazza corrotti. A inizio marzo il sottosegretario alla Giustizia Vittorio Ferraresi, sollecitato da Costa, aveva prefigurato una norma di interpretazione autentica che sottraesse alla ghigliottina della riforma almeno i processi già definiti e per i quali mancasse il solo ordine di esecuzione. Ritocco in ogni caso parziale: così la proposta “anti-retroattività” del deputato azzurro, di appena un articolo, era stata assegnata alla commissione Giustizia di Montecitorio a inizio aprile, senza però essere mai messa all’ordine del giorno. Ora a Palazzo Madama ci prova il capogruppo del Carroccio, che potrà contare su un presidente della commissione Giustizia che al Senato è a sua volta un leghista, Andrea Ostellari, e che non esiterebbe certo a spingere lo stop alla spazza corrotti nella pole position dei fascicoli da esaminare. Anche considerato che nel frattempo quelle norme sull’esclusione dei benefici penitenziari sono state inviate alla Consulta, per sospetta incostituzionalità, da diversi giudici di merito e, poche settimane fa, persino dalla Cassazione. Su questa batteria di incursioni in materia di giustizia penale, il ritrovato centrodestra potrebbe contare sulla regia di una figura altrettanto sagace come la “quasi- ex” ministra alla Pa Giulia Bongiorno. È a lei che il Carroccio si affida per sbrogliare le matasse legislative in ambito giudiziario. E Bongiorno certo non si farebbe sfuggire l’occasione offerta dall’altro testo depositato da Costa, il più recente, a cui si è fatto cenno all’inizio: quello con cui sarebbe soppressa, come detto, la nuova norma che abolisce la prescrizione in tutti i processi penali dopo la sentenza di primo grado. Il responsabile Giustizia di Fi l’ha presentata pochissimi giorni fa, lo scorso primo agosto, proprio a ridosso del deflagrare della crisi di governo. Neppure è stato assegnato, ovviamente, alla competente commissione Giustizia. Ma sarebbe l’arma che anche la Lega (Bongiorno innanzitutto) sarebbe ben lieta di brandire contro i Cinque Stelle e soprattutto il Pd. Il tratto di penna sulla prescrizione bloccata dopo il primo grado realizzerebbe la tesi leghista per cui una simile norma non possa entrare in vigore senza la preliminare riforma complessiva del processo, allo stato difficile da recuperare. Con la richiesta di approvare la pdl di Costa, azzurri e salviniani metterebbero, di nuovo, il Pd alle strette: lo obbligherebbero a dimostrare di avere a cuore le ragioni del garantismo, a costo di mettere a dura prova l’eventuale alleanza con il Movimento, senza neppure avere avuto il tempo di abituarsi all’imprevedibile matrimonio. L’aggressione di Napoli e i veri mandanti della ferocia di Luca Bottura La Repubblica, 14 agosto 2019 Potrebbe apparire quantomeno una forzatura definire Matteo Salvini il mandante morale della lapidazione subita da un bangladese, sul lungomare di Napoli, a opera di una baby gang. Invece è solo un’imprecisione. Perché insieme a Salvini, ai suoi spin doctor, a chi si nutre delle sue briciole razziste per piccolo tornaconto personale, i mandanti sono tantissimi. E una mandante Giorgia Meloni, altra dispensatrice di bufale, che ancora ieri condivideva la fake news secondo cui Carola Rackete ha ricevuto ordine di portare migranti in Italia direttamente da Angela Merkel. È mandante Luigi Di Maio, che per intercettare qualche voto a destra ha coniato la divertente definizione di “taxi del mare” per le carrette sgonfie che fanno da bara alle speranze dei disperati. È mandante chi, a “sinistra”, ha spacciato per emergenza un’emergenza che non esiste se non nell’agenda altrui. Ha stimolato l’evoluzione intellettuale dei propri. Ha cooptato parole d’ordine ipocrite come “aiutiamoli a casa loro” e intanto ha permesso che, culturalmente, diventasse un po’ meno doloroso ammazzarli a casa nostra. Sono mandanti i giornali che campano di odio, che per quattro copie in più spargono livore, che aizzano le folle contro nemici immaginari, che gonfiano la pancia del Paese di nuovi gas tossici, e poi magari vanno a fare i simpatici, i compiti, gli elegantoni, nei talk show di prima serata. Sono mandanti quei talk show di prima serata, in primis berlusconiani, ora non più, che da almeno vent’anni danno voce ai peggiori razzisti, ai commentatori più violenti, che conferiscono dignità formale a parole, concetti, disegni inaccettabili. Sono mandanti i telegiornali che specificano la nazionalità di ogni reprobo straniero, dando visibilità nazionale a notizie che un tempo sarebbero rimaste - non tutte - nelle cronache locali, e tacciono le prodezze dei criminali italiani. Mafie in testa. Sono mandanti tutti gli “italiani brava gente”, i bandierini da social, i fasci conclamati, gli Adolph Hipster tutti polo firmata e moschetto, gli spacciatori di fuffa fascista che monetizzano il proprio odio e scrivono i loro libriccini pieni di falsità come fossero controinformazione, lordando, inquinando, i pozzi della civiltà, come se tutto fosse sullo stesso piano, come se vittime e carnefici fossero la stessa cosa. Ma soprattutto rischiamo di essere mandanti noi, ogni volta che tutto questo ci sembra normale, ricevibile. Ogni volta che non reagiamo come possiamo, magari attivamente, a questa montagna di liquami che tutto sommerge e tutto affoga. Ogni volta che derubrichiamo gli episodi che si susseguono: “Erano solo ragazzi”, “Sarà stato uno spacciatore”, “Non sono razzista ma”. E la pancia - ce l’abbiamo pure noi duole sempre di più. C’è un’unica medicina: anche se è impopolare, restare umani. Perché il comportamento personale è l’ultimo atto politico che ci è rimasto. Per non essere, pure noi, mandanti. Friuli Venezia Giulia: carceri bocciate, troppo affollate di Lisa Zancaner Il Gazzettino, 14 agosto 2019 Il sovraffollamento delle carceri ha ricominciato “a mordere anche in Friuli”. Celle sovraffollate, poco personale e una direttrice “a mezzo servizio”. La fotografia scattata dal Coordinatore per i diritti dei detenuti, Corleone: “Situazione inaccettabile, in alcune celle sono in otto con un solo bagno”. Il sovraffollamento delle carceri ha ricominciato “a mordere anche in Friuli”. Celle sovraffollate, poco personale e una direttrice “a mezzo servizio”. È la fotografia scattata da Franco Corleone, Coordinatore dei garanti territoriali per i diritti dei detenuti che ieri mattina ha visitato il carcere di via Spalato con il provveditore regionale all’amministrazione penitenziaria Enrico Sbriglia e la garante dei diritti dei detenuti di Udine, Natascia Marzinotto. La capienza è di 90 detenuti, ma i carcerati di via Spalato sono 155 e dallo scorso anno nulla è cambiato, anzi. Nulla è cambiato negli ultimi 5 anni. Basta scorrere i numeri del 2014 a livello regionale: 5 istituti per una capienza complessiva di 495 posti, ma un totale di 677 detenuti. “Così il carcere non è accettabile dice Corleone facendo riferimento alla situazione di Udine : alcune celle ospitano 8 detenuti con un solo bagno all’interno”. Una situazione difficile, dunque, “ma il vero problema non sono i metri quadrati, bensì le condizioni di vita nelle celle, problemi di vivibilità diurna e notturna”. Eppure stando alle statistiche, a riempire il carcere sono ingressi per detenzione o piccolo spaccio (art. 73), quasi il 30%, detenuti per cui si potrebbero prevedere pene alternative. Tanti, troppi detenuti a fronte di poco personale e una direttrice “a mezzo servizio che si divide tra Udine e Tolmezzo. Preoccupante”, aggiunge Corleone. Tanti bisogni ma poche risorse. Eppure qualche fondo per dare il via ad alcuni lavori c’è. Circa 600mila euro che serviranno in buona parte per ristrutturare l’ex sezione femminile da destinare a attività comuni, un recupero di una parte del carcere finora in pessime condizioni ma che per lo meno, in vista dei lavori, è già stata ripulita. Grande novità l’apertura dell’articolazione psichiatrica che sarà completamente gestita da camici bianchi. Sette posti per tutto il Fvg a completa gestione sanitaria che si andranno ad aggiungere all’ala psichiatrica che sarà realizzata nel carcere di Padova, uniche due articolazioni per tutto il Nordest, “una sorta di isola sanitaria all’interno del carcere”. In via Spalato nascerà uno spazio, “possibilmente verde o comunque uno spazio dedicato ai bambini - afferma la garante dei diritti dei detenuti di Udine, l’avvocato Natascia Marzinotto e c’è la volontà di ampliare anche la stanza colloqui. Speriamo che le risorse, in parte già erogate, siano disponibili interamente e la situazione non cambi con l’avvicendamento del Governo. Sarebbe estremamente importante averle perché nell’ambito della ristrutturazione della sezione femminile, si potrà recuperare stanze dedicate ad aree ricreative o per laboratori. Uno dei problemi del carcere di Udine prosegue Marzinotto è l’assenza di stanze per fare attività di studio, formazione e attività culturali. Ci sono spazi minimi che non possono ospitare più di 12 persone”. Agli spazi, però, va aggiunto il personale e tra le tante carenze dell’istituto di via Spalato c’è quella che riguarda il personale, soprattutto nell’area educativa con la presenza di un solo educatore part time tre volte alla settimana, “che non è in grado di gestire quasi 160 detenuti”. Una carenza, insomma, che cozza con le finalità educative della detenzione, ma quest’anno i finanziamenti da parte di Uti e Regione stanno a zero, con plauso ai volontari. A risolvere il problema del sovraffollamento in Fvg doveva, o meglio dovrebbe, essere il nuovo istituto di San Vito al Tagliamento, con una capienza di 300 detenuti. I lavori dovevano partire a settembre per una durata di 18 mesi, con tanto di piccoli capannoni per avviare i detenuti al lavoro, per rispondere a un’esigenza sentita in regione dove gli istituti sono troppo compressi. Ma la ditta aggiudicataria è stata esclusa così come la seconda arrivata. “Al momento è tutto fermo”, conferma Corleone, mentre le carceri scoppiano e il presidente della Camera penale di Udine, Raffaele Conte denuncia una situazione invivibile negli istituti di Pordenone e Gorizia. Nel carcere pordenonese, a fronte di una capienza di 38 detenuti, le presenze sono 67. A Gorizia, dati alla mano, il problema non sembra sussistere e, quanto alle condizioni della struttura, il Provveditore Sbriglia tiene a precisare che “sono in corso lavori per migliorare l’istituto”. Quanto a sovraffollamento, è esplosiva anche la situazione a Tolmezzo, dove per altro c’è il 41 bis, il cosiddetto carcere duro attualmente con otto internati. Qui i detenuti sono 230 per una capienza di 149 posti. Pescara: detenuto 33enne si impicca, era in carcere per il furto di un telefonino Il Centro, 14 agosto 2019 Si è tolto la vita in carcere, presumibilmente quando gli altri detenuti dormivano. E il corpo è stato scoperto solo ieri mattina. Non c’è stato niente da fare per un 33enne bulgaro, in Italia senza fissa dimora, che era stato trasferito un paio di mesi fa nel carcere di Pescara da Roma e aveva problemi di tossicodipendenza. L’uomo, assistito dall’avvocato Luca Pellegrini, era stato arrestato a maggio dopo aver messo a segno con un complice il furto di un cellulare, strappato al proprietario all’esterno della stazione ferroviaria Ostiense, a Roma. Quella notte era stato subito notato dai carabinieri che avevano assistito alla sua fuga su un ciclomotore, insieme a un complice, un uomo algerino, che lo aspettava sul mezzo, e poi i militari lo avevano bloccato. L’arresto era stato convalidato e nei confronti del 33enne era stata disposta la misura della custodia cautelare in carcere, così come per l’altro arrestato. L’uomo, che aveva precedenti specifici, in passato aveva messo a segno in maniera ripetuta reati contro il patrimonio perché puntava a procurarsi il denaro necessario ad acquistare la droga. E proprio di recente aveva annunciato al difensore il suo progetto di seguire un percorso in una comunità di recupero. Dal carcere sarebbe uscito l’anno prossimo ma l’altra notte ha deciso di farla finita all’interno della cella. Bergamo: incendio in ospedale, ricoverata in psichiatria muore legata nel letto Ristretti Orizzonti, 14 agosto 2019 Il Garante nazionale dei detenuti si costituisce parte offesa. Apprendiamo la notizia della morte di una giovane nell’ospedale di Bergamo a seguito dell’incendio scoppiato proprio nel reparto di psichiatria dove era ricoverata. La ventenne, secondo quanto dichiarato dall’ospedale in una nota, era stata “bloccata” pochi istanti prima. Forse è proprio per il fatto di essere contenuta al letto che non si è riusciti a mettere in salvo la giovane, come è stato invece possibile per tutti gli altri pazienti. La Regione Lombardia ha già chiesto l’istituzione di una commissione di verifica, mentre sarà la Procura della Repubblica a individuare le eventuali responsabilità. Il Garante nazionale, da parte sua, si costituirà come parte offesa, così come fa in ogni caso di morte di persone private della libertà, quando il decesso è connesso con la situazione di restrizione. Il Garante nazionale nell’esprimere la propria vicinanza alla famiglia della giovane vittima, sottolinea ancora una volta la drammaticità della contenzione delle persone nelle istituzioni psichiatriche e delle sue possibili conseguenze. Roma: nel Cie di Ponte Galeria si vive peggio che in prigione di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 14 agosto 2019 Vivono in condizioni sempre più difficili con una assistenza sanitaria insufficiente e il caldo di questi giorni peggiora le cose. Formalmente non è un carcere, ma di fatto lo è ed è anche di gran lunga peggio. Parliamo del Centro di permanenza per il rimpatrio (Cie) Roma-Ponte Galeria, dove sono trattenuti gli immigrati sprovvisti di permesso di soggiorno. A denunciare la situazione critica è il garante regionale delle persone private della libertà Stefano Anastasìa che nei giorni scorsi è andato a far visita. Si tratta di una struttura che accoglie 157 persone, precisamente 106 uomini e 51 donne. Particolarmente critica è la situazione nel reparto maschile recentemente riaperto e subito riempito, in gran parte da ex- detenuti che vengono trasferiti all’interno della struttura alla fine della pena. Suddiviso in otto sezioni chiuse e separate tra loro da grate e cancellate alte circa otto metri, gli ospiti hanno segnalato alcune criticità, che riguardano la somministrazione dei pasti, l’impossibilità di utilizzare telefoni personali, l’assistenza sanitaria carente e la scarsità del personale, ridotto a soli otto operatori per turno, ciò ricade sugli spostamenti degli ospiti nella struttura, che devono essere sempre sorvegliati. “Già nelle scorse settimane avevo rappresentato alla Prefettura di Roma il problema della comunicazione con l’esterno, che non può essere garantita dall’uso di telefoni fissi a scheda, troppo dispendiosi economicamente per i trattenuti - ha spiegato Anastasìa. Oggi ho scritto al Direttore generale della Asl Rm3, competente per territorio, affinché sia al più presto riattivato il protocollo con la Prefettura, che fino a ottobre dello scorso anno ha garantito la presenza quotidiana a Ponte Galeria di medici Asl, sia a fini certificatori che per la prenotazione di accertamenti diagnostici e visite specialistiche negli ambulatori del territorio”. L’edificio di Ponte Galeria era stato riaperto pochi mesi fa, a maggio, dopo che nel 2015 era stato danneggiato a seguito di una rivolta di alcuni migranti ospitati all’interno del centro. Il 5 luglio scorso 30 migranti erano fuggiti dal Cie. Avevano inscenato una rivolta in tarda serata. I migranti hanno sfondato le porte e scavalcato le recinzioni fuggendo nelle campagne circostanti. Delle trenta persone scappate, la maggior parte sono state riprese. I migranti reclusi nel centro, formalmente vengono chiamati ospiti, ma di fatto sono detenuti. Ma con la differenza che hanno meno garanzie dei detenuti reclusi nelle carceri. Quest’ultimi - come ha spiegato più volte l’autorità del garante nazionale delle persone private della libertà - hanno il magistrato di sorveglianza che oltre a vigilare sulla legittimità del loro essere detenuti deve (o dovrebbe) vigilare anche sulle condizioni interne. Mentre, nei centri per il rimpatrio il giudice di pace vigila sulla correttezza dell’averli messi lì ma non vigila poi sulle condizioni interne. In più emerge un dato che il Garante nazionale Mauro Palma ha esposto recentemente alla commissione della camera sull’indagine conoscitiva in materie di politiche dell’immigrazione. “Delle 2.267 persone che sono state trattenute nei centri nei primi sei mesi - ha spiegato Palma alla camera - soltanto una percentuale pari al 39,3 per cento è stata rimpatriata. Tale questione ci pone il problema della legittimità della privazione della libertà per le rimanenti persone”. Trattandosi di Centri per il rimpatrio, teoricamente lo scopo del trattenimento è funzionale a un effettivo rimpatrio. “Nel momento in cui, invece, diventa una misura indipendente dall’effettivo rimpatrio - ha spiegato sempre il garante in commissione - c’è il rischio che essa sia soltanto una misura che agisce sul piano simbolico e sul piano dell’avvertimento, come un messaggio del tipo: non venite in Italia, perché rischiate di essere trattenuti, indipendentemente dal fatto che poi questo avvenga con il rimpatrio”. Firenze: caldo asfissiante al carcere, Nardella attenziona il Garante dei detenuti ilgerme.it, 14 agosto 2019 Altro che “al fresco”, il carcere in questi giorni sembra una fonderia, commenta così sarcastico il sindacalista della segreteria confederale Uil Cst Adriatica Gran Sasso Mauro Nardella, che continua: “Oggi un carcere compreso quello di Sulmona è praticamente un misto di cemento e ferro sormontato da guaina attira calore. Il tutto in un contesto ove la limitatissima libertà di movimento ne accentua il disagio e con tutto ciò che ne consegue in ordine a stress e malesseri vari. Per quel che è stato possibile fare dobbiamo dire che la Direzione del penitenziario di piazzale vittime del Dovere l’ha fatto. Tuttavia ciò non è assolutamente sufficiente stante proprio l’impossibilità oggettiva di stemperare, con semplici climatizzatori e per di più allocati nei soli box riservati agli agenti, una struttura a massima conducibilità termica”. “Nel reparto infermeria - continua Nardella - ove allo stato equiparare gli ambienti di una fonderia non è un eufemismo farlo, si sta vivendo il maggiore disagio. Ciò rappresenta un autentico controsenso visto che è proprio in tale contesto, ove sono ricoverati appunto detenuti con diverse patologie, che manca del tutto una tutela in termini di salubrità legata al caldo. Lo Stato deve fare qualcosa e presto. Rivedere i parametri adeguandoli alle attuali norme in materia di salubrità è un passo che non può più procrastinare. Ne vale della salute di chi in tali contesti è costretto svariati motivi a starci. Al garante dei detenuti chiederemo di partecipare in simbiosi con noi all’opera di rilevamento e rivelamento delle cattive condizioni alle quali sono costretti a sottostare detenuti ed agenti di polizia penitenziaria”. Roma: narcoboss fuori da Rebibbia “sono tossicodipendenti” di Enrico Bellavia La Repubblica, 14 agosto 2019 La procura ha acquisito le cartelle cliniche di 56 detenuti I controlli riguardano un centinaio di casi. Indagine della procura. Acquisiti i certificati che aprono le celle ai capi del traffico di droga. Referenti di camorra e ‘ndrangheta trasferiti in comunità per seguire programmi di recupero. C’è il broker internazionale della cocaina nato a Roma ma cresciuto in affari con i Bellocco di Rosarno, quello legato ai Giorgi di San Luca e quell’altro che invece cura gli interessi degli Alvaro di Sinopoli. Ci sono i re dello spaccio dell’hinterland, Guidonia e Tivoli, e quelli delle periferie della Capitale, Tor Bella Monaca, su tutte, e poi Tufello, Montespaccato e San Basilio. Quelli che si sono guadagnati l’esclusiva dell’approvvigionamento dai calabresi e dai napoletani di Michele Senese ‘o pazzo e che ora godono del loro appoggio per regolare i conti in casa. Come sembra sia accaduto per Fabrizio Piscitelli “Diabolik”. C’è anche il rapinatore di banche che ha ucciso in trasferta. Il balordo che ha sparato dopo una lite in un bar. Il figlio di uno dei pezzi grossi della Banda della Magliana e uno del giro dell’estrema destra di Massimo Carminati. Tutti tossicodipendenti o presunti tali. Alcuni abbastanza in là con gli anni, altri sottoposti al regime di Alta sicurezza. Tutti pronti a uscire dal carcere di Rebibbia o che già hanno detto addio a sbobba e permessini per acquartierarsi in comunità di recupero. Meno restrizioni, maggiori margini di manovra, spesso la possibilità di tornare a casa dalle cinque del pomeriggio, controlli meno severi. Questo significa ottenere l’agognata certificazione che sancisce la necessità di uscire dal tunnel della dipendenza. Un po’ quello che accadeva, e accade ancora, con le diagnosi di patologie psichiatriche. Proprio quelle di cui ha goduto Senese, uno dei “Re di Roma”. Dopo l’infittirsi di casi che hanno costretto a interrogarsi sul profilo di questi pazienti, mischiati ai tanti che tossicodipendenti lo sono per davvero, la procura della Repubblica di Roma ha deciso di aprire un’inchiesta, affidata al pm Barbara Zuin. Screening mirato su un centinaio di nomi, l’ultimo elenco ne conta 56, la cui storia personale e i trascorsi fanno sollevare legittimi dubbi sulla gravità dello stato clinico. Diari, cartelle, relazioni degli psicologi, tutto da valutare in controluce scrutando tra le pieghe dei trascorsi giudiziari dei beneficiari. L’inchiesta procede con l’acquisizione di tutta la documentazione delle autorità sanitarie che si occupano di droga nel circuito carcerario di Rebibbia. Lì, come dappertutto in Italia, è possibile dichiararsi tossicodipendente, per sottoporsi a un progetto di recupero in comunità. Per farlo occorre che il progetto sia ritenuto adeguato e che ci sia la certificazione di psicologi e medici che dipendono dall’Asl. La valutazione ultima per i condannati spetta al magistrato di sorveglianza, chiamato a decidere sulle carte che il carcere ha prodotto. Per gli imputati in attesa di giudizio, la decisione spetta al giudice per le indagini preliminari. L’inchiesta della procura mira a stabilire se sia tutto regolare o ci siano state pressioni, minacce o peggio un giro di favori e regalie per ottenere i certificati paragonabili a una sorta di salvacondotto per lasciare la prigione. È l’ennesimo ciclone giudiziario per un carcere, Rebibbia, già teatro di inchieste e girandole di rimozioni seguite a evasioni, episodi di corruzione e carte truccate, che tuttavia si sforza anche di innovare e proporsi come modello nell’ottica rieducativa della pena. Molti i progetti di reinserimento, dai detenuti a bassa pericolosità e con poco tempo di pena residua, utilizzati come giardinieri o per il ripristino del disastrato manto stradale della capitale, ma anche l’esperimento di un ristorante aperto al pubblico e la produzione di caffè in una torrefazione interna. L’inchiesta tuttavia prende in esame uno degli aspetti della vita di questa immensa cittadella carceraria che in condizioni di sovraffollamento rispetto alla capienza, conta oltre 2.300 detenuti, 369 dei quali donne. Sulla gestione dei problemi legati alla tossicodipendenza, prima ancora dell’avvio dell’attività della magistratura, esistono delle segnalazioni interne incentrate sulla catena di comando di medici e psicologi addetti al servizio e alle scelte operate per il conferimento di incarichi. Elementi che si sommano a quelli che la stessa direzione del carcere femminile aveva condensato in una nota alla magistratura. Ora il lavoro dei pm su singoli casi di scarcerazioni o di istruttorie avviate con questo obiettivo. Uno dei criteri in esame è il tempo trascorso tra la richiesta e l’ottenimento del beneficio. Perché, come sa chi si occupa di carceri, lì più che altrove, il tempo non è una variabile di poco conto. Torino: il luppolo del carcere per la birra di Sarah Scaparone La Stampa, 14 agosto 2019 Primi raccolti al Lorusso e Cotugno a fine mese da cinquanta piante coltivate dai detenuti. Si raccoglierà tra fine agosto e inizio settembre il primo luppolo coltivato all’interno della Casa Circondariale “Lorusso e Cutugno” di Torino. Il progetto nasce dall’unione di due realtà torinesi: la Cooperativa Sociale Ecosol che già lavora nella stessa struttura producendo lo zafferano e Birra Madama, Brew Firm di Torino guidata dal vulcanico Alessandro Santinelli. Il progetto nasce poco più di un anno fa e oggi vede, su una superficie di 150 mq all’interno del carcere, la crescita di 50 piante di tre varietà: Cascade, Comet e Mount Hood. “Le prime due - spiega Santinelli - sono molto robuste e capaci di resistere bene alle malattie, mentre la terza si utilizza prevalentemente in Usa, ma poco in Italia. La coltivazione del luppolo che abbiamo iniziato è un progetto sperimentale che potrebbe ingrandirsi e svilupparsi utilizzando l’ampia fascia di terreno ancora a disposizione. E seppur nelle carceri italiane si realizzino diversi prodotti alimentari come il caffè, il cioccolato e la stessa birra, per quanto riguarda l’ambito agricolo legato al luppolo questo è un primato tutto torinese”. E se l’acidità del terreno fa ben sperare per la produzione di questa pianta dal bouquet aromatico importante, l’idea è quella di produrre una birra all’anno che esca con il marchio Birra Madama. “Il luppolo sarà acquistabile anche da altri birrifici per la preparazione delle loro cotte - spiega Santinelli - ma ci vorranno tre anni prima che le piante vadano a regime”. La grande valenza di questo progetto è però innanzitutto sociale: “Abbiamo iniziato con un percorso formativo con cui, insieme ai ragazzi di Terra e Aria, abbiamo spiegato le caratteristiche di questa pianta, infestante e urticante nel fusto, proprio in vista della raccolta. Alcuni detenuti uomini ci hanno aiutato nel piantare il luppolo e stanno iniziando a sentire loro questo progetto: saranno invece le donne a darci una mano per la raccolta, in cui occorrono movimenti più attenti e gentili”. La vendita del luppolo sarà seguita dalla Cooperativa Sociale Ecosol e, quando il percorso terminerà la fase sperimentale, saranno i detenuti stessi a seguire i campi, la crescita e la raccolta delle piante. “Sono entusiasta di questo lavoro - conclude Santinelli - non solo perché per quanto mi riguarda è una grande opportunità di crescita personale, ma anche perché mi piace sperimentare e trovo bellissimo poter lavorare con persone che hanno avuto delle difficoltà, ma che hanno voglia di nuove esperienze, di imparare, di rimettersi in gioco. Il nostro modo di intendere la birra, poi, parte proprio da un approccio anglosassone in cui il lavoro sul luppolo è fondamentale e fa parte delle scuole moderne che si dissociano dai più classici stili birrai”. Birra Madama nasce nel 2014: il nome è un omaggio dichiarato alla città di Torino, il suo centro creativo è in corso Regina Margherita oltre che, in estate, nel Beer-Garden Circus Bar del Parco Le Serre di Grugliasco. Nessun porto sicuro per le navi delle Ong. Cinquecento migranti ostaggio del mare di Fabio Albanese La Stampa, 14 agosto 2019 L’Onu: “Gli Stati intervengano”. I valdesi: “Noi pronti ad accoglierli”. Salvini: “Sbarco da evitare”. Tre cento cinquantasei migranti sulla Ocean Viking, cento cinquantuno sulla Open Arms, nessun “porto sicuro” in vista. Le navi umanitarie delle Ong sono ancora nel Mediterraneo centrale, in attesa che accada qualcosa, che l’Ue o anche un singolo Paese accetti di far sbarcare le 507 persone salvate, molte delle quali ormai due settimane fa. Ma nulla smuove l’impasse. Non gli appelli dell’Unhcr che ancora ieri ha rinnovato la richiesta all’Europa di “dare subito un porto sicuro immediato e gli Stati dovrebbero condividere la responsabilità perla loro accoglienza dopo lo sbarco”; né quelli degli uomini di spettacolo, da Richard Gere ad Antonio Banderas, che si sono spesi per la sorte della Open Arms; non l’appello della Chiesa valdese che si è detta pronta a farsi carico dei migranti; né quello del presidente del Parlamento europeo David Sassoli che si era rivolto al presidente della Commissione Juncker. Nulla finora, nemmeno denunce e azioni giudiziarie, è servito a smuovere la situazione. Le navi restano in mare, e si preparano ad affrontare il tempo di burrasca che è in arrivo. La Ocean Viking, che finora era rimasta in area Sar libica dove aveva effettuato 4 salvataggi in 4 giorni tra il 9 e il 12 agosto, ieri ha puntato la prua verso nord, dopo aver chiesto il “pos”, il porto sicuro, a Italia e Malta: “Ci sono persone che portano i segni strazianti delle violenze fisiche e psicologiche subite nel viaggio attraverso la Libia - ha raccontato Jay Berger, capo progetto di Medici senza frontiere sulla nave. Chiediamo ora un porto sicuro dove sbarcare queste persone vulnerabili. Hanno sofferto abbastanza”. La nave, sulla quale 101 migranti sono minori, 92 dei quali non accompagnati, aveva chiesto il “pos” alla Libia ma ha poi rifiutato il porto di Tripoli perché il Paese non è sicuro. “Tutti i soccorsi che abbiamo condotto sono stati possibili solo grazie all’attenta osservazione del mare. Le autorità non hanno condiviso con noi alcuna informazione - spiega Nick Romaniuk, coordinatore dei soccorsi di Sos Mediterranee sulla Ocean Viking. Solo una volta siamo riusciti a stabilire un contatto radio con uno dei 3 aerei dell’Ue che monitoravano la presenza di barconi in difficoltà. Gli Stati non danno priorità al dovere di salvare vite in mare”. La Ong Proactiva Open Arms aveva fatto appello alla Spagna, Stato di bandiera della nave, attraverso l’ambasciata a Malta, affinché si facesse carico almeno dei 28 minori non accompagnati che ha a bordo. Madrid ha risposto che “è irricevibile” ma confida in una soluzione europea. Il comandante della nave, ha detto il ministro dei lavori pubblici José Luis Abalos, non ha “la competenza legale o l’autorità” per chiedere asilo per i minori. La Open Arms, per la stessa ragione, si era rivolta anche al tribunale per i minori di Palermo che ieri ha scritto ai ministeri dell’Interno, della Difesa e delle Infrastrutture, per chiedere chiarimenti, rilevando come il divieto di ingresso “delle autorità italiane al capitano della nave, equivale a un respingimento o diniego di ingresso ad un valico di frontiera”, vietato dalla legge. In serata è stata chiesta a Italia e Malta l’evacuazione medica per un bimbo con difficoltà respiratorie e la sua famiglia. Il ministro dell’Interno Salvini ieri ha postato una sua foto al Viminale, annunciando di essere al lavoro “per evitare lo sbarco di 500 immigrati”. Un tribunale tedesco lo ha diffidato per l’uso sui suoi social della foto di un volontario della Ong Lifeline. Nel Mediterraneo centrale, però, si continua a morire. Il ministro dell’Interno maltese Farrugia ha pubblicato la drammatica foto di un minuscolo gommone con a bordo due migranti: uno già morto, l’altro in fin di vita, recuperati dalla Marina: “Noi salviamo - ha scritto - ma non possiamo farlo da soli”. Hong Kong. La Polizia si ritira dall’aeroporto dopo gli scontri con i manifestanti di Francesco Tortora Corriere della Sera, 14 agosto 2019 Secondo la Cnn i dimostranti hanno eretto barricate per ostacolare l’avvicinamento degli agenti che alla fine hanno deciso di lasciare lo scalo. Polizia in assetto anti-sommossa all’aeroporto di Hong Kong, occupato per il quinto giorno consecutivo dai manifestanti che chiedono più democrazia. Almeno cinque mezzi carichi di agenti sono arrivati allo scalo dove anche oggi si trovano migliaia di dimostranti. Dopo scontri violenti con i manifestanti le forze di polizia hanno deciso di lasciare lo scalo. Secondo la Cnn i dimostranti avrebbero eretto barricate per bloccare l’ingresso alle forze di sicurezza. Gli agenti avrebbero usato spray al peperoncino, ma non sarebbero riusciti a entrare. Le squadre antisommossa sono state le ultime a lasciare la zona esterna dello scalo, dopo gli scontri con i manifestanti che da cinque giorni occupano l’area. L’aeroporto internazionale è tornato alle normali operazioni nelle prime ore di mercoledì dopo che i terminal sono stati ripuliti e i graffiti dei manifestanti sono stati coperti. I blindati a Shenzhen - Martedì mattina, immagini inquietanti erano da Shenzhen, città che si trova ad appena 25 km dall’ex colonia britannica. Come mostrano diversi filmati pubblicati sui social, colonne di blindati e di camion militari sono entrati lunedì mattina nella metropoli cinese. “Un avvertimento” secondo i critici di Pechino che invece sostiene si tratti di “una normale esercitazione militare”. Video di propaganda - Il Global Times, tabloid ufficiale del Partito Comunista Cinese, ha pubblicato una serie di filmati che mostrano i camion militari che si radunano a Shenzhen “prima di apparenti esercitazioni militari su larga scala”. Il video, chiaramente di propaganda, mostra blindati e altri veicoli corazzati appartenenti alla forza armata popolare cinese, una polizia paramilitare responsabile del controllo antisommossa e antiterrorismo, che sfila per le strade di Shenzhen. Altri video pubblicati su Twitter mostrerebbero veicoli militari che entrano nel centro sportivo della baia di Shenzhen, un grande stadio che si trova a soli 5 chilometri dal ponte che collega la città cinese a Hong Kong. L’allarme degli esperti - Le immagini hanno allarmato gli esperti. Adam Ni, un ricercatore di politica estera e di sicurezza cinese per la Australian National University ha dichiarato che l’esibizione militare è uno sfacciato avvertimento per Hong Kong: “Il messaggio della Cina è piuttosto chiaro - scrive su Twitter. Se le proteste aumenteranno ulteriormente, le forze armate cinesi interverranno”. Intanto anche oggi all’aeroporto di Hong Kong sono stati cancellati tutti i voli in partenza a causa delle proteste dei manifestanti per la democrazia. È il secondo giorno di cancellazioni di partenze e arrivi e migliaia di dimostranti stanno occupando per il quinto giorno consecutivo il terminal principale dello scalo. L’Alto Commissariato Onu per i diritti umani ha espresso preoccupazione per la situazione a Hong Kong e ha chiesto un’inchiesta immediata su comportamenti delle forze dell’ordine nei confronti dei manifestanti. Iran. Insegnante curda scomparsa da un mese e mezzo di Riccardo Noury Corriere della Sera, 14 agosto 2019 L’ultima volta che Zahra Mohammadi è stata vista risale al 30 giugno. L’ultima volta che la famiglia ha potuto incontrarla è stata addirittura il 30 maggio, una settimana dopo l’arresto. Era in carcere a Sanandaj, il capoluogo della provincia curda dell’Iran. Poi né l’avvocato né i parenti hanno avuto più sue notizie. Zahra, 28 anni, ha una laurea in Scienze geopolitiche conseguita presso l’università di Birjiand, capoluogo della provincia del Khorasan meridionale, e un master in Geografia. Ha insegnato curdo a Sanandaj e nei villaggi vicini per una decina di anni, gli ultimi sei dei quali presso l’associazione culturale Nojin, regolarmente autorizzata, fondata nel 2013 e di cui Zahra era stata nominata direttrice. Agenti dell’intelligence iraniana l’hanno arrestata nella sua abitazione di Sanandaj, nel quartiere di Nayser, il 23 maggio. Con lei, sono state arrestate altre due esponenti di Nojin, poi rilasciate dopo essere state interrogate. Una settimana prima, il 16 maggio, le forze di sicurezza avevano arrestato sette attivisti curdi, tra cui tre donne, che intendevano manifestare di fronte al cimitero del villaggio di Koolan per ricordare l’assassinio di una ragazza del posto. La repressione del governo centrale di Teheran nei confronti delle minoranze etniche e religiose è un fatto consolidato. “Fosse stata un’analfabeta chiusa in casa, Zahra non sarebbe stata arrestata”, ha denunciato la sorella. Infatti, attiviste e attivisti curdi che si battono pacificamente per il riconoscimento dei diritti culturali e la fine della discriminazione vengono spesso arrestati con vaghe accuse di propaganda contro il sistema. L’arresto di Zahra Mohammadi potrebbe inserirsi in questo quadro repressivo. Ma a preoccupare tantissimo è il fatto che da 45 giorni è scomparsa. Non si sa dove si trovi e quali siano le sue condizioni, sul piano legale ma soprattutto fisico. Arabia Saudita. Dissidenti sauditi torturati nelle carceri del regime ilfarosulmondo.it, 14 agosto 2019 Il dissidente saudita, Ahmed Abdullah Abdulrahman Shaàyi, è morto in prigione a causa di varie forme di tortura a cui è stato sottoposto e per deliberata negligenza medica. Questo ennesimo crimine avviene mentre è in atto una brutale repressione condotta dal principe ereditario Mohammed bin Salman contro dissidenti, musulmani sciiti e intellettuali. La rete televisiva Nabaa in lingua araba con sede a Londra, ha riferito domenica che Ahmed Abdullah Abdulrahman Shaàyi è deceduto il 9 agosto nella prigione di Tarfiya nella città centro-settentrionale di Buraydah, in Arabia Saudita. Il rapporto ha aggiunto che il corpo di Shaàyi è stato consegnato alla sua famiglia, e sabato si è tenuta per lui una processione funebre. Anche il gruppo per i diritti Prisoners of Conscience, un’organizzazione non governativa indipendente che cerca di promuovere i diritti umani in Arabia Saudita, ha confermato il rapporto in un post sulla sua pagina ufficiale Twitter, affermando che le circostanze relative alla morte del dissidente rimangono sconosciute. Shaàyi era detenuto in prigione da un anno e mezzo. Il 3 agosto, il religioso dissidente saudita Sheikh Saleh Abdulaziz al-Dumairi è morto per complicazioni di salute che aveva sviluppato nella prigione di Tarfiya. Apparentemente Dumairi soffriva di problemi cardiaci e veniva tenuto in isolamento. In passato era stato detenuto in diverse occasioni per il suo attivismo politico e il sostegno ai prigionieri di opinione. L’Arabia Saudita ha recentemente intensificato arresti, azioni penali e condanne motivati politicamente contro scrittori pacifici dissidenti e attivisti per i diritti umani. Negli ultimi anni, Riyadh ha anche ridefinito le sue leggi antiterrorismo per colpire l’attivismo.