Gli attacchi leghisti al Garante dei detenuti saranno segnalati all’Onu di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 13 agosto 2019 Il Garante nazione delle persone private della libertà, come previsto dal suo mandato, ha scritto al comandante generale della Guardia costiera, Giovanni Pettorino per avere “informazioni e chiarimenti sulla situazione attuale” dei migranti presenti all’interno della nave battente bandiera spagnola Open Arms che non è potuta approdare a Malta. Fonti imprecisate del Viminale però sono intervenute con una nota criticando la presunta invasione di campo del Garante, aggiungendo una postilla sprezzante: “Qualcuno potrebbe pensare che il Garante dei detenuti debba giustificare la propria esistenza e il proprio stipendio statale, che peraltro non è pubblicato con evidenza sui siti ufficiali come previsto per legge”. In realtà, tali critiche, risultano prive di fondamento. Sulla questione dello stipendio è tutto pubblico. Basterebbe andare sul sito ufficiale del Garante dove è scritto nero su bianco che le identità forfettarie sono parametrate a quelle dei parlamentari nel 40% per il presidente (3.200 euro netti al mese) e nel 30% per i due membri (2.500). Ma non finisce qui. Il Garante nazionale dei diritti delle private della libertà risulta, secondo un dossier pubblicato tempo fa da Il Fatto Quotidiano - fra le poche autorità indipendenti del nostro Paese che non gravano sulle casse dello Stato con onerosi canoni di affitto. ll Garante nazionale, infatti, ha sede in un immobile di proprietà del ministero della Giustizia, il cui utilizzo dunque non comporta spesa di fondi pubblici. Non sono mancate le solidarietà giunte all’autorità del Garante. Ad esempio c’è Stefano Anastasìa, presidente dei garanti regionali e locali dei detenuti che a nome delle persone private della libertà nominati dalle Regioni e dagli Enti locali, esprime la loro solidarietà e vicinanza al Garante nazionale “oggetto di una pretestuosa polemica rinfocolata oggi dai sottosegretari leghisti alla Giustizia e all’Interno”. Sempre Anastasìa spiega che “le competenze del Garante nazionale su qualsiasi condizione di privazione di libertà, quali quelle che si consumano sulle navi da cui viene vietato lo sbarco, sono chiare e stabilite dal Protocollo addizionale alla Convenzione delle Nazioni unite contro la tortura. Come trasparente è l’indennità percepita dai componenti dell’ufficio, perché fissata per legge”. Interviene anche l’associazione Antigone che non si limita solo ad esprimere solidarietà, ma ha anticipato che segnalerà il caso alle Nazioni Unite. “Siamo incondizionatamente e totalmente dalla parte di Mauro Palma, Garante nazionale per i diritti dei detenuti e delle persone private della libertà personale, - scrive Antigone in una nota - che in queste ore sta ricevendo pesanti attacchi da parte di Viminale e Lega che vorrebbero delegittimare un organo di garanzia con argomenti densi di ignoranza istituzionale e fango populista”. Continua la nota: “Abbiamo contribuito alla nascita di tale organismo e siamo orgogliosi della sua indipendenza. Ricordiamo comunque ai leghisti che se avessero voglia potrebbero leggere meglio i curriculum di Palma e delle altre due componenti del collegio dei garanti. Troverebbero competenza ed esperienza. Quella competenza ed esperienza che impone un intervento sulla privazione illegale della libertà che si sta consumando nelle navi a cui è impedito di approdare”. E conclude: “Per quanto ci riguarda non ci limitiamo a esprimere solidarietà ma segnaleremo il caso alle Nazioni Unite”. L’Unione delle Camere Penali Italiane aderisce all’iniziativa “Ferragosto in carcere” cemerepenali.it, 13 agosto 2019 L’Unione Camere Penali Italiane, con il proprio Osservatorio Carcere, ha aderito all’iniziativa “Ferragosto in carcere”, promossa dal Partito Radicale e da Radio Radicale, per manifestare, anche nel periodo più caldo dell’anno, la vicinanza dei penalisti a coloro che sopportano spesso uno stato di detenzione contrario ai principi costituzionali e alle norme dell’Ordinamento Penitenziario. L’Osservatorio Carcere visita costantemente nel corso dell’anno gli istituti di pena e la partecipazione al “Ferragosto in Carcere” ha soprattutto il valore simbolico di evidenziare l’importanza che deve avere nell’agenda politica il tema della detenzione. L’iniziativa prevede la visita agli istituti di pena in uno dei giorni tra il 15(giovedì) e il 18 (domenica) di agosto. Sono stati invitati a partecipare i parlamentari, italiani ed europei, i consiglieri regionali ed i garanti per i diritti dei detenuti, soggetti tutti che godono di un particolare diritto, quello di visitare gli istituti senza necessità di autorizzazione alcuna ai sensi dell’art. 67 O.P.. Sarà l’occasione per avere un quadro complessivo delle condizioni delle nostre carceri e delle relative criticità che spingono, giorno dopo giorno, i detenuti, ma anche i detenenti, ad assumere condotte a volte disperate. La risposta delle Camere Penali territoriali e dei penalisti iscritti è stata massiccia, nonostante il periodo feriale. In pochi giorni si sono spontaneamente formate delegazioni miste tra i penalisti ed i militanti e dirigenti del Partito Radicale o addirittura delegazioni di soli avvocati, segno inequivocabile della sensibilità sempre più evidente dei penalisti verso i problemi del “pianeta carcere”. Quelle affinità tra M5S e Pd su processi e magistratura di Errico Novi Il Dubbio, 13 agosto 2019 La prescrizione abolita dopo il primo grado? ci provarono anche i dem. È il ministro della Giustizia in carica. Ed è l’autore di una bozza di riforma, giudicata “acqua” dell’ormai ex alleato Salvini, certo ampia per spettro di interventi. Alfonso Bonafede è tra i Cinque Stelle più duri nei confronti della Lega. Circostanza che non può sorprendere: l’altolà del Carroccio al suo testo su processo e Csm risale ad appena dieci giorni fa. “Giorno dopo giorno, si sgretola sempre di più la maschera di chi ha tradito il popolo italiano per poltrone e Berlusconi”, scrive Bonafede su Facebook. Poi aggiunge: “Immagino già il primo punto del loro “programma”: smantellare la legge spazza-corrotti, a cominciare dalla legge sulla prescrizione”. E qui il guardasigilli squaderna un intero, ancora inesplorato capitolo della crisi: la giustizia appunto. Il breve post di ieri racchiude in sé una domanda, inevitabile: se davvero la carambola politico- parlamentare generasse un’intesa fra M5S e Pd, cosa accadrebbe su dossier come quello della prescrizione, che allo stato, per i reati commessi dal prossimo 1° gennaio, sarebbe abolita dopo la sentenza di primo grado? Il quesito rimanda alle diverse visioni che i due partiti anno soprattutto sui due punti: processo penale e rapporto con la magistratura. Un’ottica distante, certo. Ma non inconciliabile. Tanto da suggerire un pronostico: se per caso davvero si realizzasse lo scenario, complicatissimo, di un prosieguo della legislatura con l’inedito asse tra pentastellati e dem, la “nuova” prescrizione avrebbe significative chances di restare in vita. Il pronostico è condizionato a una sequenza notevole di subordinate. Prima fra tutte, la durata di una legislatura rimessa sui binari in tal modo. Intanto però va constatato che lo stop al decorso della prescrizione una volta pronunciata la sentenza di primo grado è ipotesi che era stata parzialmente coltivata, in una prima fase, proprio dal Pd nella legislatura precedente. Poi prevalse una soluzione diversa, meno brutale e meno traballante quanto a legittimità costituzionale: la sospensione dei termini di prescrizione per 18 mesi dopo la sentenza di condanna in primo grado e per ulteriori 18 mesi dopo l’eventuale sentenza di condanna in appello. Certo, più volte il predecessore di Bonafede, Andrea Orlando, ha ricordato quanto fosse discutibile un ulteriore intervento sull’istituto processuale, considerato che ancora non si è avuto modo di mettere alla prova la modifica introdotta da lui. Resta però il fatto che culturalmente i dem, o quanto meno ampi settori del partito oggi guidato da Nicola Zingaretti, non sono radicalmente ostili a quel tipo di soluzione. In astratto non si può escludere un compromesso, che veda magari un ritocco alla “nuova” prescrizione, introdotta dalla spazza-corrotti, in modo per esempio da limitarla alle sentenze di condanna. Così come non si può escludere che un’alleanza seppur transitoria fra pentastellati e democratici possa prevedere, nel dossier giustizia, un parziale recupero della riforma Bonafede. In particolare, di quelle parti del ddl delega messo a punto a via Arenula che avrebbero riscritto sia i criteri di elezione del Csm che altri aspetti dell’ordinamento giudiziario. Se c’è infatti un punto di relativa vicinanza tra i due partiti sulla giustizia è appunto in una certa intransigenza nei confronti delle toghe. Un tratto forse nuovo per il partito di Luigi Di Maio. E che invece è stato ampiamente sperimentato proprio da Renzi. Basti pensare a provvedimenti come il taglio delle “ferie” di giudici e pm o al drastico abbassamento dell’età per il loro pensionamento, da 75 a 70 anni. Ci potrebbe essere intesa sui tempi di fase per i processi penali e le relative sanzioni per i giudici che non li rispettano. Possibile convergenza sulle conseguenze disciplinari previste, da Bonafede, anche per i pm che tardano nel chiudere le indagini. Analogo discorso per il “sorteggio temperato” nella scelta dei consiglieri togati al Csm e, soprattutto, sui limiti molto netti ipotizzati dall’attuale guardasigilli per i magistrati che fanno politica. Si tratta di paletti che, seppur in forme appena memo dirompenti, aveva messo nero su bianco anche l’ex responsabile Giustizia del Pd e attuale vicepresidente del Csm David Ermini. Una convergenza sarebbe “naturale” sul no alla separazione delle carriere, osteggiata da Bonafede al pari di quanto fatto prima di lui da Orlando. Vedute più che conciliabili vanno registrate su misure che riguardano in generale le professioni e in particolare l’avvocatura, a cominciare dal rafforzamento delle norme sull’equo compenso. Un versante che ha visto impegnati fino a pochi giorni fa sia Bonafede sia il sottosegretario alla Giustizia Jacopo Morrone, della Lega. E sul quale il Pd ha già fatto sapere di voler dare una mano. Non va dimenticato che la legge sull’equo compenso di fine 2017 fu messa a punto da Orlando d’intesa con il Cnf, e che fu poi fortemente sostenuta anche da Maria Elena Boschi. Su questo, l’intesa col M5s, rilanciata ieri in un’intervista al Messaggero proprio dall’ex ministra, sarebbe meno sorprendente. A nascondere esiti imprevedibili è però un connubio fra pentastellati e dem in materia penale: sulla carta, si annuncia assai meno contrastato di quanto si sia rivelato quello fra Bonafede e Salvini. Se la crisi di governo dimentica la giustizia e lascia le cose come stanno di Iuri Maria Prado Il Dubbio, 13 agosto 2019 Se in Italia i processi si celebrassero e concludessero speditamente e se fossero preceduti da indagini ragionevoli e giustificate (diciamo che non succede sempre); se le sentenze fossero perlopiù corrette e provviste di motivazioni solide (diciamo che non raramente accade il contrario); se gli uffici giudiziari fossero di norma luoghi di efficienza al servizio del cittadino anziché polverosi gironi di disordine e sostanziale sopraffazione; insomma se la giustizia in questo Paese fosse amministrata meglio, potremmo forse dire che nulla più occorrerebbe? No davvero. Perché avremmo in quel caso un sistema governato da una macchina più funzionante, ma ancora senza nessuna garanzia sul fatto che si tratterebbe di un sistema civile, almeno se con ciò si intende, come dovrebbe intendersi, un sistema che privilegia e protegge, innanzitutto, i diritti della persona piuttosto che il potere dello Stato di controllarne e sanzionarne i comportamenti. Perché questo dopotutto non è chiaro, e anzi corre l’idea opposta: che il diritto del cittadino alla propria libertà risiede innanzitutto nella protezione contro la pretesa punitiva e sanzionatoria dello Stato. Il quale è civile nella misura in cui si auto-limita, assegnando al cittadino il diritto di opporsi a quella pretesa adoperando gli opportuni strumenti di difesa nel processo. Ma c’è un politico italiano (uno!) consapevole del fatto che quello, e non il nostro, nemmeno se più funzionante, dovrebbe semmai considerarsi un sistema civile? E c’è un politico (almeno uno!) che se pure lo capisse (se pure lo imparasse) avrebbe la forza di rivendicarlo e farne la materia della propria iniziativa in tema di giustizia? E quel che rimane, quel che c’è, è il vago complesso reazionario che reclama genericamente processi veloci e pene certe. E ad opporvisi (si fa per dire) c’è soltanto l’alternativa delle cose lasciate come sono, che forse è anche peggio perché almeno la soluzione manettara non si proclama attenta ai diritti. Non ci sono in Italia, in argomento di giustizia, due visioni opposte. Ce n’è una, in prospettiva di potere soverchiante, che, tanto per capirsi, vuole “regalare” ai cittadini un orrendo dispositivo di schiavettoni e lavori forzati. E, contro questa visione, non la riaffermazione di un’esigenza di riforma in senso protettivo dei diritti della persona: ma la garanzia di mantenimento della situazione attuale. “Giardino della Giustizia” in abbandono: secche 27 querce per i magistrati uccisi dalla mafia di Paolo Conti Corriere della Sera, 13 agosto 2019 Gli alberi piantati a Roma il 7 novembre 2018 per ricordare i magistrati uccisi: all’inaugurazione c’erano il ministro Bonafede e la sindaca Raggi. La siccità e la mancata manutenzione hanno cancellato il verde. Roma ha un immenso bisogno di tutelare la Memoria civile, soprattutto in una stagione incattivita e amara come quella che stiamo vivendo. Ma troppo spesso, dopo i facili slogan e le frasi da campagna elettorale, l’incuria e l’incapacità amministrativa distruggono anche i migliori progetti. Infatti alla Romanina è indegnamente naufragato, tra sterpaglie e foglie secche, il “Giardino della Giustizia” inaugurato con discorsi e tagli di nastro il 7 novembre 2018. Altro che Giardino della Giustizia, altro che tutela della Memoria. L’incuria, l’abbandono, il degrado, il menefreghismo seguito al taglio del nastro e alla retorica dell’inaugurazione ufficiale hanno ucciso un bellissimo progetto alla Romanina, nel parco di viale Luigi Schiavonetti. Ovvero il Giardino della Giustizia, 27 querce piantate per ricordare altrettanti magistrati uccisi dalla mafia. Lapidi con i nomi di Antonino Scopelliti, Giovanni Falcone, Francesca Morvillo, Paolo Borsellino e tanti altri. Quel 7 novembre, come raccontò la nostra Manuela Pelati, intervennero il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, la sindaca Virginia Raggi, l’allora assessore all’Ambiente Pinuccia Montanari, la presidente del VII Municipio Monica Lozzi, il presidente della Commissione capitolina all’Ambiente Daniele Diaco. Uno schieramento di alto livello istituzionale. Discorsi forti e impegnativi, come quello della sindaca Raggi: “Abbiamo pensato il Giardino proprio per il quartiere della Romanina, già citato dalle cronache per episodi di violenza e abusi, per ribadire che insieme alle autorità giudiziarie non abbassiamo lo sguardo. Oggi vogliamo dire che è forte la presenza delle istituzioni in difesa della legalità. Roma non arretra davanti alla criminalità…. non vi lasceremo soli, soprattutto in un territorio come questo”. Parole pronunciate davanti a diverse scolaresche perché il progetto, aveva sottolineato Bonafede, era destinato soprattutto alle nuove generazioni: “Quello che farete da grandi lo farete soltanto in una città onesta. E quando sentirete parlare di mafia, criminalità, corrotti, sentite parlare di qualcuno che vuole impedirvi il vostro futuro”. Agosto 2019. Le querce sono morte, distrutte dalla siccità, dall’assenza di quella manutenzione quotidiana indispensabile per tenere viva una Memoria essenziale per i giovani che avevano assistito alla cerimonia e ci avevano creduto. Sterpaglie tagliate solo qualche giorno fa dopo mesi di incuria intorno alle querce essiccate, lapidi leggibili solo spostando fogliame. Ieri la lettrice Raffaella Cortese ha scritto indignata al forum “Una città, mille domande” che continua a mantenere il dialogo quotidiano su Roma.corriere.it: “Il Giardino della Giustizia è stato inghiottito dall’incuria e menefreghismo. Bastava un po’ d’acqua per annaffiare le giovani piante e oggi avremmo avuto un verde splendido carico di significato. Soldi spesi e andati in fumo. Qui è la memoria dei 27 magistrati assassinati ad essere stata colpita ed è un fatto molto grave”. La lettrice ha ragione: un’offesa alla memoria di quei 27 magistrati martiri, una vergogna per Roma e per un’amministrazione incapace di mantenere promesse così essenziali per i nostri figli. Camorra, i capi sono in cella. Il potere nelle mani delle babygang di Gigi Di Fiore Il Mattino, 13 agosto 2019 È la certificazione ufficiale del grande caos negli scenari criminali napoletani. Pochi giorni fa, la Direzione nazionale antimafia e antiterrorismo, guidata da Federico Cafiero de Raho, ha inviato la sua relazione annuale, depositata il 31 luglio scorso, alla Procura generale della Cassazione, al Csm e al Parlamento. In 523 pagine, il bilancio dell’attività investigativa e l’analisi della realtà delle organizzazioni mafiose. Alla camorra, sono dedicate in dettaglio 21 pagine, curate dal procuratore nazionale aggiunto Giovanni Russo. Confermano quanto i gruppi camorristici di Napoli città siano sempre più “frammentati”. “Il vuoto provocato dalla disarticolazione delle storiche famiglie camorriste ha prodotto dinamiche incontrollabili e imprevedibili, con soggetti e gruppi criminali sganciati da rigide gerarchie e dal rispetto di qualsiasi regola di condotta e per ciò stesso anche più pericolosi”. È la sintesi, che è anche allarme, della relazione della Dna. Un grande caos, la confusione provocata dalla disgregazione dei clan organizzati, che si sono sviluppati a Napoli fino agli inizi di questo secolo. Poi, le mazzate di una vittoriosa e sempre più intensa repressione giudiziaria, con le collaborazioni di giustizia avviate anche da conosciuti capiclan. Il dopo è una realtà sfuggente, spesso difficile da ricostruire anche per gli inquirenti. La Dna osserva l’affermarsi di gruppi e “elementi spuri non riconducibili alle forme classiche del fenomeno camorristico, con azioni e interrelazioni di tipo gangsteristico”. È la trasformazione della criminalità organizzata cittadina, in corso da almeno una decina d’anni. Le collaborazioni con la giustizia di capiclan di rilievo nel centro storico (i fratelli Giuliano di Forcella, i Misso alla Sanità), uniti ai successi delle indagini nelle aree periferiche della città (lo scompaginamento a Scampia dei Di Lauro, dei loro antagonisti Amato-Pagano, dei più giovani riuniti nel gruppo dei “girati”, o i pentimenti nel clan Lo Russo di Miano) hanno dato il via a un’evoluzione in continua osservazione. E dagli esiti difficilmente prevedibili. La relazione della Dna parla di “mafia fluida” che ha sostituito la vecchia definizione di “pulviscolarità” coniata in passato per i clan della camorra napoletana. Scrive il procuratore nazionale aggiunto Giovanni Russo: “Le strutture organizzative si sovrappongono le une alle altre, generando forme ibride, frutto di veloci processi di decomposizione, in modo incerto e temporaneo, volatile”. Uno scenario instabile. L’esempio di quanto accaduto nel centro storico, tra i gruppi delle cosiddette “paranze dei bambini” è illuminante. Uno scenario con “elevata mutevolezza delle alleanze tra i vari gruppi”, condizionate da “episodica o contingente comunanza di interessi economici”. Naturale che, nelle alleanze, contino sempre meno i rapporti personali tra i capi, condizionati dall’assenza di “storie criminali” e autorevolezza individuale in grado di imporsi negli equilibri tra i gruppi. Un caos criminale, con protagonisti sempre più giovani, violenti ma privi di carisma. Il controllo delle piazze di spaccio e delle estorsioni in territori a volte assai limitati, è la posta in gioco. Si legge nella relazione della Dna: “Il controllo di un’area geografica diviene fondamentale e l’invasione delle aree sottoposte al controllo altrui costituisce una prova di forza essenzialmente per la sopraffazione del clan rivale fuori da ogni regola e logica”. Gruppi di giovani “impegnati a contendersi la scena mediatici a suon di omicidi e aggressioni” con una violenza definita dalla Dna “sfacciata, spesso gratuita e comunque volutamente esibita”. Uno scenario allarmante. Si legge infatti nella relazione: “La città di Napoli sta vivendo un periodo particolarmente difficile dovendo confrontarsi quotidianamente con problemi atavici e con una criminalità, anche minorile, che appare addirittura più preoccupante e pericolosa di quella organizzata”. Uno scenario criminale “unico nel territorio nazionale”. E anche più pericoloso per la sua anarchia, diventata strutturale. Clan poco organizzati significano anche agguati sanguinari privi di logica, che mettono in pericolo passanti ignari. Come ha dimostrato il ferimento della piccola Noemi in piazza Nazionale. Avverte, con preoccupazione, la Dna: “In altre realtà metropolitane, il condizionamento della criminalità mafiosa sulla vita civile, economica e politica, pur asfissiante e intollerabile, non espone il singolo cittadino al rischio di agguati e sparatorie in pieno centro cittadino come avviene a Napoli”. Appropriazione indebita per le tasse non pagate di Giulio Benedetti Il Sole 24 Ore, 13 agosto 2019 Corte di cassazione - Sentenza 27822/19. L’amministratore commette il reato di appropriazione indebita se non paga i tributi del condominio. È il caso trattato dalla Corte di Cassazione (sentenza 27822/2019) che ha dichiarato inammissibile il ricorso di un amministratore di condominio avverso una sentenza che lo aveva condannato per il reato di appropriazione indebita aggravata. I condòmini avevano revocato l’incarico all’amministratore perché, dopo che per dieci anni aveva amministrato il condominio, erano arrivate dall’Agenzia delle Entrate alcune cartelle ed avvisi di accertamento relativi a pendenze sottaciute dall’amministratore. Inoltre i condòmini accertavano che Equitalia aveva emesso nei confronti del condominio una cartella di pagamento per il mancato pagamento dei contributi previdenziali del portiere e altre per l’omesso pagamento delle ritenute di pagamento sulle retribuzioni, sulle fatture emesse dai fornitori e per il mancato pagamento della Tosap (per ponteggi esterni). Una situazione molto insidiosa anche per le proprietà individuali e persino per i beni mobili dei singoli condòmini, a rischio pignoramento. Il nuovo amministratore concordava con Equitalia un piano di rientro, mentre il precedente professionista non gli aveva consegnato alcun fondo cassa, né gli dava conto dell’accantonamento del Tfr del dipendente. La Corte di Cassazione sosteneva che la condotta dell’amministratore, che aveva trattenuto le somme di cui aveva la responsabilità in ragione del suo ufficio e con destinazione vincolata ai pagamenti nell’interesse del condominio, integrava il delitto di appropriazione indebita: la specifica indicazione del denaro, contenuta nell’articolo 646 del Codice penale, può costituire oggetto del reato di appropriazione indebita poiché il denaro stesso può essere oggetto di trasferimento relativamente al mero possesso, senza che al trasferimento del possesso si accompagni anche quello della proprietà. Equipe medica, la Cassazione chiarisce sulla responsabilità per errore altrui di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 13 agosto 2019 Cassazione - Sezione IV penale - Sentenza 12 luglio 2019 n. 30626. Nell’ambito dell’attività medica e della cosiddetta “responsabilità di équipe”, il principio di affidamento (in forza del quale il titolare di una posizione di garanzia, come tale tenuto giuridicamente a impedire la verificazione di un evento dannoso, può andare esente da responsabilità quando questo possa ricondursi alla condotta esclusiva di altri, contitolare di una posizione di garanzia, sulla correttezza del cui operato il primo abbia fatto legittimo affidamento) consente di confinare l’obbligo di diligenza del singolo sanitario entro limiti compatibili con l’esigenza del carattere personale della responsabilità penale, sancito dall’articolo 27 della Costituzione, perché, spiegano i giudici della Cassazione con la sentenza 30626/2019, il riconoscimento della responsabilità per l’eventuale errore altrui non è illimitato e impone, per essere affermato, non solo l’accertamento della valenza concausale del concreto comportamento attivo o omissivo tenuto rispetto al verificarsi dell’evento ma anche la rimproverabilità di tale comportamento sul piano soggettivo secondo i principi in tema di colpa. Nel caso di specie, la Corte ha annullato con rinvio la sentenza di condanna nei confronti di uno dei chirurghi dell’equipe per non essere state affrontate in modo adeguato le questioni di cui sopra in punto di responsabilità individuale, essendo emerso in fatto che a tale sanitario era stata addebitata la responsabilità per un errore riconducibile ad altro operatore nelle manovre di posizionamento dei divaricatori neppure immediatamente percepibile durante l’intervento. Come è noto, nell’attività medico-chirurgica, qualora ricorra l’ipotesi di cooperazione multidisciplinare, anche se svolta non contestualmente, nell’apprezzamento della colpa professionale occorre tenere conto che, ogni sanitario, oltre che al rispetto dei canoni di diligenza e prudenza connessi alle specifiche mansioni svolte, è tenuto a osservare gli obblighi ad ognuno derivanti dalla convergenza di tutte le attività verso il fine comune e unico. Da ciò conseguendo che ogni sanitario non può esimersi dal conoscere e valutare l’attività precedente o contestuale svolta da altro collega, sia pure specialista in altra disciplina, e dal controllarne la correttezza, se del caso ponendo rimedio a errori altrui che siano evidenti e non settoriali, rilevabili ed emendabili con l’ausilio delle comuni conoscenze scientifiche del professionista medio. Il mancato rispetto di tale obbligo cautelare, coerentemente, può quindi fondare la responsabilità concorsuale. L’obbligo di garanzia non è ovviamente senza limiti, giacché, in difetto, finirebbe con il fondare una sorta di responsabilità oggettiva di posizione. La responsabilità per l’errore altrui, cui non si è posto rimedio o non si è cercato di porre rimedio, presuppone infatti, pur sempre, un addebito a titolo di colpa. In questa prospettiva, deve ritenersi che l’errore altrui per poter essere addebitato al sanitario o deve rientrare nel bagaglio di conoscenze di qualsivoglia sanitario medio (non fosse altro che per la sua abnormità ed evidenza) o deve rientrare nello specifico settore in cui anche egli è specializzato. Deve ovviamente trattarsi di un errore, nei termini di cui si è detto, che quel sanitario sia in grado di percepire nel corso dello svolgimento della sua attività, in ragione delle specifiche mansioni che egli è chiamato a svolgere. Solo se ricorrono queste condizioni la mancata percezione dell’errore e/o il mancato intervento potranno addebitarsi a titolo di colpa al sanitario. L’ipotesi paradigmatica in cui si può porre la responsabilità di équipe è ravvisabile nell’obbligo posto a carico di tutti i sanitari intervenuti all’atto operatorio di partecipare ai controlli volti a fronteggiare il frequente e grave rischio di lasciare nel corpo del paziente oggetti estranei, conseguendone che non è neppure consentita la delega delle proprie incombenze agli altri componenti, perché ciò vulnererebbe il carattere plurale, integrato, del controllo, che ne accresce l’affidabilità (cfr. sezione IV, 18 giugno 2009, Cazzato e altro). Diverso discorso deve farsi, invece, per quelle fasi in cui, distinti nettamente, nell’ambito di un’operazione chirurgica, i ruoli e i compiti di ciascun elemento dell’equipe, dell’errore o dell’omissione ne può rispondere solo il singolo operatore che abbia in quel momento la direzione dell’intervento o che abbia commesso un errore riferibile alla sua specifica competenza medica. In queste situazione deve valere il principio del legittimo affidamento sull’altrui competenza professionale e, del resto, la specificità dell’intervento altrui renderebbe impraticabile ipotizzare il profilo di colpa (sub specie, del mancato controllo) che è condizione per la formalizzazione dell’addebito. Esemplificando: l’anestesista non potrebbe essere certo chiamato a rispondere dell’errore del chirurgo, come questi non potrebbe, a sua volta, rispondere di una inidonea somministrazione di anestetico da parte del primo (cfr. sezione IV, 22 maggio 2009, Riva e altro). Siena: al via il progetto dei lavori socialmente utili per i detenuti sienanews.it, 13 agosto 2019 È partito ieri mattina il progetto dei lavori socialmente utili per i detenuti del carcere di Siena. Un gruppo si è messo all’opera per ripulire piazza Santo Spirito dalle erbe infestanti: si tratta della prima uscita a cui seguirà un impegno per la manutenzione e il decoro delle aree verdi in tutto il centro storico. “Da oggi entra nel vivo la convenzione tra l’amministrazione e il Ministero di Giustizia che prevede di poter impegnare le persone in stato di detenzione nella casa circondariale di Siena per svolgere attività lavorative extra-murarie per la protezione ambientale e per il recupero del decoro di aree verdi e spazi pubblici, nonché attività inerenti la raccolta dei rifiuti, la protezione civile, compreso il piano neve. Nei prossimi giorni, ad esempio, saranno impegnati anche nelle attività collegate alla macchina organizzativa del Palio”, spiega l’assessore al Decoro, Aree Verdi e Ambiente Silvia Buzzichelli che, questa mattina, ha voluto incontrare i detenuti impegnati nella pulizia dell’area di Santo Spirito, prospicente la chiesa e la casa circondariale. “Questo progetto ha una valenza sociale, in cui il Comune di Siena svolge un ruolo attivo e di supporto per l’attuazione delle politiche volte al reinserimento dei detenuti e, dall’altro, è utile per la collettività per realizzare piccoli interventi di manutenzione”, prosegue l’assessore. Proprio per questa ragione Buzzichelli, oltre a sottolineare la collaborazione “della direzione della Casa Circondariale e del Magistrato di Sorveglianza”, ricorda che “i detenuti sono stati individuati solo tra quelli per cui sussistano le condizioni per l’ammissione al lavoro all’esterno, alla semilibertà, ai permessi o licenze e che sono state compiute tutte le verifiche del caso e sono stati formati dai tecnici del Comune”. Trento: reinserimento per i giovani entrati nel circuito penale agenziagiornalisticaopinione.it, 13 agosto 2019 Reinserimento sociale e lavorativo di giovani entrati nel circuito penale. Decisione della Giunta su proposta dell’assessore Achille Spinelli. Il progetto fa capo all’Autorità giudiziaria minorile. Sostenere i giovani entrati nel circuito penale e sottoposti a misure disposte dall’Autorità Giudiziaria Minorile, nel loro cammino di reinserimento sociale, e avvicinarli al mondo del lavoro attraverso tirocini formativi e di orientamento: questo l’obiettivo del progetto avviato dall’Ufficio Servizio Sociale - Servizio dell’Amministrazione della Giustizia Minorile, in collaborazione con l’Agenzia del lavoro - Ufficio inserimento lavorativo soggetti svantaggiati, approvato oggi dalla Giunta provinciale su proposta dell’assessore allo sviluppo economico e lavoro Achille Spinelli. I destinatari sono 10/15 minorenni e giovani adulti di età compresa tra i 16 e 25 anni, sottoposti a misure disposte dall’Autorità Giudiziaria Minorile. L’Ufficio Servizio Sociale Minorenni (Ussm) - servizio dell’Amministrazione della Giustizia Minorile - tra le sue funzioni annovera anche, nel processo di presa in carico, l’attività di reinserimento sociale di minori e giovani adulti entrati nel circuito penale e sottoposti a misure disposte dall’Autorità Giudiziaria Minorile. L’attività si sostanzia anche in interventi di carattere sociale che possano incidere su percorsi educativi e formativi interrotti o segnati da difficoltà ed insuccessi. L’Ufficio anche nel 2019 ha avviato un progetto di avvicinamento al mondo del lavoro, riservato a 15 minorenni e giovani adulti, di età compresa tra i 16 e i 25 anni, chiedendo la collaborazione dell’Ufficio inserimento lavorativo Soggetti svantaggiati dell’Agenzia del lavoro. L’Obiettivo generale del progetto è l’avvicinamento al mondo del lavoro attraverso i tirocini formativi e di orientamento, ognuno della durata variabile da due a quattro mesi. L’attuazione del progetto sarà affidata a un Soggetto del Terzo Settore, individuato attraverso una procedura negoziale attivata dall’Ufficio Servizio Sociale Minorenni (Ussm), che provvederà a segnalare i minori e i giovani adulti. Come lo scorso anno saranno coinvolti nel progetto i Centri per l’Impiego dell’Agenzia del lavoro, che avranno il compito di iscrivere i giovani coinvolti come disoccupati, di verificare i requisiti per attivare il tirocinio, di procedere con l’attivazione del tirocinio medesimo e di partecipare a un incontro finale di valutazione dell’andamento e dei risultati conseguiti. L’Accordo proposto ha validità dal giorno della sottoscrizione per la durata di 3 anni, con possibilità di proroga per altri 3 anni. Roma: a Ponte Galeria cure e cibo scarsi, il caldo aggrava la salute dei detenuti di Alessia Rabbai roma.fanpage.it, 13 agosto 2019 Il Garante della Libertà per la Regione Lazio Stefano Anastasìa ha denunciato una condizione critica nel Centro di permanenza per il rimpatrio Roma-Ponte Galeria, nei confronti di 157 ospiti, aggravate dal caldo intenso che si sta registrando in questi giorni. Le criticità riguardano l’assistenza sanitaria, il cibo e i contatti telefonici con l’esterno. Assistenza sanitaria insufficiente, scarsa qualità, quantità e varietà del cibo, contatti telefonici con l’esterno difficili. Una condizione generale quella degli ospiti del Centro di permanenza per il rimpatrio di Roma-Ponte Galeria, aggravata dal caldo intenso da bollino rosso che si sta registrando oggi e nei giorni scorsi, con picchi oltre 40 centigradi. A denunciare la situazione è Stefano Anastasìa, Garante della Libertà per la Regione Lazio, al termine della visita di oggi nel Cnp. Si tratta di una struttura che accoglie 157 persone, precisamente 106 uomini e 51 donne. Particolarmente critica è la situazione nel reparto maschile recentemente riaperto e subito riempito, in gran parte da ex-detenuti che vengono trasferiti all’interno della struttura alla fine della pena. Suddiviso in otto sezioni chiuse e separate tra loro da grate e cancellate alte circa otto metri, gli ospiti hanno segnalato alcune criticità, che riguardano la somministrazione dei pasti, l’impossibilità di utilizzare telefoni personali, l’assistenza sanitaria carente e la scarsità del personale, ridotto a soli otto operatori per turno, ciò ricade sugli spostamenti degli ospiti nella struttura, che devono essere sempre sorvegliati. “Già nelle scorse settimane avevo rappresentato alla Prefetta di Roma il problema della comunicazione con l’esterno, che non può essere garantita dall’uso di telefoni fissi a scheda, troppo dispendiosi economicamente per i trattenuti - ha spiegato Anastasìa - Oggi ho scritto al Direttore generale della Asl Rm3, competente per territorio, affinché sia al più presto riattivato il protocollo con la Prefettura, che fino a ottobre dello scorso anno ha garantito la presenza quotidiana a Ponte Galeria di medici Asl, sia a fini certificatori che per la prenotazione di accertamenti diagnostici e visite specialistiche negli ambulatori del territorio”. Ferrara: due giornate aperte alla cittadinanza per conoscere il carcere ferraraitalia.it, 13 agosto 2019 Nell’ambito del programma ufficiale del Festival di Internazionale, anche quest’anno i cancelli del carcere di Ferrara si apriranno per far entrare i cittadini interessati a conoscere due fra i diversi aspetti del lavoro culturale che si svolge al suo interno. Normalmente sappiamo poco di ciò che avviene all’interno di un carcere, ma soprattutto non conosciamo tutto ciò che si fa per attuare quella rieducazione della persona condannata a cui deve tendere la pena secondo la nostra Costituzione. Sono diverse le attività trattamentali che si svolgono a Ferrara: l’attività scolastica (dall’alfabetizzazione all’Università), la formazione professionale, la biblioteca, le attività culturali e sportive, il progetto Galeorto, il laboratorio di bricolage, gli incontri con gli studenti, il teatro, la pittura, la fotografia, il cinema, il giornale; ciascuna di queste, nel suo piccolo, contribuisce a ridefinire un pezzo di orizzonte futuro per le persone detenute che vi partecipano. Fra le varie iniziative, vista la grande partecipazione di pubblico degli anni scorsi, “Il Festival incontra il carcere” sarà riproposta anche quest’anno con lo scopo di promuovere occasioni di comunicazione e di crescita fra le persone che possano aprire una porta nelle barriere culturali ed emotive che fanno del carcere un mondo a parte. Il 4 ottobre, dalle 19 alle 21, la compagnia di detenuti attori diretti da Horacio Czertok e Marco Luciano presenterà “Album di famiglia”, uno spettacolo teatrale che rappresenta la conclusione di un laboratorio di due anni che si colloca nell’ambito del progetto “Padri e Figli” del Coordinamento Teatro Carcere Emilia Romagna. La proposta del Teatro Nucleo è uno studio sui temi della colpa, del lutto, dell’eredità e del conflitto generazionale attraverso la figura di Amleto nelle varie riscritture del 900, da Heiner Muller a Laforgue, suggerite ai detenuti e da questi rielaborate in scritture biografiche. Il 5 ottobre, dalle 9.30 alle 12, si svolgerà la seconda edizione de “La città incontra il carcere”. Il programma prevede dapprima una visita alla mostra di pittura, con i quadri realizzati da persone detenute nell’ambito del laboratorio artistico attivato all’interno della Casa Circondariale e condotto da Raimondo Imbrò; a seguire ci sarà l’incontro con il comitato di redazione di Astrolabio, composto da 15 persone detenute coordinate dal curatore Mauro Presini e dall’insegnante volontaria Lorenza Cenacchi, che incontrerà e dialogherà con i giornalisti ed i cittadini sul tema della comunicazione tra carcere e società. La prenotazione alle due iniziative è obbligatoria e distinta e deve essere compiuta entro il 4 settembre; per il teatro occorre scrivere a: teatroccferrara@gmail.com mentre per l’incontro con la redazione di Astrolabio bisogna scrivere a: info@giornaleastrolabio.it. In entrambi i casi occorre specificare: nome e cognome, luogo e data di nascita ed allegare la scansione della carta di identità. Maggiori informazioni si possono trovare alle rispettive pagine web: teatronucleo.org e giornaleastrolabio.it. Padova: il 23 agosto alla Casa di Reclusione concerto-evento per il Venezuela di Massimo Filipponi gnewsonline.it, 13 agosto 2019 Si svolgerà venerdì 23 agosto nella Casa di Reclusione di Padova il concerto Venezuela. Il popolo il canto il lavoro, spettacolo di canti venezuelani realizzato nell’ambito di un progetto più ampio che comprende anche la vendita di un libro-cd il cui ricavato andrà a sostegno dei progetti di formazione-lavoro dell’associazione venezuelana Trabajo y Persona. La “prima” mondiale del Concerto è prevista per giovedì 22 agosto alle 22 al Meeting per l’Amicizia tra i Popoli di Rimini la cui 40esima edizione scatterà domenica prossima. Lo spettacolo basato sui canti della tradizione venezuelana legati al mondo del lavoro è coordinato da Francisco José Sanchéz mentre la direzione artistica è affidata la maestro Aquiles Báez. Accompagnerà la straordinaria voce di Yma América, le chitarre di Aquiles Báez e José Francisco Sánchez, Julio Alcocer sarà alle percussioni e Yrvis Méndez al banjo. Presenta l’evento Michael Alberga, insegnante, musicista e presidente Associazione. Roma: il cantautore fiorentino Paolo Vallesi si è esibito a Rebibbia femminile osservatoreitalia.eu, 13 agosto 2019 Tra standing ovation, cori, balli e forti emozioni ha preso il via, martedì 23 luglio, la rassegna “La mia Libertà-Note in Carcere”, progetto promosso dal vicepresidente del Consiglio regionale del Lazio, Giuseppe Cangemi, realizzato insieme all’agenzia Joe & Joe per portare la musica nelle carceri. Ad aprire la rassegna negli istituti penitenziari, il cantautore fiorentino Paolo Vallesi che ha letteralmente entusiasmato le detenute di Rebibbia femminile: un’ora di musica tra cover e pezzi con pezzi celebri come “La Forza della Vita” a “Le persone inutili” e il nuovo singolo “Ritrovarsi ancora” in cui Vallesi non si è risparmiato improvvisando anche emozionanti duetti con le detenute, sulle note di evergreen di Battisti e Mina, che ha trasformato il concerto in un momento di forte coinvolgimento. Non è stata da meno l’esibizione di Marcello Cirillo e Mario Zamma che hanno trascinato i detenuti del carcere di Velletri e poi quello di Regina Coeli in un vortice di risate e di musica. Prima le esilaranti imitazioni dell’eclettico Zamma, volto storico del Bagaglino, che ha portato in scena i suoi cavalli di battaglia. Poi è stata la volta del ritmo irrefrenabile di Cirillo che, accompagnato dalla sua band e dalla guest star direttamente da cuba, Irina Arozarena, ha fatto inondato di note e energia i detenuti. In occasione dei due eventi, è stata distribuita una copia del testo del brano di Califano “La mia libertà”, che dà anche il titolo al progetto, che i detenuti hanno cantato a squarciagola insieme a Cirillo in apertura e in chiusura dell’evento. “L’entusiasmo dei detenuti sono la migliore risposta a questo progetto che abbiamo voluto realizzare in omaggio a Franco Califano - ha detto Cangemi partecipando alle iniziative - una delle ultime esibizioni in pubblico di Califano, ormai parecchi anni fa, fu al carcere di Velletri; ero assessore regionale e mi disse che avrebbe voluto portare la musica in tutti gli istituti penitenziari. Abbiamo voluto coronare il suo sogno e per questo ringrazio le direzioni delle carceri che hanno dato disponibilità a portare questi venti negli istituti, l’agenzia Joe & Joe per la preziosa collaborazione e gli artisti che hanno accettato di fare con noi questa esperienza mettendo a disposizione tempo e talento”. La rassegna “La mia libertà-Note in carcere” prosegue a settembre con gli ultimi due concerti in programma: Dolcenera a Rebibbia Nuovo Complesso e Enrico Ruggeri alla casa circondariale di Civitavecchia. “Boez-Andiamo via”: il cammino di rinascita dopo la pena ansa.it, 13 agosto 2019 “Io non tengo libertà, non mi ricordo neanche più da quando. Mi sa da quando tenevo 14 anni. Perché tra sorveglianza e carcere la libertà vera non l’ho mai avuta”, racconta Francesco, cresciuto all’ombra del padre boss della malavita locale, quasi un enfant prodige per il suo curriculum di reati. “Nella strada non sei libero, mai. Anche se sei libero per la giustizia, non sei libero dentro te”, dice. “A me piaceva incutere il terrore nelle persone e adesso se ci ripenso mi faccio schifo da solo”, confessa invece Alessandro, che dopo un’esistenza in strutture per minori e carceri, oggi sogna di studiare per diventare astrofisico. E poi ancora, Maria, cresciuta in una comunità Rom, costretta a sposarsi ancora bambina a 14 anni e poi a rubare; Omar, metà napoletano e metà tunisino, che l’obesità ha mortificato a lungo, mentre entrava e usciva dal carcere minorile; Kekko, corpo tatuato e un passato di violenze e privazioni; Matteo, che dopo cinque anni di carcere spera di far contenta sua madre, almeno ora che non c’è più. Sono i sei ragazzi protagonisti di Boez - Andiamo via, serie tv di forte impatto sociale, un po’ documentario un po’ reality, realizzata da Rai Fiction e Donatella Palermo per Stemal Entertainment con la collaborazione del Ministero della Giustizia italiano. In onda dal 2 al 13 settembre alle 20.20 su Rai3, la serie racconta, senza filtri né falsi paternalismi, il singolare esperimento di recupero di sei ragazzi, tutti condannati per aver infranto la legge e in regime di detenzione, interna ed esterna, ora letteralmente in cammino. Scarponi ai piedi e zaino in spalle, accompagnato da Marco Saverio, guida ambientale escursionistica Aigae, e da Ilaria D’Apollonio, educatrice di comunità ad orientamento psico dinamico, il gruppo ha percorso in 50 tappe e 10 puntate oltre 900 km, lungo la Via Francigena dei pellegrini medioevali, da Roma a Santa Maria di Leuca in Puglia, come misura di pena e recupero alternativi sul modello di iniziative già praticate in altri paesi europei, abbattendo fortemente la percentuale di recidive. “Chi è nato in montagna come me - racconta Roberta Cortella, autrice di Boez insieme a Paola Pannicelli e regista con Marco Leopardi - cresce con i sentieri che scorrono sotto i piedi e guardando alla cima come a un’impresa dura e faticosa”. Il progetto Boez, che prende il nome dalla firma di un writer “nel nome del quale raccontiamo una storia di speranza e rinascita”, è nato con l’obbiettivo di “portare in Italia il metodo del cammini come strumento di rieducazione e reinserimento sociale di giovani con trascorsi criminali. Una misura già praticata in Belgio e Francia da quasi quarant’anni”. La serie racconta così la “realizzazione di un sogno: quello di sperimentare il metodo in Italia, ma anche il sogno di sei giovani che per due mesi hanno lasciato il loro contesto sociale per ripartire verso una nuova consapevolezza di sé e del mondo”. Il cammino diventa infatti un percorso di conoscenza, un gesto quasi rivoluzionario in un quotidiano comune sempre più sedentario, ancora più per chi è vissuto ristretto nei limiti di un contesto marginale e deprivato. Un viaggio pieno di meraviglie, dagli incontri alla sorpresa di dormire sotto le stelle, con la libertà che fa quasi paura. Ma anche di ostacoli, brusche frenate: il caldo asfissiante, lo zaino che pesa tantissimo, momenti di sconforto personale, dinamiche interpersonali (e sentimentali) tutte da imparare. Ma il seme del cambiamento è piantato. E chissà che una volta arrivati al mare, cominci a germogliare. “Io, sentinella di Facebook, vi spiego come combattere l’odio sui social” di Paola Centomo Corriere della Sera, 13 agosto 2019 Lucia è “un’attivista digitale”: con i colleghi di #iosonoqui contrasta i commenti offensivi e le false notizie su Facebook con parole gentili e sostegno ai bersagli d’odio. Non è facile, ma funziona. Ho cinquant’anni, lavoro in un giornale e da qualche mese sono una sorta di sentinella del web. Il web, appunto, mi definirebbe un’attivista digitale; io mi considero una comune cittadina che ha deciso di combattere l’odio e le fake news che sono in circolo dentro Internet, nella fattispecie su Facebook. Per ora non siamo tantissimi, più o meno 2500, 2500 cittadini che ogni giorno - e ovviamente senza alcun compenso -, dragano la rete per bonificarla dalle bombe di odio e menzogne. Perciò, potete incontrare ognuno di noi in quelle voragini buie del web dove si scatena il rancore degli haters (odiatori), nelle giungle di commenti inveleniti dalla violenza e dalla manipolazione, in quei profili trasformati ormai in ring tra picchiatori verbali: ci riconoscerete dall’hashtag che accompagna tutte le nostre azioni, questo: #iosonoqui. Il mio attivismo su Facebook è cominciato lo scorso inverno. Era da tempo che mi sentivo turbata dai commenti rabbiosi in coda alle notizie di attualità: mi ferivano e, paradosso delle gremitissime piazze virtuali, mi facevano sentire molto sola. Quasi quasi mi stacco, cancello il profilo su Facebook, ma sì chiudo tutto!, mi dicevo. Poi, un giorno - era febbraio, ultime giornate d’inverno - mi imbatto in un post coraggioso e audace eppure incredibilmente gentile, un post che reagisce con garbo e intelligenza a un messaggio velenoso. Perdipiù, questo post è marcato da un curioso hashtag che calamìta la mia attenzione: #iosonoqui. Ma io chi? E qui dove? Così vado a cercare su Facebook. Scopro che #iosonoqui è un gruppo chiuso e leggo d’un fiato il loro manifesto: “Vogliamo che Internet e i social media divengano un posto migliore, che siano un luogo di sano, positivo e costruttivo confronto; vogliamo che le notizie false o manipolate non trovino spazio sulle bacheche. Lo facciamo alimentando le conversazioni con rispetto, apertura, gentilezza ed educazione, diffondendo le notizie vere e censurando quelle false…”. Parole sante: chiedo subito di essere ammessa al gruppo. Loro mi fanno domande: sei impegnata nel sociale? Cosa pensi dei discorsi d’odio? Io rispondo, e mi accolgono. Da lì comincia la mia avventura come sentinella della ragione su Facebook. In pratica il gruppo monitora quotidianamente Facebook alla ricerca di commenti violenti e di notizie false o manipolate e, una volta individuata una di queste situazioni, gli amministratori - sono dieci e, notizia!, sono in gran parte donne - ne danno cenno a noi attivisti attraverso Facebook, chiamandoci all’azione. Quello che ciascuno di noi riceve sul proprio smartphone è una notifica marcata dall’incipit “azione richiesta”, scritto proprio in maiuscolo. A seguire, l’enunciato della situazione d’odio o di fake news su cui bisogna intervenire. Per capirci: situazioni ormai tipiche in cui ci mobilitiamo sono i gorghi d’odio contro i migranti che attraversano il Mediterraneo. “Annegano? Bè, almeno ci sarà nuovo mangime per i pesci!”. Ecco, dove si pronunciano disumanità del genere, interveniamo noi di #iosonoqui con post orientati non a far cambiare idea al commentatore - non è quello che vogliamo - ma a mutare tono e prospettiva alla discussione. Ultimamente mi mobilito molto sulle aggressioni personali, quando cioè la rete punta un singolo - per lo più donna, guarda caso! - e lo mette sotto attacco. Capita con Ilaria Cucchi, (che ha fatto condannare i militari responsabili della morte del fratello Stefano, ndr) con Greta Thunberg, la giovane attivista ambientale, ma anche con la showgirl Michelle Hunziker e la cantante Emma Marrone. Ricordo quando Giorgia Meloni, segretaria di Fratelli d’Italia, fu attaccata con frasi sessiste per una dichiarazione sui migranti: noi, che non interveniamo mai a supporto di una visione politica o di un’altra, andammo subito a sostenerla. Perché quando aggredisce una donna, la rete sa sprigionare una gamma davvero grassa di umiliazioni. Per capire al volo come funziona tecnicamente #iosonoqui - e perché può fare la rivoluzione sul web -, bisogna sapere dell’algoritmo di Facebook, ovvero di quel misteriosissimo calcolo che determina, tra l’altro, la posizione dei commenti che gli utenti visualizzeranno nella prima schermata. Ebbene, il nostro obiettivo è proprio cavalcare l’algoritmo per fare salire nelle prime posizioni i post positivi e affossare quelli negativi, in modo da invertire il tono della conversazione e aprire la strada a chi vuole dire la sua senza aggredire. Cruciali sono i like, i “mi piace”, che cerchiamo di mettere a pioggia sui post positivi, per fare massa: ovvio che quanto prima arriviamo e quanti più siamo, tanto più forte ed efficace sarà la missione. L’attivismo per #iosonoqui è contagioso. Sarà perché è una forma di volontariato istantaneo, molto pratico e assolutamente funzionale: il gruppo ti interpella, tu compi l’azione - in qualche minuto puoi aver finito - e hai il riscontro immediato di aver cambiato una piccola parte del mondo e portato un valore. A me ha fatto fare, a cinquant’anni, una grande scoperta: ovvero che le parole, anche le più comuni, sono dannatamente potenti, ma noi non sappiamo usarle. Possono costruire ponti e avvicinare, così come scavare voragini e distruggere. Ora so che Internet e i social network si trasformeranno in meravigliosi giardini se tutti quanti impareremo a sfruttare il formidabile potere delle parole. Peraltro, non è neanche tanto difficile: è tutta questione di allenamento, più si fa pratica e più si diventa bravi. Per me all’inizio non era affatto semplice, davanti a commenti vomitevoli per la loro violenza, mantenere quella gentilezza, quel rispetto, quel buon senso e predisposizione al dialogo che sono i cardini della buna conversazione. Poi ho imparato a controllare l’emotività, sono riuscita a mettermi sempre più nei panni dell’altro, a prendermi tutto il tempo per ascoltare e, quindi, per meditare le parole da esprimere. Se una chiamata all’azione di #iosonoqui mi raggiunge a casa, adesso chiedo spesso ai miei figli - 15 e 14 anni - di aiutarmi. Anche loro stanno imparando una grande lezione, ovvero che nessuno ha sempre ragione e che, oggi più che mai, bisogna credere nell’incredibile forza che hanno le parole civili del dissenso. Più di 500 migranti abbandonati in mare di Leo Lancari Il Manifesto, 13 agosto 2019 Bloccati dalla politica dei porti chiusi dell’Italia. Dopo Richard Gere, con la Open Arms anche Banderas e Bardem. Giusto il tempo di lanciare i giubbotti di salvataggio e il gommone si è afflosciato riempiendosi di acqua e scaraventando in mare quanti si trovavano a bordo: 105 migranti, tutti uomini e tra questi anche 29 minori, tra i quali uno di appena 5 anni e uno di 12. Sono il risultato dell’ultimo salvataggio, il quarto in pochi giorni, messo a punto dalla nave Ocean Viking di Sos Mediterranee e Medici senza frontiere a 40 miglia dalle coste libiche. I volontari delle due ong fortunatamente sono riusciti a mettere tutti in salvo ma adesso a bordo della nave, che può ospitare al massimo 200/250 persone, si ritrovano in 356 e per quanto sia attrezzata per le emergenze la situazione rischia di diventare pesante. Sommando i migranti salvati dalla Ocean Viking a quelli presenti sulla Open Arms, a questo punto salgono a 507 i migranti bloccati in mare dalla politica dei porti chiusi dell’Italia. “Una follia”, per la ong spagnola giunta ormai al suo undicesimo giorno ferma in mare. “La stanchezza è tanto, ma non è solo fisica. È la consapevolezza della follia di questa situazione, stiamo parlando 160 persone fragili e bisognose di aiuto”, spiegano i volontari. Ieri è stato completato il trasferimento a Malta di due donne con gravi problemi di salute e dei loro familiari, il che ha fatto scendere a 151 il numero sei migranti ancora a bordo. “Siamo con loro con il cuore, in bocca a lupo per le loro vite e il loro futuro”, ha scritto sui social la ong. Intanto Matteo Salvini continua con l’atteggiamento di sempre. “Più d 350 migranti a bordo di una nave norvegese di una ong francese e quasi 160 a bordo di una nave spagnola di una ong spagnola: ribadiamo l’assoluto divieto di ingresso di queste due navi straniere nelle acque italiane”, ha ripetuto. “Aprano i porti di Francia, Spagna e Norvegia”. Ma prosegue anche la mobilitazione degli attori. Dopo Richard Gere e Antonio Banderas, ieri è intervenuto a sostegno di Open Arms Javier Bardem. In un video il premio Oscar chiede al premier spagnolo Pedro Sanchez di intervenire perché i migranti che si trovano a bordo possono essere distribuiti in Europa “perché crediamo che sia necessario che un paese membro dell’Europa debba coordinare questo processo e riteniamo che la Spagna sia il più adatto perché è il Paese di origine della ong”, ha spiegato Bardem. Peccato che, almeno per ora, dall’Unione europea non arrivino segnali di nessun tipo. Pur essendoci stati dei contatti con gli Stati, un portavoce della Commissione europea ha spiegato infatti che non è stato avviato il coordinamento” perché “non c’è stata alcuna richiesta da parte degli Stati”. Che la politica del Viminale serva soprattutto a raccogliere consensi elettorali lo dimostra il fatto che mentre l’attenzione è concentrata sulle navi delle due ong, continuano gli sbarchi di quanti riescono a raggiungere le coste italiane autonomamente o con barchini che vengono lasciati al largo dalle navi dei trafficanti: 89 solo ieri in tre differenti sbarchi avvenuti Sciacca, in provincia di Agrigento, Lampedusa e Crotone. La Regione Lazio approva legge contro il caporalato di Alessandro Capriccioli* e Marta Bonafoni** Il Manifesto, 13 agosto 2019 Braccianti. Al centro del provvedimento: gli indici di congruità per distinguere le imprese virtuose; il coinvolgimento del terzo settore per promuovere il loro lavoro sul fronte dell’inclusione; gli elenchi di prenotazione, per mettere in contatto domanda e offerta di lavoro facendo emergere il sommerso. Nel Lazio c’è la schiavitù. Con tanto di catene, soprusi, punizioni corporali, stenti, fame, sete. E morti. È la schiavitù del caporalato in agricoltura, praticata su larga scala a una manciata di chilometri da casa nostra, che riguarda migliaia di braccianti agricoli, gran parte dei quali stranieri. Una schiavitù nascosta, che solo negli ultimi anni è venuta alla luce grazie al lavoro di persone coraggiose come Marco Omizzolo, che oggi vive sotto scorta dopo aver aiutato centinaia di lavoratori a rompere il muro del silenzio, e di realtà associative come Terra!, impegnate in una difesa dell’ambiente che dev’essere anche, e in primo luogo, difesa dei diritti. Da quel lavoro sono emersi particolari raccapriccianti: violenze, anche sessuali, condizioni di vita disumane, paghe irrisorie, arbitrio dei padroni sulla vita e sulla morte dei braccianti e delle braccianti. Perfino la somministrazione di droghe, per consentire di sopportare fisicamente e psicologicamente condizioni di lavoro mostruose. Già questo, da solo, basterebbe per intervenire. Ma c’è perfino di più. A partire dalla concorrenza sleale delle aziende che si avvalgono dei lavoratori irregolari nei confronti di quelle che rispettano la legge: una concorrenza sleale della quale noi stessi siamo complici, come cittadini e come consumatori, quando non ci poniamo domande sul prezzo di quello che compriamo e mangiamo tutti i giorni. Tra giovedì e venerdì, in una lunghissima seduta notturna del Consiglio regionale (piegando il vergognoso atteggiamento ostruzionistico della destra), abbiamo approvato una legge a nostra prima firma che prende atto del problema e tenta di mettere in campo strumenti concreti per affrontarlo. Un provvedimento doveroso, per chi come noi rappresenta tutti i cittadini della regione, compresi quelli più fragili, che non hanno voce, a cui occorre restituire la possibilità di rivendicare i propri diritti e di pensare a un’esistenza dignitosa. La legge approvata persegue questi obiettivi attraverso una serie di misure: gli indici di congruità, per distinguere le imprese virtuose e offrire loro premialità rispetto alle altre; il coinvolgimento del terzo settore con il riconoscimento dei centri polifunzionali, per promuovere e finanziare il loro lavoro sul fronte dell’inclusione, dell’alfabetizzazione, della mediazione culturale, della formazione; gli elenchi di prenotazione, per mettere in contatto domanda e offerta di lavoro facendo emergere il sommerso; l’attività di monitoraggio e coordinamento di un Osservatorio regionale per il lavoro in agricoltura; le campagne di informazione e di sensibilizzazione anche nei paesi di provenienza dei lavoratori. E più in generale, il coinvolgimento di tutti i soggetti interessati: i sindacati, le organizzazioni datoriali, i centri per l’impiego, le associazioni, le sezioni territoriali della Rete del lavoro agricolo di qualità. Perché lavorare insieme e fare rete è l’unica possibilità per ottenere risultati significativi. Anche quando fuori soffia il vento dell’odio e dell’intolleranza. *Capogruppo +Europa Radicali al Consiglio regionale del Lazio **Capogruppo Lista Civica Zingaretti al Consiglio regionale del Lazio Africa. Farmaci killer contraffatti: 158mila morti all’anno di Antonella Sinopoli* La Repubblica, 13 agosto 2019 Un mercato da oltre 200 miliardi di dollari. La denuncia dell’Oms. I dati forniti dalla Scuola di igiene e medicina tropicale di Londra. I più colpiti dono i paesi subsahariani. I rimedi anti-malaria fatti di farina e gesso. Curarsi in Africa a volte vuol dire giocare alla roulette russa - si apprende leggendo un articolo di Antonella Sinopoli, su Nigrizia.it - Un colpo ti salva, l’altro ti ammazza. L’altro è una medicina contraffatta. Un medicinale su 10 nei paesi a basso o medio reddito è alterato, falsificato. E l’Africa subsahariana è l’area dove le fake drugs sono più diffuse: il 42% dei casi rilevati a livello globale. Lo dice l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) che recentemente ha lanciato nuovi allarmi sulla circolazione di farmaci contraffatti o che non rispettano gli standard qualitativi stabiliti dalle norme internazionali. Un terzo dei medicinali anti-malaria è falso. È falso, ad esempio, un terzo dei medicinali venduti per combattere la malaria. Secondo gli studi della Scuola di igiene e medicina tropicale di Londra almeno 158mila morti all’anno nei paesi subsahariani sono da attribuire a farmaci fittizi. E sta notevolmente aumentando anche la circolazione di medicinali contraffatti per curare forme di cancro, disturbi cronici, come l’ipertensione, o semplici antidolorifici. Sono 3 le categorie illecite stabilite dall’Oms: i farmaci deliberatamente fraudolenti, quelli che non rispondono agli standard internazionali e quelli non registrati neanche nel sistema nazionale. Possono contenere dosi sbagliate, agenti dannosi o nessun agente, palliativi insomma. Due miliardi di persone senza accesso sicuro ai farmaci. Sempre secondo l’Oms, 2 miliardi di persone al mondo non hanno alcun accesso alle cure mediche, neanche quelle di base. Di contro, nel corso degli anni la spesa mondiale per cure e farmaci è aumentata vertiginosamente e ha raggiunto la somma di 1,1 trilioni di dollari. In Africa, nel 2013, corrispondeva a quasi 21 miliardi e, secondo le stime, salirà da 40 a 65 miliardi di dollari entro il 2020. Un mercato parallelo e un giro d’affari impetuoso. I farmaci contraffatti hanno dato luogo ad un giro impetuoso di prodotti che ha anche aperto la strada a un mercato parallelo, quello, appunto, della contraffazione. Tali prodotti provengono soprattutto da Cina e India, ma anche dalla Turchia e dagli Emirati Arabi Uniti. Non è difficile trovarli sulle bancarelle dei mercali locali, ma spesso anche nelle farmacie autorizzate che, a volte sono ignare di quanto stanno acquistando e a volte ne sono complici. In questo mercato in espansione si inseriscono anche criminali alla ricerca di guadagni facili e veloci. I rimedi anti-malaria fatti con gesso e farina. Del resto, come hanno analizzato gli esperti, realizzare le “copie” dei farmaci non è molto complicato. Per gli antimalarici, ad esempio, basta della farina e un po’ di gesso per trarre in inganno. Secondo le stime, i medicinali contraffatti producono affari pari ad almeno 200 miliardi di dollari (il settore più lucroso di falsificazione al mondo) e contribuiscono al crescente rischio di resistenza antimicrobica. “Nonostante i progressi nella sorveglianza della qualità dei farmaci e nella tecnologia di rilevamento - si legge in uno studio recente pubblicato dalla Società americana di igiene e medicina tropicale - sono urgentemente necessari maggiori sforzi nella ricerca, nella politica e nel monitoraggio sul campo, per arrestare la pandemia dei falsi medicinali”. I sequestri avvenuti. I blitz che ci sono stati in questi anni dimostrano quanto sia vasto e massiccio il fenomeno. Fece scalpore l’operazione “Biyela 1” che nel 2013 coinvolse 24 paesi subsahariani (ma erano implicati anche Algeria e Marocco) e che portò al sequestro di 1 miliardo di prodotti contraffatti contenuti in 146 container, per un valore di circa 560 milioni di dollari. Molti paesi africani erano nel mirino di “Pangea XI”, condotta dall’Interpol nel 2018, e che portò al sequestro di tonnellate di medicinali potenzialmente pericolosi: valore 14 milioni di dollari. Gli esempi virtuosi di Nigeria e Tanzania. Negli ultimi due anni, in Costa d’Avorio, sono state sequestrate 400 tonnellate di fake drugs e in Kenya, nello scorso febbraio, sono state chiuse decine di farmacie illegali e moltissimi scatoloni ancora intonsi sono stati prelevati dal servizio di controllo. E poi c’è il caso-Nigeria che, segnalano gli esperti, è riuscita a ottenere una riduzione dell’80% della circolazione di farmaci contraffatti attuando attività normative mirate. Tra le iniziative, quella dell’agenzia per il cibo e i farmaci, (Nafdac), che ha stabilito l’ingresso dei medicinali nel Paese solo da due punti di accesso controllati e ha fornito i funzionari doganali di “minilab” mobili che consentono di identificare i farmaci falsificati. La Tanzania, esempio modello, risulta il primo Paese africano ad aver stabilito un sistema di qualità e di controllo dei farmaci, e in generale del sistema sanitario, di alto livello. Gli strumenti per riconoscere. In generale, però, intercettare i farmaci fasulli non è semplice e in questi anni la tecnologia sta facendo a gara per mettere a punto sistemi e tracciature che possano aiutare medici e infermieri, ma anche gli stessi pazienti, a controllare quello che stanno prescrivendo o acquistando. Sempre che il malato abbia competenze e capacità per usare applicazioni o sistemi di verifica. Uno dei sistemi anti contraffazione più noto (e facile da usare) è quello adottato dall’azienda americana Sproxil. Consiste in un’etichetta sul pacchetto del medicinale, basta grattarla e inviare un sms. Il codice permette di stabilire se il farmaco è contraffatto o originale. Nel 2018 il numero di verifiche in tutto il mondo (compresa l’Africa) era stato di 80 milioni. E poi ci sono le “app”, come Pedigree, sviluppata in Ghana da Bright Simons, vincitrice di numerosi riconoscimenti. Tra questi il Netexplorateur, Grand Prix dell’Unesco. I casi del farmacista camerunese e delle adolescenti nigeriane. Lui si chiama Franck Verzefé: ha sviluppato True-Spec, strumento che utilizza l’intelligenza artificiale per consentire a farmacie, ospedali, laboratori di stabilire la veridicità o meno di un farmaco. E poi ci sono le quattro ragazze nigeriane, poco più che adolescenti, e il loro Fake Drugs Detector. Per loro il premio Silicon Valley e la speranza che aiuti a ridurre le false medicine in circolazione. Convenzione medicrime. Certo, la guerra contro questo mercato criminale va combattuta a livello locale, regionale, ma soprattutto mettendo in campo reti sovranazionali. La Convenzione medicrime del Consiglio d’Europa, entrata in vigore nel 2016, rimane ancora l’unico strumento giuridico internazionale in materia. Stabilisce l’obbligo per gli stati membri di qualificare come illeciti penali quelli che hanno a che fare con la fabbricazione, fornitura, traffico di farmaci contraffatti. Ma al momento pochi paesi l’hanno ratificata. Tra quelli africani: il Burkina Faso, la Guinea, il Benin. Quest’ultimo in particolare proprio lo scorso anno ha arrestato e condannato a 6 anni di carcere più una multa di 4,5 milioni di euro un parlamentare dell’opposizione coinvolto in un giro di medicinali contraffatti. Un fatto eccezionale visto che in caso di arresto (non frequente considerata anche la rete di corruzione che copre il sistema) basta una semplice multa e le persone arrestate sono libere di tornare agli affari. Illeciti, naturalmente. *Antonella Sinopoli scrive su Nigrizia Germania. Rimpatriati con la violenza 1.289 migranti di Tonia Mastrobuoni La Repubblica, 13 agosto 2019 “Migranti legati e sedati” sotto accusa i voli da Berlino. La Germania conferma, numeri alla mano, di far ricorso sempre più spesso a manette, cinghie e nastri per immobilizzare i migranti da respingere. Nei primi sei mesi di quest’anno la polizia ha legato le mani, a volte persino i piedi, a persone rimpatriate nei loro Paesi d’origine o ricollocate in altri Paesi europei per ben 1.289 volte. Quanto nell’intero 2018, dieci volte quanto nell’anno dei profughi 2015, quando circa 850 mila richiedenti asilo raggiunsero la Germania soprattutto dalle zone di guerra del Medio Oriente. La conferma dell’aumento delle violenze nei confronti dei migranti da rimpatriare, di cui Repubblica ha dato per prima notizia, è sostanziata dai numeri forniti dal ministero dell’Interno tedesco alla parlamentare della Linke Ursula Jepke, che ne ha chiesto conto in un’interrogazione al Bundestag. La maggior parte dei migranti respinti con le manette o con altri mezzi di coercizione provengono da Algeria, Marocco, Nigeria e Gambia. Il ministero guidato da Horst Seehofer giustifica il vertiginoso aumento dell’uso di cinghie o manette col fatto che “sono aumentate le persone che resistono ai respingimenti”. A una domanda del nostro giornale, il ministero aveva già risposto settimane fa di ritenere legittimo il fatto di legare i migranti (nello specifico i profughi dublinanti da respingere in Italia). Ma la parlamentare Jelpke ritiene “insopportabile che la disperazione di queste persone venga spezzata in modo sempre più implacabile con la violenza, per rimandarle contro la volontà in posti terribili”. Il ministero dell’Interno ha anche ammesso che tra gennaio e fine giugno numerosi respingimenti sono falliti soprattutto durante la fase in cui i migranti venivano accompagnati dalla polizia sugli aerei. In 869 casi a causa di “azioni di resistenza”, altre 79 volte per “ragioni mediche”. Ma in 20 casi i migranti o i richiedenti asilo hanno tentato di suicidarsi o si sono auto-inflitti delle ferite, pur di non dover salire sugli aerei. Peraltro, la Germania ammette anche di aver ripreso a utilizzare i charter per i rimpatri. A una domanda del nostro giornale gli uomini di Horst Seehofer avevano ammesso di aver usato gli aerei dedicati ai respingimenti anche per i viaggi in Italia fino alla fine del 2018, da allora non più. E avevano aggiunto di voler riprendere anche quei viaggi speciali, ritenuti “più efficienti” e meno cari rispetto ai respingimenti singoli sugli aerei di linea. Tuttavia, quanto ai costi, il ministero dell’Interno risponde a Jelpke di aver speso comunque la bellezza di 380mila euro per un volo charter del 13 giugno che ha rimpatriato 34 migranti in Pakistan, scortati da 75 poliziotti. Aumentano, comunque, anche i migranti che lasciano volontariamente la Germania: tra gennaio e fine giugno sono partiti in 14.500. Ma a quella data le persone che il ministero dell’Interno ha condannato al rimpatrio immediato ammontavano ancora a quasi quattro volte tante, 55.620. Due mesi fa il Bundestag ha approvato un giro di vite nei confronti dei profughi che allunga i tempi di permanenza nei “centri di ancoraggio”, consente di rinchiuderli anche nelle carceri normali, alla vigilia della data di rimpatrio, cancella gli aiuti per i dublinanti e rende più severe le regole per chi falsificai documenti di identità. Un pacchetto fortemente voluto da Seehofer, ribattezzato da Ong come Pro Asyl “Legge Vattene”. Hong Kong. La protesta blocca l’aeroporto, per la Cina è “terrorismo” di Gianluca Zeccardo agi.it, 13 agosto 2019 Da ormai quattro giorni al terminale dei voli internazionali si tiene un sit-in dei manifestanti per la democrazia. E la reazione della polizia si fa più violenta. Il braccio di ferro tra manifestanti per la democrazia a Hong Kong e la Cina vive in queste ore momenti di altissima tensione, con Pechino che definisce “terrorismo” le violenze degli attivisti e schiera i cannoni ad acqua per le strade dell’ex colonia britannica. Davanti a 5.000 manifestanti che hanno bloccato i terminal degli arrivi all’aeroporto internazionale con un sit-in che dura ormai da quattro giorni, le autorità hanno cancellato tutti i voli in partenza e in arrivo e hanno deciso la chiusura dello scalo fino a domani mattina. Secondo quanto riferito dalla compagnia di bandiera, la Cathay Pacific, il blocco dei voli durerà fino a domani mattina, mentre le autorità aeroportuali stanno chiedendo ai passeggeri di lasciare i terminal al più presto. Gli attivisti continuano a sfidare i divieti e accusano di eccessivo uso della forza la polizia, che ieri per la prima volta, durante una serie di scontri particolarmente violenti, ha lanciato lacrimogeni per disperdere la folla anche all’interno di una stazione della metropolitana, Kwai Fong. Gli animi si sono ulteriormente esasperati dopo il ferimento di una ragazza che rischia di perdere un occhio dopo essere stata colpita da proiettili a cuscinetto. Sono subito diventati virali sui social i video della ragazza, che è stata operata. In segno di protesta e di solidarietà, i manifestanti riuniti all’aeroporto, oltre 5 mila secondo Kong Wing-cheung, soprintendente del dipartimento pubbliche relazioni della polizia, hanno un occhio coperto con una mascherina o una benda. La Cina ha condannato le violenze dei dimostranti che, secondo le autorità hanno lanciato bottiglie molotov contro la polizia, avvertendo che questi atti sono considerati “terrorismo”. “I manifestanti radicali di Hong Kong hanno ripetutamente usato strumenti estremamente pericolosi per attaccare i poliziotti, il che costituisce un grave crimine violento, e mostrano anche i primi segni di terrorismo”, ha detto Yang Guang, il portavoce dell’ufficio affari di Hong Kong e Macao (Hkmao) del Consiglio di Stato. Atti che “calpestano lo stato di diritto e l’ordine sociale di Hong Kong”, ha aggiunto. E sotto la pressione di Pechino la Cathay Pacific ha avvertito i suoi dipendenti che potrebbero essere licenziati se “sostengono o partecipano alle proteste illegali”. L’avvertimento è contenuto in un messaggio allo staff dell’amministratore delegato, Rupert Hogg, il quale ha intimato ai dipendenti in particolare di non sostenere o partecipare alle nuove proteste all’aeroporto internazionale dell’ex colonia britannica. Hong Kong. Forze di polizia irresponsabili, la situazione precipita di Riccardo Noury Corriere della Sera, 13 agosto 2019 Anche l’ultimo appello di Amnesty International alla moderazione è passato inascoltato. Sono 10 settimane che le forze di polizia di Hong Kong affrontano le manifestazioni ricorrendo a metodi brutali e illegali, che non fanno altro che alimentare la tensione. E infatti, oggi 5.000 persone hanno occupato l’aeroporto internazionale, costringendo alla cancellazione di tutti i voli. Ieri, la consueta messe di cannonate d’acqua, proiettili di gomma, proiettili che esplodono capsule contenenti sostanze irritanti e gas lacrimogeni in spazi angusti come la stazione di Kwai Fong, mirando alla testa e al tronco di persone che stavano arretrando. Una giovane manifestante rischia di perdere l’occhio destro dopo essere stata colpita da un proiettile noto come “sacchetto di fagioli”, in quanto è avvolto da un cuscinetto per renderlo teoricamente non letale. Amnesty International è tornata a chiedere a tutti i governi di sospendere i trasferimenti di materiali non letali per il controllo degli assembramenti. L’uso che ne fa la polizia di Hong Kong è del tutto irresponsabile. Mozambico. Posa della prima pietra dell’infermeria nel carcere di Tete santegidio.org, 13 agosto 2019 Qualche giorno fa, nell’ambito di alcuni progetti della Comunità per migliorare la situazione delle prigioni in Mozambico, c’è stata la posa della prima pietra dell’infermeria che sarà costruita nel carcere maschile regionale di Tete (che sarà realizzata anche grazie agli aiuti dell’ambasciata tedesca). Il carcere maschile di Tete è in un edificio fatiscente che risale all’epoca coloniale e che non è mai stato ristrutturato. Edificato per ospitare 90 detenuti, ne accoglie oggi quasi 500, in condizioni precarie. Oltre all’infermeria, che avrà anche 4 posti letto, la Comunità ha appena finito di costruire due depositi sotterranei di acqua e uno sopraelevato che garantiranno acqua potabile 24 ore al giorno, migliorando sensibilmente le condizioni igieniche dei prigionieri. Durante la posa della prima pietra, alla presenza di tutti i detenuti e di alcune autorità civili ed ecclesiali, è stata ricordata la presenza e l’amicizia ventennale che lega la Comunità di Tete ai prigionieri. In contemporanea, nel carcere femminile, situato in un’altra zona della città dove, dopo un momento di preghiera, è stato donato ad ogni detenuta un kit di vestiti, decisamente graditi e utili a donne che spesso soffrono per la mancanza di abiti puliti.