Quando il ministero cerca di silenziare il Garante indipendente di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 12 agosto 2019 La polemica tra il Viminale e l’Autorità che tutela i diritti “delle persone detenute o private della libertà personale”. Il “Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale” - presente in 23 Paesi europei e richiesto agli Stati aderenti al protocollo Onu “Opcat” - è un’autorità indipendente di garanzia i cui tre componenti sono nominati con decreto del presidente della Repubblica, previa delibera del Consiglio dei ministri e sentite le commissioni parlamentari. Poiché il preventivo divieto d’ingresso nelle acque nazionali notificato dall’Italia alla nave Open Arms (con a bordo da 11 giorni 160 migranti soccorsi) dimostra “esercizio della sovranità e implica che ai migranti debbano essere riconosciute tutte le garanzie spettanti a coloro sui quali l’Italia esercita la propria giurisdizione”, il Garante chiede informazioni alla Guardia Costiera. Ma prima “fonti del Viminale”, e poi i sottosegretari leghisti Molteni, Candiani (Interno) e Morrone (Giustizia), lo tacciano di “andare oltre le proprie competenze”, aggiungendo sprezzanti: “Deve giustificare la propria esistenza e il proprio stipendio statale? Chiederemo sia pubblicato con la rilevanza che merita”. Ora, a parte che Salvini e i suoi ce la potrebbero anche fare a consultare (se non la legge istitutiva del 2013) il sito garantenpl.it, così da apprendere che le indennità forfettarie (non uno stipendio) sono parametrate a quelle dei parlamentari nel 40% per il presidente (3.200 euro netti al mese) e nel 30% per i due membri (2.500), la meschinità di forma non deve distogliere dalla gravità di sostanza: esempio di potere esecutivo che cerca di silenziare una autorità indipendente, istituita per legge proprio per essere indipendente dal governo. Il Viminale attacca il Garante nazionale. Cinque motivi per cui non può farlo di Susanna Marietti* Il Fatto Quotidiano, 12 agosto 2019 Il Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale è, come dice il nome stesso, una figura di garanzia. E le garanzie sono quanto di meno gradito a ogni pensiero illiberale, tanto più quando esso aspira a trasformarsi in potere effettivo. Il Garante nazionale è stato attaccato dal Viminale con la crudezza alla quale ci ha abituati. Per aver svolto il proprio legittimo ruolo e aver chiesto informazioni a tutela delle persone private di fatto della libertà personale sulla nave di Open Arms (non possono scendere: perfino Salvini dovrà convenire su un dato tanto banale), si è sentito dire - non al baretto sotto casa da un passante ignorante dei meccanismi pubblici, ma da uno scranno governativo - di farsi i fatti suoi e piuttosto di pubblicare il suo stipendio. Giusto per fare chiarezza: 1. Il Garante nazionale, che in questi anni ha svolto un lavoro eccezionale, è un organo collegiale composto da un presidente e due membri. Disquisire attorno alla cifra percepita dalle tre persone coinvolte - che sappiamo essere del tutto ragionevole - in cambio della loro incessante attività (visite continue e faticose a carceri, caserme, centri per migranti, voli di rimpatrio, strutture dove si eseguono trattamenti sanitari obbligatori, residenze per anziani, con contestuale produzione di dettagliatissimi report pubblicamente accessibili sul sito del Garante) è il segno della solita fanghiglia populista; 2. Il Garante è un organismo che in buona parte risponde a una richiesta delle Nazioni Unite ed è a loro che deve rendere conto, non al Ministero dell’Interno; 3. Il Garante è una figura a garanzia di tutti. Sembra scontato e inutile affermarlo, ma nulla più appare oggi come inutile o scontato. Il Garante è intervenuto a tutela dei migranti privati della libertà in una barca così come di Marcello Dell’Utri privato della libertà in un carcere e gravemente malato. Non sceglie le situazioni nelle quali intervenire in base al proprio capriccio bensì alle possibilità oggettive di mancato rispetto dei diritti delle persone; 4. Il Garante non è del Pd, così come oggi qualche giornale ha scritto. Il Garante non risponde ad alcuna parte politica. Il Garante è nominato dal Presidente della Repubblica, proprio in quanto sopra le parti e garanzia per ciascuno di noi nell’amara eventualità di vederci privata la nostra libertà personale. Tante volte nella storia italiana abbiamo assistito a nomine effettuate sulla base di spartizioni politiche e manuale Cencelli, ma questa volta tutt’altro: il presidente del collegio del Garante, Mauro Palma, ha ricoperto per anni alti incarichi internazionali sul tema della tortura e delle privazione della libertà, risultando uno dei massimi esperti in Europa; 5. Il Garante, come si è detto, non interviene nelle varie situazioni seguendo le proprie inclinazioni personali o la propria sensibilità, bensì nello spazio disegnato da tutto il complesso apparato di norme che regolamenta, a livello nazionale e sovranazionale, il modello di privazione della libertà rispettoso dei diritti umani. Quando il Garante richiede informazioni sulle persone trattenute a bordo di una nave o in altre circostanze, si rifà - in rigorosa punta di diritto - al rispetto o al mancato rispetto dei principi sanciti da Convenzioni internazionali alle quali l’Italia ha aderito, al rispetto o al mancato rispetto di norme dello Stato italiano in maniera di diritti umani, al rispetto o al mancato rispetto di standard affermati dalla giurisprudenza, citandoli in maniera puntuale e portando ogni riferimento normativo. Il Garante non è una testa calda che fa il tifo per qualcuno contro qualcun altro e cui si può rispondere con uno slogan o con una frase offensiva: al Garante, in una società democratica, si risponde portando evidenza del fatto che l’autorità pubblica, nella situazione in oggetto, sta rispettando i diritti e la dignità di tutti. Questo si chiama stato di diritto. Quando invece la pubblica autorità si sente immune dal rispetto delle regole e sbeffeggia un organismo di garanzia irridendo la legalità e ostentando abusi di potere, allora si crea la cesura. È il punto di non ritorno. Bisogna scegliere se stare da una parte o da quell’altra. Ricordo quando scoppiò il conflitto in Bosnia e sentivo le storie di chi raccontava che solo fino a pochi giorni prima era amico intimo del vicino di casa e pochi giorni dopo erano disposti a qualsiasi cosa l’uno contro l’altro. Non capivo, non riuscivo a crederci, a figurarmelo. Adesso lo stiamo cominciando a vivere anche in Italia. Come Antigone, faremo un esposto alle Nazioni Unite su quanto è accaduto in queste ore e sul tentativo di delegittimazione del Garante nazionale. Ma siamo prigionieri di un drammatico circolo vizioso: un esposto alle Nazioni Unite ha un senso solo per chi crede nel rispetto delle regole. Salvini ha smesso da tempo di giocare quella sana e democratica partita a scacchi che dovrebbe essere la politica. Salvini ha dato un calcio alla scacchiera. Purtroppo, è la scacchiera delle nostre vite e della sopravvivenza democratica del nostro Paese. *Coordinatrice nazionale Associazione Antigone Certezza della pena e Decreto Sicurezza bis di Gian Domenico Caiazza* Gazzetta del Mezzogiorno, 12 agosto 2019 Si delinea ogni giorno di più il profilo allarmante della cultura del diritto e dei diritti che sta prendendo forma con sempre maggiore decisione nel nostro Paese. È utile ricordare, in occasione di simili riflessioni, la profonda convinzione che anima da sempre i penalisti italiani: questa deriva giustizialista e populista ha radici lontane nel tempo. La storiella che oggi sarebbero arrivati i cattivi giustizialisti e populisti, sbucati fuori dal nulla, raccontatela a qualcun altro, non a noi. Questo tripudio irrefrenabile di giustizialismo populista ed illiberale è una messe oggi raccolta a piene mani e rivendicata - questo sì - senza più remore, ma seminata per decenni, a far data da stagioni politico-giudiziarie che ancora qualcuno si ostina a voler raccontare come eroiche e fondative di una nuova era politica, culturale e morale per il nostro Paese. Eccola, la nuova era: benvenuti. In questa nuova era, dunque, salvare gente in mare poco ci manca che diventi un reato. Poiché non ci piacciono retorica ed iperboli, diciamo meglio: è la pre-condizione di una varia serie di illeciti, amministrativi e penali. Culturalmente - ed a quanto parrebbe, perfino in nome della Beata Vergine Maria- il messaggio del decreto sicurezza bis è chiarissimo: salva pure chi ti pare, se ci tieni tanto, ma “not in my name”. Non ti accostare allo Stivale, dove sull’accesso ai porti ora la competenza esclusiva è del Ministro degli Interni “per ragioni di sicurezza ed ordine pubblico”, due parole magiche sul cui effettivo significato, ovviamente, nessuno osa seriamente interrogarsi. Se ti azzardi, multe iperboliche, sequestri, confische, arresti in flagranza di reato. Quanto al cannoneggiamento, caro all’On. Meloni, restiamo in attesa di un decreto sicurezza ter. Per altro verso, e sull’onda dell’entusiasmo forcaiolo, ora si comincia a declinare una idea di “certezza della pena” ancora più estrema di quella già grossolana e sgrammaticata alla quale ci siamo dovuti abituare da un paio di anni a questa parte. Nella vulgata oggi largamente maggioritaria, con “certezza della pena” si è fatto chiaramente riferimento alla fase della espiazione della pena definitivamente inflitta all’imputato, che per essere “certa” pare debba avvenire solo in carcere, senza sconti di alcun genere, e senza forme di espiazione alternative al “gabbio”. In concreto, questo ha significato l’affossamento del progetto di riforma frutto di quasi tre anni di lavoro degli Stati generali della esecuzione penale, un irripetibile esperienza di lavoro comune tra tutte le componenti portatrici di esperienze e conoscenze sul tema della pena: magistrati, avvocati, giuristi, direttori di penitenziari, polizia penitenziaria, educatori, psicologi, cappellani nelle carceri. L’imperdonabile cinismo di un miserabile calcolo elettorale ha lasciato in eredità quello splendido lavoro al governo del cambiamento, che ne ha fatto un sol boccone: fine (ma ne riparleremo tra poco, a carceri esplose). Fu però già il Ministro Di Maio a proporre una nuova versione della certezza della pena, anticipata alla fase cautelare. Fu quando - lo ricorderete - ben due diversi Tribunali del Riesame napoletani annullarono una ordinanza cautelare per un presunto stupro di gruppo. Il leader grillino delineò una nuova idea della certezza della pena, così coniugata con il principio di presunzione di innocenza: si difendano pure quei ragazzi, rivendichino pure la loro innocenza, ma che ciò avvenga dal carcere. In nome della certezza della pena. Se qualcuno ha pensato ad un colpo di sole, si è sbagliato. Ieri il Ministro Salvini ha messo all’indice il provvedimento con il quale un GIP (che a differenza di lui ha letto gli atti di indagine, formulando valutazioni su quelli e non sulle rabbiose chat di Facebook) ha riqualificato da omicidio volontario ad omicidio stradale il drammatico investimento all’uscita della discoteca di due ragazzi su uno scooter, ponendo l’indagato agli arresti domiciliari, misura giudicata evidentemente più che idonea a prevenire la reiterazione del reato. Apriti cielo. Il Ministro Salvini non sa nulla - come nessuno di noi- di come siano davvero andati i fatti, ma che importa? “Queste cose non possono e non devono più accadere in questo Paese, occorre una riforma della giustizia che assicuri certezza della pena”. Ecco: eravamo fermi alla certezza della pena secondo Cesare Beccaria; poi ci è toccato di apprendere di quella del Ministro Bonafede, che intende la esecuzione della pena solo in carcere. Ora siamo alla certezza della pena tre punto zero: la certezza della pena prima della pena. Attendiamo fiduciosi la certezza della pena prima del reato; e c’è poco da ridere. *Presidente dell’Unione camere penali italiane Decreto Sicurezza bis. Ora il vaffa diventa reato di Marino Longoni Italia Oggi, 12 agosto 2019 Atti di violenza o minaccia nei confronti di tutti i pubblici ufficiali, compresi insegnanti, controllori, vigili, forze dell’ordine, saranno sempre puniti. È uno degli effetti della legge di conversione del decreto Sicurezza bis. Un segnale per bulli e teppisti di ogni risma. Paradossalmente, il governo nato anche dai vaffa di Beppe Grillo ha finito per approvare una legge che sanziona pesantemente qualsiasi vaffa nei confronti di tutti i pubblici ufficiali, compresi l’insegnante o il controllore dei biglietti di Trenitalia. È questo uno degli effetti del decreto Sicurezza bis convertito in legge il 5 agosto dal parlamento. Il provvedimento, che introduce sanzioni pesantissime per i cosiddetti taxi del mare che pretendono di scaricare immigrati clandestini nei porti italiani, contiene infatti anche l’inasprimento delle sanzioni contro i violenti nei cortei o mette a ferro e fuoco strade e negozi con il pretesto di una marcia, contro il bagarinaggio e le violenze attuate nel corso di manifestazioni sportive. Ma la norma che ha fatto più discutere è quella che prevede l’esclusione della non punibilità per particolare tenuità del fatto quando si procede per i delitti di violenza o minaccia a un pubblico ufficiale, di resistenza a pubblico ufficiale e di oltraggio a pubblico ufficiale nell’esercizio delle sue funzioni. Il presidente della repubblica, Sergio Mattarella, nel promulgare la legge ha creduto bene di inviare un messaggio al parlamento nel quale stigmatizza una scelta legislativa che “impedisce al giudice di valutare la concreta offensività delle condotte poste in essere, il che, specialmente per l’ipotesi di oltraggio a pubblico ufficiale solleva dubbi sulla sua conformità al nostro ordinamento e sulla sua ragionevolezza nel perseguire in termini così rigorosi condotte di scarsa rilevanza e che, come ricordato, possono riguardare una casistica assai ampia e tale da non generare allarme sociale”. “In ogni caso”, continua Mattarella “una volta stabilito, da parte del Parlamento, di introdurre singole limitazioni alla portata generale della tenuità della condotta, non sembra ragionevole che questo non avvenga anche per l’oltraggio a magistrato in udienza”. Toccherà ora al Parlamento valutare se e in che modo dare seguito a queste osservazioni del capo dello stato anche se, con una crisi di governo in corso e una prospettiva di elezioni anticipate, è molto probabile che le raccomandazioni di Mattarella finiscano sul lungo elenco delle buone intenzioni alle quali si porrà mano (forse) in un futuro remoto. Anche perché le depenalizzazioni dei reati minori (ultime, quelle del 1999 e del 2016) se da una parte hanno certamente contribuito a sgombrare i tavoli dei giudici da procedimenti ritenuti di scarso allarme sociale, hanno finito anche per ingenerare nell’opinione pubblica il sospetto dell’impunità per i cosiddetti reati minori (confermato dalle notizie di scarcerazioni di colpevoli di fatti di violenza anche abbastanza gravi, riportate quasi quotidianamente dalla stampa). E non c’è dubbio che questo abbia contribuito a far aumentare il senso di insicurezza avvertito dall’opinione pubblica, che quindi vede con favore un ritorno a sanzioni effettive nei confronti di comportamenti incivili, tanto più se attutati nei confronti di pubblici ufficiali, siano esse forze dell’ordine, vigili urbani, insegnanti o controllori di Trenitalia. Difficile quindi che qualche forza politica trovi la forza per attenuare questo giro di vite, soprattutto in campagna elettorale. Anche perché le violenze nei confronti di chi non fa altro che il proprio dovere sono avvertite dalla maggioranza dei cittadini come particolarmente ripugnanti e indegne di un paese civile. Non è detto che l’inasprimento delle sanzioni sia di per sé sufficiente a cambiare un contesto sociale spesso al limite del degrado. Ma è certamente un segnale politico chiaro che, al di là delle sottolineature giuridiche di Mattarella, sembra incontrare il consenso di gran parte dell’opinione pubblica, spesso spettatrice di episodi di inciviltà o addirittura di violenza urbana che, grazie all’impunità, non fanno altro che esaltare chi li commette e intimorire chi li subisce o ne è anche solo un semplice spettatore. In ogni caso il segnale politico è chiaro: se negli ultimi anni gli interventi (approvati di solito da governi di sinistra) su questo tipo di reati erano stati quasi esclusivamente di depenalizzazione, ora si è voluto voltare pagina: lo Stato torna a pretendere rispetto per coloro che indossano una divisa o svolgono funzioni a favore della collettività. Bulli, arroganti, violenti prendano nota. Decreto Sicurezza bis. Nei reati verso pubblici ufficiali non c’è più tenuità che tenga di Francesco Cerisano Italia Oggi, 12 agosto 2019 Occhio a fare resistenza a un controllore sul treno o sui mezzi pubblici, ad apostrofare oltre i limiti della buona educazione un dipendente dell’Agenzia delle entrate, un direttore delle Poste o un insegnante, a minacciare un vigile perché chiuda un occhio su una violazione del codice della strada. Si rischiano, nei casi più gravi ovviamente, fino a 5 anni di carcere. Non ci sono solo le forze dell’ordine tra le categorie a cui la legge di conversione del decreto sicurezza bis (legge 8 agosto 2019 n. 77, firmata giovedì scorso dal presidente della repubblica Sergio Mattarella e pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale n. 186 di sabato 9 agosto) offre una protezione speciale contro i piccoli-grandi atti di ordinaria prevaricazione e prepotenza di cui spesso sono vittime i rappresentanti dello stato. Fino ad ora queste condotte, se di lieve entità, cadevano nel nulla, diventando non punibili “per particolare tenuità del fatto”. Il decreto Salvini-bis, invece, cambia tutto prevedendo che l’offesa non possa essere ritenuta di particolare tenuità quando, “nei casi di cui agli articoli 336, 337 e 341-bis del codice penale”, il reato è commesso “nei confronti di un pubblico ufficiale nell’esercizio delle proprie funzioni”. I reati citati dalla norma del decreto sicurezza bis (art. 16 del dl 53/2019) sono la violenza e minaccia a pubblico ufficiale (art. 336 c.p.), la resistenza a pubblico ufficiale (art. 337 c.p.) e l’oltraggio a pubblico ufficiale. Le prime due condotte sono sanzionate con la reclusione da sei mesi a cinque anni (tre anni se la violenza o la minaccia sono commessi per costringere il pubblico ufficiale a compiere un atto del proprio ufficio o servizio), l’ultima (l’oltraggio) con la reclusione fi no a tre anni, ma la pena può essere aumentata se l’offesa consiste nell’attribuzione di un fatto determinato. Dunque, se sul pubblico ufficiale in servizio è commessa violenza, minaccia, resistenza, oltraggio non c’è tenuità del fatto che tenga. Scatterà la responsabilità penale. L’esimente della tenuità del fatto resta solo per l’oltraggio a un magistrato in udienza (art. 343 c.p.), fattispecie che non è stata inserita dal decreto Salvini tra quelle tutelate anche contro offese lievi. Insomma, si rischierà il carcere offendendo un vigile, un insegnante, un controllore, un dipendente delle Entrate in servizio, un funzionario comunale. Nessun pericolo se si offende un giudice in udienza. Il presidente della repubblica, Sergio Mattarella, in una lettera inviata ai presidenti delle camere e al presidente del consiglio Giuseppe Conte ha stigmatizzato tale incongruenza definendola senza mezzi termini “irragionevole”. Ma c’è di più. Il Quirinale ha messo in guardia dall’eccessiva ampiezza della fattispecie che non esclude la tenuità del fatto solo per i reati contro gli appartenenti alle Forze dell’ordine ma la estende a un ampio numero di funzionari pubblici, statali, regionali, provinciali e comunali nonché soggetti privati che svolgono pubbliche funzioni, quali (si veda tabella in pagina): vigili urbani e addetti alla viabilità, dipendenti dell’Agenzia delle entrate, impiegati degli uffici provinciali del lavoro addetti alle graduatorie del collocamento obbligatorio, ufficiali giudiziari, controllori dei biglietti di Trenitalia, controllori dei mezzi pubblici comunali, titolari di delegazione dell’Aci allo sportello telematico, direttori di uffici postali, insegnanti delle scuole, guardie ecologiche regionali, dirigenti di uffici tecnici comunali, parlamentari. Secondo il Colle, l’eccessiva ampiezza della norma “impedisce al giudice di valutare la concreta offensività delle condotte poste in essere, il che, specialmente per l’ipotesi di oltraggio a pubblico ufficiale, solleva dubbi sulla sua conformità al nostro ordinamento e sulla sua ragionevolezza nel perseguire in termini così rigorosi condotte di scarsa rilevanza e che possono riguardare una casistica assai ampia e tale da non generare allarme sociale”. Insomma, si chiede Mattarella: ha senso punire così duramente, per condotte così lievi e non in grado di generare allarme sociale, una platea di soggetti talmente ampia? Nel mirino del presidente della Repubblica è finito anche l’abnorme aumento delle sanzioni pecuniarie applicabili al comandante della nave che violi il divieto di ingresso nelle acque territoriali. Nel testo originario del decreto le multe andavano da un minimo di 10 mila euro a un massimo di 50 mila euro. Gli emendamenti approvati nel passaggio in commissione alla camera hanno aumentato di 15 volte la sanzione minima (portandola a 150 mila euro) e di 20 volte la sanzione massima (elevandola a 1 milione di euro), mentre la sanzione amministrativa della confisca obbligatoria della nave non risulta più subordinata alla reiterazione della condotta. Non vi è traccia, tuttavia, di criteri che permettano di distinguere, valutare e soprattutto graduare la gravità della condotta. Non vi sono elementi per distinguere la tipologia delle navi, la condotta concretamente posta in essere, le ragioni della presenza di persone a bordo. Aver fatto a meno di queste indicazioni, affidando alla discrezionalità di un atto amministrativo “la valutazione di un comportamento che conduce a sanzioni di tale gravità”, non è stato “ragionevole”. Il Quirinale ha espresso perplessità anche sull’art. 1 del decreto che richiama la Convenzione Onu di Montego Bay, nella parte in cui considera pregiudizievole per la pace (e quindi sanzionabile col divieto di ingresso nelle acque territoriali italiane) il passaggio di un’imbarcazione straniera che trasporti persone in violazione delle leggi sull’immigrazione. La stessa Convenzione di Montego Bay, osserva Sergio Mattarella, impone tuttavia a ogni stato di esigere dal comandante di una nave battente la propria bandiera di prestare soccorso “a chiunque sia trovato in mare in condizioni di pericolo”, a patto che l’intervento non metta a repentaglio l’imbarcazione, l’equipaggio e i passeggeri. Questi rilievi non hanno impedito al capo dello stato di apporre la firma sulla legge di conversione del decreto sicurezza bis che è entrata in vigore sabato. Ma, ha auspicato il Quirinale, parlamento e governo dovranno individuare “modi e tempi di un intervento normativo sulla disciplina”. Caselli e la boutade sull’abolizione dell’appello di Giorgio Varano* Il Dubbio, 12 agosto 2019 Colpisce lo spregio dell’ex procuratore per un istituto richiamato dalla Costituzione. E colpisce soprattutto l’approccio fintamente efficentista: dietro l’ansia per i tempi lunghi della giustizia penale c’è una forma di integralismo religioso giustizialista. Alcuni pubblici ministeri vivono la propria funzione con uno spirito religioso integralista e giustizialista. Poi, una volta andati in pensione, o vengono folgorati sulla via di Damasco, o si pongono come teologi dell’ortodossia integralista. Il Dottor Caselli, con la sua ridondante proposta di abolire l’appello nel penale, fornisce però spiegazioni più da seminarista in erba che da teologo. L’ex procuratore pone due domande: è vero che negli ordinamenti con un sistema processual-penale di tipo accusatorio di regola c’è un solo grado di giudizio nel merito? È vero che anche in Italia nel 1989 è stato introdotto un sistema di tipo accusatorio? Teme, nel porre queste domande capziose, la reazione “cattiva degli avvocati”. Ma gli avvocati non sono usi a reagire in modo cattivo, anche perché dotati di tanta pazienza, così come di solito non pongono domande scivolose, senza avere la certezza delle risposte. Nel nostro Paese non c’è un sistema processuale accusatorio “puro”, ma un sistema a tendenza (omeopatica) accusatoria. Infatti, non ci sono le carriere dei giudici e dei pm separate, c’è un unico Csm per entrambi, ci sono tantissimi processi che si svolgono a dibattimento, tanti decisi da giudici “onorari”, ci sono tanti limiti ai riti alternativi, non ci sono le giurie solo popolari (le corti d’assise non lo sono), non ci sono le decadenze o le nullità dell’azione penale o l’inutilizzabilità assoluta delle prove raccolte in violazione della legge. Potremmo continuare scrivendo pagine e pagine sul punto. Ma è meglio partire della costituzionalizzazione dell’appello nella nostra Carta, nella speranza che possa terminare questa boutade dell’abolizione dell’appello. Nell’assemblea costituente si discusse a lungo sull’inserimento formale dell’appello penale quale diritto costituzionalmente garantito. Ci furono numerose discussioni, e si convenne di non formalizzare questo diritto solo per il penale, perché, per dirla con le parole di Meuccio Ruini, presidente della Commissione per la Costituzione, non conveniva ammettere espressamente l’appello per certe categorie di sentenze e provvedimenti, tacendo delle altre, ché sarebbero potute sembrare escluse dall’appello (seduta del 27 novembre 1947). Ma la migliore spiegazione la diede il costituente Francesco Dominedò: “La via ad una più alta tutela delle libertà del cittadino, attraverso la possibilità di configurare sempre il doppio grado di giurisdizione (la Cassazione non era e non è considerata un secondo grado) in quanto sempre operi l’istituto della motivazione, garanzia di giustizia e segno di civiltà”. Ed è proprio questo il punto in cui è insito il diritto costituzionale all’appello: l’obbligo della motivazione, previsto da sempre dall’articolo 111 (“Tutti i provvedimenti giurisdizionali devono essere motivati”). Senza considerare poi le convenzioni e le carte internazionali, che riconoscono come inviolabile il diritto ad un nuovo esame di una sentenza di condanna o colpevolezza, da parte di un tribunale superiore. Chiedere l’abolizione dell’appello, per risolvere le lungaggini processuali, evidenzia una concezione di fondo della giustizia molto preoccupante: i giudici non possono sbagliare. Il vero problema non è solo che i giudici sbagliano (quasi la metà delle sentenze di primo grado vengono riformate in appello). Il problema è che non leggono perché hanno sbagliato. Infatti, non hanno l’obbligo di studiare le sentenze di appello avverso le loro pronunce. Ma è altrettanto preoccupante questo approccio fintamente efficientista, perché in realtà affronta in modo populista il problema delle lungaggini processuali, che i dati statistici dei vari Tribunali confermano essere causato da disorganizzazione e da mancanza di mezzi e personale. Proporre di abolire l’appello per ridurre i tempi processuali è un po’ come dire che per eliminare le attese negli ospedali dobbiamo abolire la possibilità di chiedere un secondo accesso agli stessi, anche se la prima volta ci hanno sbagliato la cura. È vero che viviamo tempi in cui si può abolire la povertà con un post sui social network, ma non è detto che dobbiamo considerare credibile chi ritiene di risolvere i problemi in questo modo. *Responsabile Comunicazione Unione Camere Penali Italiane Elvo Zornitta, il sospettato: “I miei cinque anni trattato da Unabomber” di Andrea Pasqualetto Corriere della Sera, 12 agosto 2019 Brillante ingegnere, aveva 47 anni, fu indagato per un terribile sospetto: essere il mostro che dal 1994 al 2006 piazzò 30 ordigni mutilando le sue vittime, tra cui bambini. Ma l’indagine era fondata su una prova falsificata. “Elvooo! Hai visite”. “Chi è?”. “Boh”. La moglie ci fa comunque accomodare ed Elvo spunta da una porta, ciabatte, bretelle e maglietta variopinta. Mai visto così, l’inappuntabile ingegner Zornitta, del quale fino a ieri si conosceva solo la versione in giacca e cravatta. “Scusi tanto, mi ero dimenticato”. Si era scordato dell’appuntamento. Davvero un altro uomo. Sono passati quindici anni da quando l’Italia pensava di aver scovato il suo Unabomber, chiudendo così un lungo periodo di piccole bombe e di paure iniziato esattamente un quarto di secolo fa: trenta ordigni, dal 1994 al 2004, con uno strascico fino al 2006 e un bilancio di sangue che parla di donne, uomini e bambini mutilati. Nessun morto, miracolosamente. Il tutto succedeva a Nordest, fra le province di Pordenone, Udine, Treviso e Venezia, nei luoghi più diversi, a una sagra di paese, sulla spiaggia, nei supermercati, in due cabine del telefono, con una predilezione per i luoghi sacri, chiese e cimiteri. Un paio di volte l’anno, boom!, e montava la psicosi. “Passati 15 anni, mi ha salvato l’amore di mia moglie” - Nel 2004 il pool interforze voluto dalla Procura di Venezia per dare la caccia al bombarolo - 30 uomini fra poliziotti e carabinieri - pensò di averlo acciuffato: lui, Elvo Zornitta di Azzano Decimo (Pordenone), allora 47 anni, professione ingegnere con un brillante passato all’industria di armamenti Oto Melara, una moglie, una figlia, la passione per i lavoretti elettrici e il bricolage. Ma la prova schiacciante che avrebbe dovuto incastrarlo, un paio di forbici, si rivelò falsa, fabbricata in laboratorio da un poliziotto in camice bianco, Ezio Zernar. E così gli inquirenti italiani conobbero la pagina più nera della loro storia: Zornitta scagionato, Zernar condannato e Unabomber per sempre libero. Eccolo l’ingegnere dieci anni dopo. Stessa casa, una villetta a schiera, stessa moglie, stessa cortesia. Ingegnere, cosa le rimane dei 5 anni in cui era Unabomber? “Venga con me... La vede questa, la guardi bene. Uno, due, tre... Si chiamano chiavistelli. Tre per ogni imposta della casa. Ho messo un sistema di allarme interno, telecamere esterne. Mancano solo le inferriate. Mia figlia dice che sono diventato paranoico”. Perché si è blindato? “Perché non mi fido più di nessuno. Quell’indagine è stata per me devastante da tutti i punti di vista: lavorativo, familiare, sociale. Ho perso il lavoro, ho perso gli amici e ho perso anche la fiducia negli altri. Cosa rimane? Questo: una vita rovinata, un uomo diverso. Le ricordo che ero stato licenziato in tronco perché indagato (ora lavora in una piccola azienda, ndr) e che tutti mi evitavano come la peste. Era tutto molto difficile: difficile avere relazioni, difficile chiamare, parlare. Difficile vivere. Ed ero costretto a pensarle tutte per difendermi”. Cioè? “Dopo la storia delle forbici e dopo aver trovato tre microspie in casa, temevo tutti. Pensavo che chiunque potesse essere un nemico. In quegli anni non facevo entrare mai nessuno perché avevo il terrore di ritrovarmi stranezze in casa o che potessero prendere qualcosa di mio”. In che senso? “Ricordo per esempio che mi riempivo le tasche di mozziconi. Io ero un fumatore accanito e non li buttavo più perché avevo paura che qualcuno li prendesse per usarli contro di me, sa, il dna, i reperti...”. Il “terrorista” terrorizzato? “Mi erano venute tante paure e anche una brutta idea...”. Zornitta sospira, scuote la testa, tace. Di farla finita? “L’amore di mia moglie mi ha dato la forza di non finire nell’abisso”. La moglie, Maria Donata, maestra elementare, gira per casa: “Non ho mai sospettato di Elvo”, assicura, “ma proprio mai. L’intimità psicologica che c’è fra noi è tale che non può essere diversamente. Altro che diabolico, lui è un santo”. Ingegnere, riconoscerà che al di là delle forbici gli indizi erano molti: dagli ovetti Kinder alle fialette Paneangeli alle penne Bic senza refil che le hanno trovato in casa, tutte componenti di vari ordigni... “Certo, ma da qui a passare per Unabomber ne passa”. A ruoli invertiti, se lei fosse stato un inquirente cosa avrebbe fatto di fronte a Elvo Zornitta? “Avrei certamente indagato per capire chi era quest’uomo, l’avrei sorvegliato. Ma verificato che non c’era nulla di serio avrei anche abbandonato la pista. Ovetti, fialette e penne bic si trovavano in qualsiasi famiglia con figli. E invece hanno voluto insistere su di me perché avevano bisogno di un mostro da sbattere in prima pagina. Senza un movente, peraltro”. Dicevano che volesse vendicare suo fratello mutilato... “Ma mio fratello non è stato mutilato, lui è nato senza un arto ed è la persona più buona e gentile del mondo. Nessuna rabbia, nessuna vendetta”. Dal 2006, quando lei era ancora all’inferno, Unabomber non ha più colpito. Anche questo viene indicato come un indizio. Cosa ne pensa? “Errore: da quando ho saputo di essere indagato, anno 2004, ci sono stati altri cinque attentati. E quindi io avrei messo cinque bombe mentre gli investigatori mi erano alle calcagna. Dopo il 2006 è finita? Beh, il pazzo potrebbe essere morto o essersi ammalato”. Si è fatto un’idea su chi fosse Unabomber? “Erano tre i nomi che mi venivano segnalati, nelle molte lettere che ricevevo. Su uno c’era qualcosa in più, ma niente di decisivo. Si trattava di un settantenne, un pensionato della provincia di Udine. Non ho mai detto nulla di questa cosa e non farò mai il suo nome, per rispetto. Quell’uomo è morto diversi anni fa, vero Maria?... Ma io avevo pensato anche alla pista americana”. Qualcuno della base Usa di Aviano? “Le misure del componente di una bomba non erano italiane. Erano in pollici non in centimetri”. Lei ha chiesto allo Stato un milione di euro di risarcimento, giusto? “Sì, chi sbaglia dovrebbe pagare credo, ma la richiesta è stata rifiutata. C’è comunque una causa in corso”. Arriva la figlia, oggi ventitreenne, saluta tutti ed esce di casa. Ha avuto problemi anche lei? “Ha sentito tutto il peso della vicenda e ai tempi del liceo si era fatta schiva e riservata. Unabomber l’ha fatta maturare prima del tempo. Oggi studia Legge... vuole fare la criminologa”. Zornitta ci accompagna gentilmente all’uscita. Stringe la mano con energia, accenna un sorriso e chiude il portone. Con una doppia mandata. Per la riduzione della pena pecuniaria, va chiesto l’incidente di esecuzione di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 12 agosto 2019 Cassazione - Sezione III penale - Sentenza 12 luglio 2019 n. 30691. Qualora il decreto penale di condanna sia stato emesso prima dell’entrata in vigore dell’articolo 459 del Cpp, contenente una più favorevole disciplina in tema di conversione della pena sostitutiva, l’interessato può attivare, quale unico strumento di tutela, l’incidente di esecuzione per chiedere al giudice dell’esecuzione, in relazione all’articolo 2, comma 4, del Cp, l’applicazione di tale disposizione per il ricalcolo della conversione. Lo precisa la Cassazione con la sentenza n. 30691 del 12 luglio 2019. Il comma 1- bis dell’articolo 459 del Cpp, introdotto dall’articolo 1, comma 53, della legge n. 103 del 2017, senza che sia stata prevista una norma che disciplini i procedimenti in corso, deroga a quanto disposto dall’articolo 135 del Cp in ordine al ragguaglio fra pene pecuniarie e pene detentive, disponendo che il computo vada effettuato tra una forbice che oscilla tra un minimo di euro 75 per giorno di pena detentiva fino ad un massimo di euro 225, pari al triplo dell’ammontare di euro 75. L’articolo 135 del codice penale prevede invece che la conversione si effettui calcolando euro 250, o frazione di euro 250, di pena pecuniaria per un giorno di pena detentiva. Osserva esattamente la Cassazione che, poiché l’articolo 459, comma 1-bis, del Cpp, produce evidentemente effetti sostanziali, perché determina la riduzione della pena pecuniaria, derivante dalla conversione della pena detentiva, e quindi implica un trattamento sanzionatorio più favorevole, anche se collegato alla scelta del rito, di tale disposizione deve farsi applicazione ex articolo 2, comma 4, del Cp. In proposito, peraltro, secondo il giudice di legittimità, l’interessato non può farne richiesta al giudice per le indagini preliminari che ha emesso il decreto penale di condanna perché questi, una volta emesso il decreto, si spoglia dei poteri decisori sul merito dell’azione penale; né può sottoporla in sede di cognizione mediante l’opposizione, perché ciò determinerebbe la revoca del decreto penale e il ricorrente né perderebbe gli effetti, fra cui la conversione nel senso più favorevole. Per l’effetto, conclude la Cassazione, l’unico strumento di tutela deve ritenersi essere quello dell’incidente di esecuzione: l’interessato, cioè, una volta divenuto esecutivo il decreto penale di condanna, può chiedere al giudice dell’esecuzione l’applicazione dell’articolo 459 comma 1-bis, del Cpp, per il ricalcolo della conversione, per essere entrata in vigore la disciplina più favorevole. Da queste premesse, la Corte ha dichiarato inammissibile il ricorso, ma ha appunto indicato al ricorrente l’incidente di esecuzione quale strumento utilizzabile per ottenere l’applicazione della disciplina più favorevole sopravvenuta, in linea con i principi già espressi dalle sezioni Unite, 24 ottobre 2013, Ercolano, e 26 giugno 2015, Della Fazia. Piuttosto, con riferimento alla nuova disciplina della conversione, e, in particolare, con riguardo ai rapporti tra la richiesta del pubblico ministero e la decisione del giudice, la giurisprudenza è nel senso che, dal combinato disposto degli articoli 459, comma 1-bis, del Cpp, che consente al giudice di “determinare” la pena sostituita, e dell’articolo 460, comma 2, del Cpp, laddove si vincola il giudice ad “applicare” la pena nella misura richiesta, discende che la “misura della pena” che vincola il giudice quando emette il decreto è solo quella detentiva indicata dal pubblico ministero richiedente, utilizzata come moltiplicatore per il ragguaglio che il giudice, appunto, “applica”, mentre la pena “irrogata” cui si riferisce l’articolo 459, comma 1-bis, è quella sostituita all’esito del calcolo, con la conseguenza che il giudice resta libero di rideterminare il tasso giornaliero che, moltiplicato per i giorni di pena detentiva indicati dal pubblico ministero, individua l’ammontare della pena pecuniaria sostitutiva (cfr. sezione III, 29 marzo 2018, Proc. Rep. Trib. Pisa in proc. Addario; nonché, sezione VI, 23 maggio 2018, Proc. Rep. Trib. Pisa in proc. O). Sì all’appello penale della parte civile su restituzioni e ristori di Giovanbattista Tona Il Sole 24 Ore, 12 agosto 2019 La Consulta lascia intatte le norme che consentono alla parte civile di impugnare l’assoluzione dell’imputato dinanzi al giudice penale ma accoglie l’allarme dei giudici di merito sul sovraccarico delle Corti d’appello, indirizzandolo al legislatore e all’esecutivo. Con la sentenza 176 del 12 luglio la Corte costituzionale ha esaminato la questione di legittimità sollevata dalla Corte d’appello di Venezia il 9 gennaio 2018, relativa all’articolo 576 del Codice di procedura penale dove prevede che la parte civile possa impugnare la sentenza di proscioglimento dinanzi al giudice penale e non a quello civile. Se manca l’appello del Pm, la parte civile può infatti solo impugnare la sentenza per far valere il diritto alle restituzioni e al risarcimento del danno. Si tratta di ragioni che possono fare oggetto di giudizio dinanzi al giudice civile (in base all’articolo 622 del Codice di procedura penale) quando la Cassazione annulla una sentenza penale e dispone il giudizio di rinvio solo sulle questioni civilistiche. Per l’impugnazione, invece, in base all’articolo 576 del Codice di procedura penale, la parte civile deve attivare un giudizio di appello dinanzi al giudice penale che dovrà rispettare le regole del processo penale, nel tempo divenute sempre più gravose: da ultimo per l’obbligo di rinnovare l’istruttoria in secondo grado in caso di impugnazione dell’assoluzione dell’imputato. Per questo la Corte d’appello di Venezia ha ritenuto la norma in contrasto con gli articoli 3 e 111 della Costituzione, cioè con i principi di ragionevolezza, giusto processo, efficienza ed efficacia della giurisdizione. La Consulta ha considerato ammissibile la questione ma l’ha dichiarata non fondata. L’appello della parte civile contro la sentenza di proscioglimento, non più modificabile quanto alle statuizioni penali perché non impugnate dal Pm, si inserisce in un articolato sistema che prevede anche, in base all’articolo 652 del Codice di procedura penale, che se il danneggiato si costituisce parte civile l’assoluzione dell’imputato può avere efficacia di giudicato anche in sede civile. Di qui la legittimazione e l’interesse della parte civile a proporre appello. Nei fatti, la scelta iniziale, fatta dal danneggiato, di far valere le pretese civili nel processo penale fa sì che anche il giudizio di appello debba seguire le regole penali, anche se il giudice di secondo grado può pronunciarsi solo su questioni civili. Fa eccezione il giudizio di rinvio sulle sole questioni civili, che però si giustifica con la particolarità della fase processuale successiva al giudizio di Cassazione. La Consulta ricorda che la Cassazione ha affermato più volte l’inammissibilità dell’appello della sola parte civile quando il passaggio in giudicato della sentenza di proscioglimento non può avere efficacia nell’eventuale separato giudizio civile e quindi non può pregiudicare le pretese restitutorie o risarcitorie. Ma conclude rilevando “il lamentato aggravio nei ruoli d’udienza dei giudici penali dell’impugnazione in una situazione di elevati carichi di lavoro che richiede adeguati interventi diretti ad approntare sufficienti risorse personali e materiali, rimessi alle scelte discrezionali del legislatore in materia di politica giudiziaria e alla gestione amministrativa della giustizia”. Elementi costitutivi del reato di violenza sessuale. Selezione di massime Il Sole 24 Ore, 12 agosto 2019 Reati contro la persona - Delitti contro la libertà personale - Violenza sessuale - Dissenso - Errore sul fatto costitutivo del reato - Esclusione del dolo non dell’antigiuridicità del fatto. Con riferimento al reato di violenza sessuale, la coscienza di costringere, con violenza o minaccia, la vittima del reato a subire o compiere atti sessuali è consapevolezza del dissenso di quest’ultima. Pertanto l’errore sul valore sintomatico delle manifestazioni esterne di resistenza del soggetto passivo non è che un reato putativo per errore sul fatto che costituisce il reato, cioè causa impeditiva del dolo, non una causa putativa di esclusione dell’antigiuridicità del fatto, come sarebbe se il dissenso della persona offesa non fosse elemento costitutivo della fattispecie. Il soggetto attivo ha l’onere di provare che il fatto da lui percepito in un determinato modo, ha fatto sorgere in lui, nonostante l’uso della normale diligenza, la ragionevole certezza dell’esistenza del consenso. • Corte di cassazione, sezione III penale, sentenza 10 luglio 2019 n. 30407. Reati contro la persona - Delitti contro la libertà individuale - Violenza sessuale - In genere - Consenso all’atto sessuale - Permanenza durante l’intero rapporto - Necessità - Dissenso manifestato “in itinere” anche per fatti concludenti - Reato di cui all’art. 609 bis cod. pen. -Configurabilità. In tema di reati contro la libertà sessuale, nei rapporti tra maggiorenni, il consenso agli atti sessuali deve perdurare nel corso dell’intero rapporto senza soluzione di continuità, con la conseguenza che integra il reato di cui all’art. 609 bis cod. pen. la prosecuzione del rapporto nel caso in cui, successivamente a un consenso originariamente prestato, intervenga “in itinere” una manifestazione di dissenso, anche non esplicita, ma per fatti concludenti chiaramente indicativi della contraria volontà. • Corte di cassazione, sezione III penale, sentenza 5 aprile 2019 n. 15010. Reati contro la persona - Reati contro la libertà sessuale - Violenza sessuale - Rapporti sessuali con la moglie contro la sua volontà - Configurabilità del reato. Integra il reato di cui all’articolo 609-bis del codice penale nella forma cosiddetta “per costrizione” qualsiasi forma di costringimento psico-fisico idonea a incidere sull’altrui libertà di autodeterminazione, ivi compresa l’intimidazione psicologica che sia grado di provocare la coazione della vittima a subire gli atti sessuali, a nulla rilevando l’esistenza di un rapporto di coppia coniugale o para-coniugale tra le parti, atteso che non esiste all’interno di un tale rapporto un “diritto all’amplesso”, né conseguentemente il potere di esigere o imporre una prestazione sessuale senza il consenso del partner. E anzi, in questa prospettiva, non avrebbe valore scriminante neppure il fatto che la donna non si opponga palesemente ai rapporti sessuali e li subisca, quando è provato che l’autore, per le violenze e le minacce ripetutamente poste in essere nei confronti della vittima, abbia la consapevolezza del rifiuto implicito della stessa agli atti sessuali. • Corte di cassazione, sezione III penale, sentenza 29 aprile 2019 n. 17676. Reati contro la persona - In genere - Violenza sessuale in danno di persona in stato di inferiorità psichica - Sussistenza del reato - Condizioni. In tema di violenza sessuale, per la sussistenza del reato di cui all’art. 609-bis, comma 2, n. 1, cod. pen., è necessario accertare che: 1) la condizione di inferiorità sussista al momento del fatto; 2) il consenso dell’atto sia viziato da tale condizione; 3) il vizio sia riscontrato caso per caso e non presunto, né desunto esclusivamente dalla condizione patologica in cui si trovi la persona, quando non sia tale da escludere radicalmente, in base ad un accertamento, se necessario, fondato su basi scientifiche, la capacità stessa di autodeterminarsi; 4) il consenso sia frutto dell’induzione; 5) l’induzione, a sua volta, sia stata posta in essere al fine di sfruttare la (e approfittare della) condizione di inferiorità per carpire un consenso che altrimenti non sarebbe stato dato; 6) l’induzione e la sua natura abusiva non si identifichino con l’atto sessuale, ma lo precedano. • Corte di cassazione, sezione III penale, sentenza 23 novembre 2018 n. 52835. Reati contro la persona - Delitti contro la libertà individuale - Violenza sessuale - Elemento soggettivo - Integrazione - Condizioni - Necessità di un espresso dissenso all’atto sessuale da parte della persona offesa - Esclusione - Conseguenze. Ai fini della sussistenza dell’elemento soggettivo del reato di violenza sessuale, è sufficiente che l’agente abbia la consapevolezza del fatto che non sia stato chiaramente manifestato il consenso da parte del soggetto passivo al compimento degli atti sessuali a suo carico; ne consegue che è irrilevante l’eventuale errore sull’espressione del dissenso anche ove questo non sia stato esplicitato, potendo semmai fondarsi il dubbio sulla ricorrenza di un valido elemento soggettivo solamente nel caso in cui l’errore si fondi sul contenuto espressivo, in ipotesi equivoco, di precise e positive manifestazioni di volontà promananti dalla parte offesa. • Corte di cassazione, sezione III penale, sentenza 22 novembre 2016 n. 49597. Calabria: il Partito Radicale e il Ferragosto in carcere calabria7.it, 12 agosto 2019 “Chiediamo ai Consiglieri regionali di visitare un Istituto”. “Come ci ha insegnato Marco Pannella anche quest’anno, - durante la calura estiva e la crisi di governo in corso - a ferragosto e nei giorni immediatamente successivi del 16 e del 17 agosto, come delegazione del Partito Radicale Nonviolento Transnazionale e Transpartito autorizzata dal Dap, faremo visita ai detenuti e alla comunità penitenziaria detenente. La mattina di ferragosto, in particolare, visiteremo la casa circondariale Ugo Caridi di Catanzaro, il 16 agosto visiteremo la casa circondariale Filippo Salsone di Palmi e, il 17 agosto la casa circondariale Sergio Cosmai di Cosenza”. Le tappe nelle carceri. A comunicarlo in una nota stampa congiunta sono Giuseppe Candido, componente del Consiglio Generale del Partito Radicale Nonviolento e Rocco Ruffa militante del partito di Pannella, rispettivamente, segretario e tesoriere dell’Associazione Radicale Nonviolenta “Abolire la miseria-19 maggio”. Le delegazioni che visiteranno gli istituti sono composte da Daniele Armellino, Giovanna Canigiula, Antonio Lento e Cesare Russo (per la sola visita di Cosenza) oltre che da Giuseppe Candido e Rocco Ruffa che guideranno le delegazioni. Mentre, il 16 agosto assieme alla visita alla Casa Circondariale di Palmi (Rc), un’altra delegazione - guidata dall’avvocato Gianpaolo Catanzariti dell’Unione Camere Penali - visiterà la Casa circondariale Giuseppe Panzera di Reggio Calabria. “Come sempre le visite agli istituti” - prosegue la nota - “sono rivolte alla verifica delle condizioni di vita dei detenuti, compresi quelli eventualmente in condizione di isolamento giudiziario ma anche alla verifica delle condizioni di lavoro della comunità penitenziaria: agenti, personale amministrativo, educatori sociali e volontari. Effettuiamo le visite ricordando, anche a noi stessi, che l’art. 27 della nostra Costituzione prevede che “L’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva”, che, in ogni caso, “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”, e che l’articoli 3 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo stabilisce che “nessuno può essere sottoposto a tortura, né a pene o trattamenti inumani o degradanti”. I diritti dei detenuti. “Per noi le visite di ferragosto sono una consuetudine radicale alla quale, come ci ha insegnato Pannella, non rinunciamo anche se non abbiamo parlamentari né consiglieri regionali che possano fare visite ispettive. Lo scorso anno, a ferragosto andammo a visitare il carcere di Crotone e, nel 2017, quello di Cosenza. Le visite di quest’anno” - conclude il comunicato - “rientrano in una grande mobilitazione nazionale indetta durante il 41° congresso del Partito di Marco Pannella che toccherà 70 istituto penitenziari in 16 regioni e nella quale sono coinvolti Garanti regionali, parlamentari, consiglieri regionali e l’Unione Camere penali di tutta Italia. Per questo - a pochi giorni dalla nomina del Garante regionale dei diritti dei detenuti e delle persone comunque private della libertà - ci appelliamo a lui e ai deputati e consiglieri regionali calabresi affinché anche loro visitino, durante la calura agostana, un istituto penitenziario unendosi alle delegazioni del Prntt o per conto proprio”. Il Papa: guerra e terrorismo sono la grande sconfitta dell’umanità di Ester Palma Corriere della Sera, 12 agosto 2019 Dopo l’Angelus a San Pietro, Francesco ha detto anche che “la fede vera apre il cuore al prossimo, soprattutto a chi è nel bisogno”. E ricordando i 70 anni delle Convenzioni di Ginevra ha aggiunto: “tutelare la vita e la dignità delle vittime dei conflitti armati”. “La guerra e il terrorismo sono sempre una grave perdita per l’intera umanità. Sono la grande sconfitta umana”. Sono passati 70 anni dalla firma delle Convenzioni di Ginevra, “importanti strumenti giuridici internazionali che impongono limiti all’uso della forza e sono volti alla protezione di civili e prigionieri in tempo di guerra”. E Papa Francesco dopo il consueto Angelus in piazza San Pietro ricorda l’anniversario e chiede: “Possa questa ricorrenza rendere gli Stati sempre più consapevoli della necessità imprescindibile di tutelare la vita e la dignità delle vittime dei conflitti armati. Tutti sono tenuti a osservare i limiti imposti dal diritto internazionale umanitario, proteggendo le popolazioni inermi e le strutture civili, specialmente ospedali, scuole, luoghi di culto, campi profughi”. “Portate sempre un piccolo Vangelo in tasca” - Questo vale ancora di più per i cristiani, per cui “la fede vera apre il cuore al prossimo e sprona verso la comunione concreta con i fratelli, soprattutto con coloro che si trovano nel bisogno. Nessuno può ritirarsi intimisticamente nella certezza della propria salvezza, disinteressandosi degli altri”. Il Papa ha invitato i fedeli a “non mettere radici in comode e rassicuranti dimore” e a “abbandonarsi con semplicità e fiducia alla volontà di Dio, che ci guida verso la meta successiva. Infatti, chi si fida di Dio sa bene che la vita di fede non è qualcosa di statico, ma è dinamica: è un percorso continuo, per dirigersi verso tappe sempre nuove”. Commentando poi il Vangelo di oggi, con la parabola dei servi che aspettano il padrone svegli nella notte, Francesco ha aggiunto che “ci è richiesto di mantenere le lampade accese, per essere in grado di rischiarare il buio della notte. Siamo invitati, cioè, a vivere una fede matura, capace di illuminare le tante notti della vita. La lampada della fede richiede di essere alimentata di continuo, nella preghiera e nell’ascolto: questa lampada ci è affidata per il bene di tutti”. Perché “siamo tutti chiamati a far fruttificare tutti i talenti, senza mai dimenticare che non abbiamo qui la città stabile, ma andiamo in cerca di quella futura. In questa prospettiva, ogni istante diventa prezioso, per cui bisogna vivere e agire su questa terra avendo la nostalgia del cielo, i piedi sulla terra, camminare sulla terra, fare bene sulla terra e il cuore nostalgico nel cielo, dove nella gioia eterna del paradiso la situazione si capovolgerà, e non saranno più i servi, cioè noi, a servire Dio, ma Dio stesso si metterà a nostro servizio”. Per questo ha raccomandato ai fedeli di “portare sempre un piccolo Vangelo in tasca, nella borsa, per leggerlo spesso, è un incontro con la parola di Gesù”. Stati Uniti. Suicidio Epstein, tre inchieste. Il sindaco: “Quanti coinvolti con lui?’“ ilfattoquotidiano.it, 12 agosto 2019 Una degli agenti dell’Fbi, una del ministero della giustizia (da cui dipende il sistema carcerario federale) e una dell’ufficio del medico legale della città di New York. Si cercano di appurare innanzitutto le circostanze che hanno portato il 23 luglio a togliere la sorveglianza speciale a un detenuto aveva già tentato di togliersi la vita ai primi di luglio, dopo l’arresto e dopo che il giudice rifiutò la richiesta degli arresti domiciliari. Non è del tutto chiaro - raccontano alcune fonti - se i segni sul collo rinvenuti allora fossero il risultato di un tentato suicidio o quello di un’aggressione. Epstein raccontò di essere stato aggredito e chiamato “pedofilo”, ma le autorità carcerarie lo misero comunque sotto osservazione per timore suicidio. Il Metropolitan Correctional Center di New York, dove era detenuto il miliardario in attesa di giudizio per una serie di accuse, dagli abusi allo sfruttamento della prostituzione al traffico di minori, è considerato uno dei più sicuri del paese. Ed è anche per questo che infuriano le polemiche per la sua morte. Per il sindaco di New York e aspirante candidato democratico alla Casa Bianca, Bill de Blasio “è fin troppo conveniente” il fatto che Epstein non possa più coinvolgere altre persone. “Quello che molti di noi vogliono sapere è, cosa sapeva?”, ha chiesto parlando con i giornalisti nell’Iowa. “Quanti milionari e miliardari erano coinvolti nelle attività illegali cui ha preso parte anche lui? Ebbene, questa informazione non è morta con Jeffrey Epstein. Bisogna indagare”. Il primo cittadino di New York non si spiega poi come sia possibile che il detenuto non fosse sottoposto ad una vigilanza ravvicinata dopo il primo sospetto tentativo di suicidio il mese scorso. Secondo il New York Times, dopo un primo periodo di sorveglianza ravvicinata, Epstein non ha più avuto questo tipo di controlli. “Ma come è possibile che non sia sotto protezione speciale? Cosa sta succedendo qui? Credo che questa sia una domanda per la quale dobbiamo avere una risposta esauriente”. Il miliardario, che rischiava una condanna fino a 45 anni, è accusato di pedofilia e traffico di minori. Poche ore prima erano depositate le carte dell’inchiesta presso la corte che avrebbe dovuto giudicarlo, con i dettagli più imbarazzanti e più scabrosi emersi durante le indagini grazie alle testimonianze delle vittime. Decine di donne adescate e trasformate in “schiave del sesso”, alcune anche all’età di 14 anni, pronte a soddisfare ogni desiderio del magnate che - si legge tra l’altro - pretendeva tre orgasmi al giorno e prediligeva le orge organizzate nella sua town-house da sogno nel ricchissimo Upper East Side di Manhattan o nella sua reggia di Palm Beach in Florida, a due passi dal resort di Mar-a-Lago di Donald Trump. Proprio sulle frequentazioni molto potenti di Epstein si è concentrata parte delle indagini degli investigatori: perché anche se oggi tutti prendono le distanze, il nome del finanziere è stato di volta in volta associato negli anni a Bill Clinton, a Donald Trump, al miliardario Les Wexner, proprietario di Victoria Secret, e altre personalità del mondo della politica e della finanza. Russia. Yegor, il blogger pacifista che rischia 8 anni di carcere di Giuseppe Agliastro La Stampa, 12 agosto 2019 Yegor Zhukov è un ragazzo di appena 21 anni. Per aver partecipato a una protesta anti-Putin rischia di trascorrerne ben otto dietro le sbarre. L’accusa che gli viene mossa è quella di aver preso parte a “disordini di massa” lo scorso 27 luglio: un’imputazione che persino alcuni osservatori filo-Cremlino reputano assurda. Yegor non è l’unico finito in carcere per questa controversa inchiesta, le persone incriminate sono una dozzina, ma il suo caso è quello che ha destato più scalpore. Yegor infatti non è solo un giovane dissidente, cura anche un seguitissimo video blog con 115.000 follower nel quale prende spesso di mira Putin. È inoltre un brillante studente di Scienze Politiche della prestigiosa Scuola Superiore di Economia di Mosca e vede proprio nella politica il suo futuro. Per questo ha tentato di candidarsi alle elezioni comunali moscovite del prossimo 8 settembre col gruppo dell’oppositore liberale Dmitry Gudkov. Non è però riuscito a raccogliere le circa 5.500 firme necessarie a sostegno della candidatura. Il sospetto è che le autorità vedano in Yegor una minaccia e proprio per questo stiano usando il pugno di ferro contro di lui. Il blitz Nella notte tra l’1 e il 2 agosto, la polizia ha fatto irruzione nell’appartamento in cui il ragazzo vive coi genitori e il fratello. Gli agenti hanno portato via Yegor e lo hanno condotto nella sede del Comitato Investigativo, dove è stato interrogato. Poche ore dopo, il 21enne è stato trascinato in tribunale. Un video lo mostra ammanettato e scortato dalla polizia mentre entra in aula tra gli applausi. Ha il volto stanco e assonnato. La corte ha ordinato per lui la custodia cautelare in carcere in attesa del processo. Ormai da un mese a Mosca la gente protesta contro l’esclusione degli oppositori dalle elezioni comunali. La manifestazione del 27 luglio è stata repressa dalla polizia a manganellate e con quasi 1.400 arresti. Le autorità non indagano sui soprusi degli agenti ma sulla contestazione pacifica. Gli organizzatori rischiano fino a 15 anni di reclusione per “disordini di massa”, i partecipanti, come Yegor, fino a otto. L’accusa è pesante e appare ai più infondata. Yegor è contrario alla violenza: in un video pubblicato alcune ore prima di essere arrestato afferma che “lottare violentemente contro il regime non ha senso” ed è meglio ricorrere alla disobbedienza civile. Centinaia di persone hanno sottoscritto una lettera aperta chiedendo alla Scuola Superiore di Economia di premere per la liberazione dello studente e davanti alla centrale di polizia si svolgono ogni giorno piccoli picchetti. “Se smettiamo di protestare - aveva detto il ragazzo nel suo ultimo video prima di finire in cella - ci attendono dolore e sofferenza. La Russia sarà libera, ma se lasceremo trionfare la paura voi ed io potremmo non esserci in quel momento”. Bahrein. Dalla pena di morte alla libertà: l’intrigo del manager arrestato di Andrea Galli Corriere della Sera, 12 agosto 2019 Francis Bartram Brown, consulente dell’Eni di San Donato Milanese, era accusato di truffa dal Bahrein. Poi il messaggio: “Rilasciatelo”. Un messaggio urgente inviato dall’Interpol del Bahrein agli omologhi italiani. Un lunghissimo numero di protocollo, che inizia con MI-123-U-B-31. E due righe appena di testo: “Il soggetto non è più ricercato e deve tornare in libertà”. Il messaggio è datato 24 luglio scorso. Quando lui, il “soggetto”, stava in galera già da diciotto giorni. Il rischio di morire - Eppure, nell’estate paurosamente avventurosa di un manager inglese, il 47ennne Francis Bartram Brown, consulente dell’Eni di San Donato Milanese, non era la prigione, benché fosse innocente, ad angosciarlo. Quanto la prospettiva. Ovvero lasciare il penitenziario di Brindisi, dopo l’arresto eseguito dalla polizia di Ostuni il 6 luglio, un sabato, quand’era in vacanza in un esclusivo resort della Val d’Itria, e venire estradato proprio in Bahrein, nazione che aveva spiccato contro di lui un mandato di cattura internazionale, e nazione dove permangono la pena di morte e situazioni nei penitenziari che violano i diritti umani. Per il reato inesistente del quale Bartram Brown era accusato, una truffa milionaria dopo aver trattato un gigantesco e fantomatico carico di sabbia e aver intascato i soldi, da quelle parti non applicano sconti. Adesso che è tornato libero, avendo la Procura generale di Lecce disposto la scarcerazione, il consulente sta cercando di capire per quale motivo sia finito dentro questo caso (internazionale). Non riesce a darsi risposta. La guerra diplomatica - Forse c’è stato uno scambio di persona. Forse è divenuto una inconsapevole pedina di un gioco su larga scala nelle trame diplomatiche (e non soltanto) nel mondo arabo. Forse, per promuovere ritorsioni contro Londra, il Bahrein ha deciso di mandare un segnale tirando a fondo il 47enne e ha fatto firmare da un suo “public prosecutor” l’ordine di individuare Bartram Brown e catturarlo: la ricerca, a un certo punto, era assurta a questione di Stato, quell’uomo andava rintracciato, ovunque e ogni costo. Il diretto interessato, attraverso il suo avvocato, Alexandro Maria Tirelli, ritiene d’essere stato “al centro di un complotto ordito da persone vicine alla casa reale del Bahrein”. Ipotizza poi, il consulente, che un qualche collegamento con le sue peripezie, ma ugualmente mancano elementi nitidi, l’abbia avuto il feroce scontro in atto tra sciiti e sunniti, sempre con un legame su una presunta o presumibile “azione” esterna della Gran Bretagna. Fatto sta che dettano legge gli ultimi provvedimenti, definitivi: dalla lista dei codici rossi dell’Interpol, dedicata ai latitanti più pericolosi nel mondo, di Bartram Brown non esiste traccia alcuna. D’accordo. Ma potrà bastare per risarcirlo? I dubbi e i ricorsi - Il legale aveva presentato un immediato ricorso, e pur qui ignorando le valutazioni dei giudici competenti del caso, pare logico ipotizzare più di un dubbio. Nel provvedimento con cui il Bahrein invocava la cattura del manager, mancavano approfondimenti. Una perentoria nota scarna, nella convinzione non fossero necessarie aggiunte. Nessuno discute le eventuali responsabilità delle forze dell’ordine italiane, che hanno “eseguito” e portato la questione sulla scrivania dei magistrati; ma fonti investigative del Corriere affermano che sia a livello “alto”, nell’Interpol, sia a un livello “basso”, fra gli stessi che hanno fisicamente bloccato Bartram Brown, serpeggiava la “convinzione” che l’impianto generale di partenza fosse debole. Basterebbe dare una rapida lettura ai rapporti sulle condizioni delle carceri e della giustizia: testimonianze di detenuti in Bahrein di pestaggi, torture, digiuni forzati, con l’obiettivo di confessare colpe non commesse. Per tacere, s’intende, della pena capitale. Specializzato in campo marittimo, con una competenza di livello sulla gestione delle piattaforme petrolifere, il consulente ha deciso di restare in Italia. Ha delle vacanze da proseguire, se non di nuovo in Val d’Itria, in un appartamento in Campania, dove nella fase iniziale l’avvocato, all’oscuro come l’assistito della storia nella sua complessità, sperava di farlo mettere ai domiciliari. In attesa di capire se Bartram Brown avesse una seconda vita, se insomma fosse un enorme personaggio da spy-story oppure, semplicemente e per appunto, un professionista in infradito che se ne stava per i fatti suoi, in ferie. Maldive. Paradiso per i turisti, inferno per i cittadini si Monica Ricci Sargentini Corriere della Sera, 12 agosto 2019 Su Facebook una mia amica posta le foto di un nuovo resort aperto alle Maldive: “Un posto da sogno” scrive, “una vista senza eguali”. Mi domando sempre se i turisti che si recano su queste incantevoli isole facciano mai mente locale sul fatto che stanno entrando in un Paese musulmano dove agli stranieri è consentito fare tutto ciò che ai locali è vietato. Non si può bere, non si possono avere relazioni extra coniugali perché si rischiano cento frustate o, s si è femmina la lapidazione, le donne vivono in uno stato di subordinazione, nel 2014 è stata anche reintrodotta la pena di morte. Ma ai viaggiatori sdraiati sulla spiaggia della loro isola paradiso tutto questo non importa. Non notano di avere nel resort soltanto personale di servizio maschile che magari li disprezza per il loro stile di vita dissoluto. Come ci racconta Francesca Borri nel suo libro “Ma quale Paradiso?” (Einaudi 2017) l’arcipelago ha un alto numero di fighters che si recano in Siria per dare un senso alla propria vita perché “vivere a Malé è terribile - spiega a Borri Aishaat Ali Naaz direttore del Mipstar, il Maldivian Institute for Psychological Services, Training and Research - E non mi riferisco solo alla criminalità. Sei in mezzo all’oceano. Cioè, è magnifico, sì: però per un giorno. Per una settimana. Ma sei in trappola, qui. E in più, senza un cinema, senza un parco, un teatro, un concerto. Niente. Ogni giorno uguale all’altro”. E così dilaga la droga, la rabbia, la povertà. Pensiamoci prima di prenotare il viaggio per il paradiso che paradiso non è.