Il vuoto che rallenta la giustizia. Nelle aule mancano mille giudici di Michele Di Branco La Stampa, 11 agosto 2019 Lo studio di Confartigianato Veneto: il problema rischia di aggravarsi con i prepensionamenti di “quota 100”. A Brescia ogni magistrato ha un’utenza media di 15.124 cittadini, i colleghi di Reggio. Tribunali e uffici scoperti? Processi lenti. Il cortocircuito che rallenta la giustizia italiana sta nei numeri. La pianta organica ideale del Ministero di Grazia e Giustizia indica un fabbisogno di 7 mila 954 unità. Ma gli ultimi dati disponibili parlano di una forza effettiva ben più bassa, 6 mila 944, di cui 4 mila 784 ordinari e 2 mila 160 onorari. I conti li ha fatti l’Ufficio Studi della Confartigianato Imprese Veneto sulla base di dati fonte Csm e dicastero. La conclusione: mancano circa mille giudici per far marciare a pieno regime la macchina dei processi e l’attuale tasso di scopertura dell’12,7% rischia di aggravarsi nei prossimi anni a causa dell’esodo dal lavoro connesso ai prepensionamenti di quota 100. La mappatura dei buchi organici contenuta nell’indagine (“Il progetto di legge delega della riforma del processo civile dovrebbe essere approvato velocemente”, ammonisce Agostino Bonomo Presidente di Confartigianato Imprese Veneto) fa emergere una situazione a macchia di leopardo. Si va dal 23,8% di carenza del distretto giudiziario di Trento e Bolzano al 6% di Genova. E non si può parlare della consueta spaccatura Nord-Sud. Nel distretto di Caltanissetta mancano 22 giudici (22% di tasso di scopertura), a Salerno il 16,9%. In termini assoluti soffrono maggiormente i tribunali più importanti, anche se hanno tassi inferiori. In cima c’è il Foro di Napoli, che sconta una carenza di 132 magistrati (885 su 997). A seguire Milano, meno 87, meno 59 a Torino, meno 51 a Bologna e meno 45 a Venezia. La spaccatura nel Paese si registra confrontando questi numeri con il bacino potenziale d’utenza: la popolazione residente e le imprese. Nel primo caso, ad esempio, c’è un abisso tra i giudici del distretto di Brescia che hanno un bacino d’utenza media di 15.124 cittadini a testa ed i colleghi di Reggio Calabria che ne hanno 3.603. E se si tira una linea immaginaria con la media italiana, pari a 8.710 abitanti per giudice, in cima troviamo tutti tribunali del Nord, con la sola Bari appena al di sopra (8.998), mentre sotto, tra le città settentrionali, si trova solo il distretto giudiziario di Genova con 6.983. Nulla cambia se guardiamo alle imprese, con il distretto di Trento che deve gestire potenzialmente 1.367 imprese per ogni giudice e Reggio Calabria che ne ha solo 346: +395%. Anche in questo caso tirando una linea rispetto alla media di 878, dei distretti del Sud troviamo appena sopra la media Cagliari e Sassari (884), Campobasso (890), L’Aquila (891), Roma con 896 imprese per giudice ed Ancona (1.116). Genova è invece sotto la media con 740. Uno degli elementi più interessanti dello studio Confartigianato riguarda la distribuzione delle pratiche e la velocità dei processi. A livello civile, la media di procedimento per giudice tocca quota 473,6. Un valore che varia molto da distretto a distretto passando dai 276,4 procedimenti per giudice a Reggio Calabria per arrivare ai 667,4 di Campobasso. Un dato che non è strettamente correlato con il tasso di litigiosità delle singole aree, almeno nelle cause civili. La questione di fondo è l’adeguatezza del numero di tribunali, di giudici e di personale amministrativo al bacino di abitanti o imprese. Un carico non uniforme sulle spalle della struttura della giustizia civile che sta tutta in due numeri: nei distretti di Brescia, Torino e Venezia ci sono rispettivamente 22.168, 20.280 e 19.879 abitanti per giudice civile (circa il 50% in più rispetto alla media nazionale) e, in questo caso, anche con Campobasso, in media circa 2mila imprese rispetto al valore medio italiano di 1.484 (+ 34,7%). Questi problemi si riflettono sulla durata media dei procedimenti penali di primo grado, molto diversa da distretto a distretto e che vede eccellere soprattutto il Nord Italia. I 369 i giorni medi necessari in Italia scendono a 175 a Trento, 207 a Trieste, 229 a Genova, 235 a Bologna e 277 a Venezia. I giorni diventano anni, invece, in distretti come Messina dove servono 781 giorni o Potenza con 749. Giustizia, corsa a 9 per il posto di procuratore generale di Cassazione di Liana Milella La Repubblica, 11 agosto 2019 Ecco i nomi di chi succederà a Riccardo Fuzio che lasciato la magistratura sull’onda del caso Palamara. Parte con nomi di magistrati di tutto prestigio la corsa per la poltrona di procuratore generale della Cassazione. È scaduto ieri sera a mezzanotte il termine per presentare le domande per il posto lasciato libero dopo le dimissioni di Riccardo Fuzio coinvolto nell’inchiesta toghe sporche di Perugia per aver incontrato l’ex pm di Roma Luca Palamara che si era presentato sotto casa sua facendolo chiamare da un collega. Ecco i candidati che si sfideranno a settembre: Giuseppe Napolitano, presidente di sezione della Cassazione; Marcello Matera, avvocato generale della Cassazione ed ex segretario di Unicost; Giacomo Fumu, presidente di sezione della Cassazione; Giovanni Giacalone, sostituto Procuratore Generale in Cassazione; Luigi Riello, procuratore generale a Napoli; Giovanni Salvi, procuratore generale a Roma; Luigi Salvato, avvocato generale in Cassazione; Renato Finocchi Ghersi, anche lui avvocato generale in Cassazione; Antonio Mura, procuratore generale a Venezia. Il Csm deve procedere il più rapidamente possibile alla nomina perché il procuratore generale della Suprema corte è membro di diritto del Consiglio e non può essere sostituito da un altro magistrato. Inoltre il procuratore generale della Cassazione è il titolare dell’azione disciplinare nei confronti degli altri colleghi, potere attualmente nelle mani di un suo delegato. Ma è evidente che il secondo magistrato più alto in grado in Italia deve essere sostituito in tempi stretti. Nella precedente corsa a questo incarico si era già candidato Giovanni Salvi, ex procuratore di Catania, ex pm a Roma per molti anni, noto per le indagini sul terrorismo. Ma alla fine la spuntò Riccardo Fuzio, Consegnando così i vertici della cassazione a due magistrati delle correnti più moderate, poiché il primo presidente Giovanni Mammone è di Magistratura indipendente e Fuzio è di Unicost. I detenuti del 41bis hanno diritto al colloquio visivo con i figli, anche se sono in carcere zmedia.it, 11 agosto 2019 Lo ha stabilito il Magistrato di Sorveglianza di Viterbo in accoglimento del reclamo avanzato dall’avv. Mario Santambrogio nell’interesse del suo assistito Pesce Vincenzo cl. 1959, da Rosarno. Pesce Vincenzo, condannato alla pena di anni 14 di reclusione in qualità di capo dell’omonima organizzazione mafiosa operante sul territorio di Rosarno, era stato sottoposto al regime di detenzione speciale previsto dall’art. 41bis dell’ordinamento penitenziario c/o il carcere di Viterbo. Il condannato aveva avanzato al Dap richiesta di effettuare un colloquio visivo in videoconferenza con il proprio figlio detenuto c/o la casa circondariale di Benevento; tale richiesta veniva respinta dal Dap sul rilievo che la direzione distrettuale antimafia di Reggio Calabria avesse dato parere negativo e che comunque i colloqui in videoconferenza non risultassero disciplinati dal regolamento. Avverso tale diniego, Pesce Vincenzo proponeva reclamo al magistrato di sorveglianza di Viterbo osservando che la tutela dei colloqui con i familiari non sono sottoposti alla valutazione discrezionale del direttore del carcere il quale è tenuto soltanto a verificare l’ammissibilità della richiesta controllando se l’unico colloquio mensile sia stato eseguito, ma non può formulare valutazioni discrezionali attinenti alla meritevolezza del detenuto o alla pericolosità del familiare. Il Magistrato di Sorveglianza, dopo aver valutato le personali censure del detenuto e quelle contenute nella memoria redatta dall’avv. Santambrogio a sostegno del reclamo, ha osservato che i gravi motivi di sicurezza non possono prevalere sull’opposta esigenza affettiva del detenuto di coltivare la propria relazione con il figlio, ma devono essere contemperati al fine di ridurre al minimo il rischio di veicolazione di messaggi illeciti; tale esigenza, secondo il Giudice, può essere garantita tramite video ed audio registrazione del colloquio che potrà svolgersi sia a distanza, mediante l’utilizzo di Webcam, sia attraverso il trasferimento di uno dei due detenuti. Inoltre, secondo il Magistrato di sorveglianza, il diritto del detenuto ad avere colloqui visivi con il proprio figlio dev’essere assicurato con la frequenza di almeno due volte l’anno. Vietato vietare la stampa locale ai detenuti del 41bis stampalibera.it, 11 agosto 2019 Sono state depositate le motivazioni della Cassazione che ha accolto il ricorso di un detenuto al 41bis al quale gli era stato ordinato il divieto di acquisto o ricezione dei giornali di stampa locale, indipendentemente dalla loro provenienza geografica. Parliamo di una ordinanza della corte di assise di Messina fatta nei confronti del boss barcellonese Giovanni Rao, ristretto nella casa circondariale de L’Aquila. Tale divieto era in ragione del pericolo, segnalato dalla Direzione del carcere, che il detenuto - imputato per reati commessi nel contesto della criminalità organizzata barcellonese - potesse ricevere, in tal modo, notizie relative al clan di appartenenza. A tale provvedimento aveva proposto reclamo, lo stesso Rao, deducendo che il Collegio messinese avesse violato la disciplina dettata dall’articolo 18ter dell’ordinamento penitenziario e dalle norme, costituzionali e convenzionali (articolo 15 e 111 della costituzione, dell’articolo 10 Cedu), poste a presidio del diritto alla corrispondenza; e prospettando, altresì, l’illogicità dell’ampissima restrizione disposta, siccome riferita a tutti i giornali locali indipendentemente dalla provenienza geografica della testata. Con ordinanza del gennaio 2019, il Tribunale di Messina rigettò il reclamo proposto da Rao, sottolineando l’esistenza di esigenze di prevenzione dei reati e di sicurezza e ordine interno dell’Istituto. Ciò in considerazione della concreta possibilità che attraverso l’ingresso in istituto di notizie concernenti la cronaca locale, ancorché per mezzo di giornali non riconducibili al territorio di provenienza del detenuto, venisse consentita la circolazione, tra i detenuti, di informazioni relative al clan cui Rao apparteneva; tanto più che i detenuti appartenenti al suo gruppo di socialità sarebbero stati provenienti da differenti aree geografiche. Tramite l’avvocato Francesco Scattareggia Marchese, il detenuto al 41bis ha fatto ricorso alla cassazione sottolineando, tra le altre cose, che non si possono adottare tali divieti che incidono su diritti fondamentali della persona sulla base di un “mero sospetto”, senza indicare le “concrete” ragioni investigative, di ordine pubblico o di sicurezza, che avrebbero reso necessaria l’adozione della misura. La Cassazione ha stabilito che il ricorso è fondato sottolineando che la limitazione della libertà di pensiero, e quindi anche di informarsi, deve connotarsi in termini di extrema ratio. Inoltre evidenzia che un provvedimento del genera può essere legittimo solamente se vi sia una specifica correlazione tra la circolazione della stampa locale all’interno del carcere e il probabile verificarsi di taluna delle circostanze indicate dall’articolo 18ter dell’ordinamento penitenziario, quelle relative alla limitazione della ricezione della stampa. La Cassazione aggiunge che, trattandosi di provvedimenti che incidono su diritti fondamentali, “deve escludersi, come condivisibilmente dedotto dalla difesa del detenuto, che le limitazioni in questione possano essere basate sulla ricorrenza di una situazione di “mero sospetto”, essendo necessario che ricorrano concreti elementi di valutazione idonei a conferire un adeguato coefficiente di oggettività alle ragioni poste alla base del richiesto controllo”. Secondo la Cassazione il divieto non è stato ben motivato, senza nemmeno indicare quale sia il pericolo concreto. Alla luce delle considerazioni e, in particolare, alle evidenti lacune motivazionali del provvedimento impugnato, la Cassazione ha accolto il ricorso e annullato l’ordinanza con rinvio, per nuovo esame. Pian piano, a colpi di sentenze, il 41bis comincia a perdere tutte quelle misure afflittive che esulano dallo scopo originario del regime speciale. Verona: celle di 12 metri quadri con 3 detenuti, significa “vivere in piedi” di Angiola Petronio Corriere di Verona, 11 agosto 2019 La Garante: “Soffitti che cedono, pavimenti assenti e mancano fondi”. Una sorta di “scrigno”. Una “relazione” che in realtà è un spaccato su quel mondo parallelo che tutti, dall’esterno, pensano di conoscere. Ma che in realtà è un cosmo a sé stante, tanto da essere definito “pianeta”. Quel “pianeta carcere” che a Verona si chiama Montorio. È contenuta in quello scrigno che è la “relazione attività 2018” redatta dal garante dei diritti delle persone private della libertà personale Margherita Forestan. L’ha presentata in consiglio comunale a giugno, quella relazione. Con i dati sulla popolazione detenuta, che raccontano l’ormai cronico sovraffollamento che straripa di ameno 200 persone rispetto a quelle previste. E quelli sulla polizia penitenziaria che parlano della solita asfissia di almeno una quarantina di agenti. Ma nelle pieghe di quella relazione c’è anche la quotidianità di una vita dietro le sbarre. In una casa circondariale, quella di Montorio, che non dovrebbe avere detenuti condannati in via definitiva e invece se ne ritrova 300. È organizzato in 6 sezioni maschili e 2 femminili, Montorio. Ogni cella misura 12 metri quadri e se si considera “l’ingombro dei mobili (brande, tavolino, sgabelli e armadietti) - scrive nella sua relazione Margherita Forestan - lo spazio vitale è minimo e spesso gli ospiti sono tre per ogni cella. Il che significa “vivere in piedi”. Situazione per la quale i detenuti vengono risarciti: o in giorni in meno da scontare (il 10% su 365 giorni) o in denaro (8euro sul 10% di 365 giorni). E non va molto meglio sul fronte strutturale. “Pur essendo una costruzione relativamente recente, con non più di 27 anni, molte aree presentano problemi di infiltrazione d’acqua con coperture inadeguate e cedimento di soffitti e pavimenti. E questo nonostante la costante manutenzione che pur in presenza di ridotti finanziamenti la direzione cerca di garantire”. E se in quattro sezioni si è in buona parte superato il problema delle docce comuni, sia nell’area dedicata alle donne che in quella maschile “vaste pareti hanno bisogno di essere imbiancate o trattate a fondo per evitare la formazione di muffe”. Caso emblematico, riporta la garante, quello della cucina dell’area maschile, “che si trova al piano terra ma non abbastanza isolata dall’area sottostante che non è dotata di pavimentazione”. Una mancanza d’isolamento che “favorisce la presenza di animali e rende difficile il mantenimento di un’igiene adeguata”. Tanto che il laboratorio di panificazione dove dovrebbero lavorare alcuni detenuti che hanno seguito i corsi, in realtà è chiuso perché “necessita di lavori strutturali”. E il j’accuse di Forestan non lascia scampo. “Pur riconoscendo l’impegno della direzione - scrive nella sua relazione - va sottolineato che l’incomprensibile sistema di erogazione dei fondi impedisce di fatto interventi finalizzati al miglioramento delle strutture e all’attuazione di progetti di ristrutturazione. Questo problema già segnalato in passato non ha trovato ascolto alcuno”. E intanto la casa circondariale di Montorio, rigonfia di detenuti, si sta sgretolando su se stessa. Milano: piantonato in fase terminale al San Paolo, il Difensore civico “più umanità” Il Giorno, 11 agosto 2019 Sul caso del detenuto morto piantonato nel reparto di rianimazione dell’ospedale San Paolo dove era ricoverato per via di un tumore allo stadio finale interviene il difensore civico regionale Carlo Lio. E con una lettera indirizzata, tra gli altri, a Silvio Di Gregorio, il direttore del carcere di Opera dove Giorgio C., 58 anni, si trovava dallo scorso novembre in seguito a una condanna a 5 anni e 8 mesi per rapina, chiede chiarimenti per scongiurare il ripetersi di simili episodi. La vicenda era stata denunciata dal difensore dell’uomo, l’avvocato Francesca Brocchi. Il legale, da un lato, aveva invitato la Corte d’Appello a “un ultimo gesto di umanità e clemenza” consentendo al suo assistito di “morire da uomo libero”, ma è mancata la relazione sanitaria per decidere sul caso; dall’altro aveva scritto, non solo ai vertici del Dap e a chi era incaricato di tutelare i carcerati, ma pure al ministro della giustizia ritenendo vi fossero state “violazioni dei suoi diritti di detenuto e di malato, anche a causa del ritardo nella diagnosi della patologia oncologica” Inoltre aveva lamentato, in qualità di avvocato, le difficoltà incontrate con medici e operatori nel settore penitenziario: scarse informazioni sullo stato di salute del suo assistito e indagini diagnostiche tardive. Sulla vicenda, inoltre, i presidenti dell’Ordine degli Avvocati e della Camera Penale di Milano, Vinicio Nardo e Monica Gambirasio, con una lettera inviata nei giorni scorsi sempre al Guardasigilli e agli esponenti istituzionali che si occupano di detenuti e carceri, fanno una proposta “di civiltà, umanità, di rispetto dei diritti della persona: di lavorare tutti insieme”, affinché il sistema di comunicazione con gli istituti penitenziari - ed in particolare con le direzioni sanitarie - cambi e quindi di “elaborare protocolli condivisi, che consentano di contemperare le esigenze di tutela dei diritti e quelle di sicurezza delle carceri”. Novara: farmaco per detenuto al 41bis. La direttrice del carcere “denuncia immotivata” di Maria Bella livesicilia.it, 11 agosto 2019 L’avvocato: “Epilogo felice, ma tormentato e ritardato”. Si è conclusa positivamente la vicenda denunciata nei giorni scorsi su Live Sicilia dal legale Ernesto Pino. Antonino Cintorino, boss dell’omonimo clan operante a Calatabiano, detenuto al regime di massima sicurezza nel carcere di Novara, ha iniziato la cura per debellare il pericoloso batterio che lo ha aggredito. A darne notizia lo stesso istituto penitenziario, dopo le dure parole dell’avvocato Pino, che aveva parlato di gravi inadempienze da parte della struttura carceraria ai danni del proprio assistito. “Improprie ed immotivate”, secondo la direttrice del carcere, le notizie divulgate dall’avvocato Pino con toni allarmistici. Innanzitutto, secondo quanto asserito dal medico specialista gastroenterologo, il farmaco “non è un salvavita e la sua assunzione non ha indicazioni di urgenza, tanto da poterne iniziare l’utilizzo anche qualora torni disponibile”, non essendo al momento presente nelle farmacie del territorio di Novara. Per questo i familiari del detenuto avevano chiesto di essere autorizzati all’acquisto e all’invio del medicinale. Procedura non ammissibile secondo le “disposizioni in vigore per i detenuti sottoposti al regime 41bis”. Nonostante ciò, evidenzia la direttrice del carcere, “mi sono assunta la responsabilità di autorizzare in via eccezionale l’acquisto da parte dei familiari”. L’invio, consentito attraverso la farmacia presso cui è stato comprato, è avvenuto giorni dopo a causa di alcuni inconvenienti non dipesi dal penitenziario. Ma, secondo la direttrice, il legale non avrebbe atteso il tempo previsto per le procedure del caso e avrebbe divulgato la vicenda, con il nome ed il cognome del detenuto, compiendo un gesto incauto, grave e pericoloso. Non così per l’avvocato Ernesto Pino che, attraverso una nota, risponde a tono alle critiche sollevate. Sarebbe bastato, spiega il legale, dare una risposta tempestiva alla farmacista che, contattata dai familiari del detenuto, aveva chiesto all’istituto penitenziario tempi e modalità per l’invio del medicinale. Oppure rispondere alla pec inviata dallo stesso legale il giorno dopo. Ma tutto ciò non è avvenuto. “Quando si verte in tema di detenuti sottoposti al regime del 41bis - scrive l’avvocato Pino - interloquire con i Direttori del carcere o Direttori sanitari è per i difensori una missione impossibile”. Secondo Ernesto Pino la divulgazione della notizia “lungi dall’essere immotivata, ha sortito l’effetto sperato: finalmente i difensori ed i familiari del detenuto sono stati portati a conoscenza della reale situazione clinica dello stesso ed il difensore è stato onorato di una mail di risposta”. Il legale risponde anche alle accuse di allarmismo e di incauta divulgazione delle generalità del detenuto. Pur non essendo salvavita, l’assunzione della terapia sarebbe stata consigliata in tempi brevi, secondo la relazione medica dello scorso 19 luglio. Infine, sarebbe stato lo stesso Cintorino a chiedere al legale di smuovere le acque, autorizzando lo stesso a fare il suo nome per divulgare la vicenda. “Detto ciò - conclude il legale - ritengo conclusa la vicenda con il tormentato e ritardato, ma felice epilogo, augurandomi che il Sig. Cintorino Antonino possa guarire al più presto e che, in futuro, si abbia un minimo di rispetto, da parte degli Istituti penitenziari, per il ruolo e la figura del difensore”. Bari: denuncia dall’Istituto di Medicina legale “quanti corpi dimenticati” di Giovanni Longo Gazzetta del Mezzogiorno, 11 agosto 2019 La sorte dolente tocca a migranti, barboni, persone senza nome e detenuti. Qualcuno è completamente solo al mondo. Qualcun altro, venuto in Italia cercando fortuna (invano), è deceduto senza che nel Paese d’origine i parenti sapessero nulla. A volte non hanno un nome. La certezza è che i casi di cadaveri “dimenticati” nell’Istituto di Medicina Legale dell’Università degli Studi di Bari sono in aumento. La vicenda della salma di un ex detenuto del carcere di Bari abbandonata da oltre un mese e mezzo in un macabro limbo, tra l’inchiesta aperta dalla Procura e una degna sepoltura che ancora non c’è (ne abbiamo riferito ieri), non è un caso isolato. “Il fenomeno esiste - spiega il professor Franco Introna, direttore dell’Istituto - e tra l’altro crea non pochi problemi al nostro lavoro che già viene svolto quotidianamente tra mille difficoltà e con risorse sempre più risicate”. Da un lato le esigenze della scienza e, soprattutto, quelle investigative di chi è chiamato a “leggere” i segnali che giungono da un corpo senza vita che può raccontare tanto sul perché del decesso e su chi può avere avuto delle responsabilità. Dall’altro il contraltare sociale, la finestra discreta e sommessa che si apre su persone sole, come fossero fantasmi. Sino alla morte. Anzi, anche oltre. “Delle 12 celle frigorifere a nostra disposizione, ormai usate ininterrottamente da 25 anni, un terzo è occupato da cadaveri “dimenticati”. Brutto dirlo, me ne rendo conto, ma da noi purtroppo è così. Una volta giunte in istituto, le salme, dopo le autopsie, tornano a disposizione dei famigliari per le esequie. Ma in certi casi...”. Già, come funziona, nel caso in cui nessuno rivendichi la salma? “Prima c’era la cosiddetta “sepoltura in povertà” - spiega Introna. Un servizio di pompe funebri pubblico provvedeva alle esequie di chi, purtroppo, era completamente solo al mondo. Pensiamo ai clandestini, in passato abbiamo avuto tanti casi di questo tipo. Adesso, soprattutto a causa della mancanza di fondi, questa possibilità è sempre più ridotta e assicurare la pietà, a volte, diventa più complicato. La nostra non è solo un’attività importante da un punto di vista medico legale, scientifico e investigativo, ma anche sociale”. Ovvio che non possano rimanere per sempre lì. Oltre un certo tempo, la strada della sepoltura è obbligata anche per il rischio di decomposizione. Tra questi cadaveri dimenticati, c’è anche quello di Sabino Di Fronzo, 61 anni, di Triggiano, detenuto nel carcere di Bari e poi trasferito al Policlinico. Nel macabro limbo in cui si trova, l’unico parente a voler fare luce è un anziano zio materno. L’Autorità giudiziaria ha bloccato il rilascio della salma, ma non ha ancora disposto l’autopsia. La conseguenza è che il corpo senza vita dell’uomo si trova a Medicina Legale dal 21 giugno. A chiedere che venga acceso una luce c’è il parente che ha presentato un esposto al posto di Polizia di Stato all’interno del nosocomio barese. Un fascicolo è stato aperto dalla magistratura. Al momento, a quanto pare, è a carico di ignoti. Il pm Ignazio Abbadessa ha disposto il sequestro delle cartelle cliniche in ospedale, il sequestro del diario clinico in carcere e ha delegato la Polizia di Stato a sentire l’anziano zio della vittima che con il suo esposto ha dato il via agli accertamenti. Verifiche che, al momento, non contemplano però l’autopsia. Così Di Fronzo resta tra color che son sospesi, in una delle 12 celle frigorifere buie e fredde di Medicina Legale. Uno dei numerosi casi di “cadaveri dimenticati”. Storie di vite difficili di chi neanche dopo la morte riesce a trovare pace. Bologna: “denunciammo nostro figlio, ora è in carcere, così si salverà” Di Margherita Grassi Corriere della Sera, 11 agosto 2019 Il racconto di due genitori adottivi: “Lo abbiamo fatto per salvarlo”. Volevano che loro figlio fosse arrestato, che andasse in un carcere minorile, e ce l’hanno fatta. La storia di questa coppia di 60enni reggiani è fatta di anni di battaglie, terapie, percorsi psicologici. E da qualche mese di lucida esasperazione e razionale sicurezza: “Nostro figlio è pericoloso per sé e per gli altri: va fermato. Solo così, forse, per lui c’è speranza”. Un appello che questa madre e questo padre adottivi avevano pubblicamente lanciato a fine luglio, dopo aver capito di essere inermi e impotenti davanti alla vita che da mesi il ragazzo, che ha 17 anni e mezzo, aveva intrapreso: vita fatta di spaccio e furti, condotta per strada, con la sfrontatezza di chi si sente al riparo dalla legge. Ora, il minorenne si trova al carcere minorile del Pratello a Bologna, ma per mesi, vista la giovanissima età, nessuna accusa era stata formalizzata contro di lui. I genitori vivevano nell’angoscia che, una volta arrivati i 18 anni, per il figlio si aprissero direttamente le porte del carcere per adulti, senza che per lui ci fosse più possibilità di recupero. O che, comunque, fosse più complesso recuperarlo. Valerio, lo chiameremo così, è stato adottato da questa coppia reggiana - lei insegnante, lui dirigente d’azienda - dieci anni fa, quando di anni ne aveva 7. C’è stato un cammino difficilissimo fatto di colloqui con psicologi dell’Ausl, assistenti sociali e terapeuti, con i genitori sempre presenti a cercare di aiutare quel bambino che arrivava da un’infanzia a dir poco complicata. Un anno e mezzo fa circa, il passaggio dalle scuole medie a quelle superiori si è rivelato molto problematico: “Ha cancellato in poco tempo i progressi di anni”, dicono i coniugi reggiani. Da lì c’è stata una sorta di valanga. I genitori lo hanno segnalato alla questura di Reggio per spaccio a fine 2018, poi lo hanno denunciato per minacce nei loro confronti. Il Tribunale dei minori ha aperto un fascicolo, “ma in sei mesi non siamo mai stati contattati - raccontano. Ci siamo resi conto che la legge che tutela i minorenni in realtà diventa un boomerang. Siamo solamente dei nomi su dei fogli. Non c’è un progetto, non c’è una prospettiva a nessun livello istituzionale”, protestano. A marzo 2019, su richiesta dei genitori stessi, Valerio è stato inserito dai servizi sociali in una comunità a Reggio Emilia, ma dopo circa due mesi gli operatori hanno deciso di espellerlo a causa del suo comportamento irrispettoso delle regole. A maggio il primo furto, di una bicicletta. La decisione del trasferimento in una comunità nel piacentino, la fuga del minorenne. A quel punto Valerio si è dato alla vita in strada, interrompendo quasi del tutto i contatti coi genitori. A fine giugno, nel Reggiano, il furto di uno scooter e di un’auto, in questo secondo caso con tanto di fuga dalle forze dell’ordine e danni procurati alla vettura stessa. C’è voluto un altro episodio analogo, tra il 30 e il 31 luglio a Comacchio, perché Valerio, qualche giorno dopo, fosse incriminato e portato infine nel carcere minorile in custodia cautelare. Il 17enne è stato fermato sempre al volante di un’auto rubata nel corso di una serata brava sulla riviera romagnola. Trasportava una ragazza e un ragazzo di 14 e 15 anni, giovanissimi turisti lombardi. “Non possiamo certo parlare di soddisfazione, in un contesto del genere - dice la coppia - ma di sollievo sì. Con la speranza che per nostro figlio ci possa essere un programma di riabilitazione e recupero”. Alessandria: richiedenti asilo e detenuti al lavoro per il decoro della città di Valentina Frezzato La Stampa, 11 agosto 2019 Il progetto è nato da un’idea di Gianni Ravazzi, consigliere comunale della Lega, che ha coinvolto l’associazione Natura ragazzi dell’Orto botanico. Ieri è iniziata la quinta settimana su strada per i volontari del progetto “Alessandria città normale”. “E pensare che all’inizio credevano non durassimo più di qualche giorno”. Gianni Ravazzi - che è consigliere comunale della Lega e fa parte dell’associazione Natura e ragazzi che si occupa dell’orto botanico - li segue tutte le mattine. In questo mese di lavoro hanno pulito cinquecento fioriere. E non è un numero a caso: “C’è un tecnico del giardino botanico che ci segue - spiegava ieri Ravazzi, a lavoro in via Dante - e che ha schedato ogni intervento. Questo è utile sia per tenere il conto delle azioni, sia per capire i lavori che sono già stati fatti oltre che per monitorare gli interventi sulle piante malate o da curare in modo particolare. Abbiamo già finito il primo giro di pulizia delle fioriere, che consisteva nella rimozione delle piante morte e annaffiatura. Il secondo giro che iniziamo adesso è di manutenzione e verifica, oltre che di ulteriore pulizia e cura. Durante il terzo giro ci saranno nuovi fiori da piantare”. Si va avanti insieme all’associazione Social Domus e al consorzio Abc che si occupano di richiedenti asilo; alcuni di loro per due mesi hanno seguito, su base volontaria, un corso di formazione di cinquanta ore “finalizzato ad apprendere le necessarie competenze per gestire fioriere e aree verdi con cespugli presenti ad Alessandria sul suolo pubblico”. Si possono incontrare in centro dal martedì al venerdì, dalle 8,30. Questo progetto continuerà con tre gruppi di persone differenti: il primo è quello dei richiedenti asilo, il secondo con i detenuti del Don Soria per la piazza antistante il carcere e al negozio Social Wood, che partecipa all’iniziativa e realizzerà anche nuove fioriere con materiale riciclato. Il terzo sarà composto da coloro che otterranno il permesso dal Ministero della giustizia che gestisce le pene alternative alla detenzione. Loro in particolare puliranno i cimiteri, partendo dal monumentale. “I volontari si stanno impegnando molto e nei giorni liberi arrivano anche al giardino botanico. Se avessi un’attività li assumerei tutti”. Gli alessandrini come reagiscono? “Con diffidenza durante la prima settimana. Ci hanno detto: “Tanto poi smettete”. Ora offrono ai ragazzi la colazione. Ci portano da bere, ci ringraziano. Una signora di un negozio in via Dante ha insistito per comprare a tutti il gelato”. Unica pecca sono i maleducati: “Chiedo di non sporcare dove abbiamo pulito: a volte troviamo bottigliette e cartacce nelle fioriere che abbiamo appena sistemato. Bisogna impegnarsi, tutti quanti, per avere una città più “normale”“. Volterra (Pi): “Cene Galeotte”, a tavola con i detenuti di Caterina Gentileschi ilreporter.it, 11 agosto 2019 Quinto appuntamento con le Cene Galeotte, l’evento dall’anima sociale e benefica che vede i detenuti impegnati nella preparazione di otto cene d’autore. Profumo di mare dalle cucine del Carcere di Volterra. Venerdì 23 marzo 2012 lo chef Daniele Pescatore del Cenacolo del Pescatore di Firenze, guiderà i carcerati/cuochi, alle prese con la realizzazione di un menu creativo a base di pesce. Aperitivo e cena. Per i fortunati partecipanti al quinto appuntamento delle Cene Galeotte, l’evento dall’anima sociale e benefica che vede i detenuti impegnati nella preparazione di otto cene d’autore realizzate con cadenza mensile fino a giugno 2012, il portone si aprirà alle 19.30. Come da tradizione l’aperitivo sarà consumato all’interno del cortile, nello spazio sotto le antiche mura. Nella cappella, invece, trasformata per l’occasione in una sala da pranzo con tanto di candele, camerieri/carcerati dall’impeccabile servizio, sarà servito il menu della cena. Ad accompagnare i piatti, i vini offerti dall’azienda Guidi di San Gimignano, serviti dai sommelier della Fisar di Volterra. Beneficenza. Il ricavato della cena, 35 euro il prezzo a persona, come sempre sarà integralmente devoluto alla campagna internazionale “Il Cuore si scioglie” (ilcuoresiscioglie.it), che dal 2000 vede impegnata Unicoop Firenze, insieme al mondo del volontariato laico e cattolico nella realizzazione di progetti umanitari. L’iniziativa, giunta alla sesta edizione, è realizzata grazie ad Unicoop Firenze, che come ogni anno fornirà le materie prime e assumerà i detenuti retribuendoli regolarmente, in collaborazione con il Ministero di Grazia e Giustizia, la direzione della Casa di Reclusione di Volterra. Carcere e letteratura di Caterina Bonvicini L’Espresso, 11 agosto 2019 Come si raccontala detenzione? Come si traduce in prosa la claustrofobia di un destino dietro le sbarre? La lezione è in Almarina” di Valeria Parrella e “Mars Room” di Rachel Kushner. Leggi due romanzi che parlano del carcere, e quando arrivi alla fine ti accorgi che ti hanno lasciato addosso uno sconfinato senso di libertà. Sembra un paradosso, ma è solo uno dei miracoli di cui è capace la letteratura. Del resto, sono due libri magnifici. E questo devono fare, i libri belli: imprigionarti nel loro mondo, per poi portarti a respirare meglio, e un po’ di più. “Almarina” di Valeria Parrella e “Mars Room” di Rachel Kushner (traduzione di Giovanna Granato), entrambi pubblicati da Einaudi, sono due romanzi molto diversi, anche se affrontano lo stesso problema. A cominciare dalla lingua. Valeria Parrella rende contemporanea una voce antica, da tragici greci, usa un italiano stratificato, che in ogni parola si misura con il tempo, sempre al confine con la poesia. Rachel Kushner invece sceglie una lingua da strada, da hard boiled, e la rende sofisticata, la porta a livelli altissimi di raffinatezza, lavorando di ambiguità e ironia. Ma tutte e due le scrittrici capiscono che per dominare una materia violenta come la vita delle detenute - che siano del carcere minorile di Nisida, Napoli, o del penitenziario femminile di Stanville, California - la forma non può essere un secondino. Anzi. La prosa deve essere immaginifica, se vuole abbattere certi muri: deve correre fuori dai percorsi stabiliti, ribellarsi a divieti e orari, affacciarsi spavalda alle luci troppo forti per confondere chi osserva e raggiungere un punto cieco. Serve una prosa in fuga per raccontare tanta claustrofobia. Anche le protagoniste sono diverse. Almarina è una ragazzina romena di sedici anni (“o quello che ne resta, dopo che il padre la violentò e la rovinò di mazzate”) che in carcere trova una madre. Romy Hall è una madre la cui responsabilità genitoriale è decaduta, una madre consapevole di non potere più rivedere il figlio di sette anni, che verrà dato in affidamento, chissà dove e chissà a chi. In comune hanno un passato randagio, e tanta violenza subita. Almafina, stuprata e picchiata dal padre, è scappata in Italia con il fratello, su un camion, e per pagarsi quel viaggio si è prostituita. Romy è cresciuta nelle periferie di San Francisco, ín compagnia di ragazzi che non avevano alternativa alla droga, per poi finire al Mars Room a fare la spogliarellista e la ballerina di lap dance. Entrambe sono colpevoli, eppure di un’innocenza struggente. Almarina, fuggita e trovata, finita in una comunità, “il reato migliore l’ha fatto quando ha rubato un telefonino”. Romy Hall ha due ergastoli perché ha ucciso un cliente ossessionato da lei, che la perseguitava. Forse la giuria avrebbe capito quel gesto disperato, se non le fosse capitato un avvocato d’ufficio logorato dalla burocrazia e da tribunali che davanti agli ultimi si trasformano in macchine stanche e frettolose. In comune hanno anche un’altra cosa: si fanno amare dal lettore. Romy attraverso il suo racconto picaresco, in prima persona, che si mescola a quello di altri personaggi (Rachel Kushner si cala nella feccia, assume tante voci di criminali, o di disperati), e Almarina attraverso lo sguardo della sua insegnante, Elisabetta Maiorano, la narratrice del romanzo di Valeria Parrella. Elisabetta è una donna di cinquant’anni, vedova, che dà lezioni di matematica ai ragazzi di Nisida e quando torna a casa non riesce a lasciarsi il carcere alle spalle (“E se esci nell’ora della partita, uscire è più dolce. Basta non guardarli davvero quando si va, e tu devi andare per forza di legge, e loro devono restare per forza di legge. È, questa separazione, disumana”). Un po’ come Gordon Hauser, l’insegnante del romanzo dí Kushner, la cui vita è risucchiata dalle detenute. Anche lui non può fare a meno di pensare sempre a loro, a Romy in particolare, di cui si sta innamorando. Ma lei è “vietata”, come quasi tutto in carcere. Vietato camminare scalzi. Vietato tenere le mani in tasca. Vietato urlare. Vietato ridere sguaiatamente. Vietato piagnucolare (Ridurre il pianto al minimo). Vietato tenersi per mano. Vietato abbracciarsi. Non c’è scritto, ma a Stanville è vietato amare. Anche a Nisida è vietato amare, o comunque è sconsigliato. Ma per Elisabetta è un colpo di fulmine, e non può farci niente. “Voi che giudicate siete disposti a credere ai colpi di fulmine, ma altre forme d’amore improvviso vi mettono in sospetto”, scrive Valeria Parrella. “Le amicizie sembrano maliziose, l’amore per i discepoli riverbera di paternalismo e l’ammirazione profonda per gli anziani pare sia coperta da chissà quale mancanza nascosta nel passato. Volete che l’amore proceda per gradi, vorreste intravederne un percorso lineare, guardare, morbosi, tutto. Invece no, non si guarda: il cuore è opalino e gli esami di coscienza sono per gli infelici. Io mi sono legata ad Almarina così, mentre guardavamo il mare, e le ho raccontato che mio marito era un magnifico nuotatore”. L’amore di Elisabetta per Almarina è destinato a cambiare la vita a entrambe, quello di Gordon per Romy invece può essere vissuto solo come una fantasia non pattugliata dal dipartimento di correzione. E soprattutto è diversa la misura. Il legame fra Elisabetta e Almarina è il perno del romanzo di Valeria Parrella, è l’amore che supera le barriere, mentre quello fra Gordon e Romy, nel libro di Rachel Kushner, è solo l’ennesima possibilità mancata in due vite a cui non è stata concessa nessuna possibilità, a priori, un amore marginale fra marginali. Rachel Kushner, con cupezza e con allegria, racconta i persi. I persi, non i perdenti, perché è gente che non ha mai immaginato di vincere. L’unico personaggio che si concede fantasie di riscatto, Betty, lo fa in modo megalomane - e sta nel braccio della morte. Almarina e Romy hanno in comune il sentimento del presente, ma non il sentimento del domani. Qui sta il grande scarto. Romy Hall sa che da Stanville non uscirà mai (“Lei ha due impegni a tempo indeterminato con lo Stato, Hall. Non va proprio da nessuna parte”). Romy è cresciuta fra gente spacciata in partenza, che non si poteva permettere il lusso di sognare un domani (“Amavamo più la vita che il futuro”). E mentre viene circondata, dopo un tentativo di fuga, le tornano in mente i bagni nell’oceano, davanti a un cartello: zona a rischio annegamenti. “Non abbiamo mai avuto paura di annegare. La morte non era contemplata nel nostro futuro. Nessuno vive nel futuro. Il presente, il presente, il presente. Questo continua a essere la vita”. Almarina “sa che quello che non è presente alla vista non esiste più”, ma ha “la luce del futuro negli occhi: e il futuro comincia adesso”. E mentre lei e Elisabetta guardano il mare quel domani diventa patto, promessa, e loro “donne in divenire”. E “da dentro il corpo di Almarina in vincoli” uscirà “Almarina libera”. Ecco la vera, profonda, differenza: “Almarina” è una storia di speranza, storia d’amore con tutta la lucentezza del cambiamento a cui ogni amore porta, “Mars Room” è una storia di disamore, accumulato e continuo, come una condanna. Eppure anche in Kushner qualcosa si salva: l’amore per la vita in sé, nonostante tutto. Non splende come il mare intorno a Nisida. È più simile a una torcia in faccia, ma pur sempre una luce è. Questi due romanzi, ciascuno per la sua via, ma con la stessa potenza di sguardo, di lingua e di umanità, riescono a “divellere quella partenza iniziale a cui tanto abbiamo creduto: che si diventa professori, o condannati, o artisti, o giudici perché siamo diversi dentro. Mentre proprio lì dentro”, per usare le parole di Parrella “siamo tutti uguali”. A 30 anni dall’addio al Muro l’Europa rivede vecchi confini di Federico Fubini Corriere della Sera, 11 agosto 2019 Per uno scherzo del destino di quelli cui l’Europa è maestra, i trent’anni della sua riunificazione sembrano destinati a coincidere - giorno su giorno - con un autunno imprevedibile come pochi nella storia recente. Trent’anni fa a inizio novembre cadeva il muro di Berlino. Fu il culmine di tre mesi durante i quali cento milioni di persone camminarono, letteralmente, fuori dal comunismo e verso un mondo dai confini quasi invisibili. Trent’anni dopo si direbbe che l’Europa abbia deciso di celebrare quei giorni ricordando a se stessa cosa significa il suo passato: le fratture interne alla società prodotte dall’odio ideologico, le frontiere dalle sbarre abbassate, l’incertezza. Se davvero l’Italia voterà in ottobre o inizio novembre, nei giorni in cui trent’anni fa decine di migliaia di berlinesi premevano ai varchi nel Muro, lo farà in un autunno da cui oggi nessuno sa dire quale Europa possa uscire. Perché il ritorno delle frontiere vistose, lente e difficili da attraversare non è solo una metafora. Accadrebbe per la prima volta dal 1989 fra Paesi europei se davvero la Brexit, la prima secessione di uno Stato dall’Unione europea, sarà davvero “hard” come la minaccia il nuovo premier di Londra Boris Johnson per il 31 ottobre. Tornerebbe una costosa frontiera doganale a Dover e attraverso la Manica. Tornerebbe soprattutto a dividersi l’Irlanda, fra repubblica a Sud e regno a Nord, abbattendo il primo pilastro degli accordi di pace di ventidue anni fa. Uno choc economico, lo strappo senza accordi della terza economia europea e della capitale finanziaria del continente, coinciderebbe così con uno politico: dall’Irlanda del Nord alla Scozia, una hard Brexit rimetterebbe in discussione l’integrità territoriale del Regno Unito: ennesima dimostrazione - come rivela anche il caso catalano, come sosteneva Umberto Bossi nel 1994 - che l’appartenenza all’insieme europeo è la migliore garanzia di unione territoriale dei singoli Paesi che la compongono. È possibile, anche probabile, che la Brexit segua di poco o si consumi a cavallo di nuove elezioni in cui Boris Johnson cercherà una sua maggioranza nazionalista. Ma la Gran Bretagna e l’Italia non sono le uniche due grandi eretiche d’Europa che si avvicinano alle urne. A metà ottobre lo farà anche la Polonia, demograficamente il quinto Paese della Ue post-Brexit, ideologicamente divisa lungo linee simili a quelle italiane o inglesi: nazionalisti contro cosmopoliti, identitari contro liberali, partigiani della società chiusa e omogenea contro chi chiede tolleranza e diversità. I primi, i nazionalisti al potere di Legge e Giustizia, sono favoriti. La sola certezza oggi, come trent’anni fa, è che ciò che accade in Polonia non si ferma in Polonia: è un segno del tempo, magari un segno del futuro. Allora, nel 1989 e negli anni seguenti, l’America di George Bush padre (e poi di Bill Clinton, di Bush figlio, di Barack Obama) seguiva gli eventi in Europa con una priorità: tenerla unita e alleata a sé. L’America di Donald Trump per la prima volta invece non si limita a corteggiare le forze della disunione o del nazionalismo: dai sovranisti d’Italia a Boris Johnson, al premier ungherese Viktor Orbán che si autodefinisce “illiberale”. Trump medita di fare di più: aprire una guerra commerciale con l’Unione europea colpendo al cuore l’industria di Italia, Francia e Germania. Le procedure sono pronte a Washington perché da novembre possano scattare nuovi dazi all’import di auto europee. Le ritorsioni a tappeto della Casa Bianca per i sussidi all’industria aeronautica europea (dove pure l’Italia è in seconda fila) sono a uno stadio anche più avanzato. Sviluppi simili possono esserci anche sui prodotti agricoli e altre ritorsioni aleggiano perché alcuni governi europei (Italia inclusa) osano provare a far pagare un po’ di tasse ai colossi del Big Tech americano. Trump affronterà lo scontro con Bruxelles soprattutto se nel frattempo avrà raggiunto una tregua con la Cina. Ma per l’Europa non è comunque un buon momento. In Italia l’economia resta come paralizzata, anche dall’incertezza politica. L’industria tedesca, in recessione da tempo, sta dando segnali pessimi questa estate e forse non è solo un virus passeggero: la prima economia d’Europa si scopre in ritardo nella curva tecnologica, dall’auto elettrica al 5G, mentre per l’export sembrano finiti i trent’anni gloriosi di globalizzazione partiti proprio in quelle notti dell’autunno 1989. È su questo sfondo che l’Italia arriva alle sue elezioni anticipate, con un bilancio pubblico difficile e tutto da scrivere. L’Europa ci arriva con nuove leader in carica dal primo novembre sia alla Commissione che alla Banca centrale europea. Entrambe, Ursula von der Leyen e Christine Lagarde, molto apprezzate. Entrambe da mettere alla prova in un’Europa in cui ogni passo falso, trent’anni dopo, può costare davvero caro. Stragi e morti non bastano: i braccianti restano schiavi come un secolo fa di Aboubakar Soumahoro L’Espresso, 11 agosto 2019 A un anno dall’incidente costano la vita a tre lavoratori immigrati nelle campagne del Foggiano nulla è cambiato al Sud. Ma nemmeno rispetto al 1906. Era il 4 agosto del 2018 quando Aladjie Ceesay, Ali Dembele, Moussa Kandee Amadou Balde persero la vita in un incidente sulla strada provinciale 105 tra Ascoli Satriano e Castelluccio dei Sauri in provincia di Foggia. Il sangue rosso di questi giovani braccianti cosparso sull’asfalto si era mischiato con il liquido rosso dei pomodori sparso sul bitume della provinciale 105. Nel pomeriggio del 6 agosto 2018, a distanza di 48 ore di questa tragedia, Ebere Ujunwa, Baofudi Cammara, Alagie Ceesay, Alasanna Darboe, Eric Kwarteng, Romanus Mbeke, Djoumana Djire, Hassan Goultaine, Anane Kwase, Moussa Toure, Lahcen Haddouch e Joseph Avuku persero la vita in un altro incidente sulla statale 16 nei presi di Lesina, sempre nel Foggiano. Fu un’estate drammatico che segnò, in soli due giorni, la morte di sedici lavoratori della filiera agricola. Purtroppo la classe politica, tranne poche eccezioni, reagì a quell’agosto funestato dalla morte con dichiarazioni fugaci di circostanza che si esaurirono nel breve istante emotivo impotentemente succube della dittatura del presentismo sempre più incapace di essere empatica. Oggi le condizioni dei lavoratori della terra continuano a richiamare per certi aspetti quelle dei braccianti di ieri, specialmente per quanto concerne la miseria e l’abbrutimento lavorativo e sociale. A questo riguardo, un’inchiesta parlamentare del 1906 asseriva che “nel Sud d’Italia le condizioni di vita dei lavoratori della terra sono disperate, segnate dalla grande miseria e dallo sfruttamento disumano che i grandi proprietari terrieri impongono alla manodopera, attraverso tariffe irrisorie, orari estenuanti e diritti negati. Inoltre l’andamento ciclico dell’economia agraria, legato alle condizioni climatiche e all’esito dei raccolti, si abbatte come una scure sui piccoli coltivatori e sugli affittuari, sui salariati fissi e, in modo ancora più drammatico, sui braccianti a giornata, i quali ogni mattina, all’alba, nelle piazze dei principali paesi, conoscono il loro destino di lavoratori o disoccupati”. A distanza di circa un secolo da quest’inchiesta parlamentare, le condizioni disumane subite dai lavoratori della filiera agricola non sono mutate. L’unico cambiamento avvenuto nel corso degli anni ha riguardato la composizione della classe lavoratrice, diventata nel frattempo eterogenea dal punto di vista della provenienza geografica-culturale e della pluralità linguistica. Per sfidare questa disumanità è necessario avere lo stesso zelo e la medesima tenacia di Giuseppe Di Vittorio, resistendo nel contempo alla tentazione che tende da un lato a semplificare una questione complessa etnicizzandola, al fine di celare l’assenza di un reale piano per la tutela dei lavoratori, e d’altro lato a distrarre l’opinione pubblica, con lo scopo di impedirla a risalire alla catena di produzione e di comando della filiera agricola che continua a generare miliardi di profitti mentre si affamano lavoratori e contadini. La sindacalizzazione di questi braccianti è sicuramente uno strumento indispensabile al fine di cambiare e migliorare le condizioni salariali, di previdenza e di sicurezza sul lavoro dei medesimi lavoratori. Tuttavia, l’agire sindacale deve essere associato ad altri strumenti al fine di garantire un profondo e permanente sradicamento della disumanità che alberga in alcuni processi produttivi della filiera agricola. A questo riguardo, la sindacalizzazione dei lavoratori dovrebbe essere accompagnata anche da un consumo critico e consapevole, che permetterebbe di costruire una salda alleanza tra i consumatori, i lavoratori e i contadini/produttori, se si desidera assicurare giustizia sociale in un settore che continua a essere nevralgico per l’economia del nostro paese. Tuttavia, l’efficacia dello strumento del consumo critico e consapevole rischia di essere minata dalla dimensione esclusiva che caratterizza ormai i prodotti biologici. Questa sembra essere un’altra ingiustizia che serpeggia nella filiera agricola e che colpisce principalmente i consumatori. Purtroppo il potere politico, succube del potere economico, sembra aver abdicato al proprio ruolo di tutelare i lavoratori e i consumatori del settore agroalimentare dai giganti della Grande Distribuzione Organizzata. A mio avviso, sarebbe importante che lo stato garantisse l’eticità lungo la catena di produzione e di comando della filiera agricola. Questo sarebbe probabilmente il miglior modo per onorare il ricordo di Paola Clemente e di tutti i lavoratori braccianti morti mentre andavano a raccogliere i prodotti alimentari che finiscono sulle nostre tavole. Migranti. Solidarietà al Garante nazionale dei detenuti di Stefano Anastasìa* Ristretti Orizzonti, 11 agosto 2019 A nome della Conferenza dei Garanti delle persone private della libertà nominati dalle Regioni e dagli Enti locali, esprimo la nostra solidarietà e vicinanza al Garante nazionale oggetto di una pretestuosa polemica rinfocolata oggi dai sottosegretari leghisti alla Giustizia e all’Interno. Le competenze del Garante nazionale su qualsiasi condizione di privazione di libertà, quali quelle che si consumano sulle navi da cui viene vietato lo sbarco, sono chiare e stabilite dal Protocollo addizionale alla Convenzione delle Nazioni unite contro la tortura. Come trasparente è l’indennità percepita dai componenti dell’ufficio, perché fissata per legge. Spiace che motivazioni evidentemente politiche spingano autorevoli esponenti di governo a tentare di delegittimare un’autorità di garanzia indipendente che svolge delicate funzioni anche per conto delle organizzazioni internazionali cui l’Italia aderisce. Speriamo che l’incerta situazione politico-istituzionale non spinga i diversi attori a trascendere dai loro ruoli e responsabilità. *Portavoce della Conferenza dei Garanti territoriali delle persone private della libertà e Garante per le Regioni Lazio e Umbria. Migranti. Il presidente del Tribunale di Bologna: “nessun privilegio per il Viminale” di Antonella Baccaro Corriere di Bologna, 11 agosto 2019 Il presidente del Tribunale risponde a Salvini dopo gli attacchi per la sentenza di Bologna che gli dà torto. Caruso e la riforma invocata dal Carroccio: “Inquietante, la magistratura è indipendente”. Dopo la rabbia del ministro dell’Interno Matteo Salvini e gli attacchi ai giudici bolognesi che hanno rigettato il ricorso del Viminale contro l’ordinanza per l’iscrizione all’anagrafe dei richiedenti asilo, il presidente del Tribunale Francesco Maria Caruso difende la sentenza. “La legge è uguale per tutti, il Viminale non si era costituito in primo grado, perciò il ricorso in Appello era inammissibile, non ci sono privilegi per il Ministero dell’Interno”. E sulla riforma della giustizia auspicata da Salvini: “È inquietante, i giudici sono indipendenti”. Il Tribunale di Bologna torna nel mirino delle critiche del ministro Matteo Salvini, dopo la bocciatura del ricorso presentato dal Viminale contro l’ordinanza che imponeva al sindaco di Bologna Virginio Merola l’iscrizione all’anagrafe di una donna richiedente asilo. “Dai giudici di Bologna un’altra sentenza a favore degli immigrati, nonostante il ricorso del mio ministero” ha scritto due giorni fa il vicepremier su Twitter. Questa volta, però, il presidente del Tribunale Francesco Maria Caruso, solitamente poco incline a farsi trascinare nella mischia di dichiarazioni e controdichiarazioni tra politici e magistrati, risponde a distanza al ministro e difende l’operato dei “suoi” giudici. “Mi ha colpito molto quel “nonostante”. Cosa significa “nonostante”? Che il ricorso avrebbe dovuto essere accolto - si chiede Caruso riferendosi al tweet di Salvini - perché lo presentava il ministro degli Interni? Ma il fatto di essere il ministro degli Interni non gli dà un privilegio di accoglimento. Non è che se il Viminale presenta appello ha una corsia preferenziale. La legge è uguale per tutti”. Riavvolgiamo il nastro: a maggio la giudice bolognese Matilde Betti aveva ordinato al sindaco l’iscrizione all’anagrafe di due richiedenti asilo, tra cui la donna armena a cui il Comune aveva prima negato l’iscrizione sulla base del decreto sicurezza. Già quella decisione, bollata come “vergognosa”, aveva scatenato le critiche del ministro, che poi aveva dato mandato all’Avvocatura di Stato di presentare per conto del Viminale un ricorso, ora rigettato da un nuovo collegio giudicante. Con tono pacato ma fermo, Caruso torna a spiegare, come già ha fatto nella sentenza il collegio presieduto dalla giudice Angela Baraldi, perché appunto quel ricorso del Viminale sia “inammissibile”, come peraltro ha stabilito in un’analoga vicenda anche il Tribunale di Firenze. “C’è una giurisprudenza consolidata, tante pronunce della Cassazione. È una questione puramente tecnica - osserva Caruso - e procedurale. Non siamo entrati neanche nel merito della vicenda, non si può parlare di “sentenza a favore di qualcuno”, non c’è nulla nelle motivazioni che riguardi il merito della questione. Il Viminale non si era costituito nel giudizio di primo grado, non poteva stare in Appello. Il ricorso è stato dichiarato inammissibile perché si è ritenuto che non avendo proposto ricorso il sindaco (che invece si era costituito nel giudizio di primo grado e quindi era l’unico titolato a farlo, ndr), non poteva farlo il ministro. Punto e basta”. Il collegio, presieduto da Baraldi e composto dalle giudici Maria Cristina Borgo e Alessandra Cardarelli, ha dichiarato l’inammissibilità del ricorso proprio sulla base del fatto che in un procedimento giudiziario una parte che non si è costituita nel primo grado non può presentare ricorso in Appello, a meno che non sia una figura litisconsorte necessaria, come ad esempio nelle successioni ereditarie, ma non era questo il caso. Le giudici, infatti, hanno bocciato anche questa motivazione sostenuta dal Viminale, che peraltro si era costituito anche a nome del sindaco di Bologna. “Il Viminale - osserva ancora Caruso - non era neanche parte necessaria. Se si vuole partecipare ed essere sempre rappresentati in questo tipo di giudizi, il ministro dia istruzioni preventive e generalizzate all’Avvocatura di Stato che valgano per tutti”. Ma Salvini invece, infuriato per la bocciatura del ricorso, pensa piuttosto a una “riforma della giustizia”, che ha auspicato, o minacciato a seconda dei punti di vista, verrà messa in pratica dal prossimo governo. Per il presidente del Tribunale di Bologna è “una dichiarazione inquietante. I giudici sono indipendenti, si vuole forse renderli dipendenti dalla politica? Per il momento non si può”. Infine il presidente Caruso torna a difendere l’operato dei giudici bolognesi: “Il Viminale non era parte necessaria, la legge non prevede che in primo grado debba stare necessariamente in giudizio il Viminale, c’è il Comune e se il ministro vuole può intervenire, se non interviene si fa a meno della sua presenza. Abbiamo solo applicato la legge, cos’altro potevamo fare?”. Migranti. La legge e la lesa maestà di Claudia Baccarani Corriere di Bologna, 11 agosto 2019 “Italiani, datemi i pieni poteri” ha detto Matteo Salvini davanti alla solita folla adorante, a Pescara. Il leader leghista che negli ultimi giorni tra crisi di governo e comizi forzati è apparso quanto mai provato ma comunque ben deciso a non arretrare di un millimetro, ha un pregio che nemmeno il critico più acceso non può non riconoscergli: quello che dice, tende a pensarlo (e a volerlo fare) davvero. Che poi ci riesca, evidentemente è un altro affare, anche perché alla prova dei fatti spesso non dipende soltanto da lui. Non ancora, almeno, come pare vorrebbe. L’ultimo clamoroso caso è scoppiato a Bologna, terra ingrata di soddisfazioni per Salvini fino a questo momento (a differenza dell’amata e frequentatissima spiaggia romagnola). L’occasione, la decisione del Tribunale di Bologna di bocciare il ricorso presentato dal Viminale contro la pronuncia del giudice Matilde Betti che, qualche mese fa, diede ragione a una richiedente asilo (armena) in merito all’iscrizione all’anagrafe del Comune di Bologna. In pratica, nella lettura salviniana i giudici, allora come ieri, con la loro decisione non avrebbero applicato la legge (in modo più o meno criticabile, ci mancherebbe), ma perpetrato un’offesa ad personam. A cui rispondere con un attacco altrettanto ad personam. “Un’altra sentenza a favore degli immigrati, nonostante il ricorso del mio ministero. Il prossimo governo dovrà fare una vera riforma della Giustizia, non viviamo in una repubblica giudiziaria”, ha tuonato. Affermazioni che mettono in dubbio uno dei principi fondanti l’ordinamento democratico italiano: la separazione dei poteri, di cui quello giudiziario è un pilastro irrinunciabile. Perché con le sue affermazioni - affidate tra l’altro al solito cinguettio via social dalla sua potente macchina comunicativa - Salvini dice questo: la decisione non mi piace, quindi i giudici vanno messi nelle condizioni di non poterla più prendere. Insomma, se una legge va contro a quello che ho scritto in un decreto, si cambia la legge. O, chissà, magari un giorno addirittura i giudici stessi. I quali, tra l’altro, hanno anche un grande svantaggio rispetto a Salvini, non godendo certo di grande popolarità tra gli italiani. Non per colpa del leader della Lega, in questo caso. Resta l’amaro in bocca per lo stillicidio di dichiarazioni e attacchi sollevati attraverso i social, come se il mezzo (il media), di per sé frivolo rispetto alle paludate (vetuste) dichiarazioni affidate a tradizionali comunicati stampa, potesse in qualche modo nascondere la gravità di certe affermazioni. Non è così. Un ministro è un ministro e certe parole pesano, ovunque siano state pronunciate. “Propaganda”, le ha liquidate il sindaco Merola. Forse, tuttavia l’assordante silenzio di voci e ragionamenti alternativi hanno consegnato a Salvini l’egemonia comunicativa (dunque politica, se i sondaggi di questi giorni dicono il vero) di questa torrida estate. Quando si arriva a parlare solo alle pance, è perché non si è più in grado di parlare alla testa degli italiani. Gran Bretagna. Johnson annuncia stretta sul crimine “più carceri e poteri alla polizia” ansa.it, 11 agosto 2019 Una stretta sulla sicurezza e un piano anticrimine, che prevede fra l’altro una ristrutturazione del sistema carcerario da 2,5 miliardi di sterline, è stato annunciato dal primo ministro britannico Boris Johnson in un articolo sul Mail on Sunday. “Il tempo della pietà è finito”, ha detto Johnson riferendosi ai crescenti accoltellamenti e alle violenze perpetrate dalle gang, promettendo nuove carceri e più poteri alla polizia per riprendere il controllo delle strade. Un piano - osserva il settimanale online - con il quale il leader dei conservatori tenta di riaffermare la reputazione dei Tory come il partito della legge e dell’ordine, ribadendo la possibilità di nuove elezioni in autunno. “Dobbiamo usare la mano dura sul crimine”, afferma, anche se questo “significa scontrarsi duramente con i criminali”. E condanna “una crescente cultura dell’insolenza” da parte delle gang che pensano di poter distruggere vite impunemente. Stati Uniti. Muore suicida in cella miliardario accusato di abusi sessuali di Marina Catucci Il Manifesto, 11 agosto 2019 Jeffrey Epstein, il finanziere americano accusato di decine di abusi sessuali su ragazze minorenni, anche di soli 13 anni, è morto in prigione nella sua cella di Manhattan. Secondo l’Fbi si tratterebbe di suicidio; già il mese scorso, una settimana dopo che gli fosse negata la libertà su cauzione, Epstein aveva probabilmente tentato il suicidio ed era stato trovato incosciente nella sua cella, con segni sul collo. Il 6 luglio Epstein era stato arrestato all’arrivo negli Usa dalla Francia e rischiava una condanna all’ergastolo: i pubblici ministeri federali di Manhattan avevano accusato il 66 enne Epstein di traffico sessuale tramite un elaborato sistema predatorio. E così facendo avevano riportato l’attenzione su come il miliardario, che possedeva case lussuose, un jet privato e aveva accesso ai circoli più esclusivi, fosse sfuggito a una pena severa durante una precedente indagine che si era svolta nel 2008 in Florida. A quei tempi Epstein aveva evitato le accuse penali federali per sfruttamento e istigazione alla prostituzione, dopo che i pubblici ministeri avevano mediato un accordo molto controverso che gli aveva permesso, durante i 13 mesi di carcere, di lasciare la prigione per 12 ore al giorno, sei giorni alla settimana, per lavorare nel suo ufficio in Florida. La nuova accusa federale del molto meno permissivo tribunale di Manhattan, aveva, invece, allargato le indagini anche ad una serie di persone collegate ad Epstein includendo politici, imprenditori, personalità del mondo accademico, della scienza e della moda tra cui Donald Trump, Bill Clinton, il principe Andrea di Gran Bretagna e il miliardario Leslie Wexner. Qualche ora prima del ritrovamento del corpo del miliardario, era stato depositato alla Corte federale di New York un dossier che conteneva anche la deposizione di Virginia Roberts Giuffre, una delle testimoni più importanti nell’inchiesta che aveva portato all’arresto di Epstein. La donna lo aveva accusato di essere stata tenuta come “schiava del sesso” quando era minorenne e costretta ad avere rapporti sessuali con personaggi importanti tra cui il famoso avvocato Alan Dershowitz, personaggio televisiva e professore emerito ad Harvard, l’ex governatore dello Stato del New Mexico, Bill Richardson, e l’ex senatore George Mitchell. Afghanistan. La denuncia: “Una pace con i criminali è peggiore della guerra” di Marta Bellingreri L’Espresso, 11 agosto 2019 Il governo tratta con i talebani. Ma le bombe non si fermano. “C’è un detto popolare che recita: una lotta tra cani per rosicchiare le stesse ossa. Lotta per il mantenimento del potere tra signori della guerra”. Mentre in Afghanistan continuano gli attentati suicidi, a Doha, in Qatar, si sono svolti tra fine giugno ed inizio luglio il settimo round di negoziati di pace e riconciliazione tra Stati Uniti e leader talebani, inframmezzati da due giorni di dialoghi intra-afghani, ovvero tra governo afghano e talebani. Sembrava un incubo scacciato via a fine 2001, dopo l’invasione americana, ma oggi più che mai quei leader estremisti religiosi che hanno tenuto sotto scacco l’Afghanistan dal 1996 al 2001, controllano metà del territorio, principalmente le zone rurali; le città di tutte le province sono invece sotto il controllo del governo centrale. Quello che è ancora più grave è che spesso oggi gli stessi criminali di guerra, assassini ed ex-ministri di quello che si chiamava “Emirato Islamico dell’Afghanistan”, sono protetti e partecipano alla vita politica, rendendo pace e democrazia - senza giustizia - un miraggio lontano per il popolo afghano. È quello che denuncia da oltre un decennio Malalai Joya, attivista e politica indipendente che, al contrario di alcuni suoi connazionali per anni nelle liste nere dei criminali di guerra e oggi a piede libero nel paese, è stata espulsa nel 2007 dal Parlamento afghano perché ha denunciato la presenza dei signori della guerra all’interno dello stesso. Malalai Joya, allora ventisettenne, era stata infatti eletta in Parlamento nel 2005 dalla lontana provincia occidentale di Farah, dove godeva di un forte sostegno, in particolare da parte delle donne, per il suo attivismo sociale, diventato presto attivismo politico. L’arredamento semplice e modesto della sua temporanea dimora a Kabul fa da sfondo alla forza delle sue parole, la rabbia ed il dolore che tutta la sua generazione (“war generation”, come la definisce lei) dopo quarant’anni di conflitti non risolti si porta dietro. Vestita di un abito tradizionale bianco che sembra avvolgerla nella sua purezza e proteggerla dal male attorno, Malalai vive sotto scorta da anni, una scorta non pagata dal governo, ma da lei stessa e dai suoi numerosi sostenitori, innanzitutto in Afghanistan, ed in tutto il mondo. Oltre a numerosi riconoscimenti, il primo tra tanti in Italia, Malalai ha vinto nel 2007 il premio Sakharov per la Libertà di Pensiero del Parlamento Europeo e ha scritto un libro sulla sua storia pubblicato in Italia da Piemme (“Finché avrò voce. La mia lotta contro i signori della guerra e l’oppressione delle donne afghane”, 2011). Sostenuta fin dal primo istante da intellettuali come Noam Chomsky, Joya è stata anche citata dal Time tra le cento persone più influenti dell’anno 2010, mentre il Guardian l’ha inserita tra le più grandi attiviste del 2011. L’Espresso ha ascoltato la sua voce per capire il momento politico attuale a ridosso delle elezioni presidenziali di autunno e per testimoniare che sebbene i conflitti in altri paesi vicini abbiano catalizzato l’attenzione dei media, non possiamo dimenticare l’Afghanistan oggi. Che significato hanno queste negoziazioni di pace tra Stati Uniti e talebani in Qatar? “Le negoziazioni in nome della pace e riconciliazione, iniziati il 29 giugno al loro settimo round, avvengono a Doha con i talebani, ovvero dei terroristi e fondamentalisti che hanno le mani sporche di sangue. Il primo punto che voglio evidenziare è che la pace senza giustizia perde di significato. Il nostro popolo dopo quattro decenni di guerre si sente estraneo a queste cosiddetti accordi con diversi gruppi che vorrebbero stare al potere e i loro padroni stranieri. Non c’è fiducia in questi accordi, anzi una pace con i criminali è più pericolosa della guerra attuale perché i nemici della pace lavoreranno più facilmente per andare al potere e continueranno ad esercitare la loro barbarie; quelli che si siedono ai tavoli dei negoziati sono esattamente una fotocopia dei talebani, i creatori dei talebani o i signori della guerra, i padrini di questi terroristi talebani. Ma oggi anche l’Isis è presente in Afghanistan. Se anche per un secondo credessimo che i talebani possano depositare le armi, che diciamo dell’Isis? Tutto sotto il cappello dei negoziati con gli Stati Uniti, ma anche con il sostegno politico e finanziario di diversi paesi come l’Arabia Saudita. Bisogna capire infatti che oggi ci sono diverse filiali dei talebani, non un unico ramo: ci sono i talebani americani, i talebani russi, quelli cinesi, pachistani, iraniani. Ognuno sostiene i propri gruppi secondo i propri interessi di controllo nel nostro territorio quindi non cambierà nulla”. Quali sono comunque le condizioni per un accordo con gli Stati Uniti? “I talebani seduti a questi tavoli hanno posto una condizione: che tutte le truppe americane vadano via dall’Afghanistan. Ma ancora i negoziati continuano, non si è arrivati a un accordo finale. Possono anche acconsentire e rispettare le condizioni, ma cosa succede agli altri gruppi, alle diverse filiali? Cambiano nomi e colori di bandiera, come per esempio l’Isis, ma la natura è la stessa e continuerà anche il supporto da paesi stranieri. Esiste una grandissima contraddizione in tutto questo: oggi parlano a Doha, in Qatar, o in Russia - diversi gruppi di talebani in diversi paesi - ma dall’altro lato in meno di due settimane ci sono stati attentati a Kabul, poi altri nelle province di Ghazni, di Nangarhar durante una festa di matrimonio e di Badghis. Le vittime sono sempre il nostro povero popolo. I talebani hanno una strategia a lungo termine e una cosa è certa: non hanno a cuore i desideri degli afghani (pace, giustizia, diritti umani). Gli Stati Uniti vogliono mantenere i loro interessi strategici, tagliare la spesa e ridurre il numero dei propri soldati uccisi. Khalizad (rappresentante speciale per la riconciliazione tra Usa e Afghanistan) ed altri rappresentanti del governo statunitense sanno bene che il risultato delle trattative non sarà la pace”. Durante i negoziati ci sono stati anche due giorni di dialoghi tra talebani e governo afghano in guerra da diciotto anni, sponsorizzati da Qatar e Germania. Il governo chiede l’immediata sospensione di attacchi a civili, in scuole, ospedali, luoghi pubblici spesso target degli attentati suicidi. Che cosa ne pensi? “Sì, ci sono stati dialoghi tra talebani e rappresentati politici afghani selezionati dal governo. La maggior parte di essi, in giacca e cravatta, non rappresentano il popolo afghano. Hanno baciato le mani sporche di sangue dei talebani, implorandoli di fare pace. Non si è mai visto nella storia finire una guerra implorando la pace. C’è un detto popolare che recita: una lotta tra cani per rosicchiare le stesse ossa. Lotta per il mantenimento del potere tra signori della guerra”. Come si può allora costruire pace? Hai un partito che porta avanti la tua lotta per il popolo afghano? “No, non voglio e non posso far parte oggi di un partito politico, anche per ragioni di sicurezza ed i costi legati ad essa. Lavoro come politica indipendente e ci sono tante persone che sostengo. Alcuni sono attualmente membri del Parlamento, come Belqis Roshan, anche lei originaria della mia provincia, Farah, che non sta in silenzio. Nonostante guerra, corruzione, crimini, violazioni di diritti delle donne e dei diritti umani, non dobbiamo scordare uomini e donne coraggiosi di questo paese che fanno un lavoro enorme, in politica e nella società, e che del resto hanno una tradizione alle spalle di persone che hanno fatto grande questo paese e lottato, fin dalla guerra contro gli Inglesi di fine Ottocento. Voglio ricordare il padre della nostra libertà, il Re Amanullah Khan che ha unito questo territorio per dire che siamo tutti afghani. La vera pace può venire solo da grandi persone, democratiche, contro l’occupazione degli Stati Uniti/Nato e i loro fantocci come i talebani. È una lunga strada e battaglia, ma non c’è alternativa. Non vedo una prospettiva di pace futura vicina, potremmo essere testimoni di giorni ancora più bui”. L’attenzione della comunità internazionale si è spostata verso Siria, Libia, Yemen, Iraq e non c’è un interesse verso l’Afghanistan, perché? “Ci sono diverse ragioni di questa minore attenzione all’Afghanistan, di nuovo, come in passato. Quello che gli Stati Uniti volevano ottenere nel nostro paese, lo hanno già ottenuto. Hanno messo su un governo mafioso e corrotto, hanno nove basi militari, oltre a quelle segrete. Possono controllare facilmente dall’alto l’Afghanistan, anche senza truppe, nel futuro prossimo. In questa propaganda e silenzio sull’Afghanistan conta il fatto che soprattutto in America non si vuole più sentire parlare della guerra e di questo fallimento chiamato “guerra al terrorismo” che io chiamo la grande bugia del secolo. Ci sono criminali che erano nella lista nera degli Stati Uniti, come l’assassino Gulbuddin Hekmatyar, che addirittura in passato - è divertente a pensarci - boicottava le elezioni per ragioni religiose, dicendo che non sono islamiche, mentre oggi viene accolto a Kabul come un re. Rimosso dalla lista nera, senza giustizia, le spese del suo ufficio sono pagate dall’Unione Europea. Ed altri personaggi protetti come Mullah Rahmatullah Hashimy, ex-portavoce dei talebani che ordinò la distruzione dei Buddha a Bamiyan. Anche solo per la distruzione dei Buddha e della nostra storia, gli Afghani non perdoneranno mai i talebani. I media hanno giocato un ruolo negativo nel far credere che dopo il 2001 l’Afghanistan sia diventato un posto migliore, mentre in realtà la catastrofe attuale è paragonabile all’epoca buia dei talebani al potere”. A proposito di elezioni, sono vicine. “Purtroppo in Afghanistan si dice: non è importante chi vota, ma chi conta i voti. Sono finte elezioni: l’Afghanistan è nella lista dei paesi più corrotti al mondo, non ci possono essere elezioni vere. Il voto viene espresso solo per legittimare il prossimo presidente supportato dagli Stati Uniti”. Come ci può essere allora speranza? “La speranza c’è ed è tantissima: viene dai bambini che dopo esser stati feriti ad un attentato a scuola, vogliono tornare presto in classe. Dalle donne, che dopo lo scandalo sessuale di stupri delle giocatrici di calcio, continuano a giocare a calcio. Tanti altri esempi dalla generazione di guerra e di costruzione della generazione futura. E viene dalle persone grandi del mondo, attivisti per la pace, amanti della giustizia: sono quelli che non ci dimenticano, come i giornalisti coraggiosi che scrivono affinché l’Afghanistan non sia di nuovo terra abbandonata”.