Ferragosto in carcere per un certezza dei diritti di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 10 agosto 2019 Partito Radicale, Camere Penali e parlamentari in visita nelle Case circondariali. Agosto è uno dei mesi più difficili per le persone ristrette nelle patrie galere, ma anche per chi vi opera. Non solo per il caldo, ma anche per il fatto che fuori le persone sono più distratte dalle vacanze e l’indifferenza per chi vive recluso, sicuramente è maggiore. Per questo motivo, e non solo, il Partito Radicale, dal 15 al 18 agosto, ha organizzato le visite nelle carceri di tutta Italia. Siamo alla terza edizione straordinaria del ferragosto in carcere, visite che saranno effettuate assieme all’Unione delle camere penali, i garanti locali e regionali dei detenuti e soprattutto i parlamentari. Un mese particolare, ma anche un anno particolarmente duro visto l’oggettivo aumento della popolazione carceraria, con vette altissime di sovraffollamento. Le carceri sono diventate così un luogo esclusivamente di pena, allontanandosi dalla funzione dettata dalla costituzione italiana secondo il quale le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità. Non a caso l’articolo 27 parla al plurale, senza nominare la parola carcere. Sì, perché teoricamente il carcere non è l’unico luogo per poter scontare la pena, ma dovrebbe essere l’extrema ratio. Un orientamento condiviso anche dagli organi sovranazionali che si occupano dei diritti umani. Ma il contesto storico politico attuale, con la retorica della cosiddetta “certezza della pena”, favorisce l’idea carcerocentrica della società. Eppure la questione sollevata dal Partito Radicale è la certezza del diritto. Questione messa di nuovo al centro dell’attenzione con le visite di ferragosto. “Finora hanno aderito quasi 300 persone - spiega a Il Dubbio, Irene Testa, la tesoriera del Partito Radicale -, numero significativo nonostante il periodo estivo". La tesoriera, la quale è tra gli organizzatori della mobilitazione, sottolinea il fatto che alle visite hanno partecipato un numero significativo di avvocati. “Importante la loro presenza, perché tanti detenuti hanno molte domande da fare e gli avvocati hanno la possibilità di potergli rispondere". Irene Testa spiega che, finora, le visite riguardano quasi tutte le regioni d’Italia e in alcune la copertura è enorme. Basti pensare infatti che nella sola Campania sono nove gli istituti penitenziari che saranno visitati. Il Partito Radicale ha invitato, tramite una lettera, tutti i parlamentari ad aderire alla visita. “Nonostante la crisi di governo attuale, dove i pensieri dei parlamentari sono ovviamente rivolti altrove - spiega sempre Irene Testa - un buon numero ha risposto affermativamente. L’adesione è trasversale, compreso alcuni deputati della Lega. Ma devo far notare - sottolinea la radicale -, che almeno finora i parlamentari del movimento cinque stelle non sono pervenuti". Ma perché è così importante la presenza dei parlamentari? “È fondamentalissima - spiega Irene Testa - perché sono loro che hanno la possibilità di portare in parlamento la questione penitenziaria tramite interrogazioni parlamentari e proposte di legge". La tesoriera racconta come nel passato, grazie alle visite di ferragosto, diversi parlamentari hanno potuto toccare con mano il disagio nel quale riversano i detenuti. “Tanti che avevano idee opposte alle nostre - osserva sempre la radicale - alla fine hanno acquisito comunque una sensibilità al tema che prima non avevano". Non è una passerella, ci tiene a specificare Irene Testa. “Si va in carcere innanzitutto per far vedere ai parlamentari come vivono i detenuti, perché un conto è sentirlo dire, altro è vedere con i propri occhi. Così come è significativa la partecipazione nel periodo estivo dove i detenuti sono ancora più soli e il ponte con il mondo esterno è quasi del tutto assente". Nell’occasione, Rita Bernardini, membra storica del Partito Radicale, ha preparato dei vademecum per indicare delle linee guida su come si effettuano le visite alle carceri, comprese le domande da fare ai detenuti e in quali sezioni recarsi. La crisi di governo blocca la riforma della giustizia di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 10 agosto 2019 Sembrerebbe destinata a rimanere nel libro dei sogni la riforma della giustizia fortemente voluta da Alfonso Bonafede. Dopo mesi di accese discussioni, la settimana scorsa il testo era approdato finalmente in Consiglio dei ministri. Approdato e però subito stroncato da Matteo Salvini. “Si sono fatti fregare...", disse il vice premier a proposito dei 5 stelle che si sarebbero fatti “scodellare un testo da gattopardi, che non cambia nulla, scritto dai magistrati del Ministero". Un riferimento soprattutto al capo dell’ufficio legislativo di via Arenula, Mauro Vitiello, toga di Magistratura democratica, che avrebbe cassato molti dei desiderata leghisti. Fra i magistrati di sinistra e Salvini non è mai corso buon sangue. Anzi. Non si contano i duri comunicati di Md e di Areadg, il cartello delle toghe progressiste, contro le politiche sulla sicurezza del ministro dell’Interno. Legittima difesa, lotta alle Ong, contrasto dell’immigrazione, eliminazione del rito abbreviato per i reati puniti con l’ergastolo, sono tanti i temi che hanno acceso in questi mesi lo scontro. Oltre alle polemiche verbali contro i giudizi non “graditi” di singoli magistrati. Come quelli dell’ex procuratore di Torino, Armado Spataro, contrario alla chiusura dei porti. “Si candidi e si faccia eleggere”, fu la secca risposta di Salvini. Tornando, comunque, alla maxi riforma della giustizia voluta dal Guardasigilli, al leader della Lega non è mai piaciuto l’approccio di fondo da parte dei pentastellati. Troppo “schiacciato” sui magistrati. Se la parte riguardante il processo civile poteva anche passare, il penale si è trasformato nella tomba del contratto di governo sulla giustizia. “La riforma della giustizia di Bonafede è acqua", dichiarò Salvini una volta letto il testo definitivo, sottolineando come non ci fosse “veramente uno scatto in avanti, quella differenza che gli italiani si aspettano". “C’è un progetto della Lega - aggiunse - che prevede che un processo possa durare tre anni e sei mesi, quasi la metà di quello che avviene oggi. Questa riforma non prevede interventi incisivi, non si parla di separazione delle carriere, delle assunzioni dei magistrati, dei criteri dei concorsi, delle promozioni". Per il capo del Carroccio, “non si interviene sulle attenuanti generiche, sulla sospensione condizionale della pena, ci sono spacciatori o stupratori che vengono condannati sulla carta, ma con la sospensione condizionale della pena fanno 24 ore di galera e poi tornano a spacciare e a stuprare. Non si tocca il tema intercettazioni, si lascia totale discrezionalità alle diverse procure su cosa indagare o non indagare. Non si separano i Csm". Insomma, una bocciatura su tutta la linea. Eppure va dato atto a Bonafede di averci provato seriamente, elaborando un testo dopo una lunga interlocuzione con tutti gli attori del processo e la comunità dei giuristi. Un compito immane in un Paese dove la giustizia è da sempre materia divisiva è strumento per regolare i conti. Da un esponente del M5s non si poteva pretendere una sensibilità “berlusconiana” sul punto: nessun attacco a testa bassa dei magistrati, soprattutto di quelli che per Salvini fanno “politica”. Alla fine, però, la riforma del Guardasigilli scontentava un po’ tutti: i magistrati prevedendo il sorteggio per l’elezione dei componenti togati del Csm, gli avvocati non toccando l’unicità della giurisdizione. Quindi non proprio una riforma “filo magistrati”. Con la fine della legislatura si arenano anche i progetti di modifica della giustizia tributaria. E finisce in soffitta anche la separazione delle carriere, la cui discussione era in calendario alla riapertura della Camera, il 9 settembre. 72mila erano state le firme raccolte al riguardo dalle Camere penali lo scorso anno. A chi prenderà il testimone di Bonafede il compito di riprovarci. Tutti i danni creati alla giustizia italiana dal governo populista di Ermes Antonucci Il Foglio, 10 agosto 2019 Riforme mancate, fallimenti e una serie di obbrobri populisti e forcaioli. È questo il bilancio sconfortante dei risultati ottenuti in materia di giustizia dal governo a guida Lega-Movimento 5 Stelle nel corso della legislatura. Un disastro di cui occorre prendere atto ora che la crisi di governo è stata ufficializzata, partendo dalle tante occasioni mancate di una maggioranza che per mesi ha propagandato il “cambiamento”. Nulla è stato fatto per limitare il circo mediatico-giudiziario e il fenomeno, indegno di un paese civile, della pubblicazione sui giornali delle intercettazioni penalmente irrilevanti, dopo che la riforma varata in precedenza dal ministro Orlando è stata di fatto cancellata. Nulla è stato fatto per superare le commistioni tra pm e giudici separando le loro carriere, come suggerito dalla proposta di legge costituzionale di iniziativa popolare depositata in Parlamento dall’Unione Camere Penali Italiane, che ha ottenuto oltre settantamila adesioni. Nulla è stato fatto per affrontare il tenia dell’obbligatorietà dell’azione penale, principio costituzionale sostanzialmente violato ogni giorno (nel silenzio) dai pubblici ministeri, a vantaggio di una loro incontrollata discrezionalità. Nulla è stato fatto per migliorare la vita dei 60 mila detenuti ammassati nelle carceri italiane (i posti disponibili sono 50 mila) e con poche possibilità di seguire un percorso di reinserimento sociale, dopo che il governo gialloverde ha neutralizzato la riforma dell’ordinamento penitenziario varata da Gentiloni. Nulla è stato fatto per riformare il funzionamento del Consiglio superiore della magistratura, persino dopo lo scandalo sulle nomine, se si escludono gli interventi che erano stati ipotizzati (tra cui un meccanismo, probabilmente incostituzionale, di sorteggio dei componenti) e che ora resteranno lettera morta. Ma, soprattutto, nulla è stato fatto per migliorare e velocizzare un sistema giudiziario inefficiente e tra i più lenti d’Europa, che costringe gli imputati a subire per anni una gogna giudiziaria e che scoraggia gli investimenti nel nostro paese. Su entrambi i fronti, la riforma del processo civile e quella del processo penale, il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede era soltanto riuscito a immaginare un pannicello caldo, fatto di misure timide e aleatorie (come l’indicazione dei termini massimi di svolgimento delle indagini e dei processi, facilmente aggirabili dai magistrati). Persino questi cauti interventi, su cui dieci giorni fa si era consumata l’ennesima frattura tra Lega e M5s, resteranno irrealizzati, col risultato che i tempi della giustizia in Italia continueranno a essere biblici, o anche peggio. E qui arriviamo alle cose fatte dal governo gialloverde. La principale riforma giudiziaria approvata dalla maggioranza penta-leghista, infatti, è l’abolizione della prescrizione dopo una sentenza di primo grado. Una riforma inutile, visto che oltre il 70 per cento dei procedimenti penali finisce in prescrizione al termine delle indagini preliminari, ma anche dannosa e anticostituzionale, perché renderà i processi eterni dopo una sentenza di primo grado, persino in caso di assoluzione. Una vera “bomba nucleare”, come la definì il ministro Bongiorno (prima che la Lega decidesse di votare comunque a favore), pronta a esplodere il 1 gennaio 2020, data della sua entrata in vigore. Restano poi le tante riforme “spot” approvate nel corso della legislatura con identico intento populista e giustizialista: la legge anticorruzione (cosiddetta “spazza-corrotti”) che ha introdotto pene più alte, più carcere, più uso di trojan e l’agente sotto copertura; la legge sul voto di scambio, che ha reso ancora più evanescente questo reato, prevedendo una pena persino più alta di quella per l’associazione mafiosa; i decreti sicurezza che mirano a gestire il fenomeno migratorio con una serie di misure punitive (alcune delle quali palesemente incostituzionali e già bocciate dal presidente della Repubblica); la riforma della legittima difesa; l’abolizione del rito abbreviato per i casi in cui è previsto l’ergastolo; il Codice rosso per il contrasto alla violenza contro le donne, in cui non c’è spazio per la prevenzione ma solo per la repressione. Un lascito pesante, che contribuirà a imbarbarire ancora di più la giustizia italiana. La promulgazione con riserva di Mattarella sul decreto sicurezza parla ai giudici di Gaetano Azzariti Il Manifesto, 10 agosto 2019 Quando si dovranno applicare le norme si dovranno valutare i comportamenti e valutare gli obblighi internazionali imposti al nostro Paese. I veri destinatari della lettera di Mattarella sul decreto sicurezza sono i giudici, non il Governo o il Parlamento, cui pure è formalmente indirizzata. Nessuno, infatti, può credere che l’attuale esecutivo in crisi ovvero le Camere alla vigilia di un assai probabile loro scioglimento possano adeguatamente rispondere ai puntuali rilievi del Capo dello Stato. Da questa prevedibile sordità dei soggetti istituzionalmente preposti a recepire i rilievi del Presidente della Repubblica qualcuno ha dedotto l’inutilità della “promulgazione con riserva", ritenendo magari che il dissenso dovesse portare al rifiuto di firma e al rinvio della legge alle Camere, così come previsto dall’articolo 74 Costituzione. Apparentemente più rigorosa, questa via sarebbe stata assai più rischiosa e controproducente. Rischiosa perché avrebbe potuto aprire un conflitto istituzionale ad alto tasso di politicità in una fase particolare della vita del Paese: alla viglia di una crisi di governo ove il ruolo del capo dello Stato diventa centrale e la sua “indipendenza" di giudizio non può essere messa in discussione da nessuno dei suoi prossimi interlocutori, tra cui, ovviamente, rientrano i fautori del decreto sicurezza. Ma il rinvio della legge alle Camere si sarebbe potuto rivelare anche dannoso permettendo a quest’ultime di riapprovare il testo. Ipotesi tanto più probabile quanto più si avvicinano le elezioni, e le consequenziali esuberanze propagandistiche che rendono ancor più incontrollabile le pulsioni sicuritarie dell’attuale (ex) maggioranza. Una riapprovazione della legge - ricordo - avrebbe comportato l’obbligo di promulgazione da parte del Capo dello Stato, senza possibilità di ulteriori riserve, e con un grave smacco della sua autorevolezza. Volendo ottenere qualche risultato concreto nel breve periodo e proponendosi di attenuare la portata più odiosa e incostituzionale della normativa approvata dal Parlamento la via della lettera di dissenso trova una sua logica. Ci si intenda: non spetta al Capo dello Stato fare le leggi e, dunque, i suoi rilievi operano - come è puntualizzato nella lettera - “al di là delle valutazioni di merito delle norme". Il perfido impianto che contrassegna le politiche migratorie, la cultura poliziesca che caratterizza le disposizioni in materia di libertà di manifestare non sono messi in discussione. Solo un’opposizione politica agguerrita e consapevole del proprio ruolo nella fase attuale potrebbe farlo, sviluppando un più acceso scontro culturale e sociale nel Paese. Il Presidente della Repubblica è garante esclusivamente della superiore legalità costituzionale, che è necessario garantire sempre, nei confronti di qualsiasi maggioranza politica e il cui rispetto deve essere assicurato da tutti e in ogni caso. I circoscritti rilievi di Mattarella si concentrano su questi aspetti, rilevando la sproporzione (prosaicamente potrebbe tradursi: la follia vendicativa) delle sanzioni amministrative se confrontate con i comportamenti di chi opera i salvataggi in mare. Ma vi è un ulteriore rilievo che va a rafforzare il carattere irragionevole - dunque incostituzionale - di una misura introdotta al fine di ostacolare le navi delle ong: le norme internazionali cui il nostro Paese ha obbligo di conformarsi impongono il salvataggio di chiunque sia trovato in mare in condizioni di pericolo (Convenzione di Montego Bay). La conclusione, da un punto di vista giuridico, non può essere che una sola. Quando si dovranno applicare le norme si dovranno valutare i comportamenti e valutare gli obblighi internazionali imposti al nostro Paese. Se ci si attenesse ai criteri autorevolmente enunciati dal capo dello Stato, non potendosi applicare quelle sanzioni sproporzionate e irragionevoli introdotte nel nostro ordinamento, ben pochi divieti di ingresso, transito e sosta di navi nel mare territoriale disposti dal ministro dell’interno, come pure ben poche sanzioni amministrative e i sequestri cautelari predisposti dai prefetti reggerebbero al confronto in un’aula di giustizia. I casi Carola Rackete si moltiplicherebbero, e la normativa antimigratoria troverebbe nelle aule dei tribunali quell’argine che la politica non ha saputo fornire. Anche il secondo rilievo presidenziale potrebbe avere rilevanti conseguenze sul piano processuale. La furia autoritaria, nonché la volontà di limitare la libertà di manifestare contenuta nelle norme ha travolto ogni distinzione nel caso di resistenza, violenza o minaccia nei confronti dei pubblici ufficiali. “Tale scelta legislativa - scrive a chiare lettere il Presidente - impedisce al giudice di valutare la concreta offensività delle condotte poste in essere", rendendo irragionevole la norma ora introdotta. Un chiaro invito ai giudici a sollevare la questione dinanzi alla Corte costituzionale per far dichiarare l’incostituzionalità delle norme sottoposte a così stringenti critiche giuridico-formali. Nel nostro Paese vige la divisione dei poteri (qualcuno se ne scorda, noi no), pertanto saranno i giudici, nella loro autonomia, ad interpretare le leggi, nonché a valutare le opinioni autorevolmente espresse dal capo dello Stato in proposito. Non è dunque detto che finisca come indicato, ma almeno possiamo sperarlo. Gli argomenti utilizzati nella lettera presidenziale mi sembra possano favorire quest’esito. Alcuni precedenti - si pensi alla fine fatta fare al divieto d’iscrizione all’anagrafe per gli stranieri, ovvero alla recentissima sentenza n. 195 del 2019 della Consulta - sono indicativi. Prima di terminare non voglio però nascondere qual è la maggiore debolezza di quanto sin qui argomentato dal punto di vista giuridico e costituzionale. Credo che nessuna azione dei garanti (capo dello Stato, giudici, Corte costituzionale) possa supplire all’assenza della politica. In questa fase di afasia delle opposizioni, di confusione e caos del pensiero critico, di soggezione della società alle egemonie di una destra aggressiva e pericolosa dobbiamo confidare sulle garanzie prestate dallo stato costituzionale di diritto, ma fino a quando? Violenza domestica. In vigore il Codice rosso, rafforzate le misure contro i delitti sessuali di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 10 agosto 2019 Possibile contestare il revenge porn, la diffusione di immagini o video sessualmente espliciti senza il consenso della persona interessata. Ma anche corsia preferenziale e accelerata per l’ascolto delle vittime di maltrattamenti famiglia, stalking, violenza sessuale. È in vigore da poche ore il Codice rosso, la legge n. 69 del 2019, con la quale, attraverso norme sia sostanziali sia procedurali, si punta a rafforzare la protezione per chi è colpito da una serie di reati genericamente catalogati alla voce violenza domestica e di genere. E già le Procure, da Genova.a Brescia, si sono attrezzate, con circolari dedicate, per fronteggiare le più impegnative tra le novità, in primo luogo quella che impone di sentire entro tre giorni la persona offesa oppure quella che ha presentato la denuncia. Ma la stessa attività d’indagine dovrà procedere in maniera assolutamente informale e veloce: è infatti previsto che la polizia giudiziaria non appena ha acquisito la notizia di reato la riferisca immediatamente anche in forma orale al pubblico ministero e che gli atti investigativi delegati dallo stesso pm avvengano “senza indugio". Ma le norme appena diventate operative introducono anche nuovi reati in un sistema penale già abbastanza complesso, sanzionandoli in maniera assai severa. Il revenge porn è punito con la reclusione da l a 6 anni e la multa da 5mila a 15mila euro; la pena si applica anche a chi, avendo ricevuto o comunque acquisito le immagini o i video, li diffonde a sua volta per provocare un danno agli interessati. La fattispecie è aggravata se i fatti sono commessi nell’ambito di una relazione affettiva, anche cessata, o con l’impiego di strumenti informatici. Previsto poi il reato di deformazione dell’aspetto della persona mediante lesioni permanenti al viso, sanzionato con la reclusione da 8 a 14 anni. Quando, per effetto del delitto, sì provocala morte della vittima allora la pena è l’ergastolo. Inedite anche le misure contro le “spose bambine”, con il reato di costrizione o induzione al matrimonio, punito con la reclusione da i a 5 anni. Infine, il reato di violazione dei provvedimenti di allontanamento dalla casa familiare e del divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa, utilizzando anche strumenti come il braccialetto elettronico, colpito con la detenzione da 6 mesi a 3 anni. Tra gli altri interventi, l’aumento delle sanzioni per lo stalking e la violenza sessuale, estendendo, quanto a quest’ultima, il termine concesso alla persona offesa per sporgere querela (dagli attuali sei mesi a 12 mesi). Il provvedimento, inoltre, ridefinisce e inasprisce le aggravanti quando la violenza sessuale è commessa in danno di minore. Il delitto di atti sessuali con minorenne vede inserita così un’aggravante (pena aumentata fino a un terzo) quando gli atti sono commessi con minori ditti. anni in cambio di denaro odi qualsiasi altra utilità, anche solo promessi. Nell’omicidio aggravato da relazioni personali, si allarga il campo di applicazione delle aggravanti comprendendo anche le relazioni personali. Umbria: dichiarazione intenti Prap-Regione per salute detenuti di Marco Belli gnewsonline.it, 10 agosto 2019 Il provveditore regionale dell’Amministrazione Penitenziaria Toscana-Umbria, Antonio Fullone, e l’assessore alla Salute della Regione Umbria, Antonio Bartolini, hanno sottoscritto una dichiarazione di intenti che rende esecutiva la Deliberazione di Giunta Regionale n. 1447 del 10 dicembre 2018, riguardante le dipendenze, la salute mentale e la prevenzione dei suicidi, problematiche particolarmente avvertite negli istituti penitenziari. L’approvazione di tali documenti, di importanza strategica per la salute in carcere dei detenuti, è stata preceduta da una proficua e costante condivisione, nell’ambito delle sedute dell’Osservatorio Regionale di sanità penitenziaria, tra il competente personale della Regione Umbria e del Prap Toscana-Umbria. Successivamente, con la Deliberazione di Giunta Regionale n. 207 del 25 febbraio 2019, la Regione Umbria ha modificato e integrato l’Osservatorio Permanente sulla Sanità Penitenziaria, istituendo all’interno dello stesso un Tavolo di governance. L’obiettivo è quello di definire annualmente un piano operativo contenente gli indirizzi istituzionali ritenuti strategici ai fini della tutela della salute dei detenuti e delle persone sottoposte a provvedimenti penali, delegandone quindi la concreta programmazione, l’attivazione degli interventi necessari, il monitoraggio dell’attuazione e la valutazione dei risultati a un tavolo operativo. Bari: quel detenuto morto a giugno e mai sepolto di Giovanni Longo Gazzetta del Mezzogiorno, 10 agosto 2019 Uno zio ottantenne del defunto ha presentato denuncia e fatto aprire un’inchiesta alla Procura. Sabino Di Fronzo, 61 anni, di Triggiano, detenuto nel carcere di Bari fu trasferito il 20 aprile nel Policlinico. Due mesi dopo, il decesso. C’è un cadavere nell’istituto di Medicina Legale che da oltre un mese e mezzo attende degna sepoltura. L’Autorità giudiziaria ha bloccato il rilascio della salma, ma non ha ancora disposto l’autopsia. La conseguenza è che il corpo senza vita di Sabino Di Fronzo, 61 anni, di Triggiano, detenuto nel carcere di Bari e poi trasferito nel Policlinico, si trova in un macabro limbo sul quale l’unico suo parente vuole fare luce. A chiedere che venga acceso un faro sul decesso dell’uomo, è infatti uno zio materno che, assistito dall’avvocato Domenico Griseta, ha presentato un esposto al posto della Polizia di Stato all’interno del nosocomio barese. Un fascicolo è stato aperto dalla magistratura barese. Al momento, a quanto pare, è a carico di ignoti. Il pm Ignazio Abbadessa sta indagando. Per capire questa strana storia occorre riavvolgere il nastro a qualche mese fa. Proviamo a ricostruirla. Di Fronzo, detenuto nel carcere di Bari, non aveva parenti ed era praticamente solo al mondo. Unica eccezione, un anziano zio materno, 81 anni, barese che a un certo punto, inizia a informarsi sul nipote con il quale aveva sporadici contatti. Vuole sapere che fine avesse fatto quel suo parente che nella vita certamente aveva sbagliato tanto da finire in galera, ma che, anzi, forse proprio per questo, aveva bisogno di aiuto, di calore umano. Lo zio sapeva solo che il nipote era in cella, ma non in quale istituto di pena. L’8lenen certo non si dà per vinto. Si rivolge al suo avvocato il quale a sua volta si attiva subito per aiutarlo a fare le ricerche. È così che viene a sapere del decesso. “Ma come? - avrà subito pensato l’anziano zio -. Mi nipote muore e io non ne so niente? Come è possibile avere scoperto la triste circostanza solo casualmente?". L’anziano signore ne fa una questione di principio. Che si vada sino in fondo. Stando all’esposto che ha dato il via all’inchiesta, scopre che Di Fronzo sino al 20 aprile scorso era detenuto nel carcere di Bari. Evidentemente a quella data non può più essere curato dietro le sbarre. Le sue condizioni di salute sono davvero gravi se la direzione e i sanitari dell’istituto di pena decidono per il trasferimento del paziente nel Policlinico di Bari. Chi sa come funziona in carcere, sa pure che è piuttosto raro. Fatto sta che Di Fronzo muore in corsia due mesi dopo, il 20 giugno. Il giorno dopo, la salma vine trasferita nell’istituto di Medicina Legale, forse solo perché l’uomo non ha parenti e non si sa cosa fare del cadavere. Da questo momento, tutto tace. Anzi, no. Perché il pm titolare del fascicolo ha disposto il sequestro delle cartelle cliniche in ospedale, il sequestro del diario clinico in carcere e ha delegato la Polizia di Stato a sentire a sommarie informazioni l’anziano zio della vittima che con il suo esposto ha dato il via agli accertamenti. Verifiche che, al momento, non contemplano l’autopsia. Così Di Fronzo resta nel limbo. Da un mese e mezzo il suo corpo senza vita giace in una cella frigorifera di Medicina Legale. Buia. E fredda. Firenze: “Ferragosto a Sollicciano”, ottima notizia ipotesi visita Sindaco Nardella gonews.it, 10 agosto 2019 Dichiarazione di Massimo Lensi, Associazione Progetto Firenze. Mi è giunta notizia che il sindaco di Firenze, Dario Nardella, potrebbe visitare il carcere di Sollicciano a Ferragosto, nella stessa data in cui si terrà la visita ispettiva di una delegazione composta da attivisti dell’associazione Progetto Firenze, esponenti della Camera Penale e consiglieri comunali del gruppo Sinistra Progetto Comune. La nostra visita, del cui coordinamento ho la responsabilità, rientra nel progetto nazionale “Ferragosto in carcere” del Partito Radicale il cui obiettivo è aprire un ponte di relazione e informazione con il più alto numero possibile di istituti penitenziari italiani. A prender parte al progetto sono stati per questo invitati parlamentari, consiglieri regionali e rappresentanti delle istituzioni, che avranno così la possibilità di verificare coi propri occhi lo stato di illegalità delle nostre carceri. Se la visita del Sindaco sarà confermata, oltre ad esprimergli di persona il mio personale apprezzamento per la scelta non rituale di passare il Ferragosto nel carcere di Sollicciano, sarò felice di poterlo invitare a percorrere con noi l’istituto fiorentino in una visita “cella per cella”. Andremo nei reparti maschili e femminili del giudiziario e del penale e nelle sezioni speciali: l’articolazione per la tutela della salute mentale, l’isolamento, il nido interno, la sezione protetta e i reparti sanitari. La nostra sarà, infatti, come sempre una visita lunga e approfondita per avere un’idea d’insieme delle condizioni di vita della popolazione ristretta e di lavoro degli agenti del corpo di Polizia Penitenziaria. Perché a subire sulla propria pelle lo stato di abbandono in cui versano le carceri sono sia i detenuti sia i detenenti, come sempre ricordava Marco Pannella. Mi auguro davvero che il Sindaco voglia accettare il nostro invito, dando così un segnale importante in un momento molto particolare della vita politica e istituzionale del nostro Paese. Santa Maria Capua Vetere (Ce): “il mio uomo picchiato in carcere" di Laura Naimoli Il Mattino, 10 agosto 2019 L’appello della compagna: aiutatelo. “Vi prego, aiutate il mio compagno massacrato di botte, in carcere". È l’appello di una donna, preoccupata per le condizioni del padre di suo figlio, il trentenne ebolitano Mauro C., detenuto fino a due giorni fa nella casa circondariale di Santa Maria Capua Vetere, in provincia di Caserta ma trasferito ieri sera, nel carcere di Secondigliano. Il debito di Mauro con la giustizia è consistente e, senza tener conto di eventuali sconti di pena, dovrebbe ritornare in libertà nel 2024. Secondo la compagna, Roberta Somma, che ha sporto denuncia ai carabinieri di Eboli, Mauro si trova costantemente in pericolo di vita. Tratto in arresto e portato nel carcere di Fuorni nell’agosto del 2018, Mauro è stato trasferito in diversi istituti circondariali della Regione fino a Santa Maria Capua Vetere. Qui sono iniziate le forti preoccupazioni della famiglia. Tra la provincia di Salerno e quella di Caserta scoppia il caso su un detenuto del carcere di Santa Maria Capua Vetere, originario di Eboli, il quale sarebbe stato picchiato. Negli ultimi giorni è arrivato l’appello disperato della compagna per chiudere un aiuto. La donna è visibilmente preoccupata per le condizioni del padre di suo figlio. Si tratta di Mauro C., il quale è stato rinchiuso fino a due giorni fa presso la casa circondariale sita nel casertano. Ieri sera però è stato trasferito nel carcere di Secondigliano. L’uomo deve scontare una pena importante, tale da riportarlo in libertà entro il 2024. Roberta Somma (questo il nome della compagna) ha sporto denuncia presso il comando dei carabinieri di Eboli, sottolineando il fatto che Mauro sia continuamente in pericolo. Arrestato e portato nel carcere di Fuorni nel 2018, il detenuto è stato trasferito in diversi istituti circondariali della Regione fino a Santa Maria Capua Vetere, dove sarebbero iniziate i problemi. Stando ad alcune ricostruzioni, l’uomo avrebbe tentato addirittura il suicidio in due occasioni. Dopo la richiesta di trasferimento presso un altro padiglione, la compagna di Mauro avrebbe spiegato ai militari che l’uomo sarebbe finito in isolamento senza cibo. Inoltre, sarebbe stato picchiato da circa 15 esponenti della Polizia Penitenziaria. Proprio dopo questi episodi, Mauro C. ha chiesto a Roberta di denunciare tutto ai carabinieri, temendo seriamente per la propria incolumità. Milano: Majorino (Pd) “non fate di via Corelli un nuovo carcere” di Zita Dazzi La Repubblica, 10 agosto 2019 La struttura diventerà un centro per il rimpatrio dei migranti. “Decisione insensata, potrebbe ospitare trecento clochard”. Stanno mettendo le sbarre alle finestre e alzando i sistemi anti evasione, nell’ex Cas (Centro di accoglienza straordinario) di via Corelli. Fervono i lavori chiesti dal ministro degli Interni Matteo Salvini al ministero della Difesa, che li ha commissionati al genio dell’Aeronautica militare, in quello che diventerà il nuovo Cpr, il primo Centro di permanenza e rimpatrio della Lombardia. Ad inaugurarlo verrà sicuramente in autunno il vicepremier, forse per una tappa importante della sua campagna elettorale, ora che c’è la crisi di governo e il ritorno alle urne in vista. Ieri l’europarlamentare Pd Pierfrancesco Majorino ha visitato il cantiere aperto in attesa che la prefettura completi le procedure del bando che assegnerà la gestione della struttura al miglior offerente. Dietro al muro invalicabile, su un giardino adesso ancora spoglio, si affacciano quelle che saranno le celle dei 140 migranti in attesa di espulsione dall’Italia. Dentro ai padiglioni c’è poco da vedere. Sono stati sgomberati da tutti gli arredi che c’erano fino a dicembre, quando il Cas è stato chiuso e i suoi 300 ospiti in parte allontanati, in parte ricollocati altrove. Vuote le camerate, mentre gli operai montano le inferriate alle finestre. Vuota la mensa, vuota la sala comune, vuota l’infermeria. Gli spazi che verranno arredati con materiali e mobilio adatti a un carcere, si affacciano su un lungo corridoio di cemento illuminato al neon, che Majorino percorre scortato da tecnici e addetti della prefettura. Le sale dove lino a qualche mese fa entravano i volontari dell’associazione No Walls per fare scuola di italiano ai rifugiati, sono orbite vuote di parole e di colori. Presto arriveranno i letti a castello e gli armadietti, modello San Vittore. “La mia valutazione è che si tratta di un intervento insensato, di fatto stanno creando un carcere per immigrati, il primo del nord Italia - dice l’europarlamentare, che è stato assessore alle Politiche sociali sia nella giunta Pisapia, sia in quella di Beppe Sala. Noi avevamo chiesto e ottenuto dal governo Letta che via Corelli potesse ospitare i richiedenti asilo: oggi si vuole tornare indietro. Proprio quando invece ci sarebbe tanto bisogno di utilizzare questi spazi per le persone senza dimora, italiani e stranieri: ci potrebbero abitare 300 persone". Majorino cerca di farsi spiegare come funzionerà il Cpr, ma chi è oggi sul cantiere sa poco o niente perché ancora non è noto il nome del gestore, né sono chiari i tempi di permanenza per chi dovrà essere identificato e rimandato al suo Paese. Quando c’era il Cie - ai tempi governo Bossi-Fini -via Corelli diventò tristemente nota per gli abusi commessi e per la disperazione di chi vi era recluso, nell’impossibilità di avere notizie sulla propria sorte futura. “Questa città ha ospitato dal 2013 ad oggi 128 mila profughi, dimostrando grande capacità di accoglienza - aggiunge Majorino. Non ci sono mai stati problemi di ordine pubblico, né rivolte come quella che stava per scoppiare nel vicino Cas di via Aquila, proprio per la tensione che comincia a serpeggiare fra i migranti preoccupati per il proprio futuro". Intanto Caritas Ambrosiana segnala che sono stati ricollocati i primi 21 migranti esclusi dall’accoglienza per effetto del Decreto sicurezza ospiti nei centri prefettizi gestiti a Milano dalla cooperativa Farsi Prossimo. Si tratta di donne sole con bambini e famiglie, tutte con permesso di soggiorno per motivi umanitari. Potranno proseguire i percorsi di integrazione negli appartamenti delle parrocchie e degli istituiti religiosi che costituiscono la rete di accoglienza diffusa della diocesi di Milano. Per la fine dell’anno saranno 200 le persone accolte dalla chiesa dopo esser state lasciate per strada dallo Stato. Biella: i detenuti diventano sarti di Antonella Mariani Avvenire, 10 agosto 2019 Cuciranno 7mila divise ogni anno - giacche, pantaloni e gonne - per gli uomini e le donne della polizia penitenziaria. E lo faranno dal carcere in cui stanno scontando la loro pena. Accade a Biella, dove in un capannone della casa circondariale è stata allestita una sartoria industriale che a regime darà lavoro a 70 detenuti. Da diversi mesi, a gruppi di dieci, gli aspiranti sarti stanno seguendo i corsi di formazione, mentre i macchinari, ceduti in comodato d’uso dalla Ermenegildo Zegna Holditalia spa, saranno collaudati entro il mese di agosto. Poi si partirà con la produzione: kit di uniformi da uomo (una giacca e due pantaloni) e da donna (una giacca, un pantalone e una gonna). Il carcere di Biella ospita 440 detenuti e quello della sartoria è considerato un progetto pilota; soprattutto per il numero di persone coinvolte e la spendibilità del diploma una volta scontata la pena. In Piemonte ci sono 13 carceri; solo 150 detenuti svolgono un vero lavoro retribuito. “Gli altri coinvolti in attività, 894 in tutto, sono impegnati in lavoretti domestici; 199 lavorano ma non alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria", spiega il Garante regionale dei detenuti Bruno Mellano. I sarti-detenuti avranno un regolare contratto; cucendo e tagliando, si preparano a ritornare in società. Trieste: la vita oltre le sbarre svelata dai detenuti con racconti e poesie Il Piccolo, 10 agosto 2019 La rivista degli ospiti del Coroneo fa il bis e accende i riflettori sulle ombre del sistema. Uno scrigno di lettere, racconti e poesie scritti dagli ospiti dal carcere del Coroneo. C’è questo e molto altro nella seconda pubblicazione del volume “A Tu per Tu”, il progetto della Cooperativa Reset prodotto nell’ambito del laboratorio di scrittura finanziato dall’Uri Giuliana con il contributo della Regione. Un percorso curato da Pino Roveredo, coadiuvato da Lucia Vazzoler, Stefani Grimaldi e Giuliano Caputi. Seconda uscita, diverse riflessioni. La nuova pubblicazione, piuttosto agile e strutturata in una sessantina di pagine, sviluppa temi molto sentiti dai detenuti a Trieste, qui chiamati ad una narrazione nella quale si avvertono due prospettive: la voglia di riscatto dei rinchiusi e la richiesta di attenzione, rivolta all’intera società, per il mondo che si sviluppa dietro alle sbarre e tutti i suo problemi: “Non è facile abbattere i luoghi comuni legati al carcere - ha premesso Pino Roveredo nel corso della presentazione, avvenuta al Parco di San Giovanni -. Il primo era andato oltre ogni aspettativa e con questo secondo, oltre all’aspetto terapeutico della scrittura, puntiamo anche a far emergere le illegalità del sistema carcerario, la mancanza di personale e di educatori". Riscatto e desiderio di dignità appaiono quindi al primo posto, sgorgano dalle testimonianze d’inchiostro raccolte durante i laboratori e si traducono anche nelle interviste agli ospiti di turno, questa volta espressione del mondo dello sport - vedi il capitano della Pallacanestro Trieste, Daniele Cavaliero e l’ex azzurro di basket Stefano Attruia - e di quello del cinema e del teatro, rappresentato dall’attrice triestina Isabel Russinova. Il volume verrà diffuso gratuitamente nelle scuole, al Posto delle Fragole e nella sede di Radio Fragola al Parco di San Giovanni. Il prossimo numero? È in cantiere e punta ad accogliere altri contributi di peso, con interviste a personaggi del calibro come Bruno Pizzul e la cantante Elisa, e pure qualche politico. Un docu-film per “Tonino”, vittima di camorra di Mimmo Mastrangelo Avvenire, 10 agosto 2019 Prodotto anche da “Libera” racconta Antonio Esposito Ferraioli, sindacalista e scout ucciso nel 1978 a 27 anni. Sul finire degli anni settanta Pagani, come altri centri dell’agro Nocerino- Sarnese, era nella morsa della camorra. Lo Stato era debole e gli amministratori locali, il più delle volte, collusi con un sistema di violenza e soprusi. Chi provava a scardinare certi equilibri malavitosi poteva pagare con la vita. Come accadde la notte del 30 agosto 1978 ad Antonio Esposito Ferraioli, il quale, nella strada sottostante l’abitazione della fidanzata Angela, con cui si sarebbe dovuto sposare il mese successivo, venne trucidato a colpi di lupara da un commando camorristico. Tonino, come lo chiamavano tutti, aveva solo 27 anni, faceva il cuoco nella mensa della Fatme-Ericsson, una fabbrica di materiali elettrici gestita, per conto di una multinazionale, da imprenditori locali in odor di camorra. In fabbrica Tonino svolgeva attività sindacale, era tosto e per questo non era ben visto dai gestori della fabbrica, ma i suoi colleghi lo stimavano, ne apprezzavano il coraggio. Era “la voce dei loro diritti”. Anche quella volta che in cucina arrivò una partita di carne avariata il giovane cuoco e capo scout si ribellò. E pagò caramente con la vita. Come altri delitti di camorra, anche il suo è rimasto sepolto per anni nell’oblio, poi grazie alla famiglia, ad amici, sindacalisti e amministratori più sensibili si è tornati a parlare della sua tragedia. A Pagani sul delitto del sindacalista della Cgil si è sempre saputo tutto, ma ancora nessun giudice ha emesso una sentenza di condanna per mandanti ed esecutori. Solo nel 2014 il tribunale di Nocera Inferiore ha riconosciuto Esposito Ferraioli tra le vittime innocenti della criminalità organizzata. Nel frattempo alla sua memoria sono state dedicate strade, scuole, premi letterari e due produzioni cinematografiche. Dopo il docu-film Tonino Esposito Ferraioli (2002) di Michele Schiavino, è stato girato da Gaetano Del Mauro Tonino. Su scrittura di Alfonso Tramontano Guerritore, Aldo Padovano e Federico Esposito, il regista filma una sorta di ritorno tra i vivi del giovane scout e sindacalista che, interpretato da Andrea Contaldo, gira con la sua Citroen nella Pagani di oggi. Visita lo stabilimento ormai abbandonato dove lavorava, sosta in un bar, irrompe nella locale Camera del Lavoro, giunge in tribunale e si imbatte in due giudici che conversano con dei cronisti del suo caso. Questo giro tra i vivi si chiude, prima dei colpi mortali della camorra, in un’abitazione dove il fratello Mario sfoglia un plico di foto e vecchi articoli di giornali e la sorella (Anna Rita Vitolo) attaccata al telefono dice: “Non se n’è mai andato, so’ quarant’anni che sta qua". Prodotto anche col contributo di Libera Tonino filmograficamente funziona ma più di tutto Del Mauro propone allo spettatore una vicenda che è tragica e lieve. Tonino Esposito Ferraioli non è un eroe né un martire, ma sacrificò la sua vita per la legalità e i diritti. Per questo il ricordo non basta più e il suo coraggio ci chiede emulazione. Il potere sottile (e pericoloso) dei colossi del web di Daniele Manca Corriere della Sera, 10 agosto 2019 Anche Microsoft ha confermato di ascoltare alcune conversazioni,rese anonime, grazie ai servizi offerti da Skype e dall’assistente vocale Cortana. E fu la volta di Microsoft. Il gruppo ha confermato di ascoltare alcune conversazioni, rese anonime, grazie ai servizi offerti da Skype (traduzione) e dall’assistente vocale Cortana. Ascolti finalizzati a migliorare i servizi offerti, si dice. Non è un caso che a farlo siano stati anche Google, Apple e Amazon per i loro assistenti vocali. Con l’aumentare delle polemiche sulla privacy violata, sia Google sia Apple hanno recentemente sospeso la sperimentazione. Ma il punto non è questo. I colossi dell’hi-tech continuano a godere di un potere che gli esperti chiamano “conglomerale". E cioè attraverso l’offerta di servizi apparentemente gratuiti o dei quali è difficile fare a meno nell’era della tecnologia (servizi peraltro sui quali hanno di fatto un monopolio), continuano ad accumulare dati sui clienti. L’elaborazione di queste informazioni dà un vantaggio competitivo a quelli che l’Economist chiama i “Titani del web" nei confronti di qualsiasi settore decidano di aggredire. Pensate all’auto a guida autonoma, o all’ecommerce o al caso clamoroso della pubblicità. Clamoroso in quanto stanno riuscendo a drenare gran parte dei ricavi che si distribuivano su altre piattaforme. Ci sono quindi due piani ben distinti. Quello della privacy sui quali l’Europa si è mossa per prima e ha indicato la strada al mondo con il suo regolamento (Gdpr) che ha sancito un principio semplice: i dati sono di proprietà del singolo consumatore ed è lui a decidere l’utilizzo che se ne può fare. Principio non facile da far rispettare ma siamo all’inizio. L’altro piano è il contrasto alle politiche anti competitive dei colossi hi-tech. Le multe possono essere utili ma non così efficaci per compagnie tanto ricche. Il tema vero resta: come ripristinare autentiche condizioni di competizione e mercato in questi settori. E la risposta non è facile. Migranti. Respinto il ricorso del Viminale contro la residenza per i richiedenti asilo Il Manifesto, 10 agosto 2019 La decisione del tribunale di Bologna. Il ministero dell’Interno si era opposto a una decisione dei giudici che contraddiceva quanto previsto dal primo decreto sicurezza. Il ministero dell’Interno non è parte in causa né può sostituirsi al Comune di Bologna che ha deciso di non presentare ricorso contro l’ordinanza con cui, lo scorso mese di maggio, il tribunale del capoluogo emiliano ha ordinato l’iscrizione all’anagrafe cittadina di due richiedenti asilo. A stabilirlo è stato lo stesso tribunale di Bologna che sulla base di queste considerazioni ha respinto il ricorso all’ordinanza presentato dal Viminale. Una decisione che non è piaciuta a Matteo Salvini, evidentemente allergico a ogni manifestazione di autonomia delle toghe dal potere politico. “Dai giudici di Bologna un’altra sentenza a favore degli immigrati" ha detto infatti il titolare dell’Interno, per il quale “il prossimo governo dovrà fare una vera riforma della giustizia, non viviamo in una “repubblica giudiziaria". La questione prende il via da quanto stabilito nel primo decreto sicurezza che vieta ai comuni di iscrivere all’anagrafe i richiedenti asilo. Motivo che lo scorso mese di febbraio portò il comune di Bologna a negare la residenza a un uomo e a una donna armena che, dopo essere fuggita dal Paese di origine perché si sentiva minacciata dopo la sparizione del marito e del figlio, si trovava ospite in un centro di accoglienza. I due, assistiti dagli avvocati Antonio Mumolo e Paola Pizzi dell’Associazione Avvocati di strada (la donna) e Nazarena Zorzella dell’Asgi, l’Associazione studi giuridici sull’immigrazione, presentarono istanza contro la decisione al Tribunale di Bologna che l’accolse. A determinare l’intervento del Viminale è stata la decisione del sindaco di Bologna Virginio Merola di non presentare ricorso alla decisione dei giudici. “Saluto questa sentenza con soddisfazione, il Comune la applicherà senza opporsi" fu il commento del primo cittadino che ordinò l’immediata iscrizione all’anagrafe dei due richiedenti asilo. Di segno opposto, ovviamente, la reazione di Salvini che definì la sentenza “vergognosa": “Se qualche giudice vuole fare politica e cambiare le leggi per aiutare gli immigrati, lasci il Tribunale e si candidi con la sinistra", disse il responsabile del Viminale inaugurando un leitmotiv più volte utilizzato in seguito. Rigettando il ricorso, il tribunale di Bologna ha ribadito che il Viminale non può sostituirsi a un sindaco se questi decide di non ricorrere contro al decisione dei giudici e soprattutto che nel caso in questione non è ritenuto “litisconsorte", ovvero parte in causa. “È una vittoria del diritto i tempi bui per la nostra democrazia, hanno commentato gli avvocati Mumolo e Pizzi. “Ancora una volta un tribunale afferma che anche il ministero dell’Interno è soggetto alla legge". Anche Merola si dice soddisfatto per la decisione presa dai giudici: “È un’ulteriore conferma della correttezza del mio operato quando ho deciso di applicare la sentenza che mi ordinava di iscrivere i richiedenti asilo all’anagrafe. Andiamo avanti con al serenità di chi rispetta la legge e non si arrende alla propaganda", ha detto il sindaco. Sempre a maggio una decisione analoga era stata presa dal tribunale di Firenze che aveva respinto il ricorso del Viminale contro la decisione di un giudice che aveva autorizzato l’iscrizione di un richiedente asilo somalo all’anagrafe del comune di Scandicci. Migranti. Il Garante dei detenuti: “tutelare le persone respinte alla frontiera" di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 10 agosto 2019 “Le condizioni di chi è respinto alla frontiera siano urgentemente rese compatibili con il riconoscimento e la tutela dei diritti fondamentali". Lo chiede a gran voce il Garante nazionale delle persone private della libertà tramite la pubblicazione del primo Rapporto sulle visite ai locali in uso alle Forze di Polizia presso alcuni valichi di frontiera. Le visite erano dirette a verificare le procedure e gli ambienti utilizzati per la permanenza delle persone straniere dichiarate prive del permesso di fare ingresso nel territorio italiano e pertanto respinte in forza dell’articolo 10 del decreto legislativo del 25 luglio 1998, d’ora in poi testo unico sull’immigrazione. La permanenza delle persone all’interno delle sale d’attesa presso i valichi di frontiera è configurata dal Garante nazionale come una privazione de facto della libertà personale, non disposta o convalidata dall’autorità giudiziaria e che rischia di non dare effettività alle garanzie sostanziali e procedurali. Secondo il Garante tale prassi non appare avere base legale nel nostro ordinamento. Il Garante raccomanda urgentemente l’adozione di una norma primaria che eviti tale rischio. Per questo ha inviato il Rapporto anche ai Presidenti del Senato e della Camera. Il Garante raccomanda intanto che le soluzioni predisposte per accogliere temporaneamente le persone respinte alla frontiera siano urgentemente rese compatibili con il riconoscimento e la tutela dei diritti fondamentali. Un esempio, come si evince nel rapporto, è quello che ai cittadini stranieri sono sostanzialmente reclusi nei locali degli aeroporti, con tanto di sentinella che sorveglia costantemente a vista, persone e ambienti. Nel caso dell’aeroporto di Malpensa, vi è un posto di guardia da cui la polizia sorveglia costantemente e dove, in caso di necessità, gli operatori di polizia di turno all’interno dei locali possono attivare l’intervento urgente di una squadra di supporto attraverso un sistema di allarme che invia un segnale al personale in servizio negli altri uffici di polizia del “Polo di frontiera”. Il Garante sottolinea come la destinazione funzionale di questi luoghi a luoghi di trattenimento, secondo il comitato europeo per la prevenzione sulla tortura è da equiparare alle strutture di permanenza per gli immigrati. Fra le criticità segnalate nel Rapporto, infatti, molte riguardano le condizioni materiali dei locali nei quali le persone vengono trattenute. In particolare, il Garante nazionale ha constatato nei locali visitati l’assenza di luce naturale e l’impossibilità per le persone trattenute di accedere a spazi esterni. In molti casi le persone straniere sono sistemate in brandine da campo e a volte in situazioni di promiscuità fra uomini e donne. Nell’Aeroporto di Fiumicino il Garante si è poi imbattuto in un locale di sicurezza, dotato di una parete a vetro e privo di suppellettili: al Garante è stato riferito che tale locale viene adoperato per ospitare persone pericolose o turbolente. Il Garante esprime preoccupazione per la presenza di un ambiente di questo tipo, che amplifica la sensazione di costrizione delle persone. A destare forti perplessità sono poi alcune limitazioni al diritto all’incontro con i propri avvocati. Il Garante nazionale sollecita infine il Ministero dell’Interno a dotarsi in frontiera di un servizio stabile di mediatori linguistici e interpreti, presenza che a oggi è assicurata solo saltuariamente. Migranti. Il Garante dei detenuti vuole chiarimenti sulla situazione della “Open Arms” Ristretti Orizzonti, 10 agosto 2019 Ancora un situazione di stallo di una nave che ha effettuato un attività di soccorso in mare rispetto all’individuazione del luogo di approdo. Un’impasse che ha un impatto rilevante sui diritti fondamentali delle persone soccorse, impossibilitate allo sbarco e in quanto tali impedite nella propria libertà di movimento, ed esposte al rischio di trattamenti contrari sia al senso di umanità sia alla dignità delle persone stesse. È quanto scrive il Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale all’Ammiraglio Giovanni Pettorino, Comandante Generale della Guardia Costiera Italiana, rispondendo a una richiesta di intervento avanzata dai responsabili della “Foundacion Proa (Pro-activa Open Arms)”. Il Garante nazionale rileva innanzitutto come sia alta la responsabilità dei partner europei relativamente alla situazione che si è determinata, in particolare della Spagna, essendo la nave battente bandiera spagnola, e di Malta che ha rifiutato l’approdo. Tuttavia, a parere del Garante, la situazione in atto può e deve essere vista come ambito di competenza giurisdizionale del nostro Paese, nonostante la sua presenza in acque internazionali, ma in virtù del preventivo divieto d’ingresso nelle acque nazionali notificato dalle Autorità italiane il 1° agosto. L’interdizione all’ingresso costituisce esercizio della sovranità e implica che ai migranti soccorsi e a bordo della nave debbano essere riconosciuti tutti i diritti e le garanzie (divieto di non refoulement, diritti dei minori stranieri non accompagnati, diritto di protezione internazionale, …) che spettano alle persone nei confronti delle quali l’Italia esercita la propria giurisdizione. Il Garante nazionale sottolinea la preliminare valutazione delle vulnerabilità effettuata dalla Guardia costiera italiana, in esito alla quale sarebbe stata disposta l’evacuazione di tre donne, di cui di cui due in stato di gravidanza. Una azione meritoria che comunque è indicativa di una “presa in carico” della situazione delle persone ospitate, di elementi valutativi effettuati direttamente o riconosciuti validi se effettuati dai responsabili a bordo, di conseguenti azioni: “tutto ciò determina l’assunzione di una complessiva responsabilità, che è fattore determinante per ogni accertamento delle eventuali successive azioni omesse o compiute. Una responsabilità che ne configura una forma di esercizio di giurisdizione". È a partire da tali premesse che il Garante ravvisa il duplice rischio di violazione del principio di non refoulement e del divieto di espulsioni collettive. Riguardo al principio di non refoulement, il Garante evidenzia come a seguito del divieto di ingresso in acque territoriali da parte delle Autorità italiane e dell’omologo divieto di approdo di quelle maltesi, per i migranti soccorsi è forte il rischio del loro ritorno nel luogo da cui sono partiti, la Libia (dichiarata dallo stesso Ministro degli esteri, Enzo Moavero Milanesi un porto non sicuro). Sottolinea il Garante che il divieto di ingresso può essere visto come azione di respingimento collettivo delle persone soccorse, se esercitato - come in questo caso - senza un preventivo esame delle condizioni individuali delle stesse. Tra l’altro, nel caso del secondo intervento di salvataggio operato dalla “Open Arms” lo scorso 2 agosto, risulta addirittura antecedente alla salita a bordo delle persone stesse. Su questa base il Garante nazionale ha chiesto informazioni e chiarimenti al Comandante generale. Stati Uniti. Raid in fabbrica: arrestati 680 lavoratori migranti di Marina Catucci Il Manifesto, 10 agosto 2019 In Mississippi l’inizio ufficiale delle operazioni dell’agenzia federale Ice. Gli arrestati sono per lo più latinoamericani privi di documenti, impiegati in sette aziende. Mentre Trump era a Dayton e El Paso a causa dei mass shooting razzisti, secondo molti causati dal clima d’odio e la criminalizzazione dei migranti, cifra distintiva della sua amministrazione, in Mississippi l’Ice (Immigration and Customs Enforcement, agenzia federale del Dipartimento della sicurezza interna Usa, responsabile del controllo delle frontiere e dell’immigrazione), ha arrestato 680 immigrati privi di documenti, nel più grande giro di vite sull’immigrazione mai effettuata da un singolo Stato. Gli arrestati sono per la maggior parte lavoratori latinoamericani sprovvisti di documenti e impiegati in sette impianti di trasformazione alimentare. Lindsay Williams, portavoce dell’agenzia, ha dichiarato che gli agenti federali hanno eseguito i mandati in collaborazione con la procura degli Stati uniti per il distretto meridionale del Mississippi. Mike Hurst, un procuratore di quel distretto, ha dichiarato: “Devono rispettare le nostre leggi, devono venire qui legalmente o non venire affatto". Una lavoratrice della Koch Foods intervistata dalla stazione tv locale Wapt ha raccontato che gli agenti sono entrati nell’edificio e hanno ordinato ai dipendenti di mettersi in fila e uscire: “Questi sono tutti i nostri lavoratori, è metà dell’impianto! Ora è un disastro, dobbiamo pensare ai bambini e a tutto. Chi si prenderà cura dei loro figli?". Fotografie e video postati sui social media mostrano gruppi di persone che salutano con la mano mentre gli autobus si allontanavano, altri si asciugano le lacrime o sono aggrappati a un cancello fuori dalle fabbriche mentre guardano gli agenti eseguire l’operazione; ci sono uomini e donne che camminano con le mani legate dietro la schiena mentre altri sono seduti sull’erba o vicino a grandi silos bianchi nella proprietà dell’azienda. “Siamo tornati ufficialmente all’era dei raid nei posti di lavoro - ha affermato Ali Noorani, direttore esecutivo del National Immigration Forum - Il risultato è che i lavoratori immigrati vengono spinti ancora di più nel buio dell’illegalità, le famiglie vengono separate e le economie locali decimate. Gli operai americani e le loro famiglie perdono i vicini, i compagni di lavoro, di chiesa, gli amici". L’associazione legale per la difesa dei diritti civili, Aclu, ha immediatamente scritto su Twitter: “I funzionari locali hanno il potere di rifiutare di obbedire all’Ice. Noi abbiamo il potere di non dare loro un momento di pace finché non lo faranno".