Gli obblighi anche penali degli eletti di Ugo De Siervo La Stampa, 9 settembre 2018 Appare davvero imperdonabile la sceneggiata di Salvini, ministro dell’Interno, dinanzi alla comunicazione che la magistratura ha trasmesso al Tribunale dei ministri competente l’indagine sulla sua eventuale responsabilità penale per il trattenimento per vari giorni nel porto di Catania delle persone presenti sulla nave Diciotti. Una responsabilità che deriverebbe dalla limitazione della libertà personale di svariate persone senza che alcuna legge vigente lo permetta, e quindi in violazione del principio di legalità, uno dei principi più importanti negli Stati democratici contemporanei, secondo il quale gli organi amministrativi e di governo possono limitare le libertà solo se il legislatore lo abbia preventivamente previsto. Se volessimo fare qualche dotta citazione, ci potremmo riferire perfino a quanto, circa duemila e quattrocento anni fa. scriveva un famosissimo filosofo greco e cioè Aristotele: l’uomo accetta di ubbidire alla legge, ma non alla volontà di un uomo. Ma evidentemente basta quanto è stato accolto nella nostra Costituzione: molte libertà possono essere disciplinate in modo più analitico, nei limiti in cui lo permettono le varie disposizioni costituzionali, ma solo dal legislatore, mentre gli organi amministrativi e di governo possono soltanto applicare correttamente le leggi esistenti. Non basta individuare alcune generiche finalità di intervento per fare tutto quello che un ministro reputi opportuno; semmai, se nella legislazione non vi fossero poteri adeguati ai problemi emergenti, sta al governo proporre adeguamenti della legislazione. Quindi la magistratura - in presenza di dubbi seri sull’esistenza dei poteri esercitati dal ministro - sta facendo il suo mestiere, secondo le norme analiticamente previste dalla Costituzione e dalla speciale legge costituzionale esistente in materia. Il ministro avrà tutte le garanzie (e perfino qualche indubbio privilegio) nell’applicazione di queste disposizioni costituzionali. Certo però non è assolutamente ammissibile che il ministro cerchi di contrapporre i suoi comportamenti a quelli degli organi giudiziari in nome della mancata elezione di questi ultimi, quasi che gli organi elettivi siano da esentare da eventuali responsabilità penali: anche all’Assemblea costituente emersero inizialmente posizioni del genere, ma esse furono rapidamente messe da parte, perché si concordò sul fatto che occorresse invece assicurare forme efficaci di giudizio anche sui vertici ministeriali, che sono sottoposti a tensioni evidenti e dispongono comunque di vastissimi poteri. È in gioco non solo l’eguaglianza di trattamento dei cittadini, siano o non siano al vertice dei grandi apparati pubblici, ma la necessità che i massimi responsabili della politica statale, già privilegiati sotto molti profili, siano consapevoli pure delle loro responsabilità (di tipo penale, ma non solo). Ciò appare anzi tanto più valido al momento attuale, nel quale (neppure solo in Italia) cercano di farsi avanti classi politiche che rivendicano la loro asserita determinazione e forza: ma allora serve come non mai garantire bene le libertà individuali e collettive delle persone e far presente alle classi politiche maggioritarie limiti e responsabilità. Quanto poi al fatto che con interventi del genere si sia riusciti a ridurre davvero le migrazioni irregolari, forse bisognerebbe considerare quanto hanno nel frattempo operato gli altri (e prevalenti) canali di immigrazione clandestina. Perfino uno dei Paesi che si sarebbe offerto di accogliere alcuni immigrati provenienti dalla Diciotti è noto come assai tollerante verso migrazioni irregolari di suoi cittadini verso l’Italia. Il Csm: “Togliere i figli ai mafiosi. Serve una legge” di Gigi di Fiore Il Mattino, 9 settembre 2018 Il plenum martedì a Napoli per approvare la stretta “Le scuole segnalino di più chi fa troppe assenze”. Il documento ha per titolo “Risoluzione in materia di attività degli uffici giudiziari nel settore della criminalità minorile nel distretto di Napoli”. È la proposta di delibera che martedì pomeriggio la sesta commissione del Csm, presieduta da Paola Balducci, presenterà alla seduta straordinaria del plenum che si terrà, in via eccezionale, nella sala Arengario del tribunale di Napoli. Di fatto, è un documento sulle baby gang e la criminalità minorile napoletane. Un atto, che ha per relatori anche i consiglieri napoletani Antonello Ardituro e Francesco Cananzi, risultato di una serie di audizioni dei vertici della magistratura, del questore, del comandante provinciale dei carabinieri, del prefetto, di istituzioni scolastiche e associazioni religiose e del tempo libero. C’è stata anche, l’otto aprile scorso, una visita nel carcere minorile di Nisida. La sesta commissione parla di “una situazione minorile partenopea con peculiarità e caratteristiche che ne fanno un osservatorio privilegiato per l’intervento consiliare”. E aggiunge: “I recenti allarmanti episodi avvenuti nell’area metropolitana di Napoli, con l’elevato numero di minori a rischio devianza, suggeriscono di focalizzare il momento di analisi su tale territorio”. Minori che militano in organizzazioni camorristiche per tradizioni familiari, minori protagonisti di episodiche rapine o furti, minori che si strutturano in gruppi violenti per affermare se stessi su un territorio senza obiettivi nel lungo periodo: sono le classificazioni del documento del Csm. Non mancano gli accenni alle stese, considerate manifestazioni di forza violenta per rimarcare una presenza di gruppo su un territorio. Sono state 52, tra il 2016 e il 2017, le segnalazioni per stese di giovanissimi. Da metà 2016 a metà 2017, sono stati dieci i procedimenti per associazione camorristica a carico di minori. Ma preoccupano anche le aggressioni violente delle baby gang. Tra il novembre 2017 e il gennaio 2018, sono state 14, con coltelli e a volte anche pistole. Minori con disagi sociali e familiari che “hanno maturato esperienze di vita difficili”. E il plenum, in una delle ultime riunioni prima della fine della consiliatura, dovrà esprimersi su una serie di proposte della sesta commissione. Si parte dalla richiesta di rendere sistematica la possibilità di togliere la responsabilità genitoriale a famiglie in contesti criminali. Vengono sollecitati interventi sulla legge per le adozioni, o sui codici penali e civili. L’intervento sulla responsabilità genitoriale si attua in sinergia tra le Procure, minorile e ordinaria, e tribunale civile. Molta attenzione viene data alla prevenzione e, su questo tema, è la dispersione scolastica a preoccupare di più. Mancano dati tempestivi e precisi. Solo alcuni comuni, come Napoli, li pubblicano sul sito web. La Procura per i minori lamenta di non ricevere informazioni rapide dalle istituzioni scolastiche per intervenire. Mancano assistenti sociali: a Giugliano, ad esempio, ne lavorano solo 6, a Napoli 358. Più attenzione alla dispersione, più interventi sulle famiglie e migliore disciplina della possibilità di privare della responsabilità genitoriale i familiari in contesti criminali sono le proposte più rilevanti della sesta commissione. Se la deliberà sarà approvata, naturalmente verrà poi inviata ai ministeri della Giustizia e dell’Istruzione, alla Regione, ai vertici giudiziari. Salvini: i privati nella gestione dei beni sottratti alla mafia di Gianni Trovati Il Sole 24 Ore, 9 settembre 2018 Nella gestione dei beni confiscati e sequestrati alla criminalità organizzata entreranno manager privati, e questa apertura sarà uno dei punti chiave del decreto sicurezza in arrivo. Annunciando la misura ieri mattina nel suo intervento al Forum Ambrosetti di Cernobbio, il ministro dell’Interno Matteo Salvini ha anticipato “le critiche che arriveranno da alcune associazioni in nome della gestione tutta pubblica, ma io vado avanti”. Il punto sollevato da Salvini sono i tempi lunghi nei passaggi operativi dei beni che escono dal controllo criminale, con ritardi che mettono a rischio la vita stessa delle aziende. Le conseguenze sono la perdita di occupazione e, sostiene Salvini, “il rischio che passi il messaggio che con la criminalità almeno c’era il lavoro” che lo Stato non riesce a garantire. Nel ragionamento di Salvini non c’è un’accusa all’Agenzia nazionale che amministra i beni confiscati, anzi il titolare del Viminale rivendica di aver “appena triplicato l’organico, da 8o az/p persone”. Ma la sfida resta impari sul piano dei numeri, perché l’agenzia ha in carico oggi 2.996 imprese e 17.882 immobili, un patrimonio che secondo Salvini “non può essere gestito efficacemente da 240 dipendenti pubblici”. Oltre che nei numeri il problema è nelle competenze, e nasce da qui l’idea di affidare questi beni alle mani di manager privati, con l’obiettivo di evitare il rischio di cadute e fallimenti nelle aziende alle prese con la fase del passaggio. Il progetto trova una sponda importante in Federmanager, l’associazione dei dirigenti d’azienda che per bocca del suo presidente Stefano Cuzzilla chiede ora un incontro a Salvini per affinare il meccanismo. “Abbiamo posto il tema all’attenzione da tempo - spiega Cuzzilla al Sole 24 Ore - anche perché ci sono arrivate spesso segnalazioni da parte dei dirigenti e dei dipendenti di queste aziende, preoccupati per la sorte del loro lavoro”. Il confronto tecnico, insomma, è partito da tempo, e l’associazione ha già messo in campo programmi di formazione su misura del problema, articolati su quattro filoni: innovazione, manager di rete, temporary manager ed export manager. La formazione si conclude con una certificazione terza sulle competenze, e sono già quasi 300 (in crescita) i profili certificati che possono diventare il nucleo di un “albo” di manager in cui l’Agenzia potrà scegliere i gestori. “La formazione - spiega il presidente di Federmanager - deve essere specifica perché spesso queste aziende hanno vinto appalti o sviluppato business per le relazioni dei loro vecchi proprietari, e occorre saper misurare quanta competitività vera c’è nell’impresa e come svilupparla nella nuova situazione”. Strategico è anche il fattore tempo, perché “spesso ci sono aziende che hanno valore ma rischiano di incagliarsi se non prendono decisioni immediate su come riprogettarsi sul mercato”, aggiunge Cuzzilla. E in quest’ottica l’elenco dei “manager certificati” può offrire uno strumento pronto all’uso. “Gli stupratori sono minorenni, niente processo” di Fabio Postiglione Corriere della Sera, 9 settembre 2018 Napoli, la vittima della violenza, avvenuta ad aprile, aveva 12 anni ed è stata trasferita al Nord con la famiglia. I tre aggressori fuori dal carcere: l’istanza di messa alla prova. Nella stanza stanza al piano terra del giudice del Tribunale dei Minori di Napoli ci sono già le istanze di “messa alla prova”. Hanno chiesto di studiare la mattina e lavorare il pomeriggio, impegnandosi in progetti sociali e di assistenza a disabili e malati. Sono solo in attesa di una relazione favorevole degli assistenti sociali e degli psicologi che li seguono da tre mesi e che arriverà a breve. In tre, in un freddo pomeriggio del 28 aprile, avevano stuprato, umiliato e minacciato una ragazzina di 12 anni, che travolta dal dolore e dalla vergogna ha poi lasciato con la famiglia Gragnano, la cittadina a 50 chilometri di Napoli, per trasferirsi in una città del nord dove proverà a ripartire e ricostruire la sua vita, lontana dalle ingiurie e dagli sguardi dei compaesani. I tre hanno invece già lasciato il carcere e sono stati trasferiti in una comunità di recupero per minori. E da qualche giorno hanno chiesto al giudice di non essere processati, ma di essere seguiti in un percorso di recupero di due anni. Se la richiesta di “messa alla prova” dovesse essere accolta non saranno mai giudicati per quello che hanno fatto. Violenza sessuale di gruppo ed estorsione, accuse per le quali dovrebbero essere sotto processo da novembre, rischiando condanne fino a quattro anni di reclusione. Ma non con la “messa alla prova”: in tal caso il processo si estingue, così come il reato commesso, al termine del periodo di prova. Hanno tra i 14 e i 16 anni e due di loro sono parenti di un boss della camorra della zona stabiese. Resi ancora più forti e spavaldi dal carisma criminale del capoclan che tutti chiamano “Don Mimì”, dopo lo stupro di gruppo consumato in una stanza abbandonata dello stabilimento delle Terme di Castellammare di Stabia, sono arrivati a minacciarla. Quando la ragazzina li ha affrontati dicendo di volerli denunciare, le hanno mostrato un video con le scene della violenza sessuale. “Se parli lo facciamo vedere a tuo padre e tua madre”, le hanno detto. Il pubblico ministero aveva definito quelle immagini “brutali”, tanto chiare nel tratteggiare le personalità dei tre ragazzi che in quel frangente avevano dimostrato “assenza totale di considerazione dell’altro, che era diventato uno strumento per il soddisfacimento delle proprie voglie”. Furono arrestati dopo che la ragazzina trovò il coraggio di raccontare a sua madre l’accaduto. Dopo le indagini della squadra mobile della Questura di Napoli e del commissariato di Castellammare, il 31 maggio sono stati arrestati e portati in carcere. All’inizio hanno negato, poi ammesso parzialmente, infine confessato tutto La “messa alla prova” per gli stupratori. Il senso di una misura alternativa di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 9 settembre 2018 Il 28 aprile tre ragazzi tra 14 e 16 anni hanno stuprato una 12enne a Castellammare di Stabia, registrando un video per ricattarla. La vittima ha denunciato e i tre sono stati arrestati. I ragazzini potrebbero evitare il processo, sostituito con la “messa in prova”. Né scandalo da menare, né routine da banalizzare: l’istituto della “messa alla prova” per i minorenni autori di reati è una cosa seria. Se viene fatta seriamente. E se, prima, viene spiegata seriamente, soprattutto alle vittime da parte del giudice. Il punto di partenza è che la legislazione italiana, dal 1988, muove da un principio di favore per il minorenne reo, nell’assunto che in una personalità in crescita il singolo atto trasgressivo (anche il più grave) non sia di per sé indicativo di una definitiva scelta di vita deviante; e che, al contrario, la presa di coscienza del significato del male inflitto alla vittima e l’avvio di un processo di responsabilizzazione siano in lui più probabili non nella detenzione, ma in un rigoroso progetto di recupero fatto di studio, lavoro, volontariato, assistenza a disabili, cura di malati, nonché prescrizioni volte a riparare le conseguenze del reato e (laddove possibile) avvicinarsi alla conciliazione con la persona offesa. Quando il giudice intravede queste premesse, ordina la sospensione del processo (anche per reati gravi come omicidi e violenze sessuali) durante il periodo di messa alla prova del minore affidato ai servizi minorili, che può durare sino a 3 anni. All’esito della prova, se l’esito è positivo il giudice “dichiara estinto il reato” del minore, per il quale dunque non ci sarà più processo; se invece è negativo, il giudice ordina la ripresa del processo, che a quel punto sfocerà in una usuale condanna al carcere. Le messe alla prova, che all’inizio degli anni ‘90 erano circa 800 l’anno, ormai riguardano un minorenne ogni sei che entrano nel circuito penale, e nel 2016 si sono quasi quintuplicate a quota 3.757 (per esempio in circa 150 casi di violenze sessuali). Ma l’esito non è mai automatico: il 6% viene revocato in corso d’opera per violazioni del minore, e l’esito finale è poi negativo in media per un altro 19% di minorenni. Ma una ricerca del Ministero e dell’Università di Perugia, centrata sui nati nel 1987 entrati nel circuito penale, ha mostrato come a distanza di sei anni i minorenni usciti dalla messa alla prova fossero tornati a delinquere nel 20% dei casi, ben undici punti meno del 31% di recidivi invece tra i non messi alla prova ma puniti con detenzione ordinaria. Calabria: il Garante dei detenuti in visita alle carceri regionali Corriere della Calabria, 9 settembre 2018 Due le delegazioni che gireranno per 5 giorni i penitenziari regionali. Domani visita al centro che ospita i migranti a San Ferdinando. Il garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale è arrivato nella giornata di oggi in Calabria dove sta effettuando una visita che comprenderà sia l’ambito penitenziario che i restanti contesti di competenza del Garante: strutture delle forze di polizia, strutture sanitarie dove si effettuano i trattamenti sanitari obbligatori, strutture per migranti, strutture per persone anziane o con disabilità. “In queste ore - si legge in una nota - il Garante nazionale è impegnato con due diverse delegazioni, guidate dal presidente, Mauro Palma (nella foto) e dalla componente del Collegio, Daniela de Robert, rispettivamente nella Casa Circondariale di Vibo Valentia e nella Casa Circondariale di Castrovillari”. La visita, che continuerà nei prossimi cinque giorni, prevede per la giornata di domani un sopralluogo “a un luogo di limitazione de facto della libertà personale: l’area - spiega il garante - attrezzata per lavoratori migranti stagionali allestita a San Ferdinando dalla Prefettura di Reggio Calabria”. Porto Azzurro (Li): assistenza compilazione pratiche, i detenuti di ringraziano la Cgil elbanotizie.it, 9 settembre 2018 I detenuti della Casa di reclusione di Porto Azzurro hanno consegnato alla Cgil un quadro da loro stessi realizzato per ringraziarla dell’assistenza fornita nella compilazione di pratiche riguardanti ad esempio Naspi, assegni familiari, pratiche per la pensione e simili: “Un particolare ringraziamento - si legge nella dedica allegata al quadro - alla Cgil di Portoferraio per il sostegno e la professionalità passata e presente nei confronti dei detenuti della Casa di reclusione di Porto Azzurro”. Da circa un anno e mezzo gli operatori del patronato Inca-Cgil di Livorno hanno iniziato a assistere i detenuti nel disbrigo di pratiche burocratiche: “Una volta al mese - spiega Manuel Anselmi, coordinatore della Cgil Elba - alcuni operatori dell’Inca-Cgil si dirigono all’interno del carcere per fornire ai reclusi l’assistenza necessaria alla compilazione di queste pratiche. Un gesto semplice per continuare a far sentire i detenuti parte integrante della comunità”. Anselmi ringrazia dunque per la disponibilità gli operatori del patronato Inca (“è soprattutto grazie alla loro professionalità e al loro cuore che stiamo riuscendo a fornire questo tipo di servizio”) e i responsabili della Casa di reclusione. “La Cgil - conclude Anselmi - è sempre al servizio di tutti”. Cosenza: i carabinieri fanno la spesa per il detenuto povero Avvenire, 9 settembre 2018 Anche i carabinieri hanno bussato due volte. La prima per controllare una vecchia conoscenza rinchiusa agli arresti domiciliari, il giorno dopo per consegnargli quattro buste piene di generi alimentari acquistati a loro spese in un supermercato di Mirto Crosia, lungo lo Jonio cosentino. I due militari hanno mostrato non solo l’altro volto della Legge, ma soprattutto il cuore che batte sotto le divise cui chiediamo aiuto quando ne abbiamo bisogno, trovando una porta aperta e una mano tesa. Stavolta non c’è stato bisogno di chiedere nulla perché quando gli appuntati sono entrati nell’abitazione del detenuto si sono accorti dell’indigenza in cui sopravviveva assieme alla compagna e ai figli. Forse è stato proprio lo sguardo spaurito dei piccoli a fare crollare l’ultimo debole muro, convincendo i carabinieri che potevano e dovevano fare qualcosa. Hanno completato i controlli di rito, annotato la presenza dell’uomo in casa, chiuso il verbale e raggiunto la vettura di servizio per tornare a lavoro. Il giorno dopo, di buon mattino, si sono rincontrati raggiungendo il supermercato e comprando quello che poteva servire alla famiglia. Soprattutto ai bimbi. Dopodiché hanno raggiunto la casa del detenuto, consegnandogli la ricca spesa. Tra cui due pacchi di caramelle. È stata la mamma dei bambini a rendere pubblico il caso con un post sui social: “Li ringrazio di vero cuore e ringrazio Dio che esistano ancora persone così umili. Grazie al Comando dei Carabinieri di Mirto Crosia in particolare ai due appuntati”. Palermo: Cuffaro ha scontato tutta la sua pena, perché impedirgli di parlare del carcere? di Onofrio Dispenza globalist.it, 9 settembre 2018 I grillini sparano a zero sulla presenza dell’ex governatore ha un convegno sulle carceri: lui ha rispettato la sentenza mentre solo alleati di ministri che non riconoscono la giustizia. Questo dibattito non s’ha da farsi. Promessi non sono gli sposi, sono le testimonianze dirette di un politico, ora ex, che per le sue malefatte, favoreggiamento della mafia, ha pagato il conto, salato e per intero. Lui è Salvatore Cuffaro. Nel panorama storico dei tanti politici siciliani ha uno spazio di riguardo. È stato potentissimo, c’è chi sostiene che potente lo sia ancora e che potrebbe fare la sua parte in un futuro prossimo, dopo un periodo che necessariamente lo ha visto dietro le quinte. Ma andiamo per ordine. C’è una iniziativa, un dibattito, che giovedì aprirà i bei saloni dell’Assemblea Regionale Siciliana ad opinioni e testimonianze sulla detenzione in Italia. Confronto al quale Salvatore Cuffaro è stato invitato. Per raccontare la sua esperienza di potente finito in carcere e che in carcere ci ha vissuto, fianco a fianco con tanti altri, colpevoli, colpevoli che si dicono innocenti, innocenti non creduti, farabutti e poveri cristi. Cuffaro il carcere lo ha fatto tutto, dal primo all’ultimo giorno di pena inflittagli da magistrati,che ha sempre rispettato, dal primo tintinnare di manette alla sentenza ed oltre. In carcere Cuffaro si è laureato ed ha perso quella estrema rotondità che era caratteristica di quel presidente della Regione della Sicilia che sarebbe passato alla storia anche per quel vassoio di cannoli offerti a chi lo circondava in un giorno che a lui favorevole. Sciagurato vassoio, scrisse invece l’inizio della fine di una carriera politica e della libertà personale di un potente. Cuffaro è stato fortemente provato dalla detenzione, come è giusto che sia stato, altrimenti non si chiamerebbe pena. Lo ha detto, ha detto quanto il carcere lo abbia cambiato, per la pena subita e per le tante esperienze umane che in carcere ha fatto. Uscendone, si è dato al volontariato - Cuffaro è medico - e questo ha fatto sorridere tanti e a tanti altri ha fatto storcere il muso. Come se la pena carceraria non sia stata pensata nel tempo per punire e per cambiare il percorso di chi ha sbagliato. Bene se colpevoli, tragico se innocenti. Tornando al dibattito, non si capisce - come ha sottolineato lo stesso Claudio Fava, presidente dell’Antimafia regionale - perché privarci dall’ascoltare quella esperienza. Utile per avere, noi liberi, un tassello in più, per capre meglio quello che va e quello che non va in un sistema, quello carcerario italiano, che certo non brilla per elementi che possono costituire un modello da applicare in Paesi civili. Con Fava, il Pd e lo stesso presidente del Parlamento siciliano, Gianfranco Micciché. Un coro contrario grillino all’ingresso di Cuffaro ex detenuto in una delle sale dell’Assemblea regionale da £Stelle di ogni strato, dal leader siciliano Cancelleri che ha fatto sentire il suo sdegno dagli Usa, all’ultimo della premiata combriccola. Ora, va ricordato a coloro che si scandalizzano di un Cuffaro relatore sulla vita in carcere, che “Totò Vasa Vasa” fu sempre rispettoso di chi lo stava mandando in una cella riducendo in frantumi il suo impero politico e un pò anche quello economico. Va ricordato loro che nell’ora della sentenza, Cuffaro attese la decisione dei magistrati raccolto in preghiera nella sua abituale chiesa. E chi di questo sorride, sbaglia, non conosce gli uomini, le loro fragilità. A quelli dei 5Stelle che tanto si indignano solo per esercizio di formale indignazione, vale ricordare quanto disprezzo della legge e di chi la legge è chiamato a far rispettare in una democrazia, ci sia in queste ore elle parole velenose, arroganti e strafottenti di un ministro che del rispetto della legge dovrebbe fare, per ruolo, pane quotidiano. Non ci si può scandalizzare per un italiano che ha pagato, e subire le parole vomitate da un italiano ministro solo perché quel ministro è il tuo padrone, si padrone, e non vuole pagare colpe proprie e del partito che rappresenta e al cui interno è cresciuto politicamente. Per chiudere, una nota a margine di questo scandalo senza motivi di scandalo. Salvatore Cuffaro chiederà la riabilitazione. Questo diritto gli spetta, può chiederla, si vedrà se l’otterrà. Lui assicura che non lo fa per poter tornare in politica, magari alle prossime Europee, come si dice in Sicilia. E, credetemi, con un certo, diffuso atteggiamento di speranza. Quella di chi ha conosciuto i politici stellati di oggi e arriva a rimpiangere anche la parte peggiore di quelli di una volta. Paradossi. Anche questi frutto naturale del nostro tempo. E in una terra, la Sicilia, che consuma più paradossi che cannoli. Cagliari: Annino Mele, l’ergastolano e il carcere Ansa, 9 settembre 2018 A Cagliari per la presentazione del suo ultimo libro, “è società repressivo-poliziesca”. Guerra alle carceri da chi le conosce bene. Non è una ribellione, ma una riflessione. Annino Mele, ex primula rossa dell’Anonima sarda, trentuno anni nei penitenziari di mezza Italia dopo la condanna all’ergastolo per sequestri di persona e omicidio, a 67 anni ora è in libertà condizionale. Ma l’uscita dalla prigione è stata soprattutto interiore ed è arrivata molto prima. Lo ha raccontato all’Ansa in occasione della presentazione a Cagliari del suo ultimo libro, “Il male dell’ergastolano. Ovvero il tarlo della morte” (Edizioni Sensibili alle Foglie), nell’ambito della rassegna Storie in trasformazione-Mutazioni. Lí spiega, attraverso storie di vita vissuta dietro le sbarre, perché la prigione non è la soluzione. “Non ci rendiamo conto che stiamo diventando una società repressivo-poliziesca - chiarisce Mele - Parallelamente anche la nostra società sta diventando sempre più violenta. Dobbiamo trovare il modo di cambiare, di migliorare: il carcere non è la soluzione, si deve fare di più per la prevenzione. Che cosa significa continuare a spendere soldi per costruire le carceri? In altri Paesi europei stanno distruggendo i penitenziari, in Italia no”. Il carcere, sintetizza nel libro, è una ferita della società. Mele è pienamente consapevole del suo passato: “So che cosa è l’isolamento e la privazione della libertà, anche io ho contribuito a negarla ad altre persone”. La sua perdita della libertà risale a quando aveva quattro anni. Allora non era detenzione, ma una situazione difficile, una brusca uscita dall’infanzia. Il riferimento è alle delicate e sanguinose vicende di faida nella sua Mamoiada, a pochi chilometri da Nuoro. “La libertà l’ho riconquistata più tardi - precisa - anche quando sono andato in carcere. È stata una crescita della libertà interiore, una maturazione dentro di me cresciuta soprattutto per dare delle indicazioni a mio figlio”. Il ricordo va poi alla riconquistata libertà. “Quando sono uscito il primo giorno dal carcere, ero accompagnato da una persona, ed è stata una fortuna – confessa. Non camminavo bene, troppo spazio, mi paragonavo a un bambino che cominciava a muovere i primi passi. Mi ricordo la difficoltà nella scala mobile. Tutto era complicato: una telefonata, la metropolitana. Dopo 31 anni dietro le sbarre cambia tutto. E ci si trova spaesati. C’è stato anche chi non è riuscito a muoversi dal piazzale del carcere. E si è infilato nel bar di fronte e lì è rimasto per ore”. E ancora. “Il carcere è un luogo di annientamento - questo il verdetto di Annino Mele - Anche per i giovani. Si esce peggiorati. È un sistema che può e deve essere superato”. Il Belpaese è diventato brutto di Ernesto Galli della Loggia Corriere della Sera, 9 settembre 2018 Da due-tre decenni il Paese è rimasto privo di qualunque sede pubblica deputata alla formazione non solo e non tanto culturale ma specialmente del carattere e della sensibilità civile, all’insegnamento di quei valori in definitiva morali su cui si regge la convivenza sociale. È bene che ce lo diciamo per primi noi stessi: l’Italia sta diventando un Paese invivibile. Un Paese incolto nel quale ogni regola è approssimativa, il suo rispetto incerto, mentre i tratti d’inciviltà non si contano. Basta guardarsi intorno: sono sempre più diffusi e sempre meno sanzionate dalla condanna pubblica l’ignoranza, la superficialità, la maleducazione, la piccola corruzione, l’aggressività gratuita. Una discussione informata è ormai quasi impossibile: in generale e specie in pubblico l’italiano medio sopporta sempre meno di essere contraddetto e diffida di chi prova a farlo ragionare, mostrandosi invece disposto a credere volentieri alle notizie e alle idee più strampalate. Non è un ritratto esagerato: è l’immagine che sempre più dà di sé il nostro Paese. La verità è che nel costume degli italiani è intervenuta una frattura che ha inevitabilmente modificato anche la qualità della cultura civica della Penisola e quindi di tutta la nostra vita collettiva a cominciare dalla vita politica. Il cui degrado non comincia a Montecitorio, comincia quasi sempre a casa nostra. Ho parlato di frattura perché le cose non sono andate sempre così. È vero che al momento della sua nascita lo Stato repubblicano non ha potuto certo contare su cittadini istruiti e tanto meno su un diffuso senso civico o su una vasta acculturazione di tipo democratico. Inizialmente, infatti, la cultura civica del Paese fu limitata in sostanza a quella delle sue élite politiche e del sottile strato di persone a esse in vario modo vicine (e dio sa con quali e quante contraddizioni!). Ma a compensare in qualche misura queste carenze, e quindi a rendere possibile la crescita di una vita pubblica più o meno consona ai nuovi tempi democratici, valse almeno il fatto che nel tessuto italiano continuavano pur sempre a esistere una tradizionale civiltà di modi, una costumatezza delle relazioni sociali, un antico riguardo per le forme e per i ruoli, un generale rispetto per il sapere e per l’autorità in genere. Fu su questo terreno che nel corso del primo mezzo secolo di vita della Repubblica ebbero modo di mettere radici e di consolidarsi una non disprezzabile educazione civica e politica, una discreta consuetudine alle regole della convivenza e della libera discussione. Contò naturalmente l’innalzamento del reddito e delle condizioni di vita, ma una parte decisiva ebbero altri fattori. Innanzitutto l’esistenza di una politica fondata sulle grandi organizzazioni di massa - i partiti e i sindacati con le loro scuole, come quella del Partito comunista alle Frattocchie, dove poté svolgersi l’esperienza su vasta scala di una socialità discorsiva bene o male fondata sull’argomentazione razionale e sulla conoscenza dei problemi e delle possibili soluzioni; ma contò moltissimo la presenza nel Paese di quattro fondamentali agenzie di socializzazione: la Chiesa, la leva militare, la scuola e la televisione pubblica. Nel dopoguerra per milioni di italiani avviati a uscire da un mondo rurale spesso primitivo, la parrocchia, l’oratorio, furono una palestra di acculturazione civile, di una certa appropriatezza di modi, di rispetto delle competenze e dei ruoli, di avviamento alle regole di una non belluina convivenza. Opera in parte analoga svolse la scuola. Ancora sicura di sé, della sua funzione e del suo buon diritto a esercitarla, la scuola istruì, valse a sottolineare senza remore l’indiscutibile centralità della cultura e dello studio, educò alle forme basilari della modernità e delle istituzioni dello Stato così come alla disciplina e al rispetto dell’autorità. A un dipresso le medesime cose fece l’esercito di leva, in più addestrando in molti casi al valore della competenza, alla coesione in vista di un traguardo collettivo, alla solidarietà di gruppo, al carattere inevitabile di una gerarchia. Infine vi fu la televisione pubblica. Padrona monopolistica dell’immaginario del Paese, essa si propose di esserne la grande pedagoga. E lo fu: in un modo che oggi fa sorridere ma lo fu. Divulgò la lingua nazionale, diffuse un’informazione sapientemente calibrata, cercò d’ispirarsi per tutto il resto alla buona cultura, al “sano” divertimento, ai “buoni” sentimenti, a una morale cautamente in equilibrio tra vecchio e nuovo. Il tutto all’insegna della compostezza e delle buone maniere: perfino i conduttori dei telequiz si rivolgevano alla “signora Longari” chiamandola per l’appunto signora. Intendiamoci, non è che l’Italia d’allora fosse una specie di idilliaco piccolo mondo antico: tutt’altro. Ma fino agli anni 80 la nostra rimase comunque una società strutturata intorno a istituzioni formative consistenti: ciascuna animata a suo modo dalla consapevolezza di avere un compito da svolgere e decisa a svolgerlo. Un compito - questo mi sembra oggi molto importante - svincolato nel suo perseguimento e per i suoi obiettivi sia dal mercato sia dai desiderata del pubblico. In questo senso, infatti, né la Chiesa, né la scuola, né l’esercito, né la televisione di Bernabei potevano certo dirsi istituzioni democratiche: tanto meno del resto pensavano di doverlo essere. Ma proprio perciò esse assolvevano un compito prezioso per la democrazia liberale. La quale, per l’appunto, sopravvive solo se esistono degli ambiti della società che non obbediscono alle sue regole. Se esistono degli ambiti, delle istituzioni, dove non vigono né il principio del consenso dal basso né la regola della maggioranza. Solo a queste condizioni, infatti, possono aversi due conseguenze decisive: da un lato la produzione di un sapere realmente libero, - fatto cioè di analisi, di idee e valori condizionati solo dalla personale ricerca della verità - e dall’altra la formazione di vere élite del merito. Solo a queste condizioni si crea un ambiente sociale e un’atmosfera psicologica dove di regola l’ultima parola non l’abbiano, da soli o coalizzati, chi alza più la voce, chi possiede più ricchezze o chi ha dalla sua il maggior numero. Un ambiente sociale e un’atmosfera dove al potere della politica e dell’economia (o della demagogia e della corruzione che sono i loro frequenti sottoprodotti) siano in grado di contrapporsi gerarchie diverse. Dove al potere della politica e della ricchezza fanno da contrappeso il condizionamento della formazione culturale, i vincoli dell’etica, il giudizio dell’opinione pubblica informata. Come invece sono andate le cose si sa. L’Italia ha visto quelle istituzioni di cui dicevo sopra - per varie ragioni e in vari modi, ma più o meno nello stesso giro di anni, a partire dagli anni 80-90 - scomparire. Scomparire, intendo, nelle forme che esse avevano un tempo (o come la leva cancellate del tutto), per essere sostituite dalle forme nuove richieste dai “gusti del pubblico”, dagli “indici di ascolto”, dai sindacati, dai “movimenti”, dalle “attese delle famiglie”, dalle “comunità di base”, dalla “pace”, dai “tempi della pubblicità”, dai “bisogni dei ragazzi”, dal desiderio dei vertici di non dispiacere a nessuno. È così da due-tre decenni il Paese è rimasto privo di qualunque sede pubblica deputata alla formazione non solo e non tanto culturale ma specialmente del carattere e della sensibilità civile, all’insegnamento di quei valori in definitiva morali su cui si regge la convivenza sociale. Coltivando un’idea fasulla di modernità e di libertà l’Italia ha assistito, addirittura compiaciuta, al progressivo smantellamento di istituzioni che alimentavano la democrazia con il flusso vitale del sapere disinteressato, della tradizione, della possibilità dell’auto-riconoscimento collettivo. Ci siamo avviati in tal modo ad essere una società senza veri legami, spesso selvatica e analfabeta, ogni volta che convenga frantumata in un individualismo carognesco e prepotente. L’Italia di oggi insomma, illusa e inconsapevole del brutto Paese che essa ormai sta diventando. Se nasci povero, resti povero: nessun Paese peggio dell’Italia per immobilità sociale di Roberta Carlini L’espresso, 9 settembre 2018 La possibilità di migliorare la propria condizione economica di nascita è praticamente un’utopia: tutti gli Stati occidentali sono messi meglio di noi. I numeri di un rapporto davvero preoccupante. Esiste un record negativo italiano che non è misurabile in debito pubblico, deficit, giovani Neet, evasione fiscale. Ma a guardarlo da vicino fa paura almeno quanto i primi. È l’immobilità sociale, o meglio: quanto della tua vita dipende dalla famiglia in cui sei nato. Si può misurare in tanti modi ma, comunque la contiamo, l’Italia svetta in Europa, e di gran lunga. Lo rivelano i dati del più grande database sulla mobilità sociale nel mondo, costruito dalla Banca mondiale e illustrato nel rapporto “Fair Progress”. Tra i quali, una buona parte viene dal progetto-partner a guida italiana di Equalchances.org: sul sito, creato dal Dipartimento di economia e finanza dell’università di Bari, ciascuno può divertirsi - diciamo così - a controllare, per il proprio e per gli altri Paesi, il funzionamento dell’ascensore sociale, scorrendo gli indici della diseguaglianza di opportunità, trasmissione del reddito e dello status tra generazioni, mobilità nell’istruzione. E una cosa è certa: qualcosa si è inceppato, servirebbe un ascensorista. Con particolare urgenza per l’Italia, dove quasi la metà del reddito dei figli è determinata dal livello di quello dei padri: condizione unica nell’Europa continentale, paragonabile solo a quella di Regno Unito e Stati Uniti, per i Paesi sviluppati. Ma, quanto a diseguaglianza delle opportunità, superiamo anche i regni di Brexit e Trump. Di padre in figlio - “Ogni giorno nel mondo nascono 400 mila bambini. Nessuno di loro sceglie il genere, l’appartenenza etnica, il luogo in cui si è venuti al mondo. Né le condizioni economiche e sociali della famiglia. Il punto di partenza della vita è una lotteria”. Così la Banca mondiale introduce il suo rapporto, che punta a dare il primo set di numeri a copertura mondiale sulla mobilità tra generazioni. Espressione con la quale si intendono due cose: quanto, nella media, il livello di vita e benessere di una generazione è migliorato rispetto a quella precedente; e quanto la posizione di ciascuna persona sulla scala economica dipende da quella dei suoi genitori. Normalmente, le due cose vanno insieme: periodi di forte crescita economica fanno fare salti di benessere da una generazione all’altra e rendono anche più facile ai figli emanciparsi dallo status dei genitori. È quello che è successo nel mondo occidentale negli anni Cinquanta, e sta succedendo ora in paesi come Cina e India. Ma attenzione, dice la Banca mondiale: non è automatico che questo succeda, e infatti anche in molti paesi in via di sviluppo la mobilità sociale da genitori a figli oggi è bloccata. E poi c’è il contrappasso, quando la crescita si ferma e la marea che portava avanti tutte le barchette si ritira. Come è successo in tutti i paesi sviluppati e con particolare evidenza in Italia. “Per un certo numero di anni la crescita ha consentito a tutti di migliorare le proprie posizioni, sono stati fatti molti passi avanti soprattutto nel rapporto tra titoli di studio”, spiega Vito Peragine, professore di economia politica all’università di Bari e collaboratore del progetto della Banca mondiale. I cui numeri permettono anche di confrontare la mobilità tra generazioni di oggi con quella di ieri, e ci dicono che “negli ultimi venti anni, da quando si è fermata la pur debole crescita economica, si è evidenziato il blocco dell’ascensore sociale”. Anzi, a dirla tutta lo stop ha evidenziato che quell’ascensore non ha mai funzionato bene: per esempio, l’Italia è uno di quei paesi nei quali non c’è uno stretto rapporto tra i progressi nel settore dell’istruzione e quelli nel reddito. In altre parole, il titolo di studio dei genitori è meno importante di prima nel definire quello che avranno i figli - l’operaio può bene avere il figlio dottore, si è avverato l’incubo della contessa di Paolo Pietrangeli - ma è anche poco rilevante nel determinare le opportunità relative di lavoro, reddito, benessere. L’aumento del divario tra ricchi e poveri non è un fenomeno inevitabile, ma la conseguenza di scelte politiche il cui scopo era proprio quello: l’analisi dell’economista Joseph Stiglitz In effetti, se si vanno a guardare i numeri di equalchances.org, e si confronta la generazione nata nel 1940 con quella dell’80 - l’ultima di cui si abbiano dati completi - si vede che a scuola l’ascensore ha funzionato. L’indice che misura la mobilità tra generazioni nell’istruzione - più alto il numero, più bassa la mobilità - è sceso da 0,57 a 0,33. È successo lo stesso in Francia, Germania, persino nel Regno Unito, mentre lo stesso indice è sceso di pochissimo, da 0,34 a 0,32, negli Stati Uniti dell’istruzione privatizzata. Eppure, questo buon andamento in Italia non ha migliorato sostanzialmente la mobilità tra generazioni nel reddito, e non ha ridotto le diseguaglianze di opportunità. L’indice che misura la mobilità intergenerazionale dei redditi è in Italia a quota 0,48, contro lo 0,35 della Francia e lo 0,23 della Germania. Vuol dire che da noi quasi la metà del reddito dei figli dipende da quello dei genitori. È il più alto d’Europa - vicino a quello inglese - e nel mondo sviluppato inferiore solo a quello degli Stati Uniti, paesi dai quali siamo tuttavia molto distanti nella struttura sociale ed economica. Le diseguali opportunità - Da cosa dipende questa eccezione italiana in Europa E perché il grande balzo in avanti nell’istruzione non ha avuto grandi effetti di reddito e benessere La stessa Banca mondiale ci aiuta a rispondere, ridimensionando un po’ il peso del fattore “istruzione”: anche se tutto il rapporto è dedicato proprio alla mobilità educativa (sia come dati che come politiche auspicate), vi si spiega anche che ci sono altre motivazioni della persistenza del reddito e del benessere da una generazione all’altra. A parità di istruzione il peso della famiglia di origine - fatto di status sociale, conoscenze, relazioni amicali - torna prepotente e si fa sentire di più in contesti più fermi, con maggiore disoccupazione, minore apertura. Tutto ciò può spiegare il più scioccante dei numeri che si possono scoprire navigando nei dati: quelli della diseguaglianza di opportunità. Qui superiamo anche Gran Bretagna e Stati Uniti, e per trovare paesi più in alto dobbiamo confrontarci con il Brasile, il Sud Africa, la Bulgaria. In particolare, spiega Vito Peragine, abbiamo un livello molto alto di diseguaglianza “relativa” delle opportunità, ossia di quella parte delle diseguaglianze spiegato esclusivamente dalla propria origine, dalla lotteria della nascita. Numeri che ne introducono altri, stavolta più soggettivi: quelli sulla percezione della propria posizione e quella dei propri figli. Secondo una indagine citata dalla Banca mondiale, gli italiano sono al penultimo posto - seguiti solo dalla Slovenia in pessimismo - nella previsione “i bambini che nascono oggi staranno meglio di noi”: otto su dieci non la pensano così. Mentre quasi 4 su 10 ritengono comunque di stare meglio dei propri genitori. Tutto ciò, dice il rapporto, condiziona il futuro, il benessere, la tenuta sociale. Non a caso lo stesso gruppo di esperti della Banca Mondiale sfornerà a breve un altro rapporto sull’impatto delle diseguaglianze sul contratto sociale europeo, mettendo direttamente la mole dei numeri dell’ingiustizia sociale in correlazione con i rivolgimenti politici europei e l’ascesa dei nazional-populismi. Siria. Sentry, l’applicazione che salva i siriani dai bombardamenti di Marco Tonelli La Stampa, 9 settembre 2018 In caso di arrivo di un aereo militare, il servizio avverte l’utente con una notifica. Al nour (nome di fantasia) vive in un piccolo villaggio nella provincia di Idlib, in Siria. L’area è sotto il controllo dei ribelli dal 2012 e per questo motivo è spesso oggetto di attacchi aerei da parte dell’esercito siriano. L’uomo, di professione agricoltore, convive con la minaccia di un bombardamento. Molti dei suoi vicini sono scappati, altri sono morti. Al nour è rimasto ma con la consapevolezza che un giorno o l’altro, la sua casa potrebbe essere colpita da un missile. Nel 2016, un amico gli consiglia di scaricare Sentry, un’applicazione che utilizza Facebook e Telegram per avvertire dell’arrivo di un aereo militare dell’esercito. Poi, un giorno sul suo smartphone, arriva la notifica: un velivolo è partito dalla base aerea di Hama e si sta dirigendo verso il villaggio. Al nour riesce a far uscire la sua famiglia dall’abitazione e a rifugiarsi in un bunker. Pochi minuti dopo, la bomba esplode. Sentry è un’applicazione sviluppata da Hala Systems, una start up creata da due americani: un ex hacker e un imprenditore, insieme a un programmatore siriano. Al momento, la compagnia riesce a sostenersi grazie al finanziamento di amici, conoscenti, ma anche di governi: dal Regno Unito alla Danimarca, passando per l’Olanda, gli Stati Uniti e il Canada. L’app funziona grazie a un mix di supporto umano e tecnologia. Infatti, la colonna portante del servizio sono gli attivisti presenti sul territorio, tra cui anche alcuni membri del gruppo di difesa civile “elmetti bianchi”. Sono loro che forniscono informazioni fondamentali, come la presenza di un aereo in partenza o il passaggio dello stesso. Si tratta di dati che vengono inviati al servizio e che vengono utilizzati per prevedere l’arrivo del velivolo in una determinata località. Gli utenti poi, potranno fruire delle informazioni, iscrivendosi ad appositi canali Telegram, gruppi di Messenger o leggere il post nella pagina Facebook ufficiale. Nato nel 2016, al momento il servizio può contare di almeno 3 mila sottoscrizioni al canale Telegram, 8600 al bot di Messenger e 45 mila like alla pagina Facebook. “Fondamentalmente, se qualcuno vedesse un aereo da guerra Mig 23 alzarsi dalla base militare di Hama, potrebbe inserire le informazioni nel sistema. In seguito Sentry lancerebbe un avvertimento attraverso i social media, con una previsione dell’arrivo del velivolo”, scrive l’autore di un lungo articolo uscito su Wired. Allo stesso tempo più sono le persone che inviano informazioni, più saranno dettagliati gli avvertimenti. Una delle ultime novità del servizio è la creazione di un sensore sonoro capace di analizzare il suono di un velivolo, in modo da poter identificare la tipologia di aereo militare e la velocità dello stesso. Si tratta di piccole valigette da posizionare sui tetti delle abitazioni. A partire da marzo, i dispositivi sono operativi in diverse zone del Paese, ma non è chiaro quanti siano al momento. Egitto. Al Sisi completa la vendetta, 75 condanne a morte di Michele Giorgio Il Manifesto, 9 settembre 2018 La polizia massacrò 800 manifestanti ma i giudici egiziani hanno ?condannato a morte 75 manifestanti e a pesanti pene detentive oltre 600 per il lungo sit in del 2013 contro il colpo di stato dell’esercito. Cinque anni anche al noto fotoreporter “Shawkan” premiato dall’Unesco. Quattro anni dopo il massacro dei manifestanti a piazza Rabaa Adawiya al Cairo la vendetta del regime è completa e senza misericordia. I giudici egiziani ieri hanno condannato a morte 75 persone, tra cui alcuni leader dei Fratelli musulmani, e a pesanti pene detentive oltre 600 per il lungo sit in del 2013 contro il colpo di stato realizzato dalle Forze Armate, con a capo Abdel Fattah el Sisi, che il mese prima aveva rovesciato il presidente islamista Mohammed Morsi. Decisi anche 47 ergastoli. Uno di questi per il capo della Fratellanza, Mohammed Badie, già condannato a più sentenze a vita. Gli imputati al processo in totale erano 739. Tra i condannati c’è anche il fotoreporter pluripremiato - di recente anche dall’Unesco - Mahmoud Abu Zeid, più noto come “Shawkan”, che comunque dovrebbe lasciare la prigione entro pochi giorni perché la sua condanna a cinque anni di carcere corrisponde al periodo di detenzione preventiva che ha già trascorso dietro le sbarre. In sua difesa in questi anni sono scesi i centri internazionali per i diritti umani e per la liberta di stampa. Ma il regime è stato ugualmente inflessibile con “Shawkan” accusato di far parte di un “gruppo terroristico” e di possesso di armi da fuoco. Accuse che il fotoreporter ha sempre negato con forza affermando di aver fatto solo il suo lavoro in Rabaa Adawiya. Quello che si è appena concluso è stato un processo alle vittime e non agli autori della strage dell’agosto 2013 di almeno 800 manifestanti riuniti in Rabaa Adawiya contro il golpe. Il regime sostiene di aver affrontato in quei giorni una “minaccia armata” e inizialmente aveva denunciato l’uccisione di 40 agenti di polizia. Poi i poliziotti uccisi sono scesi a otto. Nessun membro delle forze di sicurezza in ogni caso è stato condannato, e forse neppure indagato, per il massacro dei civili riuniti nella piazza che el Sisi e gli altri generali golpisti decisero di “evacuare” ad ogni costo. D’altronde che la magistratura egiziana sia sottomessa al regime lo prova anche il brutale assassinio del giovane studente italiano Giulio Regeni. Quasi due anni dopo la sua morte - attribuita un po’ da tutti ad uomini dei servizi di sicurezza - si brancola nel buio, tra depistaggi e piste false, con la procura egiziana che punta solo a guadagnare tempo sperando che la famiglia Regeni e gli italiani rinuncino a conoscere la verità. Ciò rende una farsa il recente viaggio al Cairo del vice premier pentastellato Di Maio, che in nome dei buoni affari (soprattutto quelli dell’Eni) dell’Italia in Egitto, ha accolto con un sorriso le poco credibili rassicurazioni date dagli egiziani sull’andamento delle indagini ed rimasto colpevolmente in silenzio quando el Sisi ha pronunciato la frase “Giulio è uno di noi” provocando lo sdegno della famiglia Regeni. Il governo M5S-Lega si è allineato a quello precedente del Pd che nel 2017 aveva rimandato al Cairo il nostro ambasciatore chiudendo di fatto la crisi con il Cairo. Da quando è diventato presidente nel 2014 - al termine di una campagna elettorale senza veri avversari - el Sisi e i suoi uomini hanno giustificato la repressione con la necessità di combattere il “terrorismo”. Un pretesto usato per colpire ogni voce non allineata. La scure del regime sì è abbattuta senza pietà soprattutto sui Fratelli Musulmani ma anche sugli oppositori laici, di sinistra, su stampa, blogger e attivisti dei diritti umani. Persino su alcuni dei protagonisti della rivolta del 2011 contro il “faraone” Hosni Mubarak. Il regime di el Sisi si è dimostrato più feroce di quello di Mubarak che pure è passato alla storia per trent’anni di brutalità e repressione. La differenza oggi rispetto ad allora è che mentre il “faraone” era contestato da tutti gli egiziani, el Sisi invece gode del sostegno di una fetta consistente dell’opinione pubblica - identificabile con quella parte di popolazione che teme un ritorno al potere dei Fratelli Musulmani - e ciò rende più difficile contrastare la repressione e la sistematica violazione dei diritti umani. A fornire munizioni al regime è anche la situazione del Nord del Sinai dove l’esercito è impegnato da anni in una sanguinosa campagna contro le formazioni jihadiste che si proclamano affiliate allo Stato islamico e che sono state responsabili di massacri di soldati e civili cristiani in quella parte dell’Egitto. Una clima che ha contribuito ad avvicinare ulteriormente la minoranza copta (circa 9 milioni di persone) al presidente egiziano e a renderlo più forte. Le ultime condanne a morte si aggiungono alle centinaia decise dai giudici egiziani in questi cinque anni. Mai l’Egitto negli ultimi decenni aveva vissuto un periodo così nero per il rispetto dei diritti fondamentali. Neppure ai tempi di Anwar Sadat che pure colpì senza pietà personalità laiche e progressiste che avevano sostenuto il suo predecessore Gamal Abdel Nasser e contestato la sua svolta filo americana. Egitto. Il regime e l’ipocrisia di Roma di Riccardo Noury* Il Manifesto, 9 settembre 2018 Ieri al Cairo è terminato, dopo oltre 80 udienze, il “maxiprocesso” nei confronti di 739 imputati accusati di vari reati in relazione al violentissimo sgombero, avvenuto i114 agosto 2013, delle tendopoli allestite dalla Fratellanza musulmana in piazza al-Rabaa al-Adawiya e piazza al-Nahda per protestare contro il colpo di stato del 3 luglio e la deposizione del presidente Morsi. Fu il peggiore massacro della storia recente egiziana, con non meno di 900 manifestanti uccisi (altre fonti parlano di 1.200). Di questi, 30 furono asfissiati dal lancio di gas lacrimogeni all’interno delle camionette in cui, dopo l’arresto, erano stati fatti salire. Morirono anche sei membri delle forze di sicurezza egiziane. Ancora maggior fu il numero degli arrestati, in una sorta di pesca a strascico eseguita dalle forze di sicurezza egiziane al termine della quale finirono in carcere anche manifestanti pacifici (come Ibrahim Halawa, cittadino irlandese, che Amnesty International e il governo di Dublino hanno impiegato quattro anni a far riconoscere innocente), semplici passanti e giornalisti. Tra questi ultimi, Mahmoud Abu Zeid (alias Shawkan), che era li a fare il suo lavoro di foto- giornalista per conto dell’agenzia Demotix. I 739 imputati sono stati processati collettivamente per 17 omicidi, e altri reati tra cui “raduno illegale”, “istigazione a violare la legge” e “partecipazione ad atti di violenza”. Le sentenze, alla fine di quello che Amnesty International ha definito un processo “vergognoso”, sono state pesantissime: 75 condanne a morte, 47 condanne all’ergastolo e altre 612 condanne a pene comprese tra cinque e 15 anni. Tra gli imputati giudicati colpevoli c’è anche Shawkan, che è stato condannato a cinque anni. Avendo già trascorso in carcere un periodo di tempo superiore alla condanna, cinque anni e 25 giorni, dovrebbe essere presto rilasciato. Il suo avvocato è fiducioso che la cosa avverrà in pochi Shawkan è comunque atteso da comunque altri cinque anni di libertà condizionata. Naturalmente, in un paese che rispettasse la libertà di stampa, non avrebbe trascorso neanche un minuto in carcere. Non un solo membro delle forze di sicurezza, per non parlare dei loro superiori all’interno delle istituzioni egiziane, è stato mai chiamato a rispondere di fronte alla giustizia per la “Tienanmen egiziana”. Per maggiore tranquillità, nel luglio 2018 il parlamento ha approvato una legge che garantisce la più completa immunità dai procedimenti giudiziari agli “alti ranghi delle forze annate” per “ogni atto commesso durante lo svolgimento del proprio dovere nel periodo compreso tra la sospensione della Costituzione del 3 luglio 2013 e la convocazione di questo parlamento, il 10 gennaio 2016”. Impunità completa, dunque. L’Italia si trincererà dietro la posizione abolizionista dell’Unione europea, che esprimerà contrarierà nei confronti delle 75 condanne a morte. Da un paese come il nostro, che tanto va fiero degli ottimi rapporti col governo egiziano, difficile aspettarsi di più. Del resto, la decisione di rimandare l’ambasciatore italiano al Cairo venne presa, lo scorso anno, esattamente nel giorno in cui ricorreva il quarto anniversario dei massacri del 14 agosto 2013. Un segnale chiaro di disinteresse verso le violazioni dei diritti umani: non il primo, non l’ultimo. *Portavoce Amnesty International Italia A Berlino le donne siriane invocano la libertà per 100mila connazionali sequestrati di Riccardo Cristiano La Stampa, 9 settembre 2018 Alla porta di Brandeburgo esposte le fotografie di detenuti o rapiti. I membri femminili di “Families for Freedom” chiedono giustizia per tutte le vittime del regime o dei jihadisti. Un autobus porta in tutte le nostre capitali i nomi, i volti e le storie di tanti siriani inghiottiti nel buio e dei quali non si sa più nulla. Sono calcolati in almeno 100 mila quelli arbitrariamente imprigionati o fatti forzatamente sparire. La maggior parte di loro non hanno mai toccato un’arma; sia nei casi, i più numerosi, di arbitraria sparizione per mano del regime siriano, sia in quelli, altrettanto gravi, di sequestro da parte dell’Isis o dei tanti gruppi armati jihadisti. Sono i desaparecidos di questa “guerra mondiale combattuta a pezzi” e che vede schierati in Siria alcuni degli eserciti più potenti del mondo. Questo autobus, organizzato da “Families for Freedom”, è arrivato in queste ore a Berlino e staziona vicino alla porta di Brandeburgo, per coinvolgere le opinioni pubbliche europee con il destino di tutti; sunniti, sciiti e cristiani per seguirne le apparenze confessionali, tutti sequestrati o segretamente imprigionati, purtroppo molto spesso da anni. C’è chi dopo anni di dolore ha appreso recentemente che un proprio congiunto è morto, ma senza averne mai potuto vedere o recuperare la salma. A volere che questo autobus ci parli di tutti i missing siriani e del dolore dei loro familiari è un gruppo di donne, che ritengono prioritario riunire i siriani nella loro richiesta di giustizia e verità per tutti, senza confini etnici, politici o confessionali. Riunire i siriani può essere possibile, forse, proprio così; unendo il dolore di tutte e per tutte le vittime. Ogni famiglia siriana infatti ha una vittima, e migliaia di famiglie hanno un loro caro scomparso nel nulla da mesi, o da anni. Chi ha conosciuto questo destino, ad esempio, è Noura al Jizawi, originaria di Homs, una delle tante città-martiri della Siria. Per lei dietro questa iniziativa tutta al femminile si sente il valore della famiglia e della casa familiare, visto che in Siria si dice che “quando muore una madre muore una famiglia”. Il ruolo sociale e culturale delle donne può trovare una nuova centralità proprio nella ricerca di un’unione tra le famiglie nel nome delle loro vittime; e per Noura deve essere chiaro dove arrivi la categoria di vittima. “Indubbiamente cercare le vittime e sensibilizzare le opinioni pubbliche mondiali sul destino dei desaparecidos siriani è importante, ma dobbiamo sapere che oggi in Siria è vittima anche chi viene assoldato per perseguitarci, dall’Isis o dal regime o dalle milizie jihadiste. Anche loro sono delle vittime”. Noura è stata sequestrata per sette lunghissimi mesi, per questo le sue parole al riguardo sono rilevanti. Una detenzione dura, che prevedeva anche la tortura. Ai tempi delle pacifiche manifestazioni di piazza lei si unì a chi chiedeva libertà, democrazia, dignità, fino al giorno in cui fu costretta a salire su un’automobile, per poi sparire. Non definisce il suo un arresto, fu un sequestro, durante il quale “la peggiore tortura è stata quella di sentire le urla di tanti uomini, di tante donne torturate, per ore.” Questa giovane madre, lo è da pochi mesi, definisce il più grande dolore di allora il sentire le urla dei suoi compagni di detenzione. Una consapevolezza che la porta a leggere così il trauma siriano. “Parlare di questo - dice a Vatican Insider - mi riporta indietro nel tempo, a quel giorno in cui mi ritrovai nel fuoco che fu aperto contro l’ ufficio dove mi trovavo, ad Homs. Ero insieme a un carissimo amico, un collega, lui fu colpito e ucciso. In quel momento mi sono sentita in colpa. La colpa di essere salva. Perché io mi ero salvata e lui no? Lui era lì, come me e con me. Un momento dopo lui era morto: io no, io ero salva. Questa colpevolezza per via della propria salvezza, che attanaglia tanti siriani, in patria come nella diaspora, è parte del nostro trauma collettivo. Questo trauma è costituito anche da questo senso di colpa, che da madre ho capito ancor meglio vedendo una mia connazionale con il suo bambino in braccio, colpita mentre cercava un nascondigli, pochi mesi fa, prima di vedere il bambino morire. Mio figlio ha pochi mesi, come il suo. È un senso di colpa paralizzante e si riesce a capire soltanto se lo colleghiamo a un altro tema, quello dell’infinito”. “Nel trauma siriano - aggiunge Noura - questo senso di infinito non deriva dalla straziante lunghezza di questo conflitto feroce: il tema dell’infinito riporta ogni siriano al precedente conflitto, quello degli anni Ottanta, che non è stato soltanto un conflitto tra il regime e i Fratelli Musulmani ma coinvolse famiglie, genitori, madri, figlie, sorelle. Ecco che entriamo nell’infinito, per cui molti sono convinti che non finirà, che tornerà, e anche peggio di così”. I ricordi corrono alla mente e Noura ricorda che nel 2011 suo padre voleva impedirle di unirsi ai cortei di protesta. Anche se non violenti quei cortei per suo padre erano pericolosi, da evitare, “perché, mi disse, io so, io ricordo cosa è successo allora, Noura”. La libera scelta della donna la portò in piazza, e poi a bordo di quella macchina. Così questa iniziativa sembra richiamare il ruolo delle donne in questa ricerca di verità e giustizia per migliaia di persone nel nome della maternità, una delle forze capaci di rompere la paralisi interiore che caratterizza il trauma siriano. A Berlino sono riunite donne non credenti e credenti, musulmane e cristiane, per ricordare, conoscere e chiedere la libertà per chiunque è stato inghiottito forzatamente nel buio, sia quello causato dal regime siriano, sia quello causato dall’Isis e dai gruppi jihadisti. Non può che essere così: non solo perché tutti hanno diritto, ma anche perché alle volte le vittime di queste sparizioni sono state perseguitate da entrambi. È il caso di una notissima attivista per i diritti umani, Samira Khalil, per quattro anni arrestata dal regime di Assad, poi sequestrata a Douma dai jihadisti di Jaysh al Islam mentre era impegnata nella documentazione della violazione dei diritti umani insieme a Razan Zaituneh, la più nota promotrice dei diritti umani in Siria. Jaysh al Islam, di cui è provato il sostegno da parte saudita, e che secondo gli stessi familiari della signora Zaitouneh avrebbe sequestrato le due donne quattro anni fa, ha sempre negato la sua responsabilità senza mai fornire però una possibile alternativa, anche considerato il suo ferreo controllo militare della città. La speranza che siano ancora vive è quasi svanita quando Douma è stata riconquistata dal regime siriano, ma di lei e di Razan Zaitouneh non si sono trovate tracce. A Berlino sono arrivate in tante, con la fotografia di un padre o di un figlio, di un fratello o di una sorella, da esporre vicino all’autobus di “Families for Freedom” perché il mondo ricordi anche quel volto, quella storia inghiottita in una tragedia che nelle prossime ore, con la battaglia che a Idlib coinvolgerà tre milioni di rifugiati, non potrà che arrecare nuovi traumi, nuove morti, nuove sparizioni forzate. Tra quelle fotografie ci saranno anche quelle di quei religiosi che nel 2013 sono spariti senza che nessuno osasse rivendicare quell’azione criminale: il gesuita romano Paolo Dall’Oglio e i due vescovi siriani Johanna Ibrahim e Boulos Yazigi. L’iniziativa delle organizzatrici ha dovuto fare i conti con intimidazioni, minacce. Ma noi dobbiamo “unire migliaia di famiglie siriane - dice Noura Gazi, tra le fondatrici del movimento - attraverso tutto il Paese e attraverso tutti i fronti politici nel nome dei diritti di tutti i detenuti”. E nella consapevolezza, purtroppo, che alcun scomparsi dai primi tempi sono già stati uccisi. Lo hanno reso noto proprio in questi mesi le autorità di Damasco. Per questo l’organizzazione di Noura Gazi ha deciso di portare dei fiori da esporre vicino alle loro fotografie, ricordando che alcuni di loro nel 2011 portavano fiori ai posti di blocco. Iran. Eseguita la condanna a morte del 23enne Panahi, attivista curdo di Shorsh Surme notiziegeopolitiche.net, 9 settembre 2018 Dopo mesi nel braccio della morte, il 23enne Ramin Hussien Panahi, attivista curdo del Kurdistan dell’Iran ( Kurdistan Rojhalat), è stato impiccato oggi alle prime luci dell’alba nel carcere di Raja’i Shahr a Karaj, nella provincia di Hengaw. La notizia è stata diffusa attraverso un tweet dal fratello Amjad, il quale ha chiesto alla comunità Internazionale di condannare con fermezza l’esecuzione come pure quella di altri detenuti politici del regime degli ayatollah. Panahi era stato accusato senza alcuna prova di essere il membro di Komala, uno dei partiti curdi del Kurdistan Iraniano in lotta contro il regime di Mollah e quindi per la libertà di 9 milioni di curdi che vivono nella regione. Nonostante i ripetuti appelli delle associazioni in difesa dei diritti umani e delle Nazioni perché fosse annullata a Panahi la pena capitale, le autorità iraniane gli avevano persino negato la difesa di un avvocato. Il giovane martire Panahi è apparso in un breve video lunedì scorso, con una voce roca, per ringraziare la sua gente e i curdi per il loro sostegno, e ha detto che “Vorrei sottolineare che non sono un terrorista come sostiene l’accusa”. Oltre la morte di Panahi, oggi i caccia bombardieri iraniani hanno colpito la sede del Partito Democratico del Kurdistan dell’Iran (Pdki) nella città curda di Koya, provincia di Erbil, la capitale del Kurdistan dell’Iraq, violando la sovranità della Regione Federale del Kurdistan e dello stato iracheno. Il Governo Regione del Kurdistan (Krg) ha condannato l’attacco che ha provocando 12 morti e 42 feriti. Negli ultimi anni sia l’Iran che la Turchia hanno ripetutamente bombardato aree della regione del Kurdistan, specialmente lungo i confini.