Gli avvocati al ministro della Giustizia: subito l’ordinamento penitenziario per i minorenni di Raffaele Sardo La Repubblica, 8 settembre 2018 “La legislazione minorile necessita di un ampio intervento legislativo per colmare quattro vuoti normativi. In primis, occorre approvare l’ordinamento penitenziario minorile che tutti gli addetti ai lavori attendono dal 1975, anno dell’entrata in vigore della legge sulla disciplina dell’ordinamento penitenziario che, in via transitoria, si applica anche ai minorenni”. È quanto hanno chiesto la Camera Penale Minorile di Napoli e l’Unione Giovani Penalisti, rappresentate dai presidenti Mario Covelli e Gennaro Demetrio Paipais, al Ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, durante un incontro avvenuto ieri nel dicastero di via Arenula, nell’ambito degli incontri “Il ministro ascolta”. “Abbiamo fatto presente, inoltre, che bisogna istituire in ogni regione comunità specialistiche per i minori affetti da disturbi psichiatrici da strutturare come le Rems previste per i maggiorenni, introdurre il procedimento di mediazione nel rito minorile per realizzare completamente la finalità educativa dello stesso e infine istituire centri diurni polifunzionali in ogni Comune, che avviino i minori a rischio verso attività di studio, formazione professionale, lavoro, ludico-sportive”, hanno aggiunto. “Per la prima volta - concludono Covelli e Paipais - possiamo avvalerci di un’interlocuzione diretta con il ministro che ha aperto le porte del Ministero a tutte le associazioni forensi per il miglioramento del sistema giustizia”. Politica e giustizia, gli slogan poco utili di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 8 settembre 2018 Il conflitto politica-giustizia va avanti da decenni ma finora nessuno, da una sede istituzionale come ancora è il Viminale, s’era spinto a tanto. Cambiano le maggioranze, cambiano i governi, ma alla fine ci si ingarbuglia sempre intorno allo stesso nodo: la giustizia. Nel giorno in cui la metà grillina dell’esecutivo (vice premier Di Maio e Guardasigilli Bonafede in testa) esulta per una “rivoluzionaria” riforma chiamata “spazza-corruzione” (definirla “anti” non basta più, evidentemente), che affida ai magistrati nuovi strumenti per contrastare mazzette e malaffare, la metà leghista se la prende con i giudici che hanno sequestrato i fondi del Carroccio. E l’altro vice premier nonché ministro dell’Interno, Matteo Salvini, diserta il Consiglio dei ministri, evoca “processi politici” e irride all’indagine a suo carico per la vicenda dei migranti sulla nave Diciotti; ieri, appena ricevuta la comunicazione dalla Procura di Palermo della trasmissione degli atti al Tribunale dei ministri, in diretta Facebook s’è fatto beffe dei magistrati e dell’atto giudiziario che gli è stato recapitato, appendendolo al muro del suo ufficio e come un encomio. Il conflitto politica-giustizia va avanti da decenni ma finora nessuno, da una sede istituzionale come ancora è il Viminale, s’era spinto a tanto. A parte le considerazioni sul senso dello Stato mostrato da un rappresentante del governo (e che rappresentante), siamo al cortocircuito della giustizia declinata secondo i canoni della battaglia politica: da un lato continua a essere un terreno di scontro permanente, e dall’altro è diventato materia di propaganda. Che la corruzione sia uno dei mali della vita pubblica italiana lo sappiamo da tempo. Ma anziché affastellare riforme a ogni mutamento di maggioranza (negli ultimi otto anni gli esecutivi guidati da Berlusconi, Monti e Renzi hanno varato altrettanti “pacchetti”, sempre annunciati come cambi di rotta epocali), sarebbe ora di provare ad applicare sul serio le regole che già ci sono; o semplificare quelle procedure della pubblica amministrazione dove spesso si annidano i presupposti di pagamenti e rapporti illeciti. S’è detto tante volte, ma facilitare certi percorsi sembra sia la cosa più difficile da fare. Si preferisce aumentare le pene, ideare nuovi reati, o ricorrere a strumenti sempre più dirompenti, almeno sul piano dell’effetto-annuncio. Stavolta è il turno del daspo; a vita, ribadisce il ministro della Giustizia, anche se con la via d’uscita della riabilitazione che consente al premier Conte di dire che non è a vita. Una minaccia sbandierata come deterrente finalmente efficace, per restituire all’Italia una “prospettiva di onestà”; e poi l’agente infiltrato, o altre novità fatte passare per toccasana definitivi prima ancora che se ne possa misurare l’effettiva utilità. Messa in dubbio, prima dell’entrata in vigore, dai tempi biblici attualmente necessari per arrivare a una condanna definitiva. Quando ci si arriva. C’è un sottofondo di demagogia, in certi proclami, che stride con la prudenza e l’attenzione sempre auspicabili quando si mette mano alle regole sull’amministrazione della giustizia. Venticinque anni di strumentalizzazioni di indagini, processi e sentenze non sono bastati a consigliare misura, e alla prima occasione buona ecco uno dei due soci di maggioranza lanciarsi all’attacco dei giudici. In attesa che, al prossimo giro, tocchi alla Lega rivendicare modifiche di codici e leggi su extracomunitari e legittima difesa; ognuno ha i suoi spazi da difendere e occupare, quando si parla di giustizia. Nella sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo che ha condannato l’Italia per un trattenimento di migranti a bordo di una nave considerato illegittimo (un caso simile alla vicenda Diciotti, perciò acquisito agli atti dell’indagine su Salvini) i giudici di Strasburgo denunciano la confusione e la “ambiguità legislativa” in materia di stranieri, inevitabile conseguenza della continua rincorsa a cambiamenti di regole da vendere al mercato degli slogan. Che non si limita alle leggi sui flussi migratori, e che sulla giustizia ha già provocato troppi guasti. Garantismo: se è a ore non va di Piero Sansonetti Il Dubbio, 8 settembre 2018 Ha ragione Matteo Salvini, credo, a protestare per l’eccesso di attenzione della magistratura nei suoi confronti e nei confronti del suo partito. (Non ha ragione però a paragonare l’Italia alla Turchia: lì ci sono centinaia di prigionieri politici, non scherziamo). Ha ragione perché la decisione di paralizzare economicamente la Lega con il blocco di tutti i finanziamenti passati, presenti e futuri (per recuperare i 49 milioni che i magistrati ritengono siano stati percepiti irregolarmente, anni fa, dalla Lega di Bossi) sembra proprio una prepotenza, e un atto - deliberato o meno - di invasione nel campo della battaglia politica. È evidente che mettere il “bloccasterzo” al partito che oggi è di gran lunga il più popolare e il più forte politicamente nell’agone politico, è un atto che molto difficilmente può avere una interpretazione puramente “tecnica”. La ricaduta politica è evidentissima e bisogna ragionare sulle sue cause e sui suoi effetti. Prima diciamo che è ancora più clamorosa la decisione di scagliarsi contro il capo della Lega, accusandolo di reati da vero e proprio gangster (come sequestro di persona aggravato: roba da anonima sarda) per la vicenda, anche quella assolutamente politica, della Nave Diciotti e del blocco degli immigrati che ospitava. Personalmente ho considerato una iniziativa politica gravissima e sconsiderata quella di Salvini sulla Diciotti (usare 150 esseri umani come “ostaggi politici” per le trattative con l’Europa o, peggio ancora, come utili strumenti per guadagnare consensi elettorali). Ma se ogni volta che si apre un conflitto serio sui temi della politica dovesse scattare l’incriminazione giudiziaria di uno o di tutti e due i contendenti, questo paese sarebbe trasformato in una bolgia, in un inferno. Mi ricordo di quando, tanti tanti anni fa, consideravo sbagliata e prepotente l’iniziativa di Bettino Craxi - capo del governo e segretario del Psi - di tagliare la scala mobile (che era un meccanismo di rivalutazione automatica degli stipendi), e mi ricordo di come su quel tema si accese uno scontro asperrimo, che portò ad una rottura profondissima nei rapporti politici a sinistra: provo a immaginarmi cosa sarebbe successo, allora, se qualche magistrato un po’ alla Patronaggio avesse deciso di mandare a Palazzo Chigi un avviso di garanzia per appropriazione indebita di salari… Non successe, per fortuna, perché l’Italia, in quegli anni, era un paese dove ancora il rapporto tra potere giudiziario e potere politico era un rapporto paritario ed equilibrato (qualche anno dopo, invece, la magistratura partì all’attacco e Craxi fu davvero raggiunto da avvisi di garanzia in grado di annientarlo e di radere al suolo il suo partito). Credo che non ci siano dubbi sulla mia assoluta solidarietà con Salvini (dal quale dissento politicamente più o meno al 100 per cento…) per l’aggressione giudiziaria che sta subendo. Poi però sono costretto a fare alcune domande. Mi limito a quelle indispensabili. Anzi, a due sole, evitando la litania delle dieci domande. Come mai quando la magistratura napoletana (anche sulla base di documentazioni risultate poi false, e giungendo fino al punto da intercettare del tutto illegalmente dei colloqui tra avvocati ed assistiti) tentò di mettere in mezzo il segretario del Pd, parlo di Renzi, la Lega non scattò in sua difesa? Eppure era abbastanza chiaro che si trattava di un’iniziativa pretestuosa, appoggiata da una forte campagna di stampa, che oltretutto produsse dei danni irreparabili al partito democratico. Come mai, mentre lui denuncia l’eccesso di potere della magistratura, il suo partito (cioè i suoi ministri) votano un disegno di legge (quello anti-corruzione) che aumenta a dismisura il potere della magistratura, che rende legittime pratiche di dubbia compatibilità con la Costituzione, che introduce la daspo a vita, l’agente provocatore o qualcosa del genere, la confisca dei beni anche senza condanna, la sterilizzazione della prescrizione, l’esagerazione della già molto esagerata legislazione sui pentiti, eccetera eccetera? Mi sembrano difficili da spiegare queste contraddizioni. Così come mi sembra un po’ difficile spiegare come si concili il garantismo, giusto e rigoroso, per i reati che riguardano la Lega, e molti atteggiamenti della Lega (“buttate la chiave, buttate la chiave! “) per tutte le situazioni di illegalità che invece riguardano i poveracci, e soprattutto gli immigrati e i rom. Il mio non è un ragionamento moralistico, o ideologico. Né tanto meno vendicativo. Semplicemente sono profondamente convinto che il garantismo sia un elemento essenziale di una possibile modernità liberale, e la rinuncia al garantismo sia una vera e propria promessa di autoritarismo. Il garantismo esiste solo se e quando si riesce a renderlo assoluto. Per gli amici e per i nemici. Per i vicini e per i lontani. Per gli italiani e per gli stranieri. Un garantismo a “scartamento ridotto” non è garantismo, anzi, è prepotenza. Poi nella battaglia politica ciascuno fa ciò che vuole e sostiene le idee che gli pare. Senza dover chiedere placet o timbri ai “titolari dell’etica”. Non esistono i titolari dell’etica. Ma perché non esistano davvero è necessario affermare il garantismo (ciò, con una parola più semplice ed essenziale: il Diritto), come pilastro ineliminabile della democrazia. E convincersi che il garantismo non è una cosa che può essere sospesa, che può funzionare a intermittenza, ad ore. Capisco che è molto difficile fare questo in alleanza coi 5 Stelle. Però, allora, se si preferisce la via legalista, bisogna rinunciare alle proteste contro la magistratura. Naturalmente il discorso può anche essere rovesciato: il Pd, o almeno il Pd renziano che giustamente difese il suo segretario quando era finito sotto il tiro dei Pm, perché ora dà del ladro a Salvini? Possibile che, almeno in questo campo, l’unico coerente sia il vecchio e vituperato cavalier Berlusconi? Anm: la legge anti-corrotti è all’acqua di rose. Minisci chiede più giustizialismo di Errico Novi Il Dubbio, 8 settembre 2018 Non basta l’anticorruzione. Almeno all’Anm. In un’intervista al Corriere che sa di ultimatum allo Stato di diritto, il presidente del “sindacato”, Francesco Minisci, dichiara che norme come il Daspo “potrebbero restare lettera morta”, vista “la durata attuale dei dibattimenti”. E che perciò bisogna “evitare che si arrivi alla prescrizione”, da bloccare “definitivamente dopo la condanna di primo grado”. Una stretta bis che si completa con mostruosità come l’abolizione del divieto di reformatio in peius e la possibilità di non ripetere le prove qualora il giudice cambi. Nella conferenza stampa di giovedì sera, tra l’entusiasmo generale per il ddl anticorruzione appena varato, al ministro Alfonso Bonafede è stata posta una domanda: “Non dovevate metterci dentro pure la prescrizione?”. Il guardasigilli ha spiegato che se ne parlerà verso fine anno, dopo aver rafforzato gli organici di magistrati e cancellieri e dato così, nei suoi auspici, più velocità ai processi. Era sembrata un fuor d’opera, quella digressione sull’eternità dei processi. Non lo è affatto. La prescrizione rischia anzi di trasformarsi nel secondo tempo, ancora più cruento, del film horror sulla giustizia penale. Con una stretta ancora più forte sulle garanzie e sui principi elementari dello Stato di diritto. Ieri lo si è capito dalle parole, riportate in un’intervista al Corriere della Sera, del presidente deldissuasione, l’Anm Francesco Minisci. Il quale ha spiegato che le norme appena varate, compreso il mitologico daspo, “potrebbero restare lettera morta” vista “la durata attuale dei dibattimenti”. E che perciò bisogna “evitare che si arrivi alla prescrizione, che andrebbe riformata bloccandola definitivamente dopo la condanna di primo grado”. Non è finita qui peraltro, visto che il leader del “sindacato” dei giudici invoca anche altri due interventi in grado di smontare un paio di cardini della Costituzione: primo, l’abolizione del divieto di reformatio in peius, perché “i condannati oggi senza rischiare nulla fanno appello sempre e comunque” (sarebbe di fatto una mostruosa nei confronti degli innocenti, a tentare di essere riconosciuti come tali); secondo, l’estensione ai reati di corruzione della norma che consente di non ripetere il dibattimento se cambia il giudice (addio all’articolo 111 e al principio dell’oralità). Insomma, per Minisci, non basta. Altro che. Ci vuole ancora un giro, una stretta più forte. Nelle ultime ore l’altro azionista del governo, Matteo Salvini, ha continuato a ripetere che “il ddl sulla corruzione deve essere rivisto”. Ma i Cinque Stelle hanno il vento nettamente a favore: valutazioni positive sul testo sono arrivate dal presidente dell’Anac Raffaele Cantone e dal Greco del Consiglio d’Europa, oltre che dalla Cgil e da alcune associazioni di Piccole e medie imprese. Tanto che il capo politico del Movimento, Luigi Di Maio, ne ha approfittato per sbandierare ancora le nuove norme come “la prima vera manovra anticorruzione che i cittadini italiani vedranno nascere dal dopoguerra” e ha intimato: “Questo testo deve diventare subito legge”. Che la Lega voglia resistere è chiaro. Ma intanto, nella limatura finale non è riuscita ad andare oltre un modestissimo aggiustamento sulla riabilitazione dei condannati: che potrà essere estesa anche alla pena accessoria del Daspo (l’interdizione a contrarre rapporti con la Pa) solo dopo che saranno trascorsi 12 anni dall’esecuzione della pena, e sempre che il giudice riscontri il requisito della buona condotta. Sono state inasprite persino le misure interdittive destinate alle imprese e già previste dall’ordinamento, compreso il divieto di esercizio dell’attività: prima potevano avere una durata minima di un anno, ora il ddl le porta all’astronomica soglia base dei 5 anni. Minisci manco se n’è accorto e ha chiesto che “l’impossibilità di aggiudicarsi altri appalti” venga “estesa alle persone giuridiche”. Già fatto, appunto. Ora il presidente dell’Anm, e persino il moderato Cantone, diventano alleati del M5s nel mettere alle strette la Lega e spingere non solo per l’intangibilità delle misure varate, ma anche per altre “riforme” da brividi, in primis la prescrizione. E piegato com’è dal sequestro delle risorse, non è affatto detto che il Carroccio riesca a rompere questo tremendo assedio giustizialista. Giulia Bongiorno: “stiamo attenti sull’anticorruzione, non ci vadano di mezzo innocenti” di Dino Martirano Corriere della Sera, 8 settembre 2018 La ministra della Lega: i reati vanno ben definiti, sbagliato ampliare il traffico di influenze. “Nel governo c’è piena condivisione sul provvedimento anticorruzione ma ora, proprio perché stiamo inasprendo le pene, serve essere tassativi nella individuazione delle figure di reato... non ci devono andare di mezzo gli innocenti, altrimenti sarebbe una tragedia”. Il ministro della Pubblica amministrazione, l’avvocato Giulia Bongiorno, racconta che, alla vigilia del Consiglio dei ministri, Matteo Salvini ha voluto fare il punto col suo stato maggiore sul disegno di legge “spazza-corrotti” perché, ha avvertito il segretario della Lega, “alcuni passaggi del pacchetto mettono sotto inchiesta 60 milioni di italiani”. Ministro, prima di entrare nel merito del testo una domanda sul Guardasigilli Bonafede che ha dovuto difendere i magistrati del caso “Diciotti” attaccati da Salvini. A chi dà ragione? “Salvini non ha mai detto che ritiene il provvedimento frutto di una magistratura politicizzata”. Lei, sull’anticorruzione, ha parlato in Consiglio a nome della Lega e poi il testo è stato approvato “salvo intese”. Dovrà essere corretto? “Abbiamo dato alcuni suggerimenti in una cornice chiara. Nel governo c’è condivisione sulla ratio della legge che crea una specie di “doppio binario”, simile a quanto già applicato per la mafia e il terrorismo, anche ai reati contro la Pubblica amministrazione. Abbiamo chiesto, dunque, di essere particolarmente attenti nella tassatività delle figure di reato. Il limite tra lecito e illecito deve essere nitido, deve essere chiaro il perimetro dei comportamenti che vogliamo punire”. Quali limiti, allora, dovrà rispettare l’”agente sotto copertura” che il governo vuole infiltrare negli uffici? “Correttamente il ministro della Giustizia Bonafede, che è l’artefice del provvedimento, ha puntato sull’agente sotto copertura scartando l’ipotesi dell’agente provocatore che non avrei condiviso. L’agente sotto copertura già esiste, opera per estorsioni, droga e terrorismo, e anche nell’ambito della pubblica amministrazione si dovrà muovere, sotto la direzione e il controllo del pubblico ministero, solo quando ci sono elementi di reato. Non potrà certo istigare a commettere reati ma, per esempio, in una gara d’appalto in cui si è riscontrata una turbativa potrà presentarsi come uno dei partecipanti”. La Lega ha anche segnalato l’inopportunità del Daspo “a vita”, l’interdizione dai pubblici uffici per le pene definitive sopra 2 anni. “L’accorgimento, sull’onda delle osservazioni di alcuni giuristi, lo ha preso lo stesso Bonafede con il risultato che il Daspo perpetuo prevede la riabilitazione”. Massimo 15 anni, quindi. “Tredici più due”. Pure per l’abuso d’ufficio? “Abbiamo chiesto che il Daspo venisse eliminato per l’abuso d’ufficio che è un reato contenitore, molto vago e facile da contestare. Il disvalore di un abuso d’ufficio è minore di quello di altri reati”. Troppo pure per il traffico di influenze introdotto con la legge Severino del 2012? “È stato decisamente ampliato: ecco, proprio perché sono state alzate le pene, con tutte le conseguenze che riguardano l’invasività delle indagini comprese le intercettazioni, è bene che i reati siano ben definiti. Il traffico di influenze è un reato che ho sempre contestato perché scritto con scarsa precisione. Qual è il confine esatto tra lecito e illecito nell’ ambito dell’ attività di lobbying?”. I magistrati dicono che la legge, senza riforma della prescrizione, non serve. “Con Bonafede siamo d’accordo che la prima cosa è accelerare i processi. Stiamo cercando risorse per assunzioni mirate. Io dopo questa esperienza tornerò in tribunale e so che, dopo le 14, ti dicono sempre la stessa cosa. “Il cancelliere è andato via”. La riforma anti corruzione riaccende gli animi forcaioli anche tra i magistrati di Ermes Antonucci Il Foglio, 8 settembre 2018 La riforma anticorruzione riaccende gli animi forcaioli, non solo del governo Lega-M5s ma anche dei magistrati. Giovedì sera il Consiglio dei ministri ha dato il via libera al disegno di legge finalizzato a rafforzare il contrasto alla corruzione e ribattezzato legge #SpazzaCorrotti. A ben vedere, sarebbe meglio definirla legge #SpazzaCostituzione, visto che molti dei provvedimenti contenuti si pongono in contrasto con la Costituzione italiana e alcuni principi basilari dello Stato di diritto. La principale misura prevista dal ddl è il daspo, vale a dire l’impossibilità di avere rapporti con la Pubblica amministrazione, e quindi di partecipare a gare, appalti o stipulare accordi con la Pa, per chi ha ricevuto una condanna superiore a 2 anni per una serie di reati (dal peculato alle varie tipologie di corruzione). In realtà il divieto per i condannati per corruzione di contrattare con la pubblica amministrazione è già previsto dal nostro codice penale (articolo 32 quater), ma attualmente può essere stabilito per massimo cinque anni, non a vita. Il daspo a vita, infatti, si pone in palese contrasto con l’articolo 27 della nostra Costituzione (che gli strenui difensori della Carta costituzionale dimenticano sempre), secondo il quale le pene devono tendere alla rieducazione del condannato. E quale rieducazione può dare lo Stato a una persona che, dopo essere stata condannata e aver espiato la pena, si vede negare a vita la possibilità di stringere accordi con la Pa? In seguito alle prime segnalazioni sulla probabile incostituzionalità della norma, il governo ha modificato il ddl, prevedendo la possibilità di ottenere la revoca del daspo in caso di riabilitazione, ma solo passati 12 anni dall’espiazione della pena. A questo periodo di tempo andrebbero poi aggiunti i tre anni previsti per ottenere la riabilitazione stessa. In totale, quindi, dovrebbero trascorrere 15 anni, un termine abnorme. Restano di conseguenza più che mai attuali i dubbi sul rispetto del principio di proporzionalità tra reato e pena, stabilito dalla Costituzione, da parte di questa norma. L’altra novità del ddl anticorruzione è l’introduzione della figura dell’agente sotto copertura, cioè di un agente delle forze dell’ordine che lavora da infiltrato per scovare un caso di corruzione. Qui la cosa meno chiara (nella testa dello stesso legislatore) è come dovrebbe funzionare questa figura, il cui uso è già previsto nell’ambito della lotta alla mafia o alle organizzazioni criminali. In quel caso, infatti, si ha a che fare con gruppi criminali, non singoli individui. Come fa un agente a infiltrarsi in una trattativa per corruzione? Va dall’imprenditore e gli dice: “Guarda posso unirmi alla corruzione che stai per compiere, per poi arrestarti?”. Senza contare che il M5s concepisce l’introduzione dell’agente sotto copertura come apripista all’ingresso nel nostro ordinamento dell’agente provocatore (previsto nell’originario programma di governo grillino), istituto che darebbe vita a uno Stato etico del tutto incompatibile con il diritto nazionale e internazionale. Sull’altro fronte, quello delle toghe, lascia senza parole l’intervista rilasciata ieri al Corriere della Sera da Francesco Minisci, presidente dell’Associazione nazionale magistrati. Il presidente Anm abbozza una critica alla riforma anticorruzione predisposta dal governo (“Rischia di essere inutile, i processi sono troppo lunghi”) per poi avanzare le proprie proposte di intervento da Stato di polizia: introduzione del daspo cautelare, cioè già durante la fase di indagini o dopo una sentenza solo di primo grado; estensione del divieto di contrattare con la Pa anche alle persone giuridiche (immaginiamo che un manager di una delle principali imprese private in Italia sia semplicemente indagato o condannato in primo grado per corruzione: ebbene, dal giorno dopo l’impresa perderebbe tutti gli appalti e non potrebbe più averne di nuovi!); sì all’agente sotto copertura; stop alla prescrizione dopo la condanna di primo grado (misura che non solo ci consegnerebbe processi a vita, ma non risolverebbe il problema, posto che oltre il 70% delle prescrizioni avviene prima del rinvio a giudizio); e infine divieto di aumentare le pene in secondo grado ai condannati (mai che si parli dell’eliminazione del ricorso della procura contro un’assoluzione di primo grado). Insomma, Minisci critica il ddl ma solo perché aspira alla realizzazione degli obiettivi più forcaioli espressi dal M5s. Come a dire, si potevano impiccare più in alto, questi italiani. Legalità, così migliora la “percezione” degli italiani di Fabrizio Massaro Corriere della Sera, 8 settembre 2018 La ricerca di Ambrosetti: “Ma nell’Ue restiamo tra gli ultimi”. Giustizia civile ancora troppo lenta. Certezza del diritto e lotta alla corruzione per sostenere l’economia. Sono i punti chiave della ormai tradizionale ricerca sulla giustizia in Italia, elaborata per il quarto anno consecutivo da The European House-Ambrosetti e che sarà pubblicata domani al forum di Cernobbio. La tesi degli esperti di Ambrosetti - un gruppo di lavoro che comprende il vicepresidente del Csm Giovanni Legnini, Raffaele Cantone, presidente dell’autorità anticorruzione, il magistrato Carlo Nordio - è che “le inefficienze della giustizia e la corruzione scoraggiano gli investimenti e la crescita dimensionale delle imprese”. Quella di Ambrosetti è una riflessione che cade nel doppio dibattito in corso: da un lato, sulla procedura di revoca della concessione ad Autostrade per l’Italia da parte del governo Conte, mossa criticata da alcuni perché minerebbe la certezza del diritto e quindi spaventerebbe gli investitori (al di là delle responsabilità della società nel crollo del ponte Morandi), dall’altro sul disegno di legge “Spazza corrotti” con il Daspo per i condannati difeso ieri dal ministro delle Giustizia, Alfonso Bonafede: “Testo miglioratile ma non si torna indietro”. Sulla corruzione la ricerca Ambrosetti evidenzia un miglioramento: l’Italia passa dal 6o° al 54° posto nell’indice della percezione della corruzione restando comunque agli ultimi posti in Europa, 22° su 28 Stati. Per favorire una cultura della legalità secondo la ricerca è stata importante la legge sul whistleblowing, che protegge il dipendente pubblico o privato che segnala anonimamente le attività illecite di cui viene a conoscenza. Le segnalazioni crescono: secondo i dati dell’Anac, dalle 125 del 2015 si è arrivati alle 365 dell’anno scorso (+39%) e solo fino a maggio di quest’anno le segnalazioni di fenomeni corruttivi in Italia erano state 334, il 90% delle quali nel settore pubblico. E proprio questa l’esperienza cui il ddl del governo si richiama. I problemi tuttavia continuano ad essere nella giustizia civile. Quest’anno Ambrosetti deve prendere atto che “in un contesto di miglioramento continuo, la velocità di questo miglioramento è diminuita”. Il totale delle cause pendenti (al 2016) è sceso del 5,1% a 2.482.000 ma è sempre il più alto in Europa per numero di abitanti. E ci vogliono ancora 514 giorni per una sentenza di primo grado: in un anno sono sì stati recuperati 16 giorni (anche grazie alla spinta del processo telematico), ma siamo sempre due volte al di sopra della media europea di 255 giorni. Per una sentenza di Cassazione servono invece in media 8 anni e sette mesi. In particolare mostra segni di affaticamento la mediazione civile, che doveva accelerare la soluzione delle cause in via extragiudiziale. Le iscrizioni sono in calo del 15% mentre aumentano le cause pendenti e si allungano i tempi per la decisione a 139 giorni. Femminicidi. Lo sforzo di educare all’amore di Alessandro Russello Corriere di Verona, 8 settembre 2018 Ancora due. In poche ore. In un qualsiasi giorno di settembre. Con un destino malato come si conviene. Non finisce mai. Forse non finirà mai. O forse sì. Dipende da noi. Dipenderà sempre più da noi. Ci sono le leggi, i parlamenti che le induriscono, le forze di polizia che per quel possono intervengono, i centri d’aiuto per le donne restie a denunciare per paura e per amore e perfino i centri per gli uomini violenti da rieducare. E i giornali che ostinatamente ne scrivono e le tivù e i social che ne parlano. Tutto inutile? No, ma siano ancora lontani. Anche se tutto serve. Deve servire. Anche solo per salvarne una, di donna. Ma tutto continua. Come ieri. Un quarantenne che non accetta la separazione, che perseguita la moglie, che evade dagli arresti domiciliari disposti per le violenze alle quali la sottoponeva. Che la carica in macchina e dopo l’ultimo litigio le spara e la uccide. E che poi scappa lungo l’autostrada e braccato dai carabinieri si ferma e si punta la pistola in bocca esplodendo una pallottola che se lo porta via. L’altro uomo che uccide è figlio di un’altra storia. E un altro tipo di violenza. Ha 58 anni. Lei ne ha 56. Un depresso che trascina la “sua” donna nel baratro. Così dicono gli inquirenti. Come arma usa i farmaci, con i quali addormenta la moglie. La impicca, poi sceglie la corda anche per se stesso. Ci vorrebbe un vaccino, contro i femminicidi. Ma culturale. E l’unico vaccino che abbiamo è l’educazione sentimentale. Che molti uomini non conoscono. Anche quelli che le donne non le uccidono. L’uomo non conosce il “no”, non tollera il rifiuto, non conosce l’indipendenza, teme di più la solitudine. Non sa camminare sul bordo vertiginoso della libertà e del rispetto. Confonde il sentimento con il possesso. Cosa che fa anche la donna. Ma di “maschicidi” non ce n’è quasi nemmeno uno. Le donne, come molti uomini, stalkerizzano, allineano nelle loro fragilità le stesse forme di persecuzione e perfidia dell’uomo. Ma di fronte alla violenza si fermano. Non ce l’hanno dentro, non è nel loro dna. Sanno ricominciare, le donne. Sempre o quasi sempre. E se non ci riescono fanno male solo a se stesse. L’uomo no. È antropologicamente violento, ha radicato il senso del potere (diverso da quello femminile), è la fragilità elevata a livore e vendetta. Non sa lasciare il campo. Trascina con sé la donna che dice di amare del suo “amore” malato. La uccide, qualche volta si uccide. E se resta vivo balbetta anche nel chiedere scusa. Senza avere ancora capito. L’educazione sentimentale. Sempre più uomini per fortuna ce l’hanno, la coltivano. Il genere non va demonizzato, ma il problema resta. Un problema culturale. Che parte dalla famiglia e dalla scuola. I genitori sono la prima “agenzia formativa”. La loro storia affettiva è il libro di testo, sempre lo sappiano scrivere. Il loro linguaggio, i loro gesti quotidiani, il loro modo di amarsi. E soprattutto, quando accade, quello di lasciarsi. Una separazione può essere un grande, seppur doloroso, atto di civiltà per chi la chiede o la subisce ma soprattutto per i figli che a tutto questo assistono. Nessuno nasce “saputo” in amore, la formula non è in vendita. Certo l’ignoranza è contro l’amore, come spesso lo sono i soldi, le scorciatoie emotive, la mala educazione. Ancor prima di quella sentimentale. Che andrebbe per questo insegnata anche a scuola. Insieme a quella civica. Educazione civico-sentimentale. Ce n’è bisogno. Soprattutto per i giovani. Lo si può fare insegnando letteratura, scienza, filosofia, arte. Parliamo soprattutto di giovani perché gli uomini di oggi o hanno “imparato” o sono “compromessi”, guastati. A volte infermabili. Anche di fronte a qualsiasi forma di prevenzione. A meno che prima dell’ipotetica commissione del reato non li si rinchiuda in una cella e si getti la chiave, iperbole giuridica alla quale più di qualcuno/a volentieri ricorre ma contro ogni evidente forma di garantismo. Il quarantenne che ha sparato ieri alla moglie era stato agli arresti domiciliari dopo un periodo di persecuzioni, angherie, maltrattamenti. Anche fosse tornato in carcere ne sarebbe uscito ed è probabile se non certo che la prima cosa che avrebbe fatto è ciò che ha fatto ieri. È terribile dirlo, perfino doverlo pensare, ma ci sono donne “condannate”. Per questo, al netto di ogni forma di prevenzione e di inflizione di condanne, bisogna cambiare gli uomini. A cominciare, appunto, da chi meglio può imparare. Gli uomini di domani. Centri antiviolenza contro i domiciliari: “sono diventati la falla del sistema” di Andrea Priante Corriere di Padova, 8 settembre 2018 “Non è solo una questione di norme, ma di applicazione delle stesse: bisogna rendere più sicuri i percorsi di protezione delle donne”. Parole di Patrizia Zantedeschi, presidente del Centro antiviolenza di Padova, che segue 900 donne all’anno, con venti operatrici tra psicologhe e avvocatesse e dieci volontarie. “La tutela delle vittime e dei loro figli dev’essere la priorità - prosegue. E invece ci sono concetti elementari non ancora assimilati dal sistema Tribunali-forze dell’ordine-Servizi sociali, come per esempio il grave rischio corso dalla persona oggetto di abusi quando il suo aguzzino esce dal carcere per andare ai domiciliari. E ha 24 ore di tempo per completare il tragitto, durante le quali è libero. Per non parlare della frase che spesso ci sentiamo ripetere: ormai è ai domiciliari, da lì non si muove. E invece si muovono tutti. Per non parlare di ciò che accadeva nel passato recente, ovvero mariti condannati a scontare i domiciliari a casa con la moglie che avevano massacrato di botte. Buchi nel sistema intollerabili”, chiude Zantedeschi. Nelle stesse ore arriva la notizia che Natalino Boscolo Zemello, lo scorso 8 agosto responsabile dell’omicidio della moglie nella loro casa di Cavarzere, resta in cella. Ieri il Tribunale del Riesame di Venezia ieri ha infatti rigettato il ricorso presentato dal suo avvocato Andrea Zambon, che aveva chiesto l’annullamento della misura cautelare in carcere e il ritorno ai domiciliari. Ma l’ira della politica per l’ultima tragedia annunciata non si placa. “Stavolta non possiamo imputarla al silenzio della vittima, che aveva chiesto protezione - dice Manuela Lanzarin, assessore al Sociale - tanto da far condannare il suo persecutore. Le misure cautelari si sono rivelate insufficienti o forse inadeguate. È necessaria una riflessione sul modo migliore di proteggere la donna che ha il coraggio di denunciare. La Regione e lo Stato stanno investendo molto nel potenziamento della rete dei Centri antiviolenza e delle case rifugio e nella formazione delle sentinelle del territorio, cioè operatori sociali e del Pronto soccorso, medici, farmacisti, vigili e forze dell’ordine. Ma tutto ciò deve trovare sponda in leggi e in procedure di tutela della donna più attente e severe”. D’accordo Antonio De Poli, senatore dell’Udc: “C’è un problema gigantesco che non possiamo più far finta di non vedere: le donne che denunciano vanno protette, non lasciate sole”. Incalza Cristina Guarda, consigliere regionale della Lista AMP: “È assurdo che persone violente siano condannate solo agli arresti domiciliari. Chiederò alla Regione di monitorare le esigenze espresse dai Centri anti-violenza e mi auguro che il Veneto faccia da apripista, spronando la politica nazionale a un intervento legislativo serio ed efficace”. Guarda ha sottoscritto l’interrogazione a risposta immediata presentata dal Pd, primo firmatario Andrea Zanoni, per chiedere che “la Regione si costituisca parte civile nei processi per femminicidio e violenza di genere”. “Prendiamo esempio da chi l’ha già fatto, come le Regioni Friuli e Puglia nel 2017 o, più recentemente, il Comune di Jesolo nell’eventuale processo nei confronti dell’uomo accusato di aver stuprato una 15enne - dice Zanoni. Il Veneto è al terzo posto nella triste graduatoria dei femminicidi, dietro Lombardia ed Emilia: ne conta già 13”. Ferma Alessandra Moretti, consigliere del Pd: “È inammissibile che l’assassino fosse latitante da luglio e nessuno si sia preoccupato della sicurezza della moglie. Nel giro di un mese in Veneto ci sono state tre vittime, oltre a stupri e altre aggressioni. Un bollettino drammatico, in continuo aggiornamento. La politica deve fare la sua parte: noi abbiamo presentato una proposta di legge per il reddito di libertà, un sostegno economico per aiutare le donne nell’inserimento lavorativo finalizzato all’acquisizione della propria autonomia”. Sgomberi, l’ordine pubblico non giustifica i mezzi di Giuseppe Di Lello Il Manifesto, 8 settembre 2018 Ci sono gli sgomberi perché ci sono le occupazioni e ci sono le occupazioni perché molte migliaia di persone sono senza casa in un paese in cui più di sette milioni di immobili disabitati, anche da decenni, molti dei quali abbandonati al degrado e all’incuria dei proprietari o sottratti alle mafie e mai riutilizzati, sono di gran lunga numericamente superiori ai richiedenti ricovero. Questi ultimi poi già da tempo hanno maturato la bislacca idea secondo cui sarebbe più umano appropriarsi di una casa vuota che vivere all’aperto. Qui però il codice Rocco soccorre i legittimi proprietari con una serie di norme poste alla tutela della proprietà, pubblica e privata, coprendo tutte le situazioni di illecita occupazione senza farsene sfuggire nessuna. Uno dei tanti articoli, forse il più significativo, è il 633 (invasione di terreni o edifici): “Chiunque invade arbitrariamente terreni o edifici altrui, pubblici o privati, al fine di occuparli o di trarne altrimenti profitto è punito a querela della persona offesa con la reclusone fino a due anni o con la multa da euro 103 a euro 1.032. Le pene si applicano congiuntamente e si procede d’ufficio se il fatto è commesso da più di cinque persone, di cui una almeno palesemente armata ovvero da più di dieci persone anche senza armi”. Ora non c’è dubbio che questa è una norma del Codice penale e che chi ne richiedesse l’applicazione dovrebbe fare ricorso a un tribunale, con tutte le garanzie procedurali per l’occupante e il proprietario, altrimenti si potrebbe incorrere nel reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni. La circolare Salvini, ignorando questo passaggio essenziale in uno stato di diritto e appellandosi all’ordine pubblico con l’ausilio dei prefetti, ha deciso gli sgomberi sic et simpliciter. Attenendosi al codice, invece, il Comune di Pignataro Maggiore (Caserta) ha fatto ricorso alla giustizia per ottenere lo sgombero di un edificio pubblico abbandonato da anni e nel quale si era installata l’associazione Tempo Rosso che lì svolgeva attività sociale di aiuto al territorio. La storia è nota: il Comune ha perso tutti i gradi di giudizio, compreso quello in cui la Cassazione ha ribadito, in parole povere, che c’è occupazione e occupazione e, quindi c’è sgombero e sgombero e a distinguerli ci deve essere un giudice. È implicito dedurre che la Cassazione all’ordine pubblico invocato anche dal Comune di Pignataro non ha dato nessuna rilevanza. Le circostanze di fatto, che devono essere esaminate caso per caso e non confuse in una specie di “respingimento collettivo”, hanno portato a far prevalere l’uso sociale del bene a fronte dell’incuria ultradecennale dell’ente pubblico, un disinteresse che aveva ingenerato negli occupanti la legittimità dell’occupazione. La sentenza è importante perché emessa dal massimo organo giudiziario e non da uno dei tanti pretori d’assalto di sessantottina memoria e cade proprio in una fase istituzionalmente confusa, con un Salvini che si crede un sovrano assoluto legittimato a decretare quello che gli passa per la mente: che così non è, già glielo hanno fatto capire alcuni uffici giudiziari siciliani con l’incriminazione per i sequestrati della Diciotti. Se le occupazioni sono reato la questione è demandata ai giudici penali che sono tenuti ad esaminare i singoli casi non solo alla luce del codice Rocco ma anche con riferimento a tutta quella congerie di norme costituzionali che proteggono la dignità umana, l’uguaglianza, l’uso sociale della proprietà privata e altro ancora. A quanti occupanti sgomberati da poliziotti e carabinieri i giudici avrebbero riconosciuto la liceità della loro occupazione? Il concetto di ordine pubblico non può essere utilizzato per cancellare l’ordinamento giudiziario e, con esso, lo stato di diritto. Ci si può augurare che, tempo al tempo, nelle aule giudiziarie la circolare Salvini sarà ritenuta un pezzo di carta senza nessun valore giuridico. Campania: sanità in carcere, le buone prassi non bastano di Samuele Ciambriello* Cronache di Napoli, 8 settembre 2018 Sono stato un grande sostenitore nel 2008 della riforma della sanità penitenziaria che ha riportato il tema della salute nelle competenze delle sole Aziende sanitarie locali affermando così un principio fondamentale. Il diritto alla cura e alla salute è unico per la persona libera come per la persona priva di libertà. Come “Garante campano delle persone private della libertà personale” sono consapevole che il tema della sanità in carcere presenti notevoli difficoltà operative, gestionali e richiede una più ampia cooperazione istituzionale tra Asl e Amministrazione penitenziaria. In alcuni casi ho assistito ad un rimpallarsi di responsabilità che offende le istituzioni e chi le rappresenta. Certo, la sanità campana sulle carceri ha posto molte criticità ma anche una buona prassi ed esperienze significative. Solo a Poggioreale e Secondigliano vi è la presenza di centri clinici, oggi chiamati Sai (padiglione o reparto dove vi è un’intensità di cura maggiore), ma non è un vero reparto ospedaliero. A Poggioreale vi è un ottimo impianto di Radiologia, di recente acquisto, utilizzabile anche dai detenuti delle carceri limitrofe, ma non vi sono dei macchinari utili e necessari per effettuare in sede una Tac o una risonanza magnetica. Una possibile soluzione che rappresenterebbe un altro buon esempio di buone prassi in sanità penitenziaria sarebbe l’acquisto di una “tac mobile” che possa essere trasportata nei diversi istituti. I posti letto negli ospedali da destinare alla popolazione ristretta devono aumentare, ce ne sono solo 36 per una popolazione di 7400 detenuti. Non si ricoverano in altri ospedali perché non ritenuti idonei alla sicurezza. Un’altra osservazione riguarda i turn-over nei centri clinici. Sono lenti perché i detenuti che sono lì presenti restano il più a lungo possibile. Non parliamo del tema dei farmaci o della loro mancanza. L’assistenza dietetica risulta abbastanza approssimativa. Un’altra criticità riguarda il trasferimento dalla carceri per visite specialistiche, lente nei tempi sia per le lunghe attese ospedaliere che per la carenza di personale adibito a poter controllare il detenuto durante la visita. La stessa non stabilizzazione degli operatori penitenziari dell’ambito sanitario impedisce di intervenire bene e con continuità. La cartella sanitaria informatica, la telemedicina devono entrare con forza nei piani regionali di settore. Un’altra criticità che si individua a livello regionale è strettamente collegata alla precedente. Concerne la mancanza di una sistematica attività di monitoraggio epidemiologico volta a definire in termini di evidenza scientifica l’entità, la natura e le tendenze evolutive della domanda di salute espressa dalla popolazione dei detenuti. Il personale sanitario (medici, psicologi, infermieri, ecc.) opera da anni nel carcere con rarissime e sporadiche attività di aggiornamento o di valutazione del lavoro svolto. È pertanto naturale che vengano segnalati frequentemente episodi di cattive pratiche dipendenti probabilmente dal burn out. Un fenomeno che notoriamente riguarda il personale di assistenza alla persona operante in condizioni particolarmente critiche. Reparti di rianimazione,centri clinici, tossicodipendenti, reparti psichiatrici, e così via. Salute e magistratura di sorveglianza è un altro capitolo dolente per tempi e modalità di decisioni. *Garante campano delle persone private della libertà personale Empoli: dal 2016 l’ex carcere doveva essere una Rems, ma è ancora chiusa di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 8 settembre 2018 Considerato un istituto modello, poi si è deciso di trasformarlo in residenza per misure di sicurezza. Nel 2016 doveva diventare una residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza, in acronimo Rems, ma tuttora la struttura è ancora vuota. Eppure parliamo di un ex carcere, quello di Empoli, considerato all’avanguardia visto che era un istituto a custodia attenuata per sole donne. L’istituto era all’aspetto decisamente diverso da altre carceri e si presenta all’interno gradevole nell’arredamento e, per quanto possibile, dinamico nell’uso degli spazi. Consegnato nel 1992, inizialmente era carcere mandamentale; nel 1994 diviene Casa circondariale maschile, succursale di Sollicciano. Nel 1996 è diventato carcere femminile, solo per ex tossicodipendenti, giovani e del luogo; successivamente si è aperto anche a detenute “comuni”, sia extracomunitarie senza permesso di soggiorno, che tossicodipendenti in trattamento metadonico, detossicate con psicofarmaci. Per chi era prossima alla scarcerazione si preparava un programma che generalmente prevedeva anche la destinazione di un alloggio. Insomma un carcere virtuoso che è stato chiuso per diventare una Rems. Ma per cavilli burocratici, nonostante i soldi a disposizione, visto che la Asl competente aveva già pronto un piano da 650.000 per ristrutturarlo e trasformarlo in una struttura capace di ospitare 21 malati psichiatrici, è stato un continuo slittare. Ed ora, grazie all’incuria, rischia di cadere a pezzi ed è sommerso da erbacce. L’allora ministro della giustizia Andrea Orlando, fissò addirittura per l’inizio del 2017 la fine dei lavori di conversione. Ma la data è stata continuamente posticipata fino ad arrivare a fine 2017, quando, l’Agenzia del Demanio ha finalmente trasferito a titolo gratuito la proprietà. L’Asl è diventata proprietaria della casa circondariale di Empoli il 21 dicembre scorso. Ora il progetto prevede la realizzazione della Rems in due fasi: prima per 9 pazienti, poi per altri 12 e l’importo dei lavori di ciascuna fase è di circa 200.000 euro. A questo sia aggiunge ovviamente il costo sulle spese tecniche, gli arredi, le attrezzature, gli allacciamenti, per un totale complessivo di 800.000 euro. I lavori sono stati avviati, ma i tempi si allungano e teoricamente a fine anno la struttura potrà ospitare i primi nove pazienti. La necessità dell’apertura di una nuova Rems nella regione Toscana è importante, soprattutto nel momento in cui in tutto il Paese esistono centinaia di persone in attesa di essere ospitati, tra i quali - non pochi - l’attendono illegalmente in carcere. “Sopravvissuti” alla legge 180 del 1978 (la “legge Basaglia”), gli Ospedali psichiatrici giudiziari (Opg) sono stati definitivamente chiusi il 31 marzo 2015. Fino a quel momento in Italia avevano funzionato ancora sei strutture di quel tipo, e precisamente a Reggio Emilia, Aversa, Montelupo Fiorentino, Napoli, Barcellona Pozzo di Gotto e Castiglione delle Stiviere. In funzione della chiusura degli Opg, la legge 81 del 2014 ha predisposto le Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza - strutture più piccole, specializzate nella cura delle persone affette da disturbi mentali e sottoposte a misura di sicurezza detentiva - insieme a un potenziamento dei servizi psichiatrici territoriali. Il trattamento in Rems, infatti, va inteso non “per sempre” ma, se le condizioni della persona lo consentono, come una fase nel programma di cura per favorire l’attuazione di un percorso terapeutico- riabilitativo di reinserimento sociale. Bologna: al carcere Dozza pochi operatori e nessuna socialità di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 8 settembre 2018 La visita della Camera penale al “Rocco D’Amato”. Carenza di educatori, solo il 15% della popolazione detenuta svolge dei lavori interni e problemi nella sezione dell’infermeria dove c’è una totale assenza di socialità e ai detenuti è concessa solo un’ora d’aria al giorno. Queste sono le criticità riscontrate dalle Camere penali di Bologna “Franco Bricola” dopo una visita alla Casa circondariale “Rocco D’Amato” di Bologna per verificare le condizioni dei detenuti nonché eventuali criticità meritevoli di approfondimento e di essere segnalate alle autorità competenti per le verifiche del caso. I penalisti rendono noto che la visita è stata preceduta da un incontro con la direttrice, Claudia Clementi, il comandante della Polizia penitenziaria, commissario Roberto Di Caterino, e il capo area educativa, Massimo Ziccone. La direzione ha fornito ai penalisti i dati relativi alle presenze, aggiornati al 4 settembre, nonché un quadro generale della situazione, manifestando soddisfazione per l’andamento della stagione estiva che volge al termine, “da sempre problematica - scrive la Camera penale di Bologna - a causa del caldo e dei problemi dati dalla mancanza d’acqua che, invece, quest’anno non si sono verificati”. La visita è stata estesa alle seguenti sezioni: “isolamento” (terapeutico e/ o disciplinare), attualmente occupata da 4 detenuti, “grande sorveglianza”, attualmente occupata da 4 detenuti, “infermeria” attualmente occupata da 28 detenuti, “nuovi giunti” attualmente occupata da 33 detenuti e, infine, “articolazione salute mentale” della sezione femminile. I dati forniti ai penalisti hanno evidenziato un leggero incremento delle presenze (da 766 al 18 febbraio 2017 agli attuali 766) e la presenza di due minori. I penalisti rendono noto che l’infermeria, rispetto alle osservazioni critiche che hanno fatto nel passato, ieri è apparsa decisamente migliorata. In particolare, le celle risultano occupate solo da 2 persone (in occasione dell’ultima visita, invece, vi erano anche 7 persone), con evidenti ricadute - in senso positivo, scrive la camera penale - sulle condizioni di vita e di salute dei soggetti ricoverati. Resta, invece, il problema della totale assenza di socialità. Come già evidenziato in occasione della precedente visita, ai detenuti è concessa solo l’ora d’aria, mentre le restanti 23 ore le trascorrono nelle loro celle chiuse. “Tuttavia, annotano i penalisti - oggi sono stati prospettati dei progetti, elaborati dalla Direzione, proprio per cercare di garantire la socialità anche in tale sezione”. La sezione “nuovi giunti”, invece, per la Camera penale desta più di una perplessità apparendo sovraffollata e, complessivamente, disorganizzata visto che alcuni detenuti sono lì da 1 mese. “Consapevoli delle difficoltà oggettive nella gestione di tale sezione, normalmente destinata all’accoglienza dei nuovi giunti per brevi periodi (10/ 15 giorni) e, in particolare, per il tempo necessario ad effettuare gli screening sanitari - sottolineano i penalisti - è evidente che le condizioni di sovraffollamento rendono, di fatto, complicato collocare i nuovi giunti nelle sezioni che, ormai, sono sature”. Poi c’è l’aspetto della carenza di operatori. Massimo Ziccone ha evidenziato ai penalisti la ormai cronica carenza di educatori: attualmente sono 7 per oltre 700 detenuti, di cui circa 500 con posizione giuridica definitiva. L’incremento del numero dei detenuti assegnati ad ogni educatore, con particolare riferimento ai definitivi, rende a volte difficile garantire il rispetto dei termini per l’osservazione della personalità e assicurare a tutti un percorso di rieducazione e reinserimento. Altra criticità evidenziata riguarda la carenza di fondi per lo svolgimento di attività lavorativa all’interno del carcere: ancor oggi il numero dei detenuti che lavora si aggira intorno al 15%. La direzione però risulta impegnata ad assicurare un minimo monte orario a tutti i ristretti, senza però poter soddisfare le richieste in tal senso. Latina: sovraffollamento carceri, una delle situazioni più drammatiche latinatoday.it, 8 settembre 2018 Il Garante dei detenuti del Lazio: “È la conferma di una tendenza all’abuso della carcerazione ingiustificato”. Dopo una fisiologica contrazione nel mese di luglio, sono nuovamente in crescita i numeri dei detenuti presenti negli Istituti di pena del Lazio che il 31 agosto hanno raggiunto le 6400 unità. Si tratta del valore massimo mai raggiunto negli ultimi 18 mesi, con un incremento di 132 presenze rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso. Il tasso di affollamento complessivo nella regione è del 121%, superiore a quello registrato a livello nazionale che è del 117%. Tra gli istituti di pena in cui la situazione risulta drammatica e dove il numero dei detenuti sfiora o supera il 150% dei posti disponibili c’è anche Latina, oltre a Regina Coeli e Cassino su tutte, e poi Civitavecchia, Velletri e Viterbo. “Si tratta - commenta il Garante dei detenuti del Lazio Anastasìa - della conferma di una tendenza all’abuso della carcerazione ingiustificato dal punto di vista della sicurezza pubblica e che pregiudica il lavoro degli operatori penitenziari volto al sostegno e al reinserimento sociale dei condannati. In assenza di un progetto di riforma indirizzato al potenziamento delle alternative al carcere, non possiamo che auspicare la cautela necessaria nel ricorso alla custodia in carcere in attesa del processo e una maggiore determinazione da parte della magistratura di sorveglianza nella concessione delle alternative al carcere già oggi riconosciute dall’ordinamento”. Crotone: l’avvocato Federico Ferraro nominato Garante dei diritti dei detenuti cn24tv.it, 8 settembre 2018 “Desidero esprimere un sincero ringraziamento per la nomina a Garante comunale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale, a seguito della procedura ad evidenza pubblica indetta dagli uffici competenti di questa Amministrazione”. A dirsi felice di questa nuova mansione è l’avvocato Federico Ferraro che spiega: “la figura dell’Autorità Garante dei detenuti o delle persone private della libertà personale rappresenta, dunque, un organismo di garanzia, una sorta di difensore civico di settore, in grado di costruire un rapporto di collaborazione propositiva con le autorità responsabili, attraverso il monitoraggio e la visita, nei luoghi di privazione della libertà personale come le carceri, i luoghi di polizia, ed i centri per gli immigrati”. “Il Comune di Crotone è il primo tra le amministrazioni municipali calabresi a dotarsi di tale figura, a seguito della legge regionale adottata dal Consiglio, lo scorso 29 gennaio, istitutiva dell’Ufficio regionale di Garante dei detenuti. In Calabria attualmente soltanto la Città Metropolitana di Reggio Calabria e la città di Crotone, si sono dotate di tale figura. Cercherò di svolgere il lavoro con il massimo impegno e dedizione” - ha espresso con soddisfazione il legale. Torino: idee che vogliono diventare business, anche partendo dal carcere di Massimiliano Sciullo torinoggi.it, 8 settembre 2018 Una buona idea che vuole diventare business ha bisogno di un aiuto, magari anche solo di un buon consiglio da parte di chi è più esperto. E questo vale anche se, questa intuizione, è nata estinguendo il proprio debito con la giustizia dietro le sbarre. Riprende infatti dalla prossima settimana “Chiedi al commercialista”, l’iniziativa gratuita nata dalla collaborazione fra l’Ordine dei Commercialisti e le amministrazioni locali di Torino e area metropolitana. Un servizio pensato soprattutto per i giovani che vogliono avviare un’attività economica e che conta su oltre 130 professionisti che offrono consulenza di primo livello. Ora anche ai detenuti. Infatti, accanto ai dodici Comuni coinvolti, due in più dell’anno scorso, si aggiunge anche il carcere torinese “Lorusso e Cotugno”. Dopo la pausa estiva, gli sportelli riaprono dalla metà del mese di settembre a Torino e nell’area metropolitana. In particolare, l’iniziativa coinvolge Torino, ma anche Alpignano, Chieri, Ciriè, La Loggia, Moncalieri, Nichelino, None, Pinerolo, Rivoli, Santena e Venaria (che è un’altra nuova attivazione). Sono più di 130 i commercialisti che metteranno a disposizione dei cittadini la loro competenza in materia fiscale e tributaria per una consulenza di primo livello. A Torino gli sportelli sono attivi presso il Centro Informagiovani (via Garibaldi 25) e in 11 biblioteche civiche, ad Alpignano negli uffici del Comune, a Chieri presso la Biblioteca comunale, a Ciriè presso lo Sportello del Cittadino, a La Loggia (nuova attivazione) presso la Biblioteca Civica, a Moncalieri presso il Centro Informagiovani, a Nichelino presso le sedi di quartiere e il Centro sociale N. Grosa, a None presso l’Informagiovani, a Pinerolo, presso la Biblioteca Civica, a Rivoli nei locali dell’Informagiovani, a Santena negli uffici del Comune, a Venaria, presso gli uffici di Viale Buridani, 33. “Per quanto riguarda il carcere - spiega Laura Carossia, referente dell’iniziativa per conto dell’Ordine dei Commercialisti di Torino - abbiamo già presentato il servizio e dato la nostra disponibilità per un incontro al mese. Gli sportelli hanno riscosso negli anni un interesse crescente e sono ormai migliaia le persone che li utilizzano”. “I giovani vogliono soprattutto sapere che regime fiscale scegliere quando avviano un lavoro di tipo autonomo - prosegue. Ad esempio, i vantaggi, i limiti, le modalità d’accesso al regime forfettario. Molti poi ci chiedono quale tipo di società conviene costituire, se individuale, di persone o di capitali, oppure la differenza fra l’associazione senza fini di lucro, che gode di vantaggi fiscali, e la società commerciale. Abbiamo deciso di postare su Internet, tramite il sito dell’Ordine, le risposte ai quesiti di maggior interesse”. Indirizzi, orari e modalità di prenotazione degli sportelli sono pubblicati sul sito dell’ Ordine dei Commercialisti di Torino, all’indirizzo odcec.torino.it. Venezia: la Festa dell’Orto al carcere della Giudecca di Livia Montagnoli gamberorosso.it, 8 settembre 2018 Oltre 20 anni di attività per un grande modello di economia carceraria. Fondato nel 1994 all’interno dell’istituto penitenziario di detenzione femminile della Laguna, oggi l’Orto delle Meraviglie produce circa 40 tipi di referenze, tra ortaggi, frutta, erbe selvatiche e officinali che alimentano l’attività dell’adiacente laboratorio di cosmetica naturale. E costituisce un esempio longevo di come può funzionare l’economia carceraria. Tra pochi giorni una festa per raccontarlo al pubblico. Come cresce l’economia carceraria in Italia - Oggi il circuito dell’economia carceraria può contare su un numero sempre maggiore di progetti sviluppati nelle carceri italiane a sostegno del reinserimento sociale dei detenuti: attività manuali, per la maggior parte, dove il valore dell’avviamento professionale si carica di aspettative per un futuro fuori dal carcere che annienti il rischio di recidiva. E più nello specifico, i mestieri legati all’universo enogastronomico hanno il merito di stimolare la creatività e il lavoro corale, innescando un percorso che porta al recupero della dignità umana, ancor prima che professionale. Per questo non sono pochi i casi di laboratori gastronomici nati e cresciuti all’interno degli istituti penitenziari fino a ritagliarsi uno spazio sul mercato dei prodotti dolciari (l’esempio più celebre è quello della pasticceria Giotto del carcere di Padova) o tra le piccole imprese che trasformano le materie prime della terra, dalle conserve di pomodoro al ciclo caseario, di cui il laboratorio di produzione del formaggio nel braccio femminile del carcere romano di Rebibbia (sotto la guida di Vincenzo Mancino) costituisce un unicum. Ma il lavoro dei detenuti produce anche birra - ancora a Roma, si pensi alle etichette di Vale la Pena - caffè, vino, pane, conserve. L’Orto delle Meraviglie alla Giudecca - Sull’isola della Giudecca, nella laguna veneziana, uno dei più longevi esempi di economia carceraria è quello sviluppato dall’associazione Rio Terà dei Pensieri con le detenute del carcere femminile, quasi tutte impegnate in un’attività di reinserimento professionale all’interno del complesso risalente al XII secolo, quando nacque come monastero circondato da orti e canali e oggi riservato alla detenzione delle donne, seppur destinato ad accoglierne non più di un centinaio. È questo il contesto che ha permesso lo sviluppo di una vera e propria rete di attività artigianali che trova il suo fulcro nel cosiddetto Orto delle Meraviglie, in grado di alimentare pure la produzione di un laboratorio di cosmetica a km zero. Seimila metri quadri in tutto, con serre in dotazione per le colture più delicate e un gran numero di specialità locali, dal radicchio di Treviso al carciofo violetto di Sant’Erasmo. E poi alberi da frutto, erbe officinali che evocano l’antica funzione del luogo, peperoncini: tra ortaggi, frutta, fiori edibili, erbe selvatiche ed aromatiche, sono circa 40 le referenze messe a dimora. Si produce per il fabbisogno del carcere, il surplus finisce sul circuito dei gruppi d’acquisto solidali o rifornisce ristoranti della zona; mentre le erbe officinali incentivano la produzione di detergenti e creme poi venduti agli alberghi locali. L’evoluzione del progetto - Nato nel 1994, ormai quasi 25 anni fa, l’orto è stata la prima attività avviata dalla cooperativa all’interno del carcere, sulle tracce dell’antico orto del Convento delle Convertite. Si coltiva in regime biologico, e settimanalmente i prodotti di stagione imbandiscono il banchetto allestito nelle Fondamenta del Carcere - recentemente rimodernato grazie al progetto d’artista Daydreaming Inside-out - dove la vendita al pubblico è gestito dalle detenute. A gestire il lavoro c’è Vania Carlot, con lei collabora un numero variabile di donne avviate alla professione attraverso un corso di formazione. Ottenuta l’idoneità, le detenute impiegate nell’orto lavorano tutto il giorno, dal lunedì al venerdì, retribuite con i proventi delle vendite. Poco più di un anno fa, nella primavera 2017, i prodotti del carcere della Giudecca hanno conquistato una nuova vetrina tra le calli veneziane, all’emporio dei Frari ideato proprio per sostenere l’economia carceraria, secondo esempio in Italia - dopo il Freedhome di Torino - di negozio interamente dedicato alla vendita di prodotti made in jail. La Festa dell’Orto - Poi c’è la festa che ogni anno prende vita all’interno del carcere della Giudecca, che per l’occasione apre le porte al pubblico e invita a mettere da parte pregiudizi e barriere sociali. Quest’anno la Festa dell’Orto andrà in scena sabato 29 settembre, dalle 9.30 alle 13, e sarà occasione per celebrare il primo anno di attività di Process Collettivo, come si chiama il negozio dei Frari ideato in collaborazione con l’artista Mark Bradford. Ma gli ospiti saranno accompagnati anche in un percorso di visita all’orto e al laboratorio di cosmetica (nato nel 2001), potranno acquistare i prodotti e ascoltare le storie delle detenute che li coltivano e lavorano su antiche ricette per realizzare cosmetici naturali di alta qualità. Tutto si concluderà con il buffet offerto dalla cooperativa Rio Terà dei Pensieri. Prima di varcare a ritroso l’ingresso del carcere, con la consapevolezza di aver scoperto uno degli orti segreti più speciali d’Italia. Pena di morte e riparazione di Carlo Albero Romano Corriere di Brescia, 8 settembre 2018 La riscrittura, voluta da Papa Francesco, del paragrafo 2267 del catechismo della Chiesa cattolica, per cui “la pena di morte è inammissibile in quanto attentato alla inviolabilità e dignità della persona” e la Chiesa “deve impegnarsi con determinazione per la sua abolizione in tutto il mondo” costituisce una indicazione di estrema significatività, umana ed etica. Prima di tutto perché, materialmente, molti stati tuttora utilizzano questa inumana sanzione. Secondo Amnesty International, infatti, nel 2017 ancora 23 Stati hanno eseguito 993 condanne a morte; a ciò inoltre deve aggiungersi che questo dato non comprende le condanne a morte eseguite in Cina, Paese notoriamente refrattario alla trasparenza in tema di tutela dei diritti umani al proprio interno. Pur essendo il dato in decremento rispetto agli anni precedenti, resta pur sempre insopportabilmente consistente. A fine 2017, ben 21.919 detenuti erano in attesa di esecuzione, vale a dire in quella condizione di lacerante precarietà che, come alcuni casi hanno dimostrato, può protrarsi anche decenni per poi divenire, del tutto improvvisamente, e disperatamente, un fatto compiuto. Pur con molte perplessità, è ovvio per noi auspicare che l’autorevole, e intelligente, volontà papale possa orientare le scelte di quei governi che, evidentemente, sono rimasti a una interpretazione della pena di stampo arcaico e vendicativo, storicamente datata e collocabile prima dell’opera beccariana. Non serve neppure richiamare la mole di letteratura scientifica che dimostra come la pena di morte non abbia alcun valore deterrente verso la commissione di reati; è chiaro che la scelta di questi stati è una scelta muscolare, non ragionata ma fine a se stessa, volta a giustificare una altrimenti ingiustificabile primazia della violenza per rispondere ad altra violenza. Non a caso molti degli stati che adottano la pena capitale utilizzano la tortura come strumento suppletivo di indagine o di sanzione. Ma rispondere alla violenza con altrettanta violenza è inaccettabile; e inevitabilmente il pensiero corre al Card. Martini, fonte inesauribile di costruttive riflessioni in tema di esecuzione penale. Il terzo millennio andava affacciandosi quand’Egli affermava che “Nella colpa è già insita la pena, poiché nella colpa è insita una sconfitta, un’umiliazione una sofferenza”. “La colpa trasforma la pena in responsabilità: chi ha sbagliato dovrà assumersi come pena responsabilità più gravi e onerose per riguadagnarsi la vita”. “La pena non deve cancellare la dignità dell’uomo, e non deve privarlo dei suoi diritti fondamentali”. “Nessuno venga sradicato per essere chiuso in un luogo irreale e snaturato”. Difficile non percepire l’eco della dottrina, che nella seconda metà del secolo scorso generò le fondamenta teoriche di un nuovo e alternativo modello alla giustizia penale di stampo retributivo: la giustizia riparativa. In questo modello le parti coinvolte dal reato (autore, vittima e comunità) si incontrano parlando del fatto accaduto, nelle sue implicazioni e conseguenze, e generando le possibili azioni riparative volte al ripristino della integrità sociale spezzata dal reato stesso. Le modalità applicative del paradigma riparativo, secondo le Nazioni Unite ricomprendono differenti strumenti, e anche il nostro Paese ha da tempo avviato un lento ma costante cammino di riconoscimento del valore della giustizia riparativa. Lo scarto culturale che consente il passaggio verso un utilizzo sempre più convinto e proficuo della giustizia riparativa sta nell’abbandono dell’idea carcere-centrica della sanzione a favore di un coinvolgimento sempre più ampio della comunità, attraverso l’adozione di strumenti (sanzionatori) di cura orientati alla riconciliazione delle parti coinvolte (vittima e autore) definiti e condivisi fra la comunità stessa e le istituzioni deputate alla individuazione e applicazione della pena. Ritengo infatti, guardando con malcelata nostalgia all’insegnamento di Giancarlo Zappa, che alla comunità spetti un compito di riappropriazione dei contenuti della sanzione penale, da tempo, ormai troppo, scaricati, con assoluta indifferenza, nelle mani del sistema penale e penitenziario. Le misure di comunità, la mediazione penale, la tutela delle vittime, l’impegno riparativo sono alcuni degli strumenti che un’attenta riflessione mette a disposizione per questo gravoso impegno; la loro conoscenza, applicazione e corretta gestione le rende una risorsa preziosa; in questa prospettiva non posso nascondere un certo orgoglio quando penso al territorio bresciano e alla sua spiccata, e riconosciuta, vocazione applicativa dei dettami della giustizia riparativa. Ma forse anche questa vocazione non è un caso, posto che fu proprio Papa Paolo VI che rimosse la pena di morte dagli statuti vaticani, abrogandola de facto per ogni reato, durante il suo pontificato. E l’attenzione di Papa Francesco verso il pensiero di Paolo VI è risaputa. Il razzista sul fronte occidentale di Ian Buruma* La Repubblica, 8 settembre 2018 La vista di una folla di tedeschi che rincorrono per strada gli stranieri e levano il braccio a indicare il saluto nazista risulta - per ovvi motivi - oltremodo inquietante. Tuttavia, è proprio questa la scena che si è verificata di recente a Chemnitz, una squallida città industriale della Sassonia che ai tempi della Repubblica democratica tedesca era definita con orgoglio “città socialista modello” (e che tra il 1953 e il 1990 prese il nome di Karl-Marx Stadt). Tuttavia, non si tratta di un problema solo tedesco. Le folle inferocite di Chemnitz hanno molto in comune con i neonazisti, i seguaci del Ku Klux Klan e gli estremisti che un anno fa scatenarono il putiferio a Charlottesville, in Virginia. Le due città hanno entrambe un passato triste - Chemnitz ha conosciuto la dittatura nazista e comunista, Charlottesville la schiavitù - e per entrambe le cause del violento estremismo sono molteplici. Il razzismo è tra queste. Molti americani bianchi - in particolare nel Sud rurale - conducono una vita grama, caratterizzata da bassa scolarizzazione, lavori mediocri e povertà. Il senso di superiorità nei confronti dei neri era l’unico privilegio a cui potevano attaccarsi. Ecco perché la presidenza di Barack Obama ha sferrato un duro colpo alla loro autostima, minandone il presunto vantaggio sociale. È sul loro risentimento che Donald Trump ha fatto leva. Molti tedeschi dell’Est, abituati all’autoritarismo e incapaci di (o riluttanti a) mettere a frutto le opportunità lavorative ed educative che la Germania unita offre loro, si stanno avvicinando a demagoghi di estrema destra che fanno risalire tutti i problemi agli immigranti e ai rifugiati dai Paesi musulmani. L’ansia sociale che opprime i bianchi in Occidente è esacerbata dall’ascesa della Cina e dalla sensazione che Europa e Usa stiano perdendo preminenza. Forse a questo si riferiva Trump quando affermava che “la questione è capire se l’Occidente ha la volontà di sopravvivere”. Occorre stabilire cosa intendesse per Occidente e se la difesa dell’Occidente deve basarsi su presupposti razzisti. Agli inizi del XX secolo ci fu un periodo in cui l’Occidente veniva definito dai suoi nemici (molti in Germania) come luogo del liberalismo anglo-franco-americano. I nazionalisti di destra (molti in Germania) amavano descrivere Londra o New York come “giudaicizzata”. Secondo questa ottica le società liberali si fondavano sul denaro anziché su rivendicazioni basate sul sangue e sui confini. Tuttavia, così come i populisti olandesi e scandinavi di oggi abbracciano i diritti dei gay e delle donne per farne armi simboliche con cui attaccare l’Islam, i leader della destra usano l’Occidente come qualcosa che va protetto dalle orde musulmane. Spesso fanno riferimento a “Occidente giudaico-cristiano”. Il che, insieme all’entusiasmo per i governi israeliani di destra, li mette al riparo dalle accuse di antisemitismo associate all’estrema destra. Non è facile, nella xenofobia, separare le motivazioni razziste da quelle culturali o religiose. Sino alla fine del XIX secolo l’antisemitismo si nascondeva dietro a pretesti religiosi. Con l’affermarsi delle teorie razziali pseudo- scientifiche ciò è cambiato: una volta stabilite distinzioni biologiche tra ebrei e “ariani” non c’è stato più modo di sottrarsi alla trappola del razzismo. Un’argomentazione comune tra chi ritiene che i musulmani rappresentino una minaccia per la civiltà occidentale è il rifiuto di riconoscere l’Islam in quanto fede. È una cultura, dicono, incompatibile con i “valori occidentali”. Esattamente ciò che in passato si diceva della “cultura” ebraica. Benché le persone di tradizione musulmana siano (al pari degli ebrei) diverse tra loro e provengano da Paesi diversi, l’ostilità all’Islam può essere una forma di razzismo. Chi, per religione o nascita, rientra in questa categoria è un forestiero e deve essere emarginato. E raramente questa intolleranza ha come unico bersaglio i musulmani. I neonazisti di Charlottesville celebravano la propria cultura ostentando i simboli dell’antica Confederazione e prendendosela con i neri; la missione della Confederazione era quella di proteggere il suprematismo bianco. Ecco a cosa si ispiravano quelle manifestazioni. Eppure uno degli slogan gridati era: “Non ci faremo sostituire dagli ebrei!”. Sentimenti di questo tipo sono sempre in agguato ai margini delle società occidentali, in particolare negli Usa. Per assicurarsi più voti i politici di destra hanno lasciato intendere di essere pronti a condividere pregiudizi simili. Ma dichiarando che tra la folla di Charlottesville vi erano “persone a posto” e definendo gli immigrati messicani “stupratori”, Trump ha introdotto il razzismo nella politica di tutti i giorni. E quando l’uomo più potente dell’Occidente incita alla violenza è chiaro che l’Occidente, comunque lo si voglia definire, è in grave difficoltà. *Traduzione di Marzia Porta Migranti. Addio permessi umanitari: abrogazione per decreto di Antonio Massari Il Fatto Quotidiano, 8 settembre 2018 Lo “schema di decreto legge” abroga i “permessi di soggiorno per motivi umanitari”. Li abroga “di fatto” - usiamo l’espressione letterale della “relazione illustrativa” - perché limita a soli tre casi la possibilità, per i migranti, di accedere alla “tutela umanitaria”. La relazione del Viminale analizza il fenomeno, distinguendo fra le tre possibilità previste, dal sistema vigente, per accedere alla protezione internazionale: lo status di rifugiato, la protezione sussidiaria, i motivi umanitari. Lo status di rifugiato (legato alla persecuzione personale prevista nei casi elencati espressamente dalla Convenzione di Ginevra) riguarda oggi il 7 per cento dei riconoscimenti. La protezione sussidiaria (legata alla condizione generale del suo Paese di provenienza: l’esistenza ad esempio di un conflitto armato in corso) ammonta al 15 per cento. Infine la protezione umanitaria (che è un caso “residuale”, poiché riguarda il richiedente che corre dei rischi, nel suo paese, ma non rientrano nei casi previsti dalla Convenzione di Ginevra, né sono legati a un conflitto armato generalizzato) si attesta nel 2018 al 28 per cento. Cifre che rendono la “tutela umanitaria”, secondo il Viminale, “il beneficio maggiormente riconosciuto” nonostante debba essere “utilizzato in ipotesi di eccezionale e temporanea gravità”. E che deve quindi essere nei fatti abrogato. Lo schema del decreto è stato discusso ieri dai rappresentanti del Viminale, del ministero di Giustizia, della Pubblica amministrazione e degli Esteri e dovrebbe essere varato tra due sedute del Consiglio dei ministri. Il decreto intende limitare a tre casi la possibilità di concedere la tutela umanitaria: “condizioni di salute di eccezionale gravità”, “situazioni contingenti di calamità naturale nel paese di origine”, il premio per “il cittadino straniero che abbia compiuto atti di particolare valore civile”. “Se viene meno la protezione umanitaria, che era uno strumento residuale”, commenta l’avvocato Guido Savio dell’Associazione studi giuridici sull’immigrazione, “potrebbe ritrovare attualità l’asilo previsto dall’articolo 10 della Costituzione, che ne ricomprende molte forme”. In sostanza: il migrante potrebbe chiedere ugualmente la protezione umanitaria, ma tramite lo strumento costituzionale. Ristretti i casi nei quali concedere la tutela umanitaria, il decreto passa a moltiplicare i casi in cui, qualsiasi tipo di permesso, può essere revocato in caso di condanna. Il decreto “inserisce ipotesi delittuose di particolare gravità che destano allarme sociale”. Nel caso concreto, compare però anche la “resistenza a pubblico ufficiale”. “E non si tratta di un reato che desta grave allarme sociale”, commenta Savio. Seguono la “violenza e alla minaccia a pubblico ufficiale”, “lesioni personali gravi e gravissime”, “mutilazione degli organi femminili”, “furto e furto in abitazione aggravati dal porto d’armi o narcotici”. Il rifugiato rischia di perdere il suo status se rientra nel suo Paese. Ma c’è di più. E qui il decreto si inoltra in territori che faranno discutere parecchio. L’argomento riguarda i migranti “in attesa della definizione del procedimento di convalida del provvedimento di espulsione disposta con accompagnamento alla frontiera”. La bozza del decreto prevede che “lo straniero possa permanere in strutture idonee - diverse dai Centri di Permanenza per il Rimpatrio - nella disponibilità dell’Autorità di pubblica sicurezza”. “Il che - spiega l’avvocato Guido Savio dell’Associazione studi giuridici sull’immigrazione - può significare anche in una cella di sicurezza, nonostante questa restrizione della libertà personale non sia stabilità secondo i criteri previsti dall’articolo 13 della Costituzione, ovvero: casi e modi determinati per legge. E in questo caso infatti non sono determinati per legge”. E ancora: “la materia di accoglienza dei richiedenti asilo sarà prestata esclusivamente nei centri deputati dal decreto legislativo del 2008”. Secondo l’Asgi “piuttosto che potenziare il sistema Sprar - che è gestito dai Comuni - vengono di fatto favoriti i centri di accoglienza straordinari gestiti dalle cooperative”. Si prolunga anche il periodo di trattenimento nei centri per i rimpatri, che passa “dagli attuali 90 giorni ai sei mesi”. “Considerato che il sistema delle espulsioni non ha mai funzionato strutturalmente”, continua Savio, “incrementare la durata del trattenimento non risolve il problema e, per di più, maggiormente sui costi di gestione. Non solo: se lo stato di provenienza non identifica lo straniero, si può soltanto ordinargli di andar via con le sue gambe, rischiando di incrementare così la sacca di clandestinità che sarà a disposizione della criminalità”. Secondo l’Arci siamo dinanzi a “un pesante passo indietro”, una “pietra tombale sul diritto d’asilo”. Il Tavolo Asilo, che rappresenta le principali organizzazioni, chiede di “incontrare i gruppi parlamentari e le commissioni competenti”. Libia. Msf: “migliaia di migranti detenuti nei centri intrappolati sulla linea del fronte” agenir.it, 8 settembre 2018 “Migliaia di rifugiati, migranti e richiedenti asilo detenuti arbitrariamente nei centri di detenzione in Libia devono essere immediatamente rilasciati ed evacuati verso la sicurezza fuori dal Paese”: è la richiesta di Medici senza frontiere (Msf) mentre continua per il terzo giorno un fragile cessate il fuoco a Tripoli. “Diversi centri di detenzione a Tripoli si trovano sulla linea del fronte e migliaia di persone disperate sono ancora intrappolate al loro interno - dichiara Ibrahim Younis, capomissione di Msf in Libia. Esiste un rischio reale che gli attacchi indiscriminati e il fuoco di artiglieria provochino feriti di massa. La fornitura di cibo e acqua è stata interrotta e ora viene fornita solo in modo saltuario. Le cure mediche sono del tutto insufficienti perché sono perlopiù fornite da organizzazioni internazionali ora costrette a sospendere le attività a causa dell’attuale insicurezza”. I recenti combattimenti a Tripoli, i peggiori degli ultimi anni, hanno causato oltre 60 morti e centinaia di feriti, la maggior parte civili, secondo le stime del Ministero della Salute libico. Anche le case degli operatori sanitari libici impiegati da Msf sono state colpite. L’accesso dell’équipe di Msf nei centri di detenzione è diventato impossibile dal primo giorno di combattimenti, quando le ostilità erano pericolosamente vicine a uno dei più grandi centri di detenzione con circa 700 persone. Razzi vaganti sono caduti vicino ai centri e le aree circostanti sono finite incendiate. Con l’intensificarsi del conflitto, Msf non è stata in grado di accedere ad altri quattro centri in cui le équipe fornivano assistenza sanitaria tramite cliniche mobili. A seguito della violenza, Msf è stata costretta a sospendere le regolari attività mediche e ridurre le dimensioni del suo team. Attualmente fornisce una limitata assistenza nei centri di detenzione di Tripoli: trasferimenti in ospedale dei casi medici e distribuzioni di cibo, acqua e kit igienici. Sebbene circa 300 rifugiati e migranti detenuti nel centro di detenzione di Ain Zara siano stati “evacuati” la settimana scorsa dalle agenzie internazionali, “non sono stati portati fuori dalla Libia - precisa Msf - ma ricollocati a diversi chilometri dal centro di detenzione di Abu Salim a Tripoli, finito anch’esso sotto il fuoco incrociato degli scontri”. Myanmar. Il Tribunale penale internazionale apre la strada verso la giustizia per i rohingya amnesty.it, 8 settembre 2018 Il 6 settembre il Tribunale penale internazionale ha stabilito di poter esercitare la propria giurisdizione sulla deportazione di oltre 725.000 appartenenti alla minoranza rohingya da Myanmar in Bangladesh. Myanmar non è stato parte dello Statuto di Roma del Tribunale, ma il Bangladesh sì. Il Tribunale penale internazionale ha pertanto stabilito di poter portare avanti le proprie indagini sul crimine contro l’umanità di deportazione poiché di quel crimine, ovvero la sua fine, è avvenuta nel territorio del Bangladesh. Per di più, ha aggiunto il Tribunale, i rohingya sono stati illegalmente costretti a rimanere fuori dal loro paese e a vivere in condizioni agghiaccianti in Bangladesh. “La decisione del Tribunale apre la strada verso la giustizia per le centinaia di migliaia di rohingya che nella seconda parte del 2017 sono stati costretti a lasciare i loro villaggi a seguito della campagna di pulizia etnica lanciata dall’esercito di Myanmar”, ha dichiarato Biraj Patnaik, direttore di Amnesty International per l’Asia meridionale. “L’auspicio è ora che la decisione del Tribunale stimoli il Consiglio di sicurezza a deferire la situazione di Myanmar allo stesso Tribunale, in modo che possano essere indagati tutti gli altri crimini commessi all’interno del paese, nei confronti dei rohingya come nei confronti di altre minoranze etniche negli stati di Kachin e Shan”, ha concluso Patnaik.