Il proibizionismo manda in cella quasi 14mila piccoli spacciatori di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 7 settembre 2018 Nella relazione annuale della Direzione antimafia scompare il parere positivo alla legalizzazione. Un terzo dei detenuti sono entrati in carcere per la legge sulle droghe mentre crescono in modo esponenziale le persone segnalate per consumo di sostanze psicotrope, soprattutto tra i minorenni, che quadruplicano rispetto al 2015. Il fallimento del proibizionismo lo si vede anche osservando la popolazione detenuta italiana. Nell’ultima relazione annuale della Direzione nazionale antimafia di Federico Cafiero De Raho - come ha anticipato Il Dubbio - scompare il parere positivo alla legalizzazione come mezzo efficace per sottrarre alle mafie il suo mercato principale, mentre ribadisce la “War on drugs”, espressione resa popolare dal presidente degli stati Uniti Richard Nixon, che durante il suo mandato l’ha perseguita con grande impegno. Eppure, nello stesso tempo, “le azioni di contrasto - afferma la Direzione nazionale antimafia nella relazione - nonostante i migliori propositi e gli sforzi più intensi, non hanno determinato, non solo una scomparsa del fenomeno (che per quanto auspicabile appare obiettivamente irrealizzabile), non solo un suo ridimensionamento, ma neppure un suo contenimento”. Ma la legalizzazione - come ha ricordato l’esponente del Partito Radicale Rita Bernardini alla scorsa intervista a Il Dubbio - è sparita dall’agenda politica, soprattutto dal nuovo governo visto che nel contratto legastellato non se ne fa alcun accenno. Per capire il fallimento della lotta alle droghe, bisogna, appunto, analizzare i numeri degli ingressi in carcere. A farne un quadro completo è la recente pubblicazione del IX Libro Bianco sulle droghe, il dossier di Fuoriluogo e promosso da la Società della Ragione insieme a Forum Droghe, Antigone, Cgil, Cnca e Associazione Luca Coscioni con l’adesione di altre associazioni, tra cui A Buon Diritto e Arci. Un libro che esamina le politiche sanzionatorie messe in atto dall’Italia sulle tossicodipendenze e i loro effetti sul sistema penitenziario. Giunto alla sua nona edizione, questo rapporto è stato pubblicato al termine di un lungo ciclo che ha visto alternarsi protagonisti e vicende assai contrastanti: dall’approvazione della legge Iervolino-Vassalli (che regolamenta l’utilizzo degli stupefacenti e delle sostanze psicotrope) e l’inizio della guerra alla droga in Italia, alla dichiarazione di incostituzionalità di una legge proibizionista e punitiva - la Fini Giovanardi - fino alle recenti ti- mide modifiche legislative. L’effetto della repressione sulle droghe - I dati inclusi nel rapporto rendono l’idea della situazione italiana. Una delle notizie più interessanti è che quasi il 30% dei detenuti entrati in carcere nel 2017 (14.139 su 48.144) lo ha fatto per aver violato un solo articolo di una legge: l’articolo 73 del Testo unico sulle sostanze stupefacenti, che sostanzialmente punisce la detenzione per piccolo spaccio. Questo dato, in aumento rispetto allo scorso anno, rappresenta un’inversione di tendenza rispetto al trend discendente seguito all’intervento della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo nel 2012. Con la sentenza Torreggiani, la Cedu aveva infatti condannato l’Italia perché il generale sovraffollamento degli istituti penitenziari italiani aveva impedito ad alcuni detenuti di scontare la pena in condizioni dignitose: in seguito a questa condanna, il nostro Paese aveva deciso di fare ricorso alla detenzione in maniera meno diffusa. Se i detenuti in carcere aumentano in termini generali, percentualmente aumentano ancora di più quelli per reati di droga: il 34,5% dei detenuti è infatti in carcere per la legge sulle droghe. Dal dossier emerge che un quarto della popolazione detenuta è tossicodipendente. Record degli ingressi in carcere di persone con uso problematico di sostanze: 34,05%. 14.706 dei 57.608 detenuti al 31/ 12/ 2017 sono tossicodipendenti. Il 25,53% del totale. Si consolida l’aumento dopo che il picco post applicazione della Fini-Giovanardi (27,57% nel 2007) era stato riassorbito a seguito di una serie di interventi legislativi correttivi. Preoccupa l’impennata degli ingressi in carcere, che toccano un nuovo record: il 34,05% dei soggetti entrati in carcere nel corso del 2017 era tossicodipendente. La tolleranza zero non tocca le grandi organizzazioni criminali - Un’altra notizia emerge dal Libro Bianco è che se si paragonano i numeri relativi all’art. 73 (piccoli spacciatori in pratica) con quelli relativi all’art. 74 del Testo Unico - che riguarda un una condotta criminosa più grave, quella di associazione finalizzata al traffico illecito di sostanze stupefacenti o psicotrope: dei detenuti presenti in carcere al 31 dicembre 2017, infatti, quasi 14.000 lo erano per violazione del solo art. 73, poco meno di 5000 per la violazione dell’art. 73 in associazione con l’art. 74, mentre solo meno di 1000 erano detenuti esclusivamente per l’art. 74. Questo conferma la tendenza del nostro sistema repressivo sulle droghe a concentrarsi sui “pesci piccoli”, mentre i consorzi criminali non solo restano fuori dai radar della repressione penale, ma ne traggono anche vantaggio, trovandosi ad operare in un mercato ripulito dai competitor meno esperti. Ma chi fa uso personale della droga? Durissima la repressione. Il Libro bianco denuncia che rispetto al 2015 si evidenzia un + 40% di segnalazioni per consumo di sostanze, quadruplicano i minori segnalati e aumentano del 15% le sanzioni amministrative. Su oltre 35.860 persone segnalate, ci sono solo 86 richieste di programma terapeutico mentre il 43,45% viene colpito da sanzione. La repressione colpisce per quasi l’ 80% i consumatori di cannabinoidi (78,69%), seguono a distanza cocaina (14,39%) e eroina (4,86%) e, in maniera irrilevante, le altre sostanze. Rimedi - Le associazioni promotrici del Libro Bianco riportano come la dichiarazione di incostituzionalità della legge Fini- Giovanardi (legge n. 49 del 2006) da parte della Corte costituzionale non ha risolto ma, anzi, ha reso ancora più urgente la revisione della legislazione italiana sulle droghe e, specificamente, sulla parte sanzionatoria e penale. Per questo motivo, gli autori del rapporto hanno presentato tre proposte di legge, riguardanti la modifica del Testo Unico sulle sostanze stupefacenti, la tutela della salute nell’ambito del consumo e della produzione di cannabis, e la regolamentazione legale della produzione, consumo e commercio della cannabis e suoi derivati. Per quel che concerne la proposta di revisione del Testo Unico vigente sulle sostanze stupefacenti, gli autori del rapporto richiedono in particolare la completa depenalizzazione del possesso e della cessione gratuita di piccoli quantitativi destinati all’uso personale. Viene infatti proposta la qualificazione in termini di liceità, penale e amministrativa, del mero consumo di stupefacenti (e, conseguentemente, delle condotte a esso strumentali). Allo stesso tempo, si propone una riduzione considerevole delle pene previste per le condotte qualificate come illecite, al fine di rendere il trattamento sanzionatorio proporzionale all’offesa, rispettando i princìpi costituzionali. “Tutti sul tappeto restano i problemi aperti o irrisolti: la riunione dell’Onu a Vienna nel 2019, la presentazione delle due proposte di legge sulla legalizzazione della canapa e di revisione radicale del Dpr 309/ 90, la richiesta ultimativa per la convocazione della Conferenza nazionale sulla politica delle droghe, la ridefinizione della natura e dei compiti del Dipartimento antidroga, un confronto sulle soluzioni che emergono in tanti paesi in Europa e nel mondo”, scrivono nella prefazione del Libro Bianco i garanti regionali dei detenuti Stefano Anastasia e Franco Corleone. Le cinque leggi del taser che Salvini non conosce di Piero Colaprico La Repubblica, 7 settembre 2018 Il ministro dell’Interno fa bene, dal suo punto di vista, a gioire: “Sperimentazione del taser, buona la prima! Agli agenti è bastato mostrare il taser per bloccare i contendenti. Più sicurezza e meno rischi. Complimenti e grazie alle forze dell’ordine! Avanti così, con la volontà di introdurre il Taser anche per la polizia ferroviaria, per la polizia locale e per la Penitenziaria”. Ora, che cosa ha insegnato nella questura di Milano il corso dedicato a chi userà il taser? Innanzitutto, si spiega ad agenti e ispettori, è un’arma. Non letale, ma sempre arma, quindi occorre seguire una “regola d’ingaggio”. Un protocollo. Con cinque passaggi logici. Uno, il taser non va estratto subito, ma è all’inizio un “deterrente visivo”. Si avverte “il soggetto”, con frasi tipo “Guarda che ho il taser”. Che resta nella fondina. Due, il soggetto “non desiste”, quindi l’agente impugna il taser e sposta la leva in posizione on, accendendo l’arma e dunque due puntatori laser. Quello più in alto è fisso e indica che primo dardo è pronto. Il secondo è lampeggiante e dice che il secondo dardo è quasi pronto. Terzo passaggio, l’avviso: “Guarda che sei sotto tiro”. Se non basta, quarto avvertimento: si preme un pulsante ed ecco il warming arc, cioè si creano archi voltaici, che producono una sorta di scintilla e un preoccupante ronzio elettrico. Dopodiché, quinto passo, quello definitivo: “premere il grilletto”. Cioè, se viene estratta la Beretta calibro 9, o spara, o viene rimessa nella fondina. Il taser viene definito “un asso in più”. Ora, tornando al ministro, non sappiamo se sia “Buona la prima” del taser, o se sia “buona la prima” dell’intervento, nel senso che tantissime volte basta che si presenti una pattuglia e, come d’incanto, torna il sereno. In questo caso pattuglia con pistola a destra e taser a sinistra. In ogni caso, quello che sembra un grave problema di percezione del ministro sta nel fatto che ogni poliziotto, dopo il corso, sa che bisogna stare molto attenti al luogo in cui viene sparato il dardo, che è dotato di un voltaggio basso, comunque sufficiente a far svenire il “soggetto”. Cioè, chi spara sta attento a marciapiedi, a scale, a pali. L’agente, se lancia il dardo, deve immobilizzare il “soggetto”, non mandarlo all’ospedale per la caduta. Salvini continua a parlare di “treni”, o di “carceri”, di luoghi chiusi: in cui se uno cade, rischia di spaccarsi la testa. Questo può piacere alla pancia di alcuni dei suoi elettori, ma non alla testa di chi in strada difende l’ordine pubblico. Ddl anticorruzione approvato in Cdm. Daspo a vita per reati sopra i due anni di Dino Martirano Corriere della Sera, 7 settembre 2018 “L’Italia ha risorse culturali, economiche e sociali: bisogna cercare di realizzare le condizioni perché queste potenzialità si sviluppino”, ha detto Conte a Palazzo Chigi. E sull’assenza di Salvini in Consiglio dei ministri, ha replicato ironico: “Si è giustificato”. A sera il consiglio dei ministri dà il via libera al disegno di legge “spazza-corrotti”, il testo caldeggiato dal M5S e dal ministro della Giustizia Alfonso Bonafede. Esulta il premier Giuseppe Conte: “Per essere credibili in Italia dobbiamo creare un ambiente, una regolazione di forte contrasto alla corruzione: questo è il primo di una serie di passaggi che dovranno restituire al nostro Paese competitività”. Più enfatico il vicepremier Luigi Di Maio che rimarca come “la lotta alla corruzione farà risparmiare miliardi di euro allo Stato, che potremo utilizzare per le imprese e per le persone senza lavoro, per la scuola, la sanità e i servizi pubblici”. Il Guardasigilli Alfonso Bonafede (M5S) sventola la bandiera del “Daspo a vita per condanne superiori ai 2 anni” da applicare agli imprenditori che proveranno a corrompere i pubblici ufficiali. Tecnicamente si tratta dell’interdizione dai pubblici uffici che, sebbene definita “a vita”, avrà la durata massima di 15 anni. Perché, come prescritto dall’ordinamento costituzionale, tutti i condannati hanno diritto alla riabilitazione (qui, il commento dell’Anm: “Processi troppo lunghi, così è tutto inutile”). E proprio sul “Daspo a vita” è dovuto intervenire il presidente del Consiglio che due giorni fa aveva sollevato la questione di compatibilità costituzionale. Conte si è dovuto anche occupare dell’agente sotto copertura (già utilizzato per indagini su mafia, droga e terrorismo) da infiltrare nella Pubblica amministrazione per consolidare le prove contro i corrotti. A causa di questi nodi ancora non sciolti, il testo è stato approvato “salvo intese”. Ovvero con la possibilità di fare correzioni anche sostanziali prima presentarlo in Parlamento. Il testo prevede anche una “premialità” per i pentiti che dovessero rivolgersi alla magistratura prima di essere colti in flagranza di reato. In questo caso, un pubblico funzionario, ove si sentisse messo alle strette, forse avrebbe l’interesse di confessare nella speranza di salvare almeno il posto di lavoro. Ieri in consiglio dei ministri non era presente il vicepremier e ministro dell’Interno Matteo Salvini e in generale l’atteggiamento della Lega è stato di calibrata attenzione su un testo molto delicato da un punto di vista penale e costituzionale. La ministra della Funzione pubblica Giulia Bongiorno (Lega), avvocato ed ex presidente della commissione Giustizia della Camera, ha svolto puntuali osservazioni nel corso del consiglio dei ministri sui “nodi irrisolti”. Così da raggiungere un compromesso con i colleghi grillini: non blindare il testo, lasciando alla maggioranza in Parlamento la possibilità di correggerlo. “È solo uno spot, con aspetti di dubbia costituzionalità ed efficacia”, attacca Walter Verini (Pd): “Quello che chiamano Daspo non aiuta chi intende collaborare con la giustizia. Pare illusorio, poi, che un corrotto e un corruttore decidano di collaborare prima di essere scoperti”. Per l’ex ministro Enrico Costa (Forza Italia) questo disegno di legge anticorruzione “è un mostro giuridico che stravolge i principi su cui si fonda il sistema penale” Ddl anti-corruzione, l’Anm avverte: processi troppo lunghi, così è tutto inutile di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 7 settembre 2018 Il presidente dell’Associazione nazionale magistrati Francesco Minisci spinge per altri interventi: “Con la durata attuale dei dibattimenti potrebbero restare lettera morta”. “La corruzione è uno dei mali più gravi del Paese, e qualunque misura che aiuti a contrastarla va bene - premette il presidente dell’Associazione nazionale magistrati Francesco Minisci. Ma il punto dolente restano le difficoltà a svolgere indagini e celebrare i processi. Se non si interviene su quello tutto il resto rischia di essere inutile, e purtroppo in questo provvedimento non c’è nulla che vada in questa direzione”. Il ministro della Giustizia parla di rivoluzione e lei dice che è troppo poco? “Ci sono novità potenzialmente importanti, ma con la durata attuale dei dibattimenti potrebbero restare lettera morta. Prenda il cosiddetto Daspo, cioè l’impossibilità di partecipare a gare d’appalto future per i condannati per corruzione. Servono le sentenze definitive, e i primi risultati li vedremo tra sette o otto anni, se tutto va bene. Così anche l’effetto deterrente viene limitato”. Invece che bisognerebbe fare, secondo lei? “Introdurre un Daspo cautelare già durante le indagini o i processi, attraverso il divieto temporaneo a contrattare con la pubblica amministrazione. Hanno preso in prestito il termine Daspo dal divieto di assistere alle manifestazioni sportive per i tifosi violenti, ma quella è una misura amministrativa che si applica immediatamente e per questo è efficace; aspettare le sentenze definitive è tutt’altro discorso. Peccato perché l’idea è buona, anche se ci vorrebbe un’altra precisazione”. Quale? “L’impossibilità di aggiudicarsi altri appalti andrebbe estesa alle persone giuridiche, cioè le imprese per cui hanno agito i corrotti. Altrimenti basterà cambiare la persona fisica che ha pagato per far proseguire il sistema corruttivo. Per spezzare la catena ci vuole questa integrazione”. Gli sconti di pena per i pentiti della corruzione, o addirittura la non punibilità, sono utili oppure no? “Sì, se la premialità viene estesa anche alla pena accessoria, cioè al Daspo; in caso contrario verrà meno la convenienza, e dunque non saranno incentivate le collaborazioni che invece possono essere utili. Inoltre l’eventuale non punibilità dev’essere applicata solo dopo approfondite verifiche all’interno del procedimento penale: il corruttore o il corrotto devono essere indagati e sottoposti ad accertamenti, e poter accedere ai benefici solo al termine di tutti i passaggi, sennò si rischia di mettere in crisi il principio di obbligatorietà dell’azione penale. E questo sarebbe un precedente pericoloso, di cui magari qualcuno può approfittare per applicarlo ad altre situazioni”. Per esempio? “Per esempio nell’ambito della legittima difesa, altra riforma annunciata”. L’introduzione dell’agente sotto copertura va bene? “Sì perché non è l’agente provocatore che si paventava. Anche qui, però, per rendere efficace l’estensione di questa figura già utilizzata nel traffico di droga o altri gravi reati, bisognerà attrezzarsi per formare personale di polizia giudiziaria specializzato in un settore che richiede conoscenze e attitudini particolari. E anche questo aiuto alle indagini, se non si interviene sull’accelerazione dei processi, sarà inutile”. Che bisogna fare per accelerare i processi? “Evitare che si arrivi alla prescrizione, che andrebbe riformata bloccandola definitivamente dopo la condanna di primo grado. Ma non solo. Bisognerebbe inserire la corruzione nell’elenco di quei reati gravi per cui, se durante il dibattimento cambia un giudice, non si deve ricominciare tutto daccapo. E poi eliminare il divieto di aumentare le pene in secondo grado ai condannati, che oggi senza rischiare nulla fanno appello sempre e comunque, trascinando i tempi del processo fino alla prescrizione. E a quel punto, addio Daspo”. Contro la corruzione sanzioni alle imprese per un minimo di 5 anni di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 7 settembre 2018 Bozza del disegno di legge con le misure di contrasto dei reati contro la pubblica amministrazione. Mano pesante nei confronti delle imprese che hanno beneficiato di reati di corruzione. Il disegno di legge approvato ieri sera dal Consiglio dei ministri con il pacchetto di misure di contrasto ai più comuni e diffusi reati contro la pubblica amministrazione irrigidisce in maniera significativa le sanzioni nei confronti delle aziende. La leva utilizzata è quella delle modifiche alla disciplina della responsabilità amministrativa delle imprese, contenuta nel decreto legislativo n. 231 del 2001. Ora, in quel decreto è previsto che le misure interdittive, quelle con la maggiore forza deterrente per il ventaglio a disposizione della magistratura (si va dall’interdizione all’esercizio dell’attività, al divieto di contrattare con la pubblica amministrazione, alla revoca di autorizzazioni e licenze), possono essere applicate per un periodo minimo di 1 anno. Con il testo approvato dal Governo giallo-verde invece la durata minima delle “pene” interdittive aumenta sino a 5 anni. Introdotto poi anche un inedito tetto massimo di durata, individuato in 10 anni. L’inasprimento colpisce quelle aziende i cui dipendenti si sono macchiati dei delitti di corruzione, concussione e induzione indebita. Una maniera per allineare il complessivo apparato sanzionatorio, colpendo in maniera se non analoga, almeno assai simile, le persone giuridiche, dopo che il disegno di legge introduce quello che un po’ sbrigativamente va ormai sotto l’etichetta di daspo, l’impossibilità a vita di contrattare con la pubblica amministrazione e dai pubblici uffici per i manager condannati per corruzione con una sanzione superiore ai 2 anni di detenzione. Per condanne sotto i 2 anni, invece, la misura in un soprassalto garantista di aderenza alle indicazioni anche di recente ribadite dalla Corte costituzionale sulla funzione rieducativa della pena, sarà compresa tra i 5 e 7 anni. Assai lunga la lista dei reati per i quali scatterà la stretta, perché comprende oltre alle varie fattispecie di corruzione (compresa l’istigazione) anche l’induzione indebita, la malversazione aggravata, l’abuso d’ufficio, il peculato e la concussione. Per il capo del Governo Giuseppe Conte si tratta di una riforma strutturale per il Paese, in grado di restituire competitività al sistema economico. Ma è soprattutto la componente 5 Stelle a intestarsi il provvedimento. A partire dal vicepremier Luigi Di Maio, per il quale si tratta di un deciso “cambio culturale” per l’Italia, di un atto che stabilisce “un po’ di giustizia sociale per chi paga le tasse tutti i giorni”. A esultare è poi il “padre” del disegno di legge, il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede: “chiamiamo questa legge “spazza corrotti” perché dopo tanti anni di battaglia in nome della legalità, della giustizia e dell’onesta portare in Cdm un ddl che porta una vera rivoluzione nella lotta alla corruzione è motivo di orgoglio e commozione. Si apre una prospettiva di onestà per il Paese e ci permette di andare a testa alta nel mondo”. L’effetto della riabilitazione sulla misura accessoria del Daspo anticorruzione è poi assai diluito nel tempo, visto che, nella bozza, se ne prevede la sterilizzazione nell’immediato, con la possibilità di estinzione dell’interdizione perpetua alla contrattazione con la pubblica amministrazione e dai pubblici uffici solo dopo 12 anni dal giorno in cui è stata eseguita la pena principale e il condannato ha dato prove effettive e costanti di buona condotta. Premiata poi la collaborazione con l’introduzione di una nuova causa di non punibilità di cui potrà beneficiare chi concretamente e tempestivamente denuncia i fatti e fornisce prove per agevolare l’attività di repressione da parte dell’autorità giudiziaria. Determinante in questa prospettiva il dato cronologico perché la causa di non punibilità scatterà solo in caso di segnalazione precedente all’iscrizione dell’interessato tra gli indagati e comunque dovrà essere effettuata non oltre i 6 mesi dalla commissione del delitto. Contestualmente dovrà essere messo a disposizione almeno l’equivalente del prezzo del reato. Sul versante delle indagini poi, preso atto della difficoltà a sciogliere il patto omertoso tra corrotto e corruttore, si mette nero su bianco il ricorso all’agente sotto copertura, non all’agente provocatore, estendendone il ricorso non solo ai reati di corruzione ma anche alla turbata libertà degli incanti. Bancarotta: abbreviato per le nuove contestazioni del Pm, se chiesto per tutti i reati concorrenti di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 7 settembre 2018 Corte di cassazione - Sezione V - Sentenza 6 settembre 2018 n. 40111. Il tribunale non può negare il giudizio abbreviato, per nuovi episodi contestati da Pm nel corso del dibattimento, se gli imputati hanno chiesto il rito alternativo per tutti i reati concorrenti contestati. Ma l'ordinanza che provvede sulla richiesta di giudizio abbreviato, sia in caso di diniego, come di concessione o di revoca, non si può impugnare in Cassazione, neppure dal punto di vista dell'abnormità, perché lo impedisce il principio di tassatività dei mezzi di impugnazione previsto dall'articolo 568 del Codice di rito penale. Il no illegittimo al giudizio abbreviato, trova però un suo specifico rimedio all'interno dell'ordinamento attraverso il recupero della diminuzione di un terzo della pena alla fine del dibattimento, nel caso in cui il giudice accerti l'irritualità del rigetto della richiesta del rito alternativo. La Corte di cassazione, con la sentenza 40111, deve dunque giudicare inammissibile il ricorso, pur dando ragione al ricorrente sull'errore commesso dal Tribunale. Il giudice di merito aveva, infatti, rigettato la richiesta di giudizio abbreviato avanzata dalla difesa. L'istanza era relativa a due nuovi episodi di bancarotta contestati dal Pm nel corso del dibattimento. Un atto abnorme ad avviso della difesa, secondo la quale l'ammissione al rito, anche solo per le imputazioni suppletive, rientrerebbe nei diritti dell'imputato e sarebbe fuori dalla discrezionalità del giudice. La Cassazione precisa che, “in caso di contestazioni suppletive in dibattimento, la richiesta di giudizio abbreviato non può essere proposta solo per una di queste, a pena di inammissibilità, deve avere riguardo a tutte le nuove, ulteriori imputazioni, poiché la funzione riparatoria dell'accesso in tale fase al rito speciale va comunque coniugata, senza poterla sostituire, con quella deflattiva propria del rito, in difetto della quale non si giustificherebbe l'effetto premiale”. Una condizione che, nello specifico, risultava soddisfatta, visto che gli imputati avevano chiesto il giudici abbreviato per tutti i reati concorrenti. Decade il sequestro dello studio medico se rispetta la modifica dell’abilitazione Il Sole 24 Ore, 7 settembre 2018 Corte di Cassazione - Sezione III - Sentenza 6 settembre 2018 n. 40079. La Corte di cassazione, con la sentenza n. 40079 di ieri ha sostenuto la correttezza del dissequestro di uno studio medico dove veniva praticata l'agopuntura senza la richiesta autorizzazione regionale, ma solo in base alla comunicazione all'Asl. La Corte dà ragione al medico e al tribunale del riesame in quanto la misura cautelare era stata applicata dopo che una nuova norma aveva escluso l'obbligo di ottenere il via libera preventivo della Regione per l'avvio delle attività sanitarie. Il Pm ricorrente in Cassazione sosteneva che la norma statale incriminatrice della condotta del medico non abilitato non fosse suscettibile di modifica a opera di una norma di secondo grado come il regolamento regionale. E inoltre, nel ricorso il Pm faceva rilevare che la norma regolamentare entrava in vigore successivamente al sequestro impugnato. Cambiato l'iter abilitativo il medico, grazie a una norma a lui più favorevole, si trovava in una nuova situazione in cui la condotta tenuta fino a quel momento non era più formalmente contra legem. La Cassazione spiega che il ragionamento del riesame che ha tenuto conto delle novità normative regionali è fondato. Infatti, le regole dell'abilitazione sono demandate proprio alle Regioni. E, nel caso specifico, la novità comportava solo l'obbligo della comunicazione prevedendo il successivo controllo dell'ente territoriale. Quindi, allo stato dei fatti il medico - che tra l'altro era già stato indagato per aver praticato la cosiddetta “terapia del digiuno” - si trovava in una situazione (rispetto ai dovuti adempimenti) non sanzionabile con la misura reale del sequestro della struttura in cui operava. Salerno: Aniello Bruno morto in carcere, quattro medici nei guai occhiodisalerno.it, 7 settembre 2018 Il detenuto di Angri era morto a Fuorni. Conclusioni delle indagini del Pm Nesso per la morte in carcere a Fuorni di Aniello Bruno, pregiudicato di Angri. Rischiano il processo tre medici che fanno servizio al carcere e uno del Ruggi. Ora si attende la decisione del Gip. Bruno si sarebbe sentito male di venerdì nella tarda serata, accusando un forte dolore all’addome. Trasportato all’ospedale “Ruggi” sarebbe stato visitato, sottoposto ad un esame ecografico, dimesso e avrebbe subito fatto ritorno in carcere. “Il medico del Ruggi avrebbe diagnosticato solo una colica renale al detenuto. Del malore Bruno ne avrebbe parlato lo stesso venerdì con la moglie durante il colloquio ma proprio a causa del malore Bruno non sarebbe riuscito a terminare l’incontro. Come ricordano gli stessi familiari del defunto, da più giorni, almeno una ventina, Bruno accusava uno stato di malessere ed era dimagrito di 18 chili. Poi di nuovo un malore e la corsa inutile al “Ruggi” dove venne sottoposto ad un immediato intervento in chirurgia d’urgenza per una presunta perforazione dell’intestino. Operato, l’intervento sarebbe riuscito e sarebbe stato trasferito in sala di rianimazione, dove, però, morì all’alba. L’inchiesta nasce dopo che i parenti di Bruno presentarono una denuncia, tramite l’avvocato Spadafora, per il decesso del loro congiunto tanto che nella stessa giornata di Pasqua i carabinieri acquisirono la cartella clinica. Del caso aveva parlato con un post su Fb anche la figlia. “Mio padre - aveva scritto - prima di tutto non era dentro per quelle rapine, poiché le pene per quei reati le aveva già scontate. Era in carcere per un incontro con una persona nota alle forze dell’ordine che era tenuta sotto controllo con il microchip e mio padre, usufruendo del regime di semilibertà, non poteva avere incontri del genere”. “È stato male per ben 20 giorni con dei controlli mal fatti e una visita in ospedale fatta solo venerdì. Poi è stato rimandato in carcere con la diagnosi d’infezione intestinale”. L’ultima persona che Aniello Bruno ha incontrato è stata la moglie: “Nella giornata di Sabato Santo mia madre ha fatto il colloquio e l’ha visto deperito. Aveva perso 18 chilogrammi e mia madre voleva informazioni, ma nessuno ha voluto darle spiegazioni alla casa circondariale di Fuorni. Poi, la domenica di Pasqua, alle 5.40, con una chiamata dal carcere abbiamo saputo che mio padre era morto”. La famiglia, nel corso delle indagini, ha incaricato il medico legale Panfilo Maiurano di eseguire una perizia per capire in che modo fosse morto Aniello. Tutte circostanze che probabilmente saranno chiarite nel corso di un procedimento giudiziario cui spetta il compito di fare chiarezza su un caso che ha scosso l’opinione pubblica provocando polemiche anche in ambito nazionale. Busto Arsizio: polemica sul garante dei detenuti “c’è, ma non si vede mai” di Andrea Della Bella malpensa24.it, 7 settembre 2018 Il Garante dei detenuti c’è, ma non si vede. E nemmeno si sente. È questa in sintesi la critica che alcuni funzionari e persone che lavorano all’interno del carcere di Busto muovono a Matteo Tosi, ovvero colui che sta ricoprendo questo ruolo. Situazione complessa - Tutto nasce dalla situazione piuttosto difficile che si sta vivendo nell’area trattamentale del carcere, ovvero quella dove vengono declinati i vari progetti di risocializzazione. Qui negli ultimi mesi, sempre secondo il racconto di chi ci lavora, non sono mancati i problemi. Per lo più legati alla continuità lavorativa degli educatori. Occorre, infatti, ricordare che in questi mesi si sono succeduti differenti educatori, per via di pensionamenti e aspettative. Un turn over che ha minato la possibilità di impostare un’attività a più lungo respiro temporale. Dettaglio non certo secondario quando si opera in contesti delicati come quelli appunto di una casa circondariale. A gravare poi sulla situazione ci sono anche i numeri. Dei 450 detenuti di via per Cassano, circa 200 sono definitivi, ovvero che hanno già avuto i tre gradi di giudizio. “Ed è proprio in questa situazione di grave difficoltà che ci saremmo aspettati una maggiore e più significativa presenza da parte del garante”. Secondo gli operatori un’assenza importante: “In questo modo non abbiamo un punto di riferimento sia per quanto riguarda il lavoro quotidiano, sia per portare avanti istanze e problematiche ai più alti livelli istituzionali del carcere”. Insomma in via per Cassano si sarebbero aspettati che in un contesto così difficile Tosi facesse sentire maggiormente la sua presenza e si facesse portavoce dei molti problemi. La posizione di Tosi - “Sono spiazzato da queste critiche”, spiega Tosi. Il quale aggiunge: “Nessuno prima d’ora me le ha mai fatte di persona, se non Luca Cirigliano. Sono però anche contento delle lamentele. Confermano l’importanza di questa figura, indipendentemente dalla mia persona, all’interno del carcere”. Il garante poi entra maggiormente in dettaglio rispetto a quanto sta facendo. Tosi, infatti, spiega che la sua non è un’assenza di disinteresse, bensì una differente impostazione dell’attività che intende portare avanti in qualità di garante dei detenuti: “Come detto a inizio del mio mandato, prima di riprendere l’attività dei colloqui personali, il mio obiettivo è dare vita e gambe a un progetto di lavoro. Mi riferisco al laboratorio delle magliette. Da un lato questa iniziativa potrà dare opportunità di lavoro ad alcuni detenuti e dall’altro credo possa contribuire a sensibilizzare l’opinione pubblica e la politica del territorio”. Per quanto riguarda invece il non aver portato le problematiche a livello superiore istituzionali Tosi dice che “si tratta di un vecchio argomento. Sul quale spero di tornare per l’ultima volta. Non è vero che non mi sono fatto portatore delle problematiche. Anzi, ne ho parlato spesso e in differenti sedi. Più di così, sinceramente non saperi cosa fare”. Infine Tosi ricorda: “Sto lavorando, insieme al partito Radicale per portare una delegazione di parlamentari e di politici del territorio, compresi gli amministratori all’interno del carcere di Busto. Questo perché penso sia un modo forte per far emergere tutti i problemi. D’altro canto, ricordo che le mie dimissioni da consigliere comunale erano anche dovute al fatto che l’amministrazione di Busto, a fronte ad alcune mie richieste, già avanzate anche dal mio predecessore, per poter svolgere al meglio il mio compito di garante, si è dimostrata poco attenta”. Lecco: nel carcere di Pescarenico c'è un supplemento di pena, il sovraffollamento di Paolo Trezzi leccoonline.com, 7 settembre 2018 È notizia delle scorse settimane, dopo la pubblicazione dello studio del partito radicale sulle carceri lombarde, che il nostro di Pescarenico è, dopo Vigevano e Opera, il terzo per sovraffollamento. A fronte di una capienza regolare di 53 posti vede presenti 76 persone detenute, con un’ulteriore aggravante, quella che la struttura dispone di 29 agenti penitenziari contro i 34 previsti, non bastasse, le patologie di tossicodipendenza interessano il 62% delle persone detenute. Mi pare che tutte queste gravità evidenziate non abbiano provocato ne dibattito ne commenti, tantomeno sull’aspetto evidente: se in ogni dove chiusi si sta male, questi dati certificano una mancata dignità nei confronti delle persone detenute, in un ambiente carcerario, con evidenza, i soggetti più deboli. Un sovraffollamento è una mancanza di dignità perché ne riduce la disponibilità di spazi e vita, una carenza di guardie penitenziarie è una mancanza di dignità perché ne riduce i diritti. Un numero così elevato di tossicodipendenti, a fronte di un’assenza di adeguata supporto sanitario e assistenziale è una mancanza di dignità perché il carcere non è una Comunità di recupero. Tutto questo evidenzia implicitamente che le persone detenute non possono essere al centro di un percorso di attenzione e reinserimento nella società in maniera continuativa ed efficace. Tradotto: è un supplemento di pena. E non è ne giusto, ne etico, ne umano. Se non si ha personale, il grave non è prioritariamente che non si fanno delle cose. Il grave primo è che si riducano i diritti della persona detenuta. Il rapporto di potere che vede il detenuto in una posizione già subalterna si acuisce in queste situazioni così estreme. È necessario e urgente che in primis le Istituzioni, penitenziarie e civiche locali, diano risposte su come pensano, in tempi misurabili e verificabili, risolverle o, inizialmente, alleviarle. Un continuativo sportello giuridico gratuito all'interno del Carcere, gestito da avvocati del territorio, in forma gratuita, è un modo molto concreto di provare a ampliare i diritti, e supportare il Difensore Civico. Uno sportello infermieristico e medico, gestito da personale sanitario del territorio, in forma gratuita, è un ampliamento dei diritti. Pensare e realizzare percorsi che portano all’esterno, dentro la città e fuori le mura, credo sia auspicabile, fondamentale e prioritario, anche a beneficio dei cittadini. La certezza della pena non del carcere è un tema che deve essere affrontato, anche per queste lacune. Siccome in ogni dove chiusi si sta male l'obiettivo civile, prioritario, culturale e di dignità è quello di togliere i detenuti dal carcere non di fargli fare qualche lavoretto gratuito dentro. Non è una questione di buoni sentimenti, utile a rafforzare il comun sentire della pietas ma quello della Giustizia. Sono richieste che come cittadini e società civile dobbiamo fare e dire forte. Da subito. Napoli: il M5S dopo il sopralluogo al carcere “detenute trans discriminate” di Flora Frate* iltabloid.it, 7 settembre 2018 Ieri mattina, insieme a rappresentanti dell’Associazione Trans Napoli e al Garante regionale dei detenuti Samuele Ciambriello, con il Consigliere Regionale Luigi Cirillo, abbiamo fatto visita alle donne transgender detenute nel carcere di Poggioreale per confrontarci sulle condizioni di detenzione e su quali percorsi di reinserimento sociale sono per loro previste. Abbiamo così constatato che queste persone sono isolate rispetto al resto della comunità penitenziaria per ragioni di loro tutela, ma questo implica anche la loro esclusione dalle attività di formazione, istruzione e socializzazione che si svolgono negli ambienti comuni del carcere, con palesi ricadute sul loro percorso di rieducazione. Abbiamo inoltre fatto visita al padiglione Firenze, dove sono presenti anche detenuti psichiatrici a cui dovrebbe essere garantita assistenza h24 in un’articolazione specialistica, che però è assente nel carcere di Poggioreale in quanto prevista nel programma regionale per il superamento degli Ospedali Psichiatrici giudiziari in provincia di Napoli unicamente per gli uomini presso il carcere di Secondigliano, che però ha solo 18 posti già impegnati e questo fa sì che tutti gli altri restino a Poggioreale e sia loro garantita un’assistenza specialistica solo per poche ore in alcuni giorni alla settimana. Nei prossimi giorni chiederemo un incontro presso il Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria per porre la questione della detenzione delle donne trans a Poggioreale come in tutta Italia sul tema della loro sistemazione, affinché si attivino specifici percorsi per garantire anche a loro le stesse opportunità di formazione e istruzione previste per gli altri detenuti. Sulla questione dei malati psichiatrici abbiamo due possibili proposte: o ampliare la struttura di Secondigliano per garantire a tutti i detenuti con disagio psichico la stessa assistenza specialistica h24 o convertire l’ala del padiglione Firenze presso il carcere di Poggioreale rendendola anch’essa articolazione specialistica h24 nell’ambito del programma regionale per il superamento degli Ospedali Psichiatrici giudiziari. *Deputata del M5S Napoli: carcere di Poggioreale, le richieste dei detenuti per un carcere più umano vocedinapoli.it, 7 settembre 2018 I volantini sono stati distribuiti all'esterno del penitenziario. È stato e lo sarà ancora a lungo, un periodo molto caldo per le carceri italiane e in particolare per quello napoletano di Poggioreale, una delle peggiori strutture detentive del paese. Gli istituti penitenziari sono nel caos e colpiti da più problematiche. La prima, confermata dai numeri, è quella del sovraffollamento. La seconda, che è la tragica conseguenza di quello che sta accadendo nelle carceri nostrane, è rappresentata dai tanti suicidi avvenuti dietro le sbarre. Nel mezzo, disagi, mala sanità, condizioni disumane. E mentre la politica si è completamente disinteressata della comunità detentiva, anche il corpo della polizia penitenziaria è costretto ad affrontare diverse emergenze. Su tutte, il numero sottodimensionato di agenti a disposizione e le risorse in loro possesso per far fronte alla delicata situazione interna alle carceri. A soffrire per queste condizioni incivili dei penitenziari anche le famiglie dei detenuti. I parenti di questi ultimi sono costretti a file lunghe e attese infinite prima di poter accedere ai colloqui con i propri parenti. Ecco il motivo dei volantini che l’attivista ed ex detenuto Pietro Ioia ha distribuito all’esterno del “Mostro di cemento” che sta a Poggioreale. In sintesi i detenuti hanno chiesto di effettuare una derattizzazione e una deblattizazione, considerata la presenza massiccia di questi animali all’interno del penitenziario. Ma oltre al problema dell’igiene, è stato anche evidenziato come debbano essere velocizzati due processi: uno relativo alle cure sanitarie ed alla somministrazione di farmaci. Un altro che invece riguarda lo snellimento delle procedure di visita dei parenti ai detenuti. Inoltre, è stato chiesto anche di accelerare le pratiche del magistrato di sorveglianza, invitato a trascorrere più tempo in carcere per essere messo meglio a conoscenza di ogni singola storia all’interno del penitenziario. Venezia: “Malefatte”, delle borse cult seconda opportunità di Andrea Castello venezia.italiani.it, 7 settembre 2018 Chi non ha mai sentito parlare delle Malefatte, le famose, coloratissime borse prodotte dai detenuti veneziani? Nel giro di pochi anni questi accessori che uniscono l’arte e il design con il sociale sono diventati quasi oggetti di culto. Ma dietro ad ogni borsa, ad ogni maglietta, c’è una storia che oggi vi vogliamo raccontare. La cooperativa sociale Rio Terà dei Pensieri da più di vent’anni è attiva a Venezia promuovendo il progetto che ha portato alla realizzazione delle Malefatte. Si tratta di un progetto ambizioso e importantissimo, tanto per le persone coinvolte, quanto per la città. Per conoscere meglio questa realtà sono andato nello store in Fondamenta dei Frari (proprio davanti alla chiesa) a parlare con chi ci lavora. Incontro subito Sossima, una delle responsabili del progetto, che mi racconta come tutto sia nato. Rio Terà dei Pensieri è nato quando Raffaele Levorato (il fondatore ndr), una volta in pensione ha deciso di impegnarsi nel volontariato. A quel tempo un suo amico si trovava detenuto nel carcere di Venezia. Andando a visitarlo si rese conto di come i detenuti passassero le loro giornate senza fare nulla di costruttivo. Raffaele pensò quindi di istituire un progetto che desse nuovamente una dignità e uno scopo a queste persone tramite il lavoro. Non si tratta infatti solo di dare qualcosa da fare ai detenuti. Lavorare per la cooperativa dà a queste persone la forza per voltare pagina, la speranza di poter essere ancora utili e di poter reintegrarsi nella società. Conosco poi Gloria, detenuta alla Giudecca. Il suo sguardo è raggiante mentre mi spiega le varie attività che si svolgono nel carcere femminile. Abbiamo circa un ettaro di orto nel quale coltiviamo ortaggi da vendere all’esterno, oltre a tutte le erbe che utilizziamo per i prodotti cosmetici. Tutti i nostri prodotti come i saponi e le creme per il corpo sono creati interamente da noi, dagli estratti alla grafica sulle confezioni. Negli anni abbiamo raggiunto un tale livello di qualità da poter rifornire hotel prestigiosi come il Bauer, l’Aman, il Quattro Fontane a Venezia e il Palladio a Vicenza. Ma le Malefatte non sono prodotte solamente nei carceri maschile e femminile di Venezia. Rio Terà dei Pensieri ha infatti predisposto un laboratorio al Vega di Marghera. In questo spazio ex detenuti possono continuare a lavorare, reinserendosi nella società e avendo una seconda chance. Ancora una volta Sossima mi fa notare l’importanza di questo progetto. I tanti turisti che visitano Venezia non pensano mai al fatto che qui ci siano due carceri. Dare una seconda opportunità a chi è stato in carcere li allontana dal ripercorrere le vie dell’illegalità. Questo rende la città più sicura per tutti, turisti e residenti. Per i prossimi anni la cooperativa sarà sostenuta anche economicamente dal famoso artista di Los Angeles Mark Bradford, un filantropo che si è innamorato di questo progetto. Ma le Malefatte hanno bisogno del sostegno di tutti, soprattutto di chi vive in questa nostra bellissima città. C’è bisogno di persone che sostengano la cooperativa, di volontari e anche di pvc da recuperare per la creazione di queste fantastiche borse. Con un abbraccio e una stretta di mano finisce questo viaggio alla scoperta di Rio Terà dei Pensieri. Camminando penso a quanto belle siano queste persone, che offrono il loro tempo e le loro energie per aiutare gli esclusi, gli emarginati. Mi sento bene e me ne vado orgogliosamente per le calli con la mia Malefatta in spalla. Palermo: convegno sui detenuti all'Ars, tra i relatori c'è anche Totò Cuffaro La Sicilia, 7 settembre 2018 L'ex presidente della Regione che ha scontato una pena per concorso esterno in associazione mafiosa invitato dall'organizzatore dell'incontro, il deputato Udc Figuccia. L'incontro nella sala dedicata a Pier Santi Mattarella. Totò Cuffaro torna all’Assemblea regionale siciliana. Lo farà come relatore del convegno “Oltre le sbarre. Uno sguardo ai diritti e alle tutele dei figli dei detenuti”, organizzato dal deputato regionale dell’Udc, Vincenzo Figuccia. Nella passata legislatura l’allora presidente dell’Ars, Giovanni Ardizzone, negò all’ex governatore, che ha scontato in carcere una condanna definitiva per favoreggiamento alla mafia, di partecipare a un convegno sempre sul tema delle carceri nel luglio di due anni fa. Il caso allora sollevò molte polemiche. L’appuntamento è in programma il 13 settembre alle 11.30, nella sala intitolata a Piersanti Mattarella, l’ex presidente della Regione assassinato dalla mafia il 6 gennaio del 1980. “L'obiettivo è quello di mettere in luce le carenze degli istituti penitenziari siciliani e le prospettive possibili rispetto all’assenza di spazi gialli e di professionalità idonee ad accompagnare i figli dei detenuti all’incontro con i propri genitori, preparandoli ad andare con cuore e mente ad uno scambio “oltre le sbarre”, spiega il deputato Vincenzo Figuccia. “Non dimentichiamo che ogni qualvolta un soggetto entra in carcere per scontare una pena, scompare dalla società un genitore -aggiunge ancora l’esponente dell’Udc - Ma la cosa più ingiusta è che viene meno il diritto alla sua genitorialità”. Parteciperanno inoltre il Garante regionale per i diritti dei detenuti, Giovanni Fiandaca, la direttrice della casa circondariale Pagliarelli di Palermo, Francesca Vazzana, giuristi e operatori del settore. Migranti. Si cambia in peggio, in arrivo la stretta di Salvini di Leo Lancari Il Manifesto, 7 settembre 2018 Decreto sicurezza. Abolizione della protezione umanitaria e misure più severe per il riconoscimento della cittadinanza. Insieme a soldi per i rimpatri. Abolizione della protezione umanitaria, prolungamento dei tempi di detenzione nei Centri per il rimpatrio e cancellazione del gratuito patrocinio per i profughi che avranno avuta la domanda di asilo respinta dalla Cassazione. E ancora, norme più severe per il riconoscimento della cittadinanza e maggiori finanziamenti per i rimpatri. Annunciato più volte dal ministro degli Interni Matteo Salvini, il decreto sicurezza sarebbe ormai in dirittura di arrivo almeno nella parte che riguarda i migranti, quella a cui tiene maggiormente il ministro leghista. Le ultime rifiniture ai 15 articoli che compongono il testo verranno fatte tra oggi e domani da Salvini con il collega della Giustizia Alfonso Bonafede. Bisogna vedere adesso se il giro di vite proposto solleverà le proteste dei pentastellati. In caso contrario, nel caso cioè tutto fili liscio per Salvini magari per la scelta del M5S di affidare eventuali modifiche al parlamento, il decreto potrebbe vedere la luce già con il prossimo consiglio dei ministri. Protezione umanitaria - Per il Viminale ogni anno vengo rilasciati troppi permessi di soggiorno per motivi umanitari in rapporto alle altre forme di protezione internazionale. Da qui la decisione di cancellare di fatto l’istituto eliminando la possibilità “per le Commissioni territoriali e per il Questore di valutar rispettivamente la sussistenza dei “gravi motivi di carattere umanitario” e dei “seri motivi, in particolare di carattere umanitario risultanti da obblighi costituzionali o internazionali dello Stato italiano”. Sono previste delle eccezioni: sarà ancora possibile ottenere la protezione umanitaria in caso di “condizioni di salute di eccezionale gravità e nelle situazioni contingenti di calamità naturale nel Paese di origine che impediscono temporaneamente il rientro dello straniero in condizioni di sicurezza”. stop al gratuito patrocinio - L’obiettivo è quello di ridurre i ricorsi in Cassazione di quanti hanno avuto respinta la domanda di asilo. Per questo il decreto prevede l’esclusione che il difensore della parte ammessa al gratuito patrocinio abbia diritto all’anticipazione di spese ed onorari a carico dell’erario quando l’impugnazione è dichiarata improcedibile o inammissibile”. Rimpatri - Previsto il finanziamento di 500 mila euro per il 2018 e di 1,5 milioni di euro l’anno per il biennio 2019-20 del Fondo destinato ai rimpatri di “coloro che non hanno titolo di soggiornare nel territorio italiano”. Centri per i rimpatri - Oggi un migrante irregolare può essere trattenuto in un centro per i rimpatri al massimo per 90 giorni, il tempo necessario per ottenere il via libera al rimpatrio da parte del Paese di origine. Scaduto questo temine deve essere rilasciato. Il Viminale propone di allungare la detenzione fino a sei mesi e di creare ulteriori 400 posti da aggiungere agli attuali 880. A oggi i Cpr aperti sono sei: Torino, Roma, bari, Brindisi, Caltanissetta e Palazzo San Gervasio (Pz). Almeno altri quattro dovrebbero essere aperti entro l’anno a Milano, Macomer (Nu), Modena e Gradisca d’Isonzo (Go). Reati - La protezione internazionale potrà essere negata o revocata ai profughi condannati con sentenza definitiva per i seguenti reati: violenza sessuale, produzione, traffico e detenzione non per uso personale di droga, rapina, estorsione, violenza o minaccia a pubblico ufficiale, resistenza a pubblico ufficiale, lesioni personali gravi e gravissime, mutilazione di organi genitali femminili, furto e furto in abitazione aggravati dal porto di armi o narcotici. Unità Dublino - Hanno il compito di individuare lo Stato Ue competente all’esame delle domande di asilo. Oggi ne esiste una sola presso il Dipartimento per le libertà civili e l’immigrazione del ministero degli Interni, Per velocizzare le procedure è prevista l’apertura di altre Unità presso alcune prefetture. Cittadinanza - Il decreto “incide sul riconoscimento della cittadinanza jure sanguinis, che attualmente opera senza limiti di generazione, e che negli ultimi anni ha determinato un incremento esponenziale di domande”. Se il provvedimento passerà senza modifiche, in futuro la trasmissione della cittadinanza sarà limitata “ai discendenti in linea diretta di seconda grado che possono documentare lo status civitatis italiano del loro ascendente”. Diciotti, i 50 migranti irreperibili? “Sono transitanti, fenomeno noto da anni” di Eleonora Camilli Redattore Sociale, 7 settembre 2018 I migranti approdano in Italia con un progetto migratorio preciso: il Nord Europa. Le mete preferite sono Regno Unito, Svizzera e Germania. Miraglia (Arci): “Non vogliono restare in Italia”. Negli ultimi 20 anni presentate 728 mila domande d'asilo a fronte di oltre 1 milione di persone sbarcate. Il 32% ha tentato fortuna altrove. Circa 50 dei migranti arrivati in Italia sulla nave Diciotti della Guardia Costiera, e trasferiti nelle diocesi che hanno dato disponibilità all’accoglienza, si sono allontanati dai centri e risultano irreperibili. A renderlo noto è il Viminale. Lo stesso ministro dell’Interno, Matteo Salvini, in un post su Twitter commenta la vicenda: “Più di 50 degli immigrati sbarcati dalla Diciotti erano così bisognosi di avere protezione, vitto e alloggio, che hanno deciso di allontanarsi e sparire - scrive. Ma come, non li avevo sequestrati? È l’ennesima conferma che non tutti quelli che arrivano in Italia sono “scheletrini che scappano dalla guerra e dalla fame”. Lavorerò ancora di più per cambiare leggi sbagliate e azzerare gli arrivi”. In realtà il fenomeno dei cosiddetti migranti transitanti, cioè di coloro che una volta arrivati in Italia cercano di lasciare il nostro paese, è noto e conosciuto da anni. Lo stesso termine “transitanti” è stato coniato proprio per poter spiegare le loro storie. In particolare, a partire dalla primavera del 2015, il fenomeno è diventato evidente per la chiusura temporanea delle frontiere a causa del G7. A Roma molti dei migranti che erano in attesa di lasciare il nostro paese si erano concentrati alla stazione di Ponte Mammolo, nella zona est della Capitale, dove vivevano altri connazionali. L’accampamento fu sgomberato con l’ausilio delle ruspe, pochi giorni dopo si creò il caos alla stazione Tiburtina e poi nel centro Baobab di via Cupa. Lo stesso avvenne in altri luoghi di transito, come la stazione di Milano. Ma chi sono queste persone e perché scelgono di lasciare l’Italia? I cosiddetti transitanti, arrivano per lo più dal Corno d’Africa, eritrei ed etiopi in particolare, ma anche dal Sudan, Siria, Afghanistan. Da sempre approdano in Italia con un progetto migratorio preciso: il Nord Europa. Per questo dopo una sosta nel nostro paese cercano di raggiungere altre città, dove ci sono già parenti e amici disposti ad aiutarli. Le mete preferite sono il Regno Unito, la Svizzera e la Germania. Fino a qualche anno fa arrivarci non era difficile, perché molti di loro non venivano identificati subito all’arrivo. Solo nel 2016 con l’entrata in vigore del cosiddetto sistema hotspot si è resa obbligatoria la fotosegnalazione all’arrivo e le norme del Regolamento Dublino (che obbliga a fare richiesta d’asilo nel primo paese d’approdo) sono diventate più stringenti. Il transito è diventato più difficile, ma è continuato fino ad oggi, anche se i numeri si sono ridotti negli anni. Come ricorda Filippo Miraglia, vicepresidente di Arci nazionale il fenomeno è “vecchio e molto consistente per alcune nazionalità”. “I commenti del 'leader del governo', il ministro Salvini, sull'allontanamento volontario di una parte dei richiedenti asilo della nave Diciotti, sono, come sempre, pillole di veleno introdotte nel dibattito pubblico sull'immigrazione per consolidare l'immagine negativa dei rifugiati e del diritto d'asilo - sottolinea -. Salvini non sa, o fa finta di non sapere, che il fenomeno dell'allontanamento volontario, determinato da varie ragioni, tutte peraltro note, è un fenomeno vecchio e molto consistente per alcune nazionalità”. In particolare, stando ai dati: dal 1997 al 2017 (cioè negli ultimi 20 anni) sono state presentate 728 mila domande d'asilo a fronte di oltre un milione di persone sbarcate. Questo vuol dire che il 32 per cento di coloro che sono sbarcati non hanno presentato domanda d'asilo. “Non è che non sono bisognosi di protezione o d'accoglienza ma, più semplicemente, che non vogliono restare in Italia - aggiunge -. Una circostanza che il Viminale ha utilizzato, anche favorendo l'allontanamento delle persone (affinché non pesassero sul nostro sistema d'accoglienza), a tal punto che l'UE ha dovuto introdurre procedure e strumenti (gli hot spot) per impedire quelli che vengono chiamati movimenti secondari interni, che disattendono il Regolamento Dublino”. Tra le persone maggiormente coinvolte in questo fenomeno ci sono proprio gli eritrei. “I dati del Viminale dicono che dal 2012 al 2017 gli eritrei sbarcati nel nostro Paese sono stati 113.000, ma quelli che hanno chiesto protezione in Italia nello stesso periodo sono meno di 16 mila, ossia il 14% circa - aggiunge Miraglia -. Anche tra i somali a fronte di circa 35.000 sbarcati sulle nostre coste negli ultimi 6 anni, hanno presentato domanda d'asilo poco piu` di 9.500 (circa 27%) Per non parlare dei siriani: su 62 mila arrivati in Italia negli stessi anni, solo 5.800 hanno presentato domanda d'asilo, ossia il 9%. Il record è però dei sudanesi: su 30 mila sbarcati in Italia, poco più di 1000, ossia il 4%, ha presentato domanda d'asilo. Stiamo parlando di Paesi dove è in corso un conflitto ben noto internazionalmente (Somalia e Siria) o una persecuzione che produce continue stragi (Sudan) o una dittatura feroce (Eritrea) - conclude -. Paesi dai quali i richiedenti si vedono riconosciuto il diritto d'asilo nella quasi totalità dei casi”. Inoltre, secondo i dati dell’Oim, sono 7052 gli eritrei sbarcati nel 2017, a questi si aggiungono oltre tremila persone arrivate nei primi 8 mesi del 2018. L’organizzazione internazionale delle migrazioni ha assistito il ricollocamento in altri paesi d’Europa di oltre 9400 di loro: il 49 per cento in Germania, il 10 per cento in Svezia, il 7 per cento in Svizzera e il 6 per cento in Norvegia. Ora che il programma di relocation è terminato le persone stanno ricominciando ad organizzarsi da sole. Libia. Nel covo della Settima Brigata, con i reduci che rivogliono la Libia di Lorenzo Cremonesi Corriere della Sera, 7 settembre 2018 Ex fedelissimi del figlio di Gheddafi, ben armati e molto nervosi, gli uomini che minacciano Tripoli sembrano non avere rivali sul campo. Ecco il quartier generale della Settima Brigata, il gruppo armato che da quasi due settimane sta attaccando Tripoli. A prima vista sembra una zona di depositi vuoti. C’è un alto muro anonimo dipinto di fresco color ocra. Le sentinelle sono quasi invisibili. Pochi i passanti. Nessun problema per arrivarci, si trova nel quartiere di Salahaddin, proprio nel centro di questa che storicamente è la città-crocevia delle tribù che sostenevano il regime di Gheddafi. Ci siamo giunti ieri verso le 14 accompagnati dal portavoce della municipalità locale di Tarhuna. E per fortuna c’era lui. Perché da subito i soldati di guardia sono stati aggressivi, minacciosi. L’entrata si affaccia ad una viuzza secondaria. Di fronte sono posteggiati due camion militari carichi di casse. “Cosa ci fa qui un giornalista italiano?”, sibila una sentinella. Due altre mettono mano alla fondina. “Magari questo ce lo prendiamo”, dice in arabo uno tra i più duri. Ne arrivano altre, vogliono il passaporto. Parlano tra di loro. Lo stesso portavoce mi consiglia di nasconderlo. Ci portano in una stanzetta chiusa. Vogliono vedere il permesso di una qualsiasi autorità, che per fortuna esiste. Abbiamo un accredito ufficiale. Intanto il mio interprete di Misurata sbianca. “Ma qui siamo con i vecchi combattenti della 32esima brigata di Khamis Gheddafi!”, sussurra spaventato. La buona sorte vuole che arrivi anche un ufficiale più anziano col berretto rosso dei paracadutisti. Ci invita ad andarcene immediatamente. “Tornate con un permesso speciale”, dice frettoloso. È stata sufficiente una mezzoretta per capire tante cose. In un attimo ci siamo ritrovati di fronte a quello che per lungo tempo, sino alla rivoluzione del 2011, è stato il miglior braccio armato del vecchio regime. Stesse uniformi con i pantaloni attillati e le camice larghe, stessi modi di fare bruschi, aggressivi, stesse capigliature scarmigliate e barbe malfatte. Soldati ben addestrati, magri, nervosi, muscolosi, i coltelli alla vita. Nulla a che vedere con l’aria trasandata, per nulla marziale delle milizie legate alla rivoluzione. Ce lo aveva ben raccontato più volte durante le nostre interviste Khalifa Haftar, l’uomo forte della Cirenaica che era stato alto ufficiale di Gheddafi: “Con me stanno arruolandosi i militari del vecchio esercito libico. Non ci saranno più milizie, non più caos, solo un nuovo esercito unito rinato dalle ceneri del vecchio che obbedisce ad un’unica autorità centrale”. Ed infatti eccoli qui: erano di Gheddafi e adesso combattono per Haftar. Ai tempi di Khamis erano 10 mila, il fiore all’occhiello delle forze della Jamariah. Oggi sono circa 7.000. Come allora vengono da Bani Walid, Sirte, Tawargha, Tarhuna, Tripoli, Zintan. Con loro sono le tribù più fedeli: Warshafanna, Gheddafi, Warfallah… Nomi noti, sembra di ripercorrere le tappe della lotta contro la rivoluzione. Sette anni fa avrebbero certamente fatto a pezzi le rivolte: addestrati, disciplinati, con cecchini ottimi. Mentre i ribelli sprecavano tonnellate di munizioni, loro sparavano precisi, metodici. Attaccarono Bengasi, accerchiarono Misurata, si lanciarono contro i quartieri di Tripoli che protestavano. Già a metà marzo 2011 sarebbe bastato molto poco per tornare al vecchio status quo precedente il 17 febbraio. Gli uomini di Khamis stavano facendo il loro dovere. Ma intervenne la Nato, con i suoi jet sofisticati, i radar, le bombe ad alta precisione, i satelliti e i missili intelligenti. Le milizie ribelli rimasero a guardare, mentre le forze straniere combattevano per loro. Ogni volta che venivano lasciate sole, venivano battute. Ma in realtà la 32esima Brigata venne fatta a pezzi dall’aria. Subì forse oltre 8 mila morti, si disse. Però sono dati che vanno verificati, la propaganda allora falsificava fatti e numeri. Che fine ha fatto Khamis? Aveva 28 anni, era l’ultimo figlio dei sette di Gheddafi, ma anche il più combattivo, il più militante. Almeno quattro volte venne dato per morto dai ribelli. L’ultima mentre scappava in un’auto colpita forse da un missile a fine agosto 2011. Ma in verità non si sa. Che sia invece qui, dietro il recinto di questa caserma, a preparare la riscossa? “Certo è che, se questi uomini vincono, sarà il trionfo delle vendette”, temono a Misurata. Perché non ci sono dubbi: la Settima Brigata non ha avversari degni di questo nome, la sua potenza militare è superiore. E oggi non ci sarà la Nato o chiunque altro a difendere le vecchie milizie della rivoluzione, il loro fallimento è scritto sui muri. Il premier Sarraj non ha i mezzi per contrattaccare. I membri del Consiglio municipale di Tarhuna si muovono cauti. Tutto sommato la loro città è stata tra le meno danneggiate delle pro-Gheddafi e vorrebbero evitare che venga investita dai nuovi combattimenti. Sulla strada che la collega alla costa ci sono le caserme chiuse della “17 Febbraio”, la milizia di Misurata che più li ha combattuti. Le strade sono abbastanza pulite, in un paio di fontane zampilla persino l’acqua, la corrente elettrica funziona una media di 18 ore al giorno, contro le 4 di Tripoli. Sirte 300 chilometri a est è largamente devastata. E Bani Walid, un’ottantina di chilometri più a sud, venne messa a ferro e fuoco. “Per quattro anni ai nostri 225 mila abitanti si sono aggiunti oltre 100 mila sfollati dalle regioni fedeli a Gheddafi”, ammette Khalifa Mabruk, tra i più senior del Consiglio. Oggi i loro problemi si chiamano scarsità di benzina, carenza di gas da cucina, acqua potabile ridotta. Dice Mabruk: “La comunità internazionale dovrebbe aiutarci, qui le cose potrebbero andare molto peggio, prima di un eventuale miglioramento”. Egitto. Ribellione popolare contro la “versione” della polizia su un omicidio di Pino Dragoni Il Manifesto, 7 settembre 2018 Due bambini uccisi. Il padre arrestato. Gli attivisti: aveva denunciato traffici loschi di “potenti”. Da due settimane Mit Salsil, piccola città nel Delta, è balzata al centro delle cronache in Egitto. Teatro di quello che all’inizio sembrava solo un tragico fatto di cronaca, poi diventato un caso che ha toccato i vertici degli apparati, e ha smosso le coscienze degli egiziani. Il 21 agosto, durante le festività dell’Eid i cadaveri di due bambini sono ritrovati riversi nelle acque di un canale. Le macabre immagini dei corpi di Muhammad e Rayan, 3 e 4 anni, diffuse da tutti i media, suscitano sdegno in tutto il paese. Al funerale partecipano migliaia di persone. Il padre, Mahmud Nezmi, racconta che quel giorno qualcuno avrebbe rapito i bambini mentre lui veniva distratto con una scusa. Poco dopo i funerali, l’uomo scompare, per riapparire all’indomani in stato di arresto, accusato del duplice omicidio. A casa lascia un biglietto: “Se non otterrò giustizia, voglio morire come loro”. Ancora poche ore e, seguendo una pratica alquanto inusuale, la polizia diffonde un video in cui il padre confessa di essere stato lui a gettare i due bambini da un ponte. Nel video l’uomo è visibilmente spaventato, il volto provato, lo sguardo assente rivolto forse a invisibili interlocutori che lo osservano da dietro la telecamera. La campagna mediatica contro di lui si intensifica, Nezmi viene accusato di essere un tombarolo, coinvolto nel traffico di reperti archeologici e di droga. Ed è qui che scatta il cortocircuito. Il video diffuso dalla polizia ottiene l’effetto opposto: parte dell’opinione pubblica lo ritiene una messa in scena, per di più poco credibile. Dubbi e polemiche iniziano a correre veloci sui social network. La moglie e la madre dell’uomo lo difendono, dicono che non sarebbe mai stato capace di un tale gesto, vogliono incontrarlo di persona. Anche a Mit Salsil in molti non credono alla versione ufficiale. Giovedì 30 agosto alcune centinaia di persone si radunano davanti alla casa della famiglia colpita dalla tragedia. Vogliono bloccare l’arteria principale della città e marciano verso la stazione di polizia al grido “Mahmud è innocente”. Poi le forze di sicurezza intervengono, attaccano con i lacrimogeni e disperdono violentemente la folla. Da allora la città è in stato d’assedio. Alcune immagini diffuse da Al Jazeera mostrano le strade presidiate da decine di mezzi della polizia. Per gli attivisti locali sarebbe scattata una vera e propria rappresaglia delle forze di sicurezza, che hanno devastato numerose attività commerciali e arrestato 28 persone: una punizione collettiva alla popolazione che si è schierata contro le autorità. Negli ultimi giorni la vicenda si è arricchita di risvolti inquietanti. Alcuni attivisti hanno diffuso documenti che proverebbero un’altra versione dei fatti. Pare che nei mesi precedenti Nezmi avesse denunciato alcuni alti funzionari dei servizi di sicurezza per un loro presunto coinvolgimento in un traffico di armi, droga e reperti archeologici. Secondo alcuni l’uomo era in possesso di prove che incastravano un generale della polizia criminale ed altri suoi associati. la notizia sarebbe arrivata fino al famigerato Magdi Abdel Ghaffar, allora ministro degli Interni (lo stesso che era in carica al momento dell’omicidio di Giulio Regeni, e che ha tentato in tutti i modi di insabbiare il caso, facendo uccidere 5 innocenti). Anche secondo i familiari dietro il delitto ci sono “pezzi grossi”, ma dicono di non poter parlare ai media per le minacce di morte ricevute. Difficile chiarire tutti i punti oscuri. In un paese in cui la stampa indipendente è stata spazzata via, è però sempre più evidente il divario tra le verità del governo e le percezioni degli egiziani. Quella che Amro Ali ha definito una “guerra di logoramento contro la razionalità”, uno scontro continuo tra la propaganda e vita reale. Ma il dissenso e la sfiducia continuano a serpeggiare in quei pochi interstizi che il regime non è riuscito a occupare. E a volte le contraddizioni esplodono anche nello spazio pubblico, dove i legami di comunità e la fiducia tra le persone riescono ancora a essere più forti della repressione e della paura. Iraq. La rivolta dilaga, Bassora in fiamme di giordano stabile La Stampa, 7 settembre 2018 I dimostranti assalto palazzi governativi, tv e sedi di partiti. La rivolta a Bassora, la più importante città nel Sud dell’Iraq, due milioni di abitanti, per oltre il 90 per cento sciiti, è fuori controllo. Ieri sera i dimostranti hanno dato l’assalto ai palazzi governativi, alla casa del governatore, alla tv di Stato Al-Iraqiya, e alle sede dei principali partiti, di governo e di opposizione. Le fiamme hanno disegnato uno skyline rosso sulla città. Bassora è il principale porto per l’importazione di beni di consumo, ma lo scalo è ora bloccato. Il porto petrolifero, da dove passa l’85 per cento dell’export di greggio iracheno, è invece ancora in funzione. Acqua salmastra dai rubinetti - Migliaia di persone sono scese nelle strade ieri sera, come accade ormai da lunedì. La rivolta è cominciata a luglio e ora è riesplosa più forte di prima all’inizio di settembre. La gente protesta perché non c’è più acqua potabile, dai rubinetti esce acqua salmastra e marrone. Manca anche l’elettricità perché il governo non ha saldato i conti con i fornitori iraniani che hanno tagliato l’erogazione. La città è al centro dei più importanti giacimenti petroliferi ma non riceve servizi adeguati. La disoccupazione è più alta che nel resto del Paese. I dimostranti chiedono che una parte degli introiti petroliferi siano lasciati alla provincia di Bassora, come già è previsto nel Kurdistan autonomo. Rabbia anche contro le milizie - In tre giorni ci sono stati almeno dieci morti, decine di feriti. Le forze di sicurezza hanno sparato sulla folle martedì sera, ma ora ricevono ordini contradditori e questa notte hanno lasciato sfogare la rabbia dei dimostranti. Decine di poliziotti e militari sono stati feriti da armi rudimentali e granate, perché da giovedì i manifestanti hanno cominciato a reagire al fuoco, su ordine dei capi tribù locali. Questa notte c’è stata una vittima fra i dimostranti e altre decine di feriti. Sono in fiamme la sede della tv Al-Iraqiya, quella del Consiglio supremo islamico, quella del partito del premier Al-Abadi, il Dawa, ma anche quelle delle milizie sciite filo-iraniane che si oppongono al primo ministro, come Al-Badr, Asaib Ahl al-Haq, Kataeb Hezbollah. A Baghdad si discute - C’è stato anche un tentativo di attacco nella zona verde di Baghdad, dove hanno sede i ministeri. La capitale è paralizzata dalla scontro in parlamento per arrivare alla formazione di un nuovo governo. L’imam populista Moqtada al-Sadr, che la sua base elettorale proprio a Bassora, e Al-Abadi hanno formato una coalizione, ma non riusciti a raggiungere la soglia dei 165 deputati necessari ad avere una maggioranza. Al-Abadi ha perso ben 28 su 42 deputati del suo partito. L’Iran sta provando a imporre un suo candidato fantoccio, che risponde al capo delle milizie sciite Hadi al-Ameri, ma dispone al massimo di 145 deputati. Le manovre iraniane - Teheran è stata colta di sorpresa dall’ampiezza della rivolta e per questo ha ora ripreso le forniture elettriche e cerca di ingraziarsi i dimostranti in funzione anti-Usa. Sei potenti milizie filo-iraniane hanno avvertito “Usa e Gran Bretagna” di “non immischiarsi negli affari interni” dell’Iraq e in sostanza a non insistere con la ricandidatura del premier, pena “conseguenze” cioè possibili attentati alle truppe occidentali presenti in Iraq. Medio Oriente. La Corte suprema israeliana autorizza la demolizione di un villaggio palestinese di Riccardo Noury Corriere della Sera, 7 settembre 2018 Per la seconda volta, il 5 settembre la Corte suprema israeliana ha dato via libera alla demolizione del villaggio palestinese di Khan al-Ahmar, in Cisgiordania, respingendo l’ultimo disperato ricorso degli abitanti. Khan al-Ahmar si trova a est di Gerusalemme, nei pressi degli insediamenti illegali di Maale Adumim e Kfar Adumim, ed è una delle 46 comunità palestinesi della Cisgiordania centrale che Israele vuole trasferire forzatamente per fare spazio agli insediamenti. Già il 24 maggio, la Corte suprema si era pronunciata a favore della demolizione di Khan al-Ahmar. Il 4 giugno l’esercito israeliano aveva cercato di sgomberare i residenti, attaccando tanto loro quanto gli attivisti venuti a portare solidarietà. La comunità aveva allora deciso di presentare un nuovo ricorso. Negli ultimi 10 anni, le autorità israeliane hanno demolito 25 abitazioni del villaggio, che ha oltre 160 strutture, tra cui una moschea e un ambulatorio oltre che la “Scuola di gomme” costruita dall’Ong italiana “Vento di terra”. Commentando negativamente la sentenza della Corte suprema israeliana, Amnesty International ha sottolineato che il trasferimento forzato di persone sotto occupazione costituisce una grave violazione della Quarta Convenzione di Ginevra. La deportazione o il trasferimento, totale o parziale, della popolazione di un territorio occupato, all’interno o all’esterno dello stesso, costituisce un crimine di guerra ai sensi dell’articolo 8 dello Statuto di Roma del Tribunale penale internazionale. India. Decisione storica: l’omosessualità non è più reato di Monica Cirinnà e Angelo Schillaci Il Dubbio, 7 settembre 2018 La stessa Corte suprema, nel 2013, aveva fatto salva la previsione di reato, riformando una precedente pronuncia dell’Alta Corte di Delhi del 2009. Si tratta di una sentenza ricca di insegnamenti anche per il lettore italiano, non solo perché segna un decisivo passo avanti verso la piena uguaglianza delle persone Lgbt in India, ma anche perché è destinata a influenzare significativamente gli altri ordinamenti del sud-est asiatico, ancora molto timidi (con alcune significative eccezioni) sul piano del riconoscimento della pari dignità sociale di gay e lesbiche. Inoltre, tra le pieghe della decisione si annidano alcune indicazioni molto importanti sul senso stesso e sulle finalità del costituzionalismo contemporaneo, specie per ciò che riguarda il rapporto tra libertà, dignità, solidarietà e riconoscimento delle identità. Come affermato dalla Corte, la decisione di ieri sana una ferita alla dignità delle persone omosessuali: la repressione penale dei comportamenti omosessuali, infatti, non è solo una questione strettamente giuridica, ma ha un impatto decisivo sulla vita e sulla libertà dei soggetti coinvolti che, paralizzati dalla paura, non sono in condizione di esprimere liberamente la propria personalità. L’omosessualità, d’altro canto, è strettamente legata al sentimento della propria identità; per questo esiste, e viene tutelato dalla sentenza, un diritto di “scegliere senza paura”, come diretta conseguenza della protezione costituzionale della dignità personale. Una vita senza dignità, afferma la Corte, è come un suono che non può essere ascoltato, e l’essenza della dignità è la libertà di esprimere la propria identità senza indebite costrizioni giuridiche. Ma la questione non è solo privata, come ci insegnano decenni di lotte del movimento per la liberazione omosessuale: previsioni penali di questo tipo e, più in generale, l’assenza di adeguato riconoscimento delle soggettività Lgbt e dei loro diritti sono fonte di pregiudizio sociale e stigma, condannando una parte della società a vivere costantemente nella paura e nella vergogna. Ad essere ostacolata, in conseguenza, è la realizzazione di principi cardine del costituzionalismo contemporaneo, vale a dire libertà, pari dignità e solidarietà, nella costruzione di una comunità politica pienamente inclusiva. Di qui, alcuni insegnamenti importanti anche per l’Italia. Anzitutto, l’importanza di concepire la Costituzione come organismo vivente, che deve essere sostenuta, giorno dopo giorno, da pratiche civiche di consapevole partecipazione. Non a caso la Corte suprema indiana parla, assai suggestivamente, di costituzionalismo trasformativo, vale a dire di un continuo adeguamento ai tempi, nel quadro di un processo politico ampio e aperto alla società, finalizzato alla realizzazione del progetto costituzionale di liberazione e promozione della persona. Un processo, si badi, che non può essere affidato alla sola maggioranza, perché comune deve essere il continuo farsi carico della garanzia delle minoranze, nella sinergia tra potere legislativo e potere giudiziario. La protezione dei diritti civili, in quest’ottica, appare come precondizione per l’uguaglianza materiale: riconoscere un’identità non significa individuare un confine, ma aprire uno spazio di autorealizzazione, partecipazione, solidarietà. Diritti civili e diritti sociali concorrono paritariamente, in altri termini, alla pienezza della cittadinanza.