Ministro Bonafede, se c’è, batta un colpo. La quotidiana strage nelle carceri italiane di Valter Vecellio L’Indro, 6 settembre 2018 Non è ben chiaro cosa faccia, cos’abbia fatto, che cosa intenda fare il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede. Parla poco (questo è un bene); non sgomita (questo è ottimo); è poco presenzialista (qui si rasenta la perfezione). Forse appartiene all’antica e molto ristretta cerchia di politici (di ora, ma di sempre), che preferiscono lasciar parlare i fatti, e quando parlano lo fanno per riferire quello che si è fatto, non quello che si vorrebbe fare. Forse. Perché del ministro Bonafede non dice quali sono le priorità della sua agenda. Segue l’esempio del presidente del Consiglio Giuseppe Conte: tace; non sai cosa pensa (anche questo può essere positivo); semplicemente non sai nulla. Ora senza certo abbandonarsi all’attivismo loquace dei colleghi Matteo Salvini e Luigi Di Maio, non sarebbe male se il ministro della Giustizia qualche “colpo” lo battesse. Per esempio, per quel che riguarda il ponte Morandi di Genova deve sicuramente aver saputo della presa di posizione del presidente Conte: non ci si può permettere di attendere i tempi lunghi della Giustizia, e infatti, in coerenza con questo convincimento, senza attendere l’esito dell’inchiesta, si è subito aperto un contenzioso con la società che gestisce quella parte di autostrada. Per non lasciare solo il presidente del Consiglio, il ministro Bonafede forse si sarebbe dovuto attivare per sapere se alla procura di Genova hanno bisogno di aiuto (e quale), perché l’inchiesta si concluda in tempi ragionevoli. Settimane fa ha scandalizzato l’Italia la situazione del tribunale di Bari, che cade letteralmente a pezzi, e costretto magistrati e avvocati a lavorare sotto le tende della protezione civile. È cambiato qualcosa? Come vanno le cose a Bari? Il ministro dell’Interno Salvini è indagato dalla procura di Agrigento per i fatti relativi alla nave Diciotti. Salvini si è detto stupito e indignato: nel paese dove migliaia di processi non si celebrano e vanno in prescrizione, la giustizia italiana perde tempo con lui? Se perde tempo lo vedremo. Quello che è acquisito che il ministro Salvini è a conoscenza del fatto che ogni giorno migliaia di processi vanno al macero. Dopo l’indignazione e lo stupore, ci si sarebbe attesi che il ministro dell’Interno (che è anche vice-presidente del Consiglio) ne avesse fatto, di questa sua doglianza, oggetto di consulto con il ministro Bonafede, per capire come contenere il fenomeno. Si sono visti, ne hanno parlato? Hanno concordato qualcosa? Lo facciano sapere, anche solo mandando un tweet. Al momento solo il Partito Radicale ha preso in parola quanto detto dal presidente Conte, al punto da farne un convegno, aperto a una relazione dell’ex presidente della Corte Costituzionale Giovanni Maria Flick. Intanto, ecco alcune storie che dovrebbero confermare al ministro della Giustizia che la situazione carceri e dintorni ha raggiunto livelli ben oltre quelli di guardia. La prima da Velletri. Era gravemente malato, 63 anni, cardiopatico, in sovrappeso, al punto che si poteva muovere solo con le sedie a rotelle. Doveva scontare una pena per rapina e ricettazione fino al 2024. È “evaso” prima. Il suo compagno di cella dopo aver tentato varie volte di chiamarlo senza ricevere risposta e non sentendolo più respirare dà l’allerta. Il personale del carcere interviene con prontezza. Niente da fare, il detenuto muore. Capita. Il fatto che non dovrebbe capitare è che una persona (non importa di quale reato si sia reso responsabile), invece di stare in ospedale, era in carcere. Questo è il punto. Nello stesso carcere, nell’aprile scorso, è morto un detenuto di 77 anni, per infarto. Insomma, il problema è quello della salute all’interno del carcere, di istituzioni dove legalmente si vive dopo che lo Stato ti toglie la tua libertà. Togliendola, lo Stato si fa doppiamente garante dell’incolumità del “prigioniero”. Molto più che se fosse fuori. E invece… L’associazione Ristretti Orizzonti stima che solo quest’anno (neppure concluso) 18 persone sono morte per malattia, 41 i suicidi; altri 13 sono morti per cause da accertare; 91 ne la causa. Un totale di 72 morti dall’inizio dell’anno. L’ultimo suicidio è avvenuto il 31 agosto: una nigeriana di 35 anni, arrestata per spaccio in carcere. Poche ore dopo si è impiccata. Poteva essere evitato il suicidio? Forse, chissà. Forse se ci fosse stata la visita medica o un minimo di prima assistenza piscologica, un servizio sanitario h24. Nelle carceri italiane i detenuti disabili come quello morto a Velletri sono parecchie centinaia; l’anno scorso ne avevano censiti 628. Paradigma dell’intera situazione il carcere di Parma: oltre 40 i detenuti che hanno gravi patologie, alcuni hanno più di 80 anni: cardiopatici, leucemici, diabetici, ciechi, ammalati di cancro, con gli arti amputati. Alcuni con una incompatibilità carceraria certificata. Sono tutti ristretti nelle celle della sezione AS3, quella di alta sicurezza dove la carcerazione pone sostanzialmente limitazioni nel partecipare al programma di riabilitazione. Una di queste persone detenute è Giuseppe, ergastolano di 69 anni, 27 dei quali trascorsi in cella. Ha l’arto inferiore amputato, cardiopatico, affetto da ischemia, angioplastica, iperteso, diabetico, disfunzioni respiratorie… Salvatore di anni ne ha 85, da 25 in carcere; ‘colleziona’ un aneurisma, trombosi e cardiopatia. Maurizio, anche lui ergastolano, in carcere da 23 anni: invalido al 100 per cento con accompagnatore, una pregressa tubercolosi di grado severo, crisi depressive, attacchi di panico e claustrofobia. È un lungo elenco… Tra gli oltre 58.000 detenuti sono moltissime le persone con patologie gravissime: tumori, patologie psichiatriche, cardiovascolari, respiratorie, disabilità gravi, leucemie, diabete, morbo di Huntington. Per la maggior parte gli istituti penitenziari non sono attrezzati per le cure necessarie ed anche negli istituti dove sono presenti centri clinici le cure sono per lo più inadeguate, e rischiano di determinare l’aggravamento delle patologie. Un elettroshock su persone disarmate, è partita la sperimentazione del Taser di Patrizio Gonnella Il Manifesto, 6 settembre 2018 In dodici città italiane viene introdotta l’arma che ha già suscitato proteste negli Stati Uniti, come racconta la maxi inchiesta di Reuters. Altissimo il rischio di abusi. Da ieri una settantina di agenti in dodici città per i prossimi tre mesi (Milano, Napoli, Bologna, Torino, Firenze, Palermo, Genova, Catania, Padova, Caserta, Reggio Emilia, Brindisi) avranno in dotazione una pistola che spara scariche elettriche. La pistola è comunemente chiamata Taser dal nome della prima ditta produttrice (che però oggi si chiama Axon Enterprise). L’esperienza statunitense, fortemente contestata da Amnesty International, dall’American Civil Liberties Union, dai gruppi di advocacy americani Truth Not Tasers e Fatal Encounters, ha evidenziato come quest’arma a partire dal 2000 negli Usa sia stata potenzialmente mortale. Essa non è stata usata come alternativa meno violenta rispetto alle tradizionali pistole che sparano pallottole ma come più facile e meno faticosa alternativa alla parola, alle manette, all’opposizione fisica. Straordinaria per cura e ampiezza è la ricerca dei giornalisti della Reuters che la scorsa estate ha pubblicato sul web un’inchiesta approfondita sui danni collaterali da Taser. L’indagine giornalistica è stata costruita a seguito della visione di documenti giudiziari, rapporti di polizia, autopsie, certificati medico-legali e notizie di stampa locali. Dunque in un arco di tempo pari a circa sedici anni, oltre mille sarebbero state le persone morte negli Stati Uniti in scontri con la Polizia a causa dell’uso dell’elettroshock. In ben 153 casi la Reuters ha scoperto che i medici legali hanno esplicitamente citato la pistola Taser come causa della morte. In 442 casi di uso improprio della Taser sono state presentate denunce da parte dei parenti delle vittime che per ora sono costate, in termini di risarcimenti alle istituzioni o alle assicurazioni, ben 172 milioni di dollari. Questo accade perché con la pistola che spara scariche elettriche si colpiscono non persone armate pericolose (in questo caso nessuno farebbe a meno delle più tradizionali pallottole), ma uomini o donne giudicati agitati, che si muovono scompostamente, che si oppongono al fermo. Dunque va chiarito che il Taser è un’arma usata contro persone non armate. Eppure quando il fondatore della società Taser, Rick Smith, lanciò il prodotto nel mercato pazzo dell’America neo-liberale lo definì un prodotto sicuro, con rischi minimi. Ma le sue affermazioni sulla sicurezza non avevano alcun avallo scientifico. Il punto non è l’uso dell’arma su persone sane, ma su persone con pregressi problemi cardiaci o neurologici. E in tali casi che il rischio diventa letale. Douglas Zipes è un cardiologo che, come ricorda la Reuters, ha testimoniato in decine di cause contro l’azienda Taser. Ha ricordato come i test e le sperimentazioni scientifiche effettuate erano state del tutto inadeguate. Nel 2009 lo stesso Smith, dopo un decennio e una sperimentazione su cavie animali con problemi cardiologici, dovette ammettere che il Taser era potenzialmente letale. Ma la sbornia securitaria è cieca, dunque nel mondo sono state messe in commercio circa un milione di pistole Taser. L’azienda continua a sostenere che la sua arma sia alla stregua di uno spray orticante e ha fatto di tutto, sempre secondo i giornalisti della Reuters, per condizionare la scienza medica. Dunque ora anche in Italia c’è un’arma in più nelle nostre città. Obiettivamente non ce ne era bisogno, visti gli usi e abusi avvenuti in America. C’è inoltre chi nel Governo (Salvini, ovviamente) e tra i sindacati autonomi di Polizia Penitenziaria ne ha evocato l’uso anche negli istituti di pena. Il taser nelle carceri è inutile, pericoloso, nonché vietato dagli organismi internazionali. In carcere ci vogliono pazienza, dialogo, esperienza, comunicazione e non scariche elettriche. La gran parte degli operatori ha straordinarie capacità professionali e i conflitti li risolve senza aver bisogno del Taser che invece andrebbe ad aumentare i conflitti. In carcere bisognerebbe avere più operatori sociali, più psicologi, più mediatori, più medici, più direttori. Finanche più giovani poliziotti. Ma meno armi. Questa è l’idea costituzionale della pena. Infine speriamo proprio che il Taser non sia l’ennesimo strumento di dissuasione contro chi legittimamente protesta nelle piazze. Lo spazio democratico va preservato dall’elettroshock. Taser, il “rischio zero” non esiste di Riccardo Noury Corriere della Sera, 6 settembre 2018 Annunciata sin da marzo dalla Direzione anticrimine e oggetto di un decreto del Viminale all’inizio di luglio, è iniziata ufficialmente oggi, in 12 città italiane, una sperimentazione di tre mesi della taser, la pistola che esplode scariche elettriche in grado di paralizzare temporaneamente una persona. Il modello adottato è lo X2 della Axon, le cui caratteristiche sono descritte qui, un’evoluzione del modello X26 che le Nazioni Unite avevano giudicato equiparabile a uno strumento di tortura. Le taser sono classificate come “armi non letali” o “meno che letali” e sono usate in oltre 100 paesi. Dovrebbero, secondo i promotori della sperimentazione, consentire a polizia, carabinieri e guardia di finanza di fare meglio il loro lavoro: garantendo l’incolumità degli operatori che agirebbero a distanza di alcuni metri e minimizzando se non azzerando, per le caratteristiche dell’arma, il rischio di provocare danni letali. Secondo una ricerca di Amnesty International Olanda su un test analogo condotto dalle forze di polizia olandesi nel 2017, le taser sono state ampiamente impiegate in situazioni in cui non c’era minaccia imminente di morte o di gravi ferite. In circa la metà dei casi, le persone sono state colpite in un contatto diretto, anche quando erano già ammanettate, dentro un veicolo o una cella di polizia e in celle separate negli ospedali psichiatrici. I dati disponibili relativi al paese in cui da più tempo le taser vengono usate, gli Usa, confermano le preoccupazioni delle organizzazioni per i diritti umani. La ricerca più recente e accurata, realizzata dall’agenzia Reuters, informa che dall’inizio di questo secolo oltre 1000 persone sono morte dopo essere state colpite solo o anche da una pistola elettrica. Analizzando le autopsie di 712 corpi, è emerso che in 153 casi (oltre uno su cinque), la taser era stata una causa diretta o una concausa della morte. E analizzando i procedimenti giudiziari su 400 casi di morte, è risultato che in uno su quattro la taser era stata la sola arma usata. La ricerca ha messo in evidenza non solo l’uso improprio e non necessario della taser (e dunque il rischio che, classificata come “non letale”, quest’arma possa essere usata con eccessiva disinvoltura, più al posto del manganello che della pistola che esplode pallottole vere) ma anche la particolare vulnerabilità di alcuni soggetti: persone cardiopatiche, con problematiche respiratorie temporanee o permanenti, sotto uso di stupefacenti, così come donne incinte. Le linee guida emesse dal ministero dell’Interno fanno riferimento a quest’ultima problematica, ma si limitano a menzionare le donne in stato di gravidanza e le persone con disabilità motoria. Non risultano invece particolari indicazioni da parte del ministero della Salute. Insomma, massima attenzione: il confine tra “non letale” e “letale” è facilmente valicabile. Il “rischio zero” non esiste. Anticorruzione, i “paletti” di Conte (che corregge il ministro Bonafede) di Giovanni Bianconi e Monica Guerzoni Corriere della Sera, 6 settembre 2018 Oggi il testo in cdm, riviste a Palazzo Chigi le norme su Daspo e agente sotto copertura. La propaganda via internet è cominciata prima ancora che il testo della riforma venisse approvato dal governo: “Arriva la legge spazza-corrotti, da oggi corrompere non conviene più”, è il messaggio che campeggia e rimbalza dal blog dei 5 Stelle. Naturalmente non sarà da oggi, nemmeno se - come annunciato dal vicepremier Luigi Di Maio - il Consiglio dei ministri darà il via libera al disegno di legge messo a punto dal Guardasigilli Alfonso Bonafede. E chissà che cosa finirà per approvare il Parlamento, visto che il via libera avverrà “salvo intese”, formula con la quale si lascia spazio a successive modifiche e aggiustamenti. Ed è prevedibile che ce ne sarà bisogno, giacché le ultime ore impiegate dai tecnici del ministro della Giustizia Alfonso Bonafede e del premier Giuseppe Conte sono state abbastanza frenetiche. Dovevano mettere a punto un testo che andasse bene sia a Via Arenula che a Palazzo Chigi, e non era compito facile. L’interdizione perpetua dai pubblici appalti per i condannati di corruzione è un vessillo che il Guardasigilli grillino intende sventolare a lungo, e nelle sue intenzioni doveva valere anche per chi, scontata la pena, avesse ottenuto la riabilitazione. Ma per il giurista Conte era troppo, e c’erano evidenti sospetti di incostituzionalità di una simile previsione: in Italia nemmeno l’ergastolo è una pena perpetua, proprio per via dei principi sanciti dalla Costituzione, figuriamoci l’impossibilità di contrattare con la pubblica amministrazione. Ecco allora l’escamotage: i riabilitati potranno riacquistare l’accesso alle gare d’appalto, ma per ottenere quello status ci vorrà più tempo. Bonafede voleva un limite minimo di vent’anni, in modo da lasciare invariata, nella sostanza, l’interdizione perpetua; a Palazzo Chigi sono partiti da una base minima di 9 anni, ed è cominciata una trattativa che ieri sera era ancora in corso. Verosimilmente si arriverà a un accordo fra i 12 e 15 anni: un lasso di tempo sufficiente a soddisfare le esigenze di propaganda, senza violare i vincoli costituzionali. Un altro punto contestato dalla presidenza del Consiglio, stavolta più per motivi di convenienza nazionale che di diritto, riguarda la corruzione internazionale. Attualmente per le mazzette concordate e pagate all’estero è prevista la procedibilità o a querela di parte o su richiesta del ministro della Giustizia, mentre la riforma di marca grillina vuole che siano perseguiti d’ufficio dai magistrati, senza vagli preventivi. Il che aumenterebbe ulteriormente le differenze con altri Paesi, concorrenti commerciali dell’Italia, nei quali l’azione penale non è obbligatoria e non esistono norme ugualmente severe; una situazione che rischierebbe di danneggiare le imprese italiane e per questo suscita le preoccupazione di Palazzo Chigi. Ma al ministero della Giustizia non hanno ceduto a mutamenti, almeno fino a ieri sera. Alcuni ritocchi sono stati chiesti e ottenuti per quanto riguarda l’estensione dell’utilizzo dell’agente sotto copertura alle indagini anticorruzione. Sono già previsti nelle inchieste su traffico di droga e terrorismo, ma qui si tratta di materia e situazioni molto diverse, per cui i consiglieri di Conte hanno voluto puntualizzazioni utili a evitare la commissioni dei reati da parte degli investigatori. Sull’agente sotto copertura e il Daspo ai condannati s’è detto favorevole il procuratore nazionale antimafia Federico Cafiero De Raho, mentre l’associazione Libera contesta una “riforma che parte monca perché non incide sul nodo cruciale della prescrizione”. In effetti per far scattare l’interdizione servono le condanne definitive, come ha ricordato ieri il vicepremier leghista Salvini, che in materia di corruzione sono poche perché di solito arriva prima la mannaia della prescrizione (spostata di recente in avanti dalla riforma targata Pd, contro cui votarono 5 Stelle e Lega). Ma mettere mano alla decadenza dei processi non sarà semplice. Il programma di governo ha altre priorità, dopo l’anticorruzione toccherà al decreto sicurezza e alla legittima difesa, sponsorizzate soprattutto dalla Lega. Ognuno rivendica il suo vessillo da sventolare. Anticorruzione al via toghe e ministri si dividono sul Daspo di Giulia Merlo Il Dubbio, 6 settembre 2018 Oggi in Cdm. De Raho favorevole, Nordio scettico. Oggi il ddl Anticorruzione approda in Consiglio dei Ministri, salvo intoppi dell’ultim’ora. A confermare che il testo voluto dal Guardasigilli Bonafede sia pronto è il vicepremier Luigi Di Maio, il quale lo definisce “come una manovra economica mascherata: se contrastiamo la corruzione avremo più risorse, più merito e restituiremo più fiducia ai cittadini per rilanciare la domanda interna”. Il disegno di legge, che poggia sui due pilastri del Daspo a vita ai condannati e degli agenti sotto copertura, ha visto tra le indiscrezioni sul suo contenuto due ipotesi abbastanza inquietanti. La prima è l’estensione dell’articolo 4 bis del regolamento carcerario (in pratica carcere duro) agli imputati o condannati per reati contro la Pubblica amministrazione. La seconda è una norma sulla confisca: nel caso di reati corruttivi e di conseguente confisca dei beni disposta in caso di condanna, la confisca rimane efficace anche nel caso in cui il reato si estingua per prescrizione. Il testo ancora non pubblico, però, ha già diviso la magistratura. Favorevole alle nuove norme è il procuratore nazionale antimafia, Federico Cafiero de Raho, in particolare sull’introduzione della pena accessoria del Daspo: “Il fatto che sia l’interdizione e sia l’incapacità di contrattare nella pubblica amministrazione sia prevista in modo perpetuo - spiega - significa che si vuole impedire che chi è stato corrotto ed è stato condannato a distanza di anni rientri in quello stesso cerchio magico che aveva determinato il suo arricchimento. Io penso che bisogna intervenire per impedire che determinati fenomeni si perpetuino”. La giustificazione, secondo de Raho, sta nel fatto che “è certo che noi abbiamo avuto esempio d’imprenditori condannati per corruzione che a distanza di 15 anni sono tornati sul mercato e hanno ripreso ad operare con le stesse modalità che avevano determinato una condanna. Quindi dobbiamo muoverci con delle misure drastiche per impedire che la corruzione continui a connotare i nostri sistemi: una sanzione di questo tipo è una sanzione talmente forte che scoraggia”. Ad essere scettico, invece, è l’ex magistrato Carlo Nordio, che dal- le pagine del Messaggero parla di “stretta inefficace” che travolge le garanzie all’imputato. “Gli arnesi sono sempre gli stessi: nuovi reati e pene più severe, con l’aggiunta del Daspo e dell’agente infiltrato” e ancora “gli inasprimenti delle pene non intimidiscono nessuno, né i criminali in genere né i corrotti in specie. Questo perché il potenziale bottino è enorme e il rischio di esse presi e condannati è minimo”. Secondo Nordio, infatti, la chiave sarebbe dovuta essere “non di impaurire gli amministratori infedeli, ma di disarmarli, togliendo loro di mano i micidiali strumenti di cui dispongono: troppe leggi, contraddittorie e oscure, che conferiscono a questi signori una discrezionalità che sconfina nell’arbitrio”. Anche l’associazione Libera ha commentato il ddl, definendolo una “riforma anticorruzione che nasce già monca e che, soprattutto, non incide sul nodo cruciale della prescrizione, rinviata ad altra futura legge. Non riduce e semplifica le troppe fattispecie di reato oggi previste dal codice penale, nè cancella i discutibili vincoli (la sussistenza di reati associativi) imposti dall’ultimo codice antimafia alla possibilità di confisca dei beni di corrotti e dei corruttori. Si tratta di una riforma che non tocca le nuove, sfuggenti forme di corruzione a norma di legge”. Il Daspo, di conseguenza, viene definito “un’arma spuntata se i tempi ristretti di prescrizione continueranno a lasciar presagire una fine precoce di qualsiasi inchiesta complessa”. Inoltre, “la prospettiva di un’interdizione a vita in caso di condanna può paradossalmente consolidare il patto di ferro che lega i partecipanti all’illecito, spingendoli a un’omertà ostinata, e nel contempo scoraggiare il ricorso a procedimenti speciali (come patteggiamento, rito abbreviato, etc.), così gravando ulteriormente su un sistema giudiziario sovraccarico, rallentandolo”. Sul fronte politico, i grillini sono apparsi compatti intorno alla volontà di approvare il ddl, le cui previsioni sono tutte contenute nel contratto di governo. “È il momento di far capire ai corrotti che non hanno scampo, che sono circondati dallo Stato e dai cittadini perbene”, hanno gioito i 5 Stelle. Salvini, invece, è suonato più freddo col suo sibillino “la lotta senza quartiere alla corruzione è assolutamente una priorità, ma bisogna stare attenti al fatto che sino a prova contraria, sino al terzo grado di giudizio, gli italiani sono innocenti, i processi sommari non possono essere svolti in un Paese civile”. Una puntualizzazione che potrebbe far drizzare le orecchie ai grillini. Record dei Comuni sciolti per mafia, 20 gli enti commissariati quest’anno di Fausta Chiesa Corriere della Sera, 6 settembre 2018 Con l’ultimo caso di Siderno (Reggio Calabria) il 2018 in 8 mesi ha già eguagliato l’intero 2017. La piaga anche al Nord, dal Piemonte alla Liguria passando per la Lombardia. Ma la scioglimento non è la soluzione ideale, dice Avviso Pubblico. La mafia si sta infiltrando sempre di più nei piccoli Comuni italiani. Con l’ultimo caso di Siderno (Rc) l’8 agosto scorso, sono 20 quest’anno le amministrazioni finite sotto commissariamento da parte del governo. Una tendenza in aumento: secondo i dati di Avviso pubblico, l’associazione di enti locali per la formazione civile contro le mafie, nell’intero 2017 erano state sciolte ventuno amministrazioni locali. Dal 1991 - anno in cui è stato introdotto lo scioglimento delle amministrazioni locali dovuto a infiltrazioni mafiose, che è ora disciplinato dal testo unico degli enti locali - sono stati emanati 316 decreti di scioglimento (di cui 25 annullati) e 168 di proroga di provvedimenti precedenti. Il 92 per cento si concentra nel Sud, tra Campania, Calabria e Sicilia, ma il Centro e Nord non sono rimasti immuni dalla criminalità organizzata: il primo caso è stato, nel 1995, Bardonecchia in provincia di Torino. Dal 2011 si sono aggiunti anche altri enti locali tra Piemonte, Lombardia, Liguria, Emilia-Romagna e Lazio, con Lavagna (Genova), Sedriano (Milano) e - sempre della provincia di Torino - Rivarolo Canavese e Leini. L’infiltrazione mafiosa è un cancro che si sta ramificando sempre di più, come ha scritto la Commissione parlamentare antimafia nella relazione conclusiva della XVII legislatura presentata al Parlamento il 21 febbraio scorso. “Il fenomeno ha assunto un andamento molto preoccupante, a conferma del fortissimo interesse da parte dei gruppi criminali per le risorse gestite dagli enti locali e di una strategia volta a condizionare dall’interno le singole amministrazioni, a partire da quelle dei Comuni di dimensioni più limitate, al fine di indirizzarne le decisioni di spesa”. Come è avvenuta l’espansione verso Nord della criminalità organizzata? “Le indagini ci dicono che inizialmente la ‘ndrangheta si è inserita nel tessuto economico prestando soldi agli imprenditori in difficoltà che non trovavano accesso ai circuiti legali”, spiega Pierpaolo Romani, coordinatore nazionale di Avviso Pubblico. “Poi ha investito denaro anche in aziende non in crisi, ma che grazie alla mafia hanno potuto avere accesso a un mercato falsato da una concorrenza sleale, perché le imprese mafiose sfruttando il lavoro possono praticare prezzi più bassi rispetto alle aziende che rispettano le leggi e vincere gli appalti. Dall’economia alla politica locale il passo è stato breve: i mafiosi votano e fanno votare. E l’interesse oggi è più verso un sindaco o un assessore piuttosto che un parlamentare, perché gli enti comunali sono diventati importanti centri di spesa”. Ma azzerare interamente un’amministrazione collusa o infiltrata potrebbe non essere la soluzione migliore per contrastare il fenomeno. Infatti, da qualche tempo si parla di riformare la legge, che, se permette di sciogliere il Consiglio comunale (e di mandare a casa tutti gli amministratori, anche quelli che non hanno fatto niente di male), lascia però intatta la struttura amministrativa. “La vera gestione degli appalti - dice Pierpaolo Romani - non la fanno i politici, ma i burocrati. Dal 2009 è possibile sospendere, trasferire o licenziare un funzionario colluso, al termine di un procedimento disciplinare, ma soltanto nel caso di un Comune che sia stato sciolto”. Inoltre, la procedura di scioglimento rischia di essere troppo drastica perché crea un trauma operativo per l’ente che lo subisce. Anche per la Commissione parlamentare antimafia servono misure intermedie. È la cosiddetta “terza via”, che auspica una alternativa tra le uniche due soluzioni possibili oggi, cioè lo scioglimento o l’archiviazione, la misura “dissolutoria” e quella “assolutoria”. “Non sono disciplinati in modo soddisfacente i problemi connessi al mancato scioglimento di un ente che presenti segnali di compromissione irrisolti, come potrebbero essere i casi di appalti in cui siano state turbate le procedure di gara in favore di soggetti o imprese riconducibili all’associazione mafiosa o le situazioni in cui una determinata percentuale di dipendenti o di dirigenti sia sospettata di collegamenti con soggetti o imprese - conclude - riconducibili all’associazione mafiosa. Nelle situazioni borderline si potrebbe ipotizzare la nomina di una “commissione di affiancamento” che accompagni l’ente nel suo percorso di risanamento”. Il narcotraffico cresce ma l’antimafia punta sulla repressione finanziaria di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 6 settembre 2018 La relazione annuale della Direzione nazionale antimafia e antiterrorismo. Non si parla di legalizzazione, ma di introdurre nuovi canali di repressione al narcotraffico soprattutto finanziari. A differenza delle relazioni scorse a firma dell’ex procuratore nazionale antimafia Franco Roberti, nell’ultima relazione annuale della Direzione nazionale antimafia e antiterrorismo (Dna), firmata da Federico Cafiero de Raho, che il Dubbio ha potuto visionare in anteprima, non si fa alcun cenno alla possibilità della legalizzazione delle droghe leggere per contrastare le organizzazioni mafiose. Ma cosa significherebbe sottrarre alle mafie il mercato delle droghe? Sicuramente il crimine organizzato - in qualunque sua forma ed a qualsiasi latitudine - non avrebbe il volto che ha assunto (nel mondo e in Italia), se non avesse il controllo di un mercato che vale, annualmente, circa 560 miliardi di euro a livello globale e circa 30 miliardi di euro in Italia (pari a circa il 2% del Pil nazionale). Sono dati della Direzione nazionale antimafia. “Ed egualmente - si legge nella relazione, il crimine organizzato, oggi, non sarebbe, a livello mondiale e nazionale, uno dei principali protagonisti della vita economica, politica e sociale, se non disponesse di un patrimonio (e parliamo solo di quello accumulato negli ultimi 20 anni con il narcotraffico) di, circa 8300 miliardi di euro a livello globale e di circa 400 miliardi di euro in Italia”. L’affare più grande nel mondo è la droga leggera - Nessun cenno, quindi, alla legalizzazione, eppure nel contempo la relazione annuale scrive chiaro e tondo che il mercato degli stupefacenti è in continua espansione nonostante “i migliori propositi e gli sforzi più intensi”, i quali non hanno determinato, non solo, “una scomparsa del fenomeno (che per quanto auspicabile appare obbiettivamente irrealizzabile), non solo un suo ridimensionamento, ma neppure un suo contenimento”. La relazione della Direzione nazionale antimafia sottolinea che il narcotraffico è l’affare più remunerativo che esista (per rapporto costi - ricavi) per la criminalità organizzata. La droga più remunerativa? È quella leggera. Il bacino dei consumatori finali del prodotto è infatti così suddiviso: 183 milioni di utilizzatori di cannabis, 22 milioni di utilizzatori di droghe sintetiche, 18 milioni di utilizzatori di oppiacei (mentre 35 milioni sono i consumatori di oppiacei ed oppioidi), 17 milioni di utilizzatori di cocaina. Il dato statistico - viene sottolineato nella relazione -, riguarda soltanto tossicodipendenti e consumatori abituali. Decine e decine di milioni di consumatori che sporadicamente fanno uso di narcotici, sfuggono a qualsiasi statistica. In ogni caso il dato consente di affermare che il 5,3% della popolazione mondiale adulta assume abitualmente stupefacenti. Ma è sempre la cannabis ad avere la meglio sul profitto dei narcotrafficanti. Si afferma con certezza i primi produttori di resina di cannabis (Hashish) rimangono, nell’ordine, Marocco, Afghanistan, Libano, India e Pakistan. Fra i maggiori produttori di infiorescenze di cannabis (marijuana) oltre al Messico (che rifornisce il mercato statunitense) sta facendo la sua comparsa l’Albania che è divenuto il primo produttore europeo, superando l’Olanda. L’entità dei sequestri di cannabis - combinato con l’altissimo numero di consumatori censito (oltre 183.000.000, circa, come visto) che è in costante aumento dalla fine degli anni ‘ 90 (periodo nel quale i consumatori non arrivavano a 145.000.000 circa) - consente appunto di avere una idea dell’imponenza del mercato. Il business delle marjuana in Italia e la camorra sempre più “messicana” - Ma in Italia? I numeri crescenti dei sequestri delle sostanze stupefacenti rendono l’idea. Per quanto riguarda la cannabis si è registrato una disomogeneità dei dati a seconda della sostanza. Mentre per la resina di cannabis, quindi, per l’hashish, è stato sequestrato complessivamente un quantitativo di circa 24.000 kg, con una significativa diminuzione rispetto all’anno precedente di oltre il 60%, per le inflorescenze di cannabis, e, quindi, per la marijuana, si è registrato un sequestro complessivo di oltre 41.000 kg di sostanza, con uno sbalorditivo incremento rispetto all’anno precedente di oltre il 340%. Ed egualmente impressionante la crescita, pari ad oltre il 233%, dei sequestri di piante di cannabis, arrivato ad oltre 464.000. In sintesi c’è stato ridimensionamento molto forte dei sequestri di resina di cannabis (hashish), ma nel contempo una eccezionale impennata dei sequestri delle infiorescenze di cannabis (marijuana). L’Italia, secondo la relazione, è divenuto uno stabile e decisivo crocevia del traffico internazionale di narcotici. Il dato che davvero impressiona è quello partenopeo. “Il territorio del Distretto di Napoli - si legge nella relazione, non solo rimane quello in cui, di gran lunga, può registrarsi, in senso assoluto, la più alta presenza di soggetti dediti alle attività illecite svolte per conto di organizzazioni trafficanti, ma in cui l’incremento del fenomeno appare di enormi proporzioni partendo già da una posizione di assoluta primazia in Italia”. La camorra attraverso lo spaccio sta cambiando pelle, - addirittura si legge nella relazione - una cosa diversa, tanto da somigliare, con le dovute proporzioni, alle organizzazioni narco- trafficanti messicane. La droga, insomma, sta diventando in Campania una delle prime industrie. La lotta alle droghe aggredendo la finanza globale. Abbandonata la linea della legalizzazione, la Direzione nazionale antimafia punta verso altre forme di repressioni al narcotraffico. La principale è quella finanziaria, anche se premette che “nessuno si illude che possano essere del tutto eliminati casi di operatori bancari e finanziari infedeli, che, non solo, non segnalano operazioni finanziarie sospette, ma che contribuiscono allo loro stessa riuscita”. La prima azione, per la Dna, è l’allargamento delle intercettazioni, ampliando il target verso soggetti collocati nel mondo delle professioni e della finanza. Quindi si chiede in sostanza una rimozione degli “ostacoli” giuridici. Una seconda azione è l’utilizzazione dell’agente sotto copertura - finora introdotto nella manovalanza, dove si muove lo stupefacente - nel contesto finanziario, cioè dove vengono messi i soldi. La terza azione è quella di indagare in modo incisivo il riciclaggio internazionale, anche se permane la difficoltà di collaborare con quei Paesi che fondano, almeno in parte, la loro economia anche su apporti illeciti. Per questo motivo, secondo la Dna, appare necessario istituire un Organismo di controllo, un Tribunale Internazionale che, sotto l’egida Onu applichi forti sanzioni economiche, se non misure di embargo - come viene fatto nel caso degli Stati impegnati in operazioni belliche illegali - nei confronti, non solo, di quei paesi che hanno normative interne inadeguate, ma anche di quelli che, pur avendo adeguate norme anti-riciclaggio, in concreto consentono il money laundering (processo mediante il quale i criminali mascherano la proprietà e il controllo originari dei proventi di reati commessi facendo apparire tali proventi come derivati da una fonte legittima), o non danno corso una effettiva cooperazione internazionale nelle indagini sul riciclaggio negando risposte soddisfacenti alle Autorità estere che richiedono di individuare i formali intestatari ed i reali beneficiari di conti e depositi coinvolti in attività illecite. Emerge, quindi, che le economie ed i sistemi finanziari che si alimentano dei proventi del narcotraffico fanno una concorrenza sleale (che, a volte, è letale) ai sistemi che invece si impegnano nell’azione di contrasto al riciclaggio. “È un dovere di questi ultimi - si legge nella relazione - difendere se stessi, i propri popoli ed i propri sistemi da paesi che non sono altro che dei bari al tavolo da gioco”. Per la Dna questa potrebbe essere una grande battaglia in cui il nostro paese dovrebbe impegnarsi. La vera nuova frontiera della lotta alla criminalità organizzata ed al narcotraffico secondo l’antimafia è questa. Seppur, ricordiamolo ancora una volta, la stessa Dna dice di non illudersi che ciò possa stroncare il narcotraffico, al massimo può limitarlo. Rita Bernardini: “che errore abbandonare l’idea di legalizzare la cannabis” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 6 settembre 2018 Se la parola legalizzazione è scomparsa dal vocabolario dell’ultima relazione annuale della Direzione annuale antimafia, certamente non è così per Rita Bernardini, esponente del Partito Radicale. Da anni coltiva marijuana per darla ai malati che ne hanno bisogno, e senza farne mistero. Ci spiega perché è di vitale importanza la legalizzazione delle droghe, anche dal punto di vista della lotta alle mafie. Partiamo dall’ultima relazione della Direzione nazionale antimafia. Rispetto a quelle precedenti, non parla più di legalizzazione delle droghe leggere, eppure nello stesso tempo conferma che le politiche di repressione in atto sono un fallimento per arginare il business del narcotraffico… Dopo 4 anni consecutivi in cui la Dna ha suggerito alla politica di prendere in considerazione la legalizzazione della cannabis, con il nuovo corso di Cafiero de Raho, la parola letteralmente scompare dalle 1.159 pagine della relazione di quest’anno. L’anno scorso si riportava il parere positivo della Dna sulle proposte di legalizzazione in discussione in Parlamento nella passata legislatura. Quel che non è cambiata nella relazione di quest’anno è la descrizione del fenomeno della diffusione delle droghe proibite in costante e inarrestabile crescita: 250 milioni di consumatori abituali (il 5,3% della popolazione mondiale), di cui ben 183 milioni sono utilizzatori di cannabis (il 73,2%!). Ma quel che più sorprende è il giudizio sulle misure messe in atto globalmente per contrastare il fenomeno del narcotraffico: “le azioni di contrasto - afferma la Dna - nonostante i migliori propositi e gli sforzi più intensi, non hanno determinato, non solo una scomparsa del fenomeno (che per quanto auspicabile appare obiettivamente irrealizzabile), non solo un suo ridimensionamento, ma neppure un suo contenimento. Forse, al più conclude la Dna - hanno impedito una crescita ancora più marcata”. Ecco, di fronte a questo quadro, la ricetta avanzata dalla Dna di Cafiero De Rao è quella di sempre, proposta dai sostenitori della fallimentare “War on drugs “: più mezzi e più poteri centralizzati nelle mani della Dna e, a livello mondiale, l’estensione del sistema sanzionatorio agli Stati “che consentono le collusioni fra sistema bancario e finanziario e narcotraffico” fino a prevedere un Tribunale internazionale sotto l’egida dell’Onu che applichi forti sanzioni economiche se non misure di embargo nei confronti degli Stati che non cooperino e che non abbiamo normative adeguate per colpire il riciclaggio. Mi viene in mente la frase di Pannella che è divenuta la sigla del notiziario antiproibizionista di Radio Radicale: se tu vuoi vietare l’esercizio di una facoltà umana che è a livello di massa, tu fallirai e sarai costretto all’illusione autoritaria del potere che colpisce il colpevole, lo colpisce a morte. Però c’è ad esempio il procuratore antimafia Nicola Gratteri il quale ha più volte ribadito che la legalizzazione non contrasterebbe la criminalità organizzata e più volte ha detto che lo Stato non può legalizzare l’uso di sostanze che provocano danni alla salute dei suoi cittadini… Gratteri afferma che se la cannabis fosse legalizzata la criminalità organizzata continuerebbe a fare gli stessi introiti perché la venderebbe ai minorenni dai dieci anni in su (dice proprio così) e avrebbe comunque le altre droghe proibite da vendere. Che una fetta di mercato di milioni di consumatori in Italia sarebbe sottratta al mercato illegale, non lo sfiora neppure. Così come non lo sfiora nemmeno lontanamente il fatto che almeno 4 milioni di consumatori di hashish e marijuana sono oggi costretti ad approvvigionarsi all’unico mercato oggi disponibile, quello dei narcotrafficanti per lo più mafiosi. In buona fede (credo) Gratteri & company lasciano alle mafie il monopolio dell’”affare più remunerativo che esista, per rapporto costi- ricavi, per la criminalità organizzata”. Quanto all’affermazione che lo Stato non può legalizzare sostanze che fanno male alla salute, Gratteri vieterebbe pure il tabacco (su questo definisce lo Stato ipocrita). Non l’alcol perché se lui si beve un bicchiere di vino, sostiene, non lo fa per sballarsi come accade a chi si fa una canna. I 17.000 morti legati all’abuso di alcol nel 2017 e gli zero per marijuana, non contano. Dopo l’illegittimità della legge Fini-Giovanardi, la legalizzazione in Uruguay e in Colorado, le relazioni della Dna guidata dall’ex procuratore nazionale antimafia Franco Roberti, il dibattito sulla legalizzazione della cannabis si era riacceso in Italia. C’era stata anche una proposta di legge, poi rimasta nel cassetto. Oggi come siamo messi? Con il governo penta-leghista, direi malissimo, non rientra nemmeno di striscio nel contratto di governo. Occorre riportare il tema nell’agenda della politica. Però dal 2007, la cannabis può essere almeno utilizzata per scopi terapeutici. Non ci dovrebbero essere più problemi sotto questo fronte, vero? Ha fatto bene ad usare il condizionale perché le difficoltà per i malati sono ancora insormontabili. Il prossimo 7 luglio sarò a Foggia con Andrea Trisciuoglio e altri malati dell’associazione “La piantiamo” per un convegno dal titolo “Costretti a disobbedire”. Prima o poi la troverò una procura che mi schiaffi in galera, come accade a migliaia di coltivatori di Marijuana che non vogliono foraggiare la criminalità più o meno organizzata. Voi del Partito Radicale parlate di legalizzazione, ma non di liberalizzazione. Che differenza c’è? È semplice. La liberalizzazione vuol dire “nessuna regola” mentre la legalizzazione prevede regole che possono essere più o meno restrittive. Quando nella relazione della Dna leggiamo che le imprese di spaccio operano 24 ore su 24 e che sono le principali e diffuse fonti di attività lavorative in alcune zone del paese, potremmo dire che la liberalizzazione sia il connotato della situazione attuale del proibizionismo. Lei propone anche la legalizzazione delle droghe pesanti, come l’eroina e la cocaina. Non le sembra un po’ troppo? Troppo semmai è riferibile all’oggi, con una marea di persone allo sbando costrette a commettere crimini per procurarsi la dose di sostanza dalla quale dipendono. Per esempio, una seria regolamentazione di somministrazione sotto controllo medico di eroina, risolverebbe le problematiche più dannose sia per gli assuntori (overdose, Aids, commissione di reati e relativi processi) che per la sicurezza dei cittadini, non più vittime di reati tipici dei tossicodipendenti in astinenza (scippi, furti, rapine) Pericolosità sociale: no alla misura più grave senza nuovi reati di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 6 settembre 2018 Corte di cassazione - Sezione I - Sentenza 5 settembre 2018 n. 39941. Il giudice nel riesaminare la persistenza della pericolosità sociale non può sostituire la libertà vigilata con la più grave misura dell’assegnazione alla casa lavoro, a meno che non ci sia una condanna, anche non definitiva, per reati commessi nel corso della libertà vigilata. L’unica possibilità, se la pericolosità è ancora accertata, è quella di prolungare la durata del provvedimento già adottato. La Corte di cassazione, con la sentenza 39941, esclude la possibilità di inasprire la misura di sicurezza solo in virtù di una concreta e attuale pericolosità sociale, che il giudice considera non contenibile con la misura attenuata già applicata. I giudici della prima sezione penale accolgono così il ricorso di un condannato per omicidio pluriaggravato al quale il Tribunale di sorveglianza aveva applicato una misura più restrittiva ritenendo inadeguata la prima, e non considerando di ostacolo all’inasprimento, né l’età del ricorrente né le condizioni di salute compromesse, visto che i due fattori non gli avevano impedito di commettere il crimine per il quale era stato condannato. La Cassazione però annulla senza rinvio l’ordinanza considerandola illegittima. La possibilità del giro di vite non è possibile neppure in caso di condanna sopravvenuta se questa si riferisce a reati commessi prima dell’esecuzione della libertà vigilata. Gli elementi utilizzabili al fine di un giudizio di accresciuta pericolosità, ai fini di una misura più grave della libertà vigilata, non possono che essere (articolo 199 del Codice penale) quelli previsti dalla legge e, in particolare quelli indicati dall’articolo 231 del Codice penale. La commissione di reati durante l’espiazione della misura è, infatti, equiparabile alla trasgressione degli obblighi imposti. Lo straniero che chiede asilo in Italia ha diritto alla protezione sussidiaria… di Marco Montini entonuovo.eu, 6 settembre 2018 … se le condizioni del carcere nel Paese d’origine sono disumane. Lo straniero che chiede asilo in Italia ha diritto alla protezione sussidiaria se le condizioni del carcere nel Paese d’origine sono disumane e a rischio per la vita. Risulta rilevante la corruzione del sistema giudiziario e tutti i casi di mancata protezione interna da parte delle autorità dello stato di provenienza. Commissione territoriale e giudice devono svolgere indagini e acquisire informazioni aggiornate sul Paese d’origine in deroga al principio dispositivo del giudizio civile ordinario. A stabilire questi importanti principi, rileva Giovanni D’Agata, presidente dello “Sportello dei Diritti”, la sesta sezione civile della Corte di cassazione che, con l’ordinanza n. 21610 del 4 settembre 2018, ha accolto il ricorso di un immigrato originario della Guinea. Nel ricordare che il beneficio può essere concesso solo nei casi di rischio di grave danno per lo straniero, la Suprema Corte ha, fra l’altro, ricordato che il diritto alla protezione sussidiaria non può essere escluso dalla circostanza che a provocare tale danno grave per il cittadino straniero siano soggetti privati qualora nel Paese d’origine non vi sia un’autorità statale in grado di fornirgli adeguata ed effettiva tutela, con conseguente dovere del giudice di effettuare una verifica officiosa sull’attuale situazione di quel Paese e, quindi, sull’eventuale inutilità di una richiesta di protezione alle autorità locali. Inoltre, ricordano gli ermellini: “in tema di protezione internazionale e umanitaria, la valutazione di credibilità delle dichiarazioni del richiedente non debba essere affidata alla mera opinione del giudice ma costituisca il risultato di una procedimentalizzazione legale della decisione, da compiersi non sulla base della mera mancanza di riscontri oggettivi, ma alla stregua dei criteri indicati nell’art. 3, comma 5, del d.lgs. n. 251 del 2007 e, inoltre, tenendo conto “della situazione individuale e della circostanze personali del richiedente” (di cui all’art. 5. comma 3, lett. c), del d.lgs. cit.), con riguardo alla sua condizione sociale e all’ età, non potendo darsi rilievo a mere discordanze o contraddizioni su aspetti secondari o isolati quando si ritiene sussistente l’accadimento”. Bancomat, reato di accesso abusivo a sistema informatico di Andrea Alberto Moramarco Il Sole 24 Ore, 6 settembre 2018 Corte d’appello di Roma - Sezione I penale - Sentenza 19 giugno 2018 n. 6041. La manomissione di uno sportello bancomat, attraverso l’apposizione di uno skimmer e di una microcamera, al fine di clonare le carte di debito e di credito degli ignari utenti e di svuotarne i conti, configura il duplice reato, in continuazione, di accesso abusivo a sistema informatico e di installazione di apparecchiature atte ad intercettare comunicazioni informatiche. Il reato è ancor più grave, poi, se il bancomat preso di mira si trova nel centro città in una zona frequentata da turisti, per via del maggiore disagio che il trovarsi senza denaro può causare. Questo è quanto emerge dalla sentenza 6041/2018 della Corte d’appello di Roma. I fatti - Protagonisti della vicenda sono tre cittadini bulgari, tutti privi di fissa dimora, i quali un pomeriggio d’estate a Roma, nella centralissima Piazza di Spagna, dopo essersi allontanati da uno sportello bancomat della filiale Unicredit, venivano fermati dalle Forze dell’ordine e trovati in possesso di diverse banconote da 50 euro e di una lamina metallica a forma di tessera. Il bancomat in questione era tenuto sotto osservazione dai Carabinieri, dopo che nelle settimane precedenti vi erano state numerose segnalazioni di manomissioni di sportelli Atm nel centro storico di Roma. Dai filmati delle telecamere dell’impianto di videosorveglianza della filiale, poi, era emerso che i tre soggetti avevano installato, nella fessura in cui si introducono le carte di pagamento, uno skimmer device, ovvero “un dispositivo che ha la funzione di leggere la banda magnetica contenente le cifre che individuano la carta stessa”; e nella fessura da cui vengono erogate le banconote, una cover di plastica, identica alla fessura originale e recante una microcamera puntata sulla tastiera numerica, con la funzione di filmare i codici Pin digitati dagli utenti. I tre cittadini bulgari venivano così tratti a giudizio per rispondere del reato continuato di accesso abusivo ad un sistema informatico e telematico, ex articolo 615-ter c.p., e di installazione di apparecchiature atte ad intercettare, impedire o interrompere comunicazioni informatiche o telematiche, ex articolo 617-quinques c.p., per aver installato i due apparecchi con l’obiettivo di clonare le carte bancomat degli ignari utenti e svuotare i loro conti.; il tutto aggravato dall’aver commesso il fatto con violenza su cose e in danno di un sistema informatico o telematico utilizzato da un’impresa esercente servizio di pubblica necessità. Dopo la condanna in primo grado, i tre imputati appellavano la sentenza contestando la configurabilità dei reati contestati, affermando che la clonazione della carta bancomat non poteva rientrare nell’ambito applicativo dell’articolo 615-ter c.p., in considerazione dell’assenza di interazione tra apparecchi costituenti il sistema informatico; e che il ritrovamento della lamina metallica a forma di tessera, nonostante questa sia solitamente usata per la rimozione dello skimmer, non poteva considerarsi elemento sufficiente a ritenere integrato il reato ex articolo 617-quinques. Il bancomat è un sistema informatico - La Corte d’appello conferma però il verdetto di merito, sottolineando la correttezza della decisione del Tribunale alla luce della ricostruzione della vicenda, suffragata dai filmati dell’impianto di videosorveglianza e dal ritrovamento della lamina metallica, il cui possesso non era stato in alcun modo giustificato dagli imputati. Ciò posto, i giudici capitolini si soffermano sull’inquadramento giuridico della fattispecie in esame e svolgono alcune considerazioni in tema di crimini informatici. Ebbene, afferma il Collegio, è chiaro che la condotta posta in essere dagli agenti sia duplice: installazione dello skimmer, da un lato, e apposizione della microcamera, dall’altro, con il fine ultimo di “depredare il conto corrente del malcapitato utente del bancomat”. In particolare, poi, per quanto concerne lo skimmer, esso rientra perfettamente nella descrizione contenuta nell’articolo 615-ter, cioè nella nozione di “sistema informatico o telematico”. Difatti, contrariamente a quanto sostenuto dalla difesa, costituisce accesso abusivo “ogni intromissione in un sistema protetto”, nel quale vengano “trasmessi dati non ostensibili a chiunque”. In altri termini, spiega la Corte, l’espressione “sistema informatico” contiene in sé “il concetto di una pluralità di apparecchiature destinate a compiere una qualsiasi funzione utile all’uomo, attraverso l’utilizzazione (anche in parte) di tecnologie informatiche”. Quanto al contestato aspetto del “dialogo tra apparecchiature”, esso sussiste in quanto “nel caso del bancomat, la cifra memorizzata sulla banda magnetica della carta viene trasmessa al sistema informatico bancario, attraverso un flusso di dati” per individuare il conto dal quale l’utente intende prelevare denaro; una volta avvenuto ciò, per il buon esito dell’operazione viene richiesta la digitazione del Pin, che ha la funzione di attestare che la richiesta proviene da un soggetto autorizzato. Fatto più grave se il bancomat si trova in centro - In relazione al trattamento sanzionatorio, infine, per i giudici gli imputati non meritano il minimo edittale o la concessione delle attenuanti generiche: il punto prescelto per l’operazione criminale, ovvero Piazza di Spagna a Roma, è una zona ampiamente frequentata da turisti, italiani e stranieri, e ciò “è idoneo a cagionare ancor più grave pregiudizio alla vittima, posto che per un turista trovarsi all’improvviso senza denaro in un Paese straniero è certamente un’evenienza particolarmente drammatica”. Lecce: detenuto romeno di 44 anni si toglie la vita in carcere Corriere del Mezzogiorno, 6 settembre 2018 Si è tolto la vita nella sua cella del Carcere di Lecce Ionut Adrian Berloiu, 44enne rumeno, arrestato qualche giorno fa dopo che aveva picchiato la ex compagna e suo figlio. Era stato accompagnato a Borgo San Nicola soltanto qualche giorno fa, quando fu arrestato dai carabinieri per aver picchiato la ex compagna e suo figlio che vivevano a pochi passi dall’abitazione, dove stava scontando i domiciliari. Un incubo che sembrava finito ha avuto, invece, un risvolto ancora più tragico. Nelle scorse ore, il 44enne di origine rumena, finito nei guai, si è tolto la vita nella cella del carcere di Lecce che condivideva con altri detenuti. Si sarebbe impiccato, utilizzando una corda, “formata” dalle strisce ricavate da alcune lenzuola. Il gesto di notte e lancette dell’orologio avevano da poco segnato l’1.30 quando si è consumata la tragedia nella sezione R2 della casa circondariale salentina, mentre gli altri ospiti del penitenziario dormivano. Quando gli agenti in servizio si sono accorti dell’insano gesto per lo straniero non c’era più nulla da fare. I soccorsi dei sanitari del 118 sono stati, purtroppo, inutili. Il 44enne - volto già conosciuto alle forze dell’ordine - era stato arrestato lo scorso 28 agosto, tra le altre accuse, per “evasione”. Già, perché era stato sottoposto ai domiciliari dal 23 marzo per maltrattamenti in famiglia, tentata estorsione [aveva cercato di farsi consegnare lo stipendio della sua compagna che lavorava come badante presso una coppia di anziani] e violazione di domicilio. Noncurante dei guai in cui era già finito si era recato nell’abitazione della ex convivente, per colpirla ripetutamente. Lo stesso trattamento lo ha riservato al figlio. Chi abbia chiesto aiuto è difficile dirlo, fatto è che quando gli uomini in divisa si sono presentati nell’appartamento, il 44enne si è barricato in casa per avere il tempo di fuggire da un balcone posteriore e trovare riparo all’interno di una cisterna in disuso. Un pozzo profondo diversi metri. Ogni tentativo messo in atto per sfuggire all’arresto è stato vano. Una volta rintracciato e “convinto” a risalire, con l’aiuto anche dei Vigili del Fuoco di Maglie, è stato accompagnato al Pronto Soccorso dell’Ospedale di Scorrano. Lanciandosi nella cisterna aveva rimediato una frattura al polso. Dichiarato in arresto è stato accompagnato presso la Casa circondariale di Lecce, dove si è consumato il dramma. Velletri (Rm): detenuto morto in carcere, i medici avevano chiesto il trasferimento di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 6 settembre 2018 Il Garante regionale Stefano Anastasìa: “era stato colpito anche da un aneurisma celebrale”. “Oltre ad essere cardiopatico, aveva il diabete ed era stato colpito da un aneurisma celebrale”, così spiega al Dubbio il Garante regionale del Lazio dei detenuti Stefano Anastasìa la morte del detenuto 62enne romano, morto sabato mattina nel carcere di Velletri. Emergono dunque nuovi particolari sulla morte dell’uomo gravemente malato, tanto da muoversi con la sedia a rotelle. Dunque, non era solo cardiopatico, ma colpito da altre gravi patologie. Tant’è vero che prima era ristretto nel centro clinico del carcere di Regina Coeli. “Poi - spiega il garante Anastasìa - è stato inspiegabilmente trasferito al carcere di Velletri”. Gli stessi del carcere velletrano - tramite la direzione dell’istituto - hanno chiesto il trasferimento del detenuto presso strutture adeguate. “Lo hanno chiesto ben due volte - aggiunge il garante regionale -, perché non ritenevano che la struttura fosse adatta per monitorare il suo stato di salute visto le patologie che aveva”. Nel frattempo il detenuto aveva fatto istanza per chiedere la detenzione domiciliare per motivi di salute. “L’istanza era in corso di valutazione - spiega sempre Anastasìa -, perché recentemente era stato visitato da un perito del tribunale”. Purtroppo i tempi burocratici non tengono conto delle necessità. Il detenuto, 63enne, nel frattempo, ha smesso di respirare sabato mattina. Ad accorgersi del fatto è stato il suo compagno di cella che dopo aver tentato varie volte di chiamarlo senza ricevere risposta e non sentendolo più respirare ha dato l’allerta. Grazie al tempestivo intervento dell’agente di sezione, si è subito recato sul posto il personale sanitario che ha immediatamente attivato tutte le procedure di emergenza e tentato di rianimare il detenuto, ma purtroppo i tentativi di salvataggio si sono rivelati inutili, il detenuto è stato giudicato dal personale sanitario deceduto. Eppure, questa storia del trasferimento inspiegabile, non è una novità. L’anno scorso c’era stato un caso che è salito all’onor di cronaca e riguardava proprio il trasferimento da Regina Colei a quello di Velletri. Parliamo del suicidio di Marco Prato, il 31enne, accusato insieme a Manuel Foffo dell’omicidio di Luca Varani. Il ragazzo aveva già tentato il suicidio nel 2011, dopo essere rientrato a Roma da Parigi, e una seconda volta due mesi dopo, e ancora poche ore dopo l’orribile omicidio di Luca Varani. Prato, dunque, era un soggetto che necessitava di una attenzione particolare ma nonostante questo era stato trasferito, contro la sua volontà, dal carcere di Regina Coeli dove c’era una struttura adeguata per la sua situazione, al carcere laziale di Velletri che non ha una articolazione psichiatrica atta a fronteggiare simili casi problematici, come aveva denunciato il Garante delle persone private della libertà, Mauro Palma. Con l’ennesimo caso di morte che probabilmente poteva essere evitata, si accende nuovamente il faro sulla criticità dell’assistenza sanitaria e psichica nelle carceri. Parma: detenuti anziani, malati e all’ergastolo, situazione difficile nel carcere La Repubblica, 6 settembre 2018 Protocollo di intesa fra Comune e istituto penitenziario per migliorare la situazione. Nel carcere di Parma, dove è in costruzione un nuovo padiglione, sono detenuti 40 malati gravi e alcuni di loro hanno più di 80 anni. Lo scrive Il Dubbio, quotidiano edito dalla Fondazione dell’Avvocatura Italiana del Consiglio Nazionale Forense Si evidenziano i casi di Giuseppe, 69 anni, ergastolano, incompatibilità carceraria certificata, in carcere da 27 anni. Salvatore, un altro ergastolano di 85 anni affetto da un aneurisma, trombosi e cardiopatia; in carcere da 25 anni. Maurizio, ergastolano in carcere da 23 anni, invalido al 100 per cento con accompagnatore, che ha una pregressa tubercolosi di grado severo, crisi depressive, attacchi di panico e claustrofobia. Un 72enne ergastolano, in carcere da 28 anni, ha la leucemia e afflitto da cecità. Giancarlo ha due tumori, uno al colon e l’altro ai testicoli. Viene inoltre citato il caso dell’ergastolano Gaspare Raia morto lo scorso giugno. Aveva quasi ottant’anni - scrive Il Dubbio - e stava scontando l’ergastolo nel reparto As3, quello di alta sicurezza, da più di 25 anni. Viene ricordato che il penitenziario ha un centro clinico allestito per un massimo di 30 posti che spesso non riesce a seguire tutti i casi. La lista dei detenuti gravemente malati l’ha ottenuta l’associazione Yairaiha Onlus, la cui presidente è Sandra Berardi, impegnata da anni nella lotta per l’abolizione dell’ergastolo, del 41 bis e per una amnistia generale. Ed è proprio per migliorare la condizione dei carcerati che il Comune di Parma e la direzione dell’istituto penitenziario di Parma hanno sottoscritto un protocollo di intesa per promuovere azioni volte a migliorare la qualità della vita dei detenuti che sarà presentato giovedì 5 settembre da Laura Rossi, assessore al Welfare del Comune di Parma, e Carlo Berdini, direttore del carcere. Napoli: cure negate in carcere, ex detenuto risarcito dalla Asl di Fabrizio Geremicca Corriere del Mezzogiorno, 6 settembre 2018 Non ha ricevuto in carcere le cure alle quali avrebbe avuto diritto e per questo il Tribunale di Napoli condanna ora la Asl Napoli 1 a versare a suo favore 120.000 euro. Protagonista della vicenda C.F., napoletano cinquantenne, vittima di un caso di malasanità nel penitenziario di Poggioreale. “Tutto comincia - racconta l’avvocato Gennaro Lallo - a settembre 2011, quando il mio assistito, detenuto da alcuni mesi, cade dalla brandirla ed inizia a lamentare dolori alla zona del bacino. Chiede di essere visitato dai sanitari del presidio medico interno al carcere, che è gestito dalla Asl. 1 dottori sottovalutano il caso. Non lo sottopongono neppure ad una radiografia. Si limitano a prescrivergli in continuazione antidolorifici. Rimane con la sua sofferenza in una cella sovraffollata”. A marzo 2013 C.F. è scarcerato. Si reca all’ospedale Cardarelli dove emerge che in carcere, a seguito della caduta dalla branda, si era procurato una frattura al bacino, che avrebbe dovuto essere ridotta e trattata in maniera appropriata nell’immediatezza dell’infortunio. Poiché non è stato fatto, si è calcificata spontaneamente ma in maniera scorretta. L’ex detenuto decide, a questo punto, di avviare una causa nei confronti della Asl. “La sentenza - dice l’avvocato Lallo - sulla base della relazione del consulente tecnico nominato dal tribunale sancisce in maniera chiara ed inequivocabile che il mio assistito è stato vittima di negligenza e trascuratezza da parte dei sanitari. Il che è particolarmente grave perché i detenuti sono persone la salute delle quali è completamente affidata allo Stato”. Vicende come quella di C.F., sottolinea Samuele Ciambriello, da circa un anno garante dei detenuti in Campania, pongono con forza l’esigenza di potenziare organici e strumentazioni dei presidi sanitari nei penitenziari. “Bisognerebbe per esempio - riflette - dotare le carceri di tac 0, almeno, acquistare una tac mobile che potrebbe essere utilizzata a seconda delle esigenze nei vari penitenziari. Servirebbe anche a ridurre le trasferte in ospedale, che impegnano ogni volta tre agenti penitenziari e che, lo scorso anno, sono state un migliaio”. Prosegue: “C’è il bisogno di incrementare i posti Ietto negli ospedali riservati ai detenuti. A Napoli sono una ventina, un numero del tutto inadeguato. Altro tema è quello della stabilizzazione del personale sanitario impegnato nelle carceri, che oggi è precario e si avvicenda sulla base di contratti di pochi mesi. Conclude il garante: “Nella sanità carceraria, ma ci sono anche carenze strutturali che vanno assolutamente risolte”. Rimini: la “Casa Madre del Perdono” compie 10 anni di Paolo Guiducci ilponte.com, 6 settembre 2018 Sulla porta della casa compare una grande scritta: “Beati i misericordiosi”. All’interno ci sono 15 “recuperandi”, ovvero carcerati impegnati in un percorso di recupero, diversi volontari e il responsabile Matteo Giordani con la moglie Rosanna. Questa è “Casa Madre del Perdono”, sulle colline riminesi della Valconca, una struttura nata dal costato dell’associazione Papa Giovanni XXIII. Il fiocco azzurro dieci anni fa. Per festeggiare il traguardo, domenica 9 settembre è festa: ritrovo alle 16, la messa alle 16.30, storie e testimonianze dei protagonisti, apericena a buffet quando l’ora è quella giusta, intorno alle 19. “A tutti coloro che entrano chiediamo un colloquio con un recuperando e di adottarlo nella preghiera” dice Giorgio Pieri. Nel 1998 c’era lui a guidare questa avventura in fieri, ora ha lasciato il testimone nelle mani di Matteo ed è filato su a Coriano, a Casa Betania, luogo storico per la Papa Giovanni (qui si fece carne la prima casa famiglia), per riproporre una Casa e il modello Cec che la contraddistingue. Cec, ovvero Comunità educante con i carcerati. “Comunità educante con i carcerati e non per i carcerati. - rilancia Giordani, 39 anni e un diploma da geometra riposto da qualche parte - Perché l’uomo non è il suo errore, come suggeriva don Oreste. Attraverso questa esperienza, tante persone, e non solo detenuti, si sono ritrovati, ad iniziare da Giorgio, da me e dai numerosi volontari”. Attualmente sono una quindicina i “recuperandi”: sono incamminati verso questo percorso di risalita insieme ai volontari e agli educatori. Il 50% è straniero, percentuale tipica delle carceri italiane. “Ma sono anche quelli che nessuno vuole, che non hanno altre possibilità. L’età degli ospiti va da 22 a 62 anni. In totale, in due lustri a Montescudo sono stati accolti 300 ragazzi. Alcuni, presi dalla disperazione, sono fuggiti, altri sono fuggiti e basta ma si tratta di numeri risibili, all’inizio 4/5 l’anno, nelle ultime stagioni ancora meno. Giordani non poteva finire che qui, alla Casa Madre del Perdono. Il carcere luogo di sofferenza per lui ha significato incontrare la persona della sua vita. “Lei era volontaria in carcere a Como con altra associazione. - racconta l’attuale responsabile della Casa - Seguiva un detenuto conosciuto in carcere, che io avrei dovuto ospitare in Casa. Si è fermata da noi per questo motivo, nei giorni trascorsi qui ci siamo conosciuti e innamorati”. Rosanna aiuta saltuariamente il gruppo sartoria, nel carcere di Pesaro. La struttura, gli strumenti educativi, la vivace presenza di volontari, il progetto Cec è già tutto avviato. “E lo era anche quando sono arrivato io, 8 anni fa. - ammette Matteo. È importante che quel progetto si traduca nella vita quotidiana, sia vero nella vita tutti i giorni, applicato vivendo la condivisione coi ragazzi”. A giudicare anche dai numeri, il progetto funziona. E fa crescere. Dalla costola della casa di Taverna sono nate quella di San Facondino, sempre nel riminese, e altre esperienze: a Cuneo, Vasto, Forlì e in Toscana. Esiste una presenza anche in Camerun, dove l’APGXXIII sta avviando un Cec. “Se guardo la mia vita, è come se per 30 anni mi fossi solo preparato ad abitare questa casa e a vivere questa esperienza. - prosegue il responsabile - Come i recuperandi, sono influenzato dal mio passato e ci devo lavorare”. Qui ci si può ritrovare. Attraverso un cammino nel quale Casa Madre del Perdono è una tappa fondamentale. Per le persone ma anche - in modo più allargata - per un intero territorio, per le parrocchie che hanno conosciuto questa esperienza educativa di riscatto, per la Diocesi stessa. “Tanto è stato fatto, tanto è ancora da fare, cioè si può ancora camminare insieme. La realtà della Casa è anche un messaggio per l’esterno, per passare da una società vendicativa ad una società che sappia perdonare”. Una società che si deve educare alla realtà del perdono, l’unico antidoto possibile per sconfiggere il male che c’è attorno a noi”. Larino (Cb): corso di formazione per volontari della giustizia riparativa di Andrea Nasillo termoli.tv, 6 settembre 2018 Formare operatori che a titolo volontario vogliono impegnarsi nel grande laboratorio della Giustizia riparativa dentro e fuori le mura di un carcere. È questo l’obiettivo del corso di formazione “Progetto Sicomoro” in programma dal 20 al 23 settembre 2018 alla Casa di formazione diocesana “San Giovanni XXIII” di Larino. L’iniziativa è promossa dall’associazione Il Muro Invisibile Onlus (Opera Segno della Diocesi di Termoli-Larino) in collaborazione con Prison Fellowship Italia Onlus. “In un Paese dove spesso il concetto di giustizia viene sempre più associato all’applicazione di sanzioni - spiegano gli organizzatori - ci sono realtà italiane che cercano di andare oltre. È il caso del Progetto Sicomoro, l’iniziativa promossa dalla Prison Fellowship Italia Onlus, che dal 2009 intende sopportare migliaia di detenuti di alcune carceri italiane per favorirne il reinserimento sociale. Da tempo si discute sulla Giustizia Riparativa, cioè riferirsi a un paradigma giuridico che sceglie di affrontare le controversie coinvolgendo maggiormente la vittima, il reo e la comunità civile, con l’obiettivo principale di avvicinare questi soggetti, ripristinando il dialogo interrotto dall’avvenuto fatto illecito. Emerge così una diversa modalità di approccio al reato, non più inteso come oltraggio ai danni dello Stato, ma come condotta offensiva, come violazione commessa da una persona ai danni di un’altra. La conseguenza è ovvia: il cuore della giustizia cessa di essere “chi merita di essere punito e con quali sanzioni”, per diventare “cosa può essere fatto per riparare il danno”, entrando così nel merito del problema antropologico e sociale del conflitto”. L’associazione Il Muro Invisibile Onlus rispondendo al comando di Gesù Cristo: “Visitate i carcerati”, svolge le sue attività al carcere di Larino in collaborazione con il direttore, Rosa La Ginestra, e sul territorio nazionale in favore di quanti sono reclusi o vivono situazioni di svantaggio sociale. I soci svolgono molteplici attività: accompagnamento spirituale, umano sia dei reclusi che dei familiari, reinserimento sociale, prevenzione al mondo della criminalità organizzata, recupero di giovani emarginati, laboratori teatrali, musicali, artistici, sartoria, intaglio, falegnameria. “Rendo grazie a colui che mi ha reso forte, Cristo Gesù Signore nostro, per-ché mi ha giudicato degno di fiducia mettendo al suo servizio me, che prima ero un bestemmiatore, un persecutore e un violento. Ma mi è stata usata misericordia, perché agivo per ignoranza, lontano dalla fede” (I Ti 1. 12- 13). Tutte le informazioni per partecipare al corso, a numero chiuso (40 posti) sono disponibili sul sito della Diocesi e sulla pagina Facebook. Domenica 23 settembre 2018 è previsto anche un pranzo aperto a tutti all’interno della casa circondariale di contrada Monte Arcano nel corso dell’iniziativa “PassArte” con l’inaugurazione dei murales realizzati dai detenuti. Numero di riferimento: don Marco Colonna (3494519141). Furti e truffe informatiche? Fatti aiutare dall’amico hacker di Arturo Di Corinto Il Manifesto, 6 settembre 2018 Aumentano i furti e le truffe informatiche? L’estensione ufficiale di Chrome per il servizio di condivisione di file Mega.nz è stata compromessa con un software malevolo che ruba nomi utente e password ma anche le chiavi private dei conti in cripto-valuta. Il codice maligno si attiva quando l’utente utilizza i servizi di Amazon, Microsoft, GitHub, MyEtherWallet e MyMonero. L’estensione invia tutti i dati raccolti a un server situato in Ucraina. Il comportamento malevolo è stato individuato due giorni fa da uno sviluppatore italiano dal nome in codice SerHack mentre analizzava il codice sorgente del software. Gli ingegneri di Google sono già intervenuti e hanno rimosso l’estensione dal Chrome Web Store ufficiale. Una settimana fa un altro ignoto hacker ha dimostrato ai giornalisti di Motherboard che Family Orbit, un’azienda che vende spyware ai genitori, cioè “app per il controllo genitoriale a distanza”, ha lasciato online le immagini di centinaia di bambini monitorati, proteggendole con una semplice password, secondo lui facilmente aggirabile. Famoso per aver hackerato Retina-X, ha condiviso gli screenshot che mostrano come fosse in grado di accedere al sistema dell’azienda e ai clienti registrati. Come dicono a Motherboard non è il primo né l’ultimo. Negli ultimi mesi, gli hacker hanno violato ben otto società che vendono software progettati per tenere sotto controllo bambini o dipendenti come FlexiSpy, Spy Master Pro, Spyfone e altre. Il motivo? Denunciare quello che gli hacker considerano un business non etico, la sorveglianza, e che per giunta utilizza pratiche di sicurezza assai scadenti. Il 31 agosto Marco Ramilli, a capo di una startup di cyber-security, Yoroi, ha individuato una complessa rete di computer zombie che, azionata a distanza, all’insaputa dei proprietari a cui è stato infettato il pc, distribuisce software elaborati per rubare password e credenziali dei malcapitati soprattutto attraverso cliniche, ospedali, enti che erogano pensioni ai lavoratori e crediti alle imprese. Quando l’ha scoperta ci è entrato dentro fino a scoprire i centri di comando e controllo della rete stessa situati in Europa Orientale e Asia. Fatto questo, ha avvertito le Autorità che hanno aperto un’inchiesta. Che cosa hanno in comune questi fatti così diversi e i loro protagonisti? Gli hacker che hanno denunciato la scarsa sicurezza di Mega.Nz, di Family Orbit e la vulnerabilità degli enti italiani, hanno reso un servizio alla comunità, ecco cosa hanno in comune. Hanno indotto le aziende produttrici a denunciare l’accaduto, porvi rimedio e promettere un approccio più sicuro nella gestione dei dati personali degli utenti. Nel caso italiano ci auguriamo abbiano favorito la diffusione di una maggiore consapevolezza delle vulnerabilità informatiche presso gli enti colpiti. Dimostrando che aziende e cyber-poliziotti da soli non ce la faranno mai, questi hacker si sono offerti come alleati contro il crimine informatico. Le minacce informatiche sono ormai tante e tali che è pura utopia pensare che gli organi investigativi possano occuparsene da soli e che aziende piccole e grandi possano garantire sempre la sicurezza by design, cioè fin dalla progettazione di servizi e prodotti. La controprova sta nel fatto che l’istituto di ricerca Gartner ha calcolato che la spesa mondiale per la sicurezza informatica nel 2018 raggiungerà circa 114 miliardi. Nel suo ultimo rapporto sulla cyber-security la società prevede che nel 2019 si assisterà a un’ulteriore crescita di questa spesa, intorno al 9% e che raggiungerà i 124 miliardi di dollari. Occupazioni abusive, censimento a ostacoli di Saverio Fossati Il Sole 24 Ore, 6 settembre 2018 Gli sgomberi non si fanno con la carta. La nuova direttiva dell’Interno del 1° settembre 2018, dedicata alle occupazioni abusive degli immobili, crea nuovi strumenti per accelerare la liberazione dei palazzi da chi non ha titolo per abitarli ma in alcuni casi si tratta di armi spuntate. Le premesse sono chiare: per il ministero le direttive precedenti (18 luglio e 1° settembre 2017) non sono servite a molte, quindi, in aggiunta, vengono fornite altre indicazioni: 1) Dato che il prefetto deve individuare le famiglie “in situazioni di disagio economico-sociale”, cioè di “fragilità”, per individuare una “scala di priorità” degli sgomberi, verrà attuato un censimento. I problemi, però, sono due: primo, gli operatori dei servizi sociali dei Comuni dovranno essere organizzati per entrare in luoghi dove non sempre saranno accolti festosamente, per individuare questi nuclei familiari o persone con “fragilità” per reddito e/ o assenza di una rete parentale. Secondo, dovrebbero farlo usando le risultanze dell’anagrafe, dell’assistenza sociale, dell’anagrafe tributaria e della Guardia di Finanza. Presupponendo cioè che gli occupanti abusivi possano essere inseriti in queste banche dati, cosa che è tanto più difficile e improbabile quanto più forte è il disagio e, appunto, la “fragilità”, soprattutto se si tratta (come nella stragrande maggioranza dei casi) di cittadini non Ue. La direttiva precisa che le persone con “fragilità” passeranno in carico ai servizi sociali comunali (con quali risorse?) dopo che “si abbia fondato motivo di ritenere” che non ce la farebbero a trovare un tetto. Questa discrezionalità sembra gravare i servizi sociali e i municipi di una decisione piuttosto pesante, anche sotto il profilo economico, benché sia prevista una ricerca di soluzione condivisa con le Regioni; 2) una volta fatto il censimento delle persone con “fragilità” tutti gli altri occupanti dovranno accontentarsi di “forme più generali di assistenza”, cioè, per esempio strutture provvisorie di accoglienza individuate, sembrerebbe, dai prefetti; questo vuol dire che sulle poche istituzioni disponibili (soprattutto ecclesiastiche) si riverseranno decine di migliaia di persone che, ovviamente, difficilmente se ne andranno in tempi brevi; 3) gli sgomberi dovranno essere eseguiti con celerità, posponendo le considerazioni sui “turbamenti dell’ordine pubblico” che possono causare perché, dice chiaramente la direttiva, le occupazioni abusive producono situazioni di pericolo “più gravi nel medio e lungo periodo”. Insomma, servirà un notevole dispiegamento di forze. In conclusione, l’attuazione della direttiva presenta non poche difficoltà. Per Giorgio Spaziani Testa, presidente di Confedilizia “Sulla piaga delle occupazioni abusive di immobili forse siamo giunti a un momento di svolta”, mentre per Vincenzo Vecchio (Appc Bergamo e Brescia) “manca il risarcimento del danno che il proprietario subisce nelle more della liberazione”. Alberto Zanni (Confabitare) esprime “totale appoggio” e chiede interventi anche contro chi imbratta i muri. Ma Daniele Barbieri (Sunia) si chiede quali interventi si intendano adottare per l’emergenza abitativa, con un una stima “di 200mila sfratti per morosità” nel prossimo triennio. Spariti 50 migranti della Diciotti. Caritas: l’Italia non è meta per loro Il Messaggero, 6 settembre 2018 Sono una cinquantina i migranti della Diciotti che si sono resi irreperibili. Alcuni di casi sono stati segnalati già alle prefetture di competenza. Diversi si sono allontanati dal centro di Rocca di Papa individuato dalla Cei prima di partire verso le diocesi ospitanti, altri hanno fatto perdere le loro tracce una volta arrivati nei vari centri Caritas. Il ministro dell’Interno Matteo Salvini ha commentato: “Più di 50 degli immigrati sbarcati dalla Diciotti erano così bisognosì di avere protezione, vitto e alloggio, che hanno deciso di allontanarsi e sparire! Ma come, non li avevo sequestrati? È l’ennesima conferma che non tutti quelli che arrivano in Italia sono “scheletrini che scappano dalla guerra e dalla fame”. Lavorerò ancora di più per cambiare leggi sbagliate e azzerare gli arrivi”. Nel dettaglio, a quanto si apprende da fonti del Viminale, 6 si sono allontanati il primo giorno di trasferimento, cioè venerdì 31. A questi si aggiungono 2 eritrei destinati alla Diocesi di Firenze che sono si sono allontanati in data 2 settembre; altri 19 il cui allontanamento è stato riscontrato il 3 settembre, e 13 il cui allontanamento è stato riscontrato ieri ed erano destinati a varie Diocesi. A Bologna, per esempio, aspettavano oggi due giovani eritrei che non sono mai arrivati. A Frosinone erano invece già arrivati, ospiti della Caritas locale, e poi hanno scelto di non presentarsi più al centro di accoglienza. Il conto non sarebbe definitivo. Caritas Italiana conferma l’accaduto, ma ci tiene a sottolineare che “è stato allontanamento volontario, non una fuga. Si fugge da uno stato di detenzione e non è questo il caso, nessuno vuole rimanere in Italia, si sa”, dice il direttore don Francesco Soddu. “Queste persone - spiega il sacerdote che in queste ore ha gestito per la Cei l’accoglienza - davanti ad una situazione di affidamento, o prima o dopo avrebbero potuto scegliere di allontanarsi volontariamente” perché la struttura che li accoglie non ha il compito di trattenerli. I migranti, ovunque verranno trovati, in Italia o anche all’estero, “potranno chiedere asilo - dice don Soddu - ricominciando quella procedura che era stata avviata nelle nostre strutture”. I migranti che si sono allontanati si erano limitati a “manifestare l’interesse per formalizzare la domanda d’asilo”, fanno sapere dal Viminale. Tutte le persone in questione erano state identificate con rilievi fotodattiloscopici e inserite in un sistema digitale europeo. Controlli anche sulla nazionalità di chi si è allontanato: almeno in 6 provengono dalle Isole Comore. Per la cronaca oggi al centro Mondo Migliore di Rocca di Papa c’era stata una grande festa proprio per i migranti della Diciotti, soprattutto per quelli in partenza verso le varie strutture Caritas. A portare la benedizione di Papa Francesco era stato il cardinale Konrad Krajewski, elemosiniere del pontefice, che si è fermato a pranzo portando per tutti gli ospiti presenti dei gelati. Libia. Quasi 2mila migranti in fuga. Ora è caccia al profugo di Nello Scavo Avvenire, 6 settembre 2018 I miliziani puntano a vendere gli stranieri ai trafficanti pronti a farli partire. Quasi duemila migranti in fuga, diretti nei pochi quartieri di Tripoli ancora graziati dai colpi di mortaio. Il rischio, però, è quello di passare dalle carceri governative ai lager dei trafficanti di uomini che, come riferiscono svariate fonti, sono tornati a caccia di stranieri a cui promettere un gommone che faccia rotta verso Nord. Intrappolati dentro a un conflitto del tutti contro tutti, migliaia di stranieri sono in balia di se stessi. In alcuni centri di detenzione i carcerieri se la sono date a gambe, lasciando i profughi senza acqua né cibo. In altri vi sono state evasioni di massa, e le guardie sostengono di non avere aperto il fuoco sui fuggiaschi per evitare una carneficina. Fotografie e video diffusi sui social network mostrano colonne di migranti in cammino lungo una strada alla periferia di Tripoli, mentre si trascinano qualche fagotto. Molti di essi non hanno alcuna intenzione di tornare nei penitenziari governativi, perciò le poche organizzazioni internazionali rimaste stanno tentando di rintracciarli per sottrarli alla barbarie dei trafficanti. Una corsa contro il tempo, che vede da una parte i miliziani e dall’altra gli operatori umanitari. I primi vedono nei migranti ‘liberati’ da giorni di guerriglia una opportunità per arruolare manovalanza da ridurre in schiavitù e da cui ottenere altro denaro, attraverso il riscatto da chiedere ai parenti, per riempire le casse delle milizie. Che poi li si possa davvero mettere in massa sui barconi, è ancora da vedere. Perciò le organizzazioni umanitarie stanno cercando di battere al tappeto Tripoli e i suoi sobborghi alla ricerca dei dispersi di terra. Non è chiaro dove i fuggitivi siano diretti, ma è certo che gran parte delle persone prima detenute nei centri erano arrivate in Libia per imbarcarsi verso l’Europa. Se fosse confermato che gli stranieri in fuga sono 1.800, si tratterebbe di circa un quarto di tutti i migranti complessivamente detenuti in Libia. La gran parte di questi è stata rinchiusa nelle prigioni governative dopo essere stati intercettati dalla guardia costiera libica. Nei giorni scorsi il segretario generale dell’Onu aveva denunciato i gravi maltrattamenti che i profughi ricevono proprio nelle strutture ufficiali, una ragione in più perché gli stranieri non intendano farsi riacciuffare. Giovedì scorso alcune centinaia di essi erano stati trasferiti dal sud di Tripoli in zone considerate più sicure. L’Alto commissariato Onu per i rifugiati, in collaborazione con il ministero dell’Interno libico e il Programma alimentare mondiale, ha distribuito aiuti alimentari che garantiranno sopravvivenza per una settimana nei centri di detenzione governativi di Tareq Al Matar e Qaser Ben Ghasheer, dove sono detenuti complessivamente 2.450 rifugiati e migranti. Gli aiuti nel centro di detenzione di Abu Salim, dove sono detenute 450 persone, è stata invece sospesa a causa dell’inasprirsi degli scontri nell’area. “Stiamo monitorando da vicino la situazione, lavoriamo in collaborazione con la Direzione libica per la lotta contro la migrazione illegale e le Agenzie delle Nazioni Unite, e ci adoperiamo affinché tutti i rifugiati e i migranti siano trasferiti in un posto più sicuro”, si legge in una nota dell’Acnur, aggiungendo che intanto sabato la Guardia costiera libica ha intercettato 276 e migranti e li ha fatti sbarcare ad Al Khums, 120 km a est di Tripoli, in una zona al momento non coinvolta dagli scontri. L’International Medical Corps, partner dell’Acnur, era presente al punto di sbarco e ha fornito aiuti di emergenza e assistenza medica. In tutto sono sbarcati 195 uomini, 36 donne e 45 bambini, e sono stati recuperati due corpi senza vita. Arabia Saudita. Pena di morte per il religioso Salman Odah Nena News, 6 settembre 2018 Un procuratore saudita avrebbe condannato alla pena capitale il noto studioso sunnita perché affiliato ad una “organizzazione terroristica” e perché istiga l’opinione pubblica a rovesciare la monarchia. Un procuratore saudita ha condannato martedì alla pena di morte lo studioso e religioso sunnita Salman al-Odah, noto per le sue aperture su alcune questioni sociali controverse. A dare la notizia sono stati suo figlio e alcuni gruppi locali per i diritti umani. Diversa è stata invece la reazione dei media locali che si sono limitati a dire che “una persona affiliata ad una organizzazione terroristica è stata condannata alla pena capitale”. Questa persona, secondo alcuni attivisti sauditi, sarebbe proprio Salman al-Odah che è stato processato segretamente ad agosto dopo essere stato detenuto per un anno senza capi d’accusa. Accuse però che sarebbero state presentate contro di lui martedì: tra queste vi è quella di “guidare una organizzazione terroristica” che esorta il popolo a rovesciare il monarca. Che si tratti proprio di lui è confermato dal fatto che Odah fa parte dell’Unione internazionale degli studiosi musulmani che l’Arabia Saudita considera una “organizzazione terroristica” che “istiga l’opinione pubblica contro il governante”. Sebbene non sia stata confermata ufficialmente, la notizia della sua condanna ha già scatenato le prime proteste: sui social è diventato virale l’hashtag “Salman al-Odah non è un terrorista” e migliaia di utenti hanno chiesto il suo rilascio. Proprio su Twitter lo studioso è seguitissimo avendo oltre 14 milioni di follower. Secondo Yehya Assiri, attivista e direttore dell’organizzazione per i diritti umani al-Qist basata a Londra, Odah non ha mai criticato pubblicamente il principe ereditario bin Salman o il governo saudita. La sua “colpa” sono le sue idee riformiste: Riyadh le vede infatti come una “minaccia allo stato”. “Con tali sentenze - ha spiegato Assiri - le autorità saudite provano a silenziare chiunque o a costringere le persone ad utilizzare mezzi non pacifici per fare opposizione”. Lo studioso sunnita è stato arrestato il 10 settembre del 2017 insieme ad altre 20 persone all’interno dell’ampia campagna repressiva contro i religiosi moderati iniziata tre mesi dopo che Mohammed bin Salman - un “riformista” e un “modernizzatore” per gran parte della stampa occidentale - è stato scelto come erede al trono del padre re Salman. Nel duro giro di vite iniziato un anno fa sono stati arrestati anche attivisti per i diritti umani e ricchi uomini d’affari locali (alcuni anche imparentati con la famiglia reale). Prima di essere arrestato, Odah aveva scritto su Twitter: “Possa Dio armonizzare i loro cuori per il bene dei loro popoli”. Un messaggio semplice in cui lo studioso esprimeva il suo desiderio che si potesse giungere ad una riconciliazione tra l’Arabia saudita e il vicino Qatar su cui Riyadh, Manama (Bahrain), Abu Dhabi (Emirati arabi uniti) e il Cairo hanno imposto da oltre un anno un duro embargo. Secondo i quattro paesi arabi, il piccolo emirato sostiene militanti islamisti e destabilizza l’intera regione attraverso i suoi media, a partire dalla nota rete panaraba al-Jazeera. Se si guarda un precedente caso giudiziario, non c’è molta speranza che Odah possa salvarsi: il carismatico religioso saudita (ma sciita) Nimr al-Nimr è stato infatti giustiziato nel gennaio 2016 dopo essere stato condannato per “terrorismo”. Lo scorso 6 agosto un procuratore locale ha chiesto la pena di morte per l’attivista per i diritti delle donne Israa al-Ghomgham, nota per le sue posizioni a favore della minoranza sciita che in Arabia Saudita è marginalizzata, quando non duramente repressa dalle autorità locali. Non a caso, secondo l’ultimo rapporto dell’Organizzazione saudita europea per i diritti umani, la maggior parte delle 58 persone condannate con la pena capitale nel regno wahhabita è sciita. Il gruppo britannico Reprieve, che da anni si batte contro la pena di morte, sostiene che la percentuale dei detenuti giustiziati è raddoppiata in Arabia Saudita da quando Mohammed bin Salman è stato scelto come principe ereditario nel 2017. Il “modernizzatore” bin Salman. Lo stesso che, qualche giorno fa, con il suo lungo yacht di 85 metri dotato di piscine, vasche idromassaggio e sala cinema era ormeggiato nei pressi di Castellammare di Stabia (Napoli) diretto verso la Costiera amalfitana e Capri.