Altro che svuota carceri: in un anno quasi duemila detenuti in più di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 5 settembre 2018 Il sovraffollamento è passato da 6.982 dello scorso agosto a 8.153 dello stesso mese del 2018. Numeri che, in realtà, sono maggiori dal momento che sono inagibili 5.000 celle. Da ottobre dovrebbero essere disponibili i braccialetti elettronici da utilizzare almeno per le 8.487 persone che stanno scontando da 1 giorno a 1 anno di pena. In un solo mese sono aumentati di 631 unità. In un anno di 1621. Sono i numeri drammatici del sovraffollamento in carcere. Al 31 agosto del 2018, infatti, secondo i dati elaborati dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, siamo giunti a 59.135 detenuti su un totale di 50.622 posti ufficialmente disponibili. Questo vuol dire che risultano 8.513 detenuti in più. Basti pensare che il mese scorso risultavano, invece, 7.882 persone in eccedenza. Un salto di 631 sovraffollati in più nel giro di un mese. Un dato non di poco conto e conferma il trend in crescita. Basti pensare che rispetto all’anno scorso, sempre relativamente al mese di agosto, risultavano 6.892 detenuti in più: il che vuol dire che rispetto all’anno scorso, c’è stato un balzo di 1.621 detenuti. I numeri del sovraffollamento risulterebbero addirittura maggiori se non venissero prese in considerazione l’esistenza di celle ancora inagibili, stimate intorno alle 5.000. Il sovraffollamento quindi non è destinato a diminuire nonostante che nel passato, grazie a diverse misure adottate dopo la sentenza Torreggiani, si sia ridimensionato. A tal proposito bisogna andare a vedere cosa dice l’ultima relazione del Garante nazionale delle persone private delle libertà. Non ha potuto non fare riferimento alla riforma dell’ordinamento penitenziario - oggi riscritta e modificata radicalmente dall’attuale governo - le cui radici culturali e giuridiche si posano sugli obblighi a cui la Corte di Strasburgo ha richiamato l’Italia, nel tempo, dalla sentenza Sulejmanovic contro Italia del 2009 fino a quella “pilota” Torreggiani e altri contro Italia dell’ 8 gennaio 2013: obblighi che imponevano al nostro Paese non soltanto di superare il problema del sovraffollamento degli istituti penitenziari, ma anche di rimodulare l’esecuzione della pena in carcere in termini congruenti a tutti i parametri che integrano l’osservanza dell’articolo 3 della Convenzione, nonché di prevedere forme di rimedi interni, preventivo e compensativo. Si sottolinea che il Consiglio d’Europa aveva riconosciuto il lavoro fatto dal Paese per rispondere adeguatamente a tali richieste e ha conseguentemente chiuso il caso l’ 8 marzo 2016. Da qui però la necessità di superare le criticità adeguando l’ordinamento penitenziario al dettato costituzionale e alla convenzione europea. Con i provvedimenti adottati in conseguenza di quella sentenza “pilota” i numeri sono consistentemente calati, fino a giungere a 52.434 nell’ottobre del 2015, per poi però riprendere la via dell’aumento, più lento, ma apparentemente inesorabile e del tutto non connesso ai numeri che indicano una riduzione dei reati denunciati. Se da una parte c’è una riforma riscritta che ha escluso l’implementazione delle pene alternative, dall’altra c’è la speranza - a partire da ottobre, come ha annunciato Fastweb a Il Dubbio - che la produzione di 1000 braccialetti elettronici al mese possa contenere il sovraffollamento, magari puntando almeno sull’utilizzo per gli 8.487 detenuti che stanno scontando da 1 giorno a 1 anno di pena in carcere. Al problema del sovraffollamento si aggiungono i suicidi. Dall’inizio dell’anno - secondo i dati elaborato da Ristretti Orizzonti - sono 41 persone che si sono tolte la vita, a queste si aggiungono le morti per malattia o ancora da accertare e abbiano raggiunto un totale di 90 decessi. Ma l’anno ancora deve finire e in numeri potrebbero essere, purtroppo, destinati a crescere. Arriva il taser e Salvini lo propone anche in carcere di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 5 settembre 2018 Parte la sperimentazione in 12 città italiane. Se già a partire da marzo dello scorso anno, il Dipartimento della Pubblica sicurezza ha avviato, in un numero limitato di città italiane, la sperimentazione del Taser (acronimo di Thomas A. Swift’s Electronic Rifle), oggi saranno coinvolte 12 città e per l’esattezza Genova, Torino, Milano, Padova, Reggio Emilia, Bologna, Firenze, Caserta, Napoli, Brindisi, Palermo e Catania. Alcuni agenti di polizia (in 7 città) e alcuni carabinieri e finanzieri (in altre 5) saranno, quindi, equipaggiati del taser per tre mesi: al termine di questo periodo di verifica sul campo, sulla base delle esperienze maturate e dei risultati raggiunti, si deciderà se e come procedere. Il ministro dell’Interno Matteo Salvini, ha anche detto che chiederà formalmente al guardasigilli se avrà intenzione di estendere l’arma cosiddetta non letale anche agli agenti penitenziari. Il taser è quella che la normativa italiana in materia classifica come “arma propria”, da usare contro individui che si trovano a rappresentare una minaccia per gli operatori o per i civili. Sì, di normativa parliamo, perché era stato in realtà introdotto già da qualche anno nella legislazione italiana, attraverso un emendamento al decreto legge sulla sicurezza degli stadi del 22 agosto 2014, poi convertito nella legge 14 ottobre 2014 n. 146. L’articolo 8 prevede, infatti, che “l’Amministrazione della Pubblica sicurezza avvia, con le necessarie cautele per la salute e l’incolumità pubblica e secondo principi di precauzione e previa intesa con il ministro della Salute, la sperimentazione della pistola elettrica taser per le esigenze dei propri compiti istituzionali”. Un dispositivo “non letale”, che aiuterebbe le forze dell’ordine a fare meglio il loro lavoro; un’arma rischiosa, dagli effetti non del tutto prevedibili, specie per chi soffre di disturbi cardiaci o è in un particolare stato di alterazione. Il taser che viene usato in 107 Paesi del mondo, è lodato da molti operatori della sicurezza, ma osteggiato dall’Onu che l’ha classificato tra gli “strumenti di tortura” e da Amnesty International, convinta che, “prima di mettere a disposizione delle forze di polizia questo tipo di armi, andrebbe effettuato uno studio sui rischi per la salute e andrebbe garantita una formazione specifica per gli operatori”. Il Garante nazionale delle persone private della libertà, nella sua ultima relazione annuale curata collettivamente dal Collegio (il presidente Mauro Palma e le componenti Daniela de Robert ed Emilia Rossi), ha espresso forte perplessità circa l’utilizzo. Sottolinea che il 28 febbraio scorso, il Dipartimento ha conseguentemente emanato delle Linee guida tecnico operative per l’avvio della sperimentazione della pistola elettrica Taser modello “X2”. Tale documento d’indirizzo ribadisce il concetto che la pistola elettrica è “secondo la qualificazione giuridica offerta dalla vigente normativa in materia di armi, un’arma propria […]” e che, pertanto “è impiegata dall’operatore di Polizia nei servizi di istituto e il suo utilizzo è perciò consentito esclusivamente nei casi previsti dalla vigente normativa per l’uso delle armi”. A maggior ragione - sottolineano le Linee guida - “L’utilizzo dell’arma in argomento è alternativo a quello dell’arma da fuoco, nei casi in cui sia necessario immobilizzare temporaneamente il soggetto”. Secondo il Garante nazionale, appare dunque fuori discussione che, almeno in linea di principio, “l’utilizzo del Taser - come nel caso delle armi da fuoco - possa essere giustificato solo in un ambito limitatissimo di casi e che, inoltre, si debba tener in debito conto che il beneficio derivante da un minor utilizzo delle armi letali è certamente controbilanciato da alcuni elementi negativi non trascurabili”. E vengono citati i potenziali rischi di abuso, derivanti proprio dalla sua pretesa non letalità; la sofferenza provocata dalla scarica elettrica alla quale è associato, oltre alla perdita di controllo del sistema muscolare, anche un dolore acuto; le ulteriori conseguenze di tipo fisico giacché la persona colpita dal Taser normalmente rovina a terra e quindi può provocarsi lesioni alla testa o a altre parti del corpo. Nei casi più gravi, infine, la morte per arresto cardiaco o conseguenze, per esempio, sulla salute del feto nel caso di donne incinte. La corruzione come la mafia, niente carcere per i pentiti di Paolo Colonnello La Stampa, 5 settembre 2018 Pronto il disegno di legge del ministro Bonafede: sconti di pena per debellare le tangenti. Per chi denuncia entro 6 mesi, restituisce il bottino e fa arrestare i complici, c’è la non punibilità. Più che il “Daspo per i corrotti”, dal sapore demagogico, il vero architrave della nuova legge anticorruzione promessa dal governo pentaleghista, sarà una norma che introdurrà “il pentito di corruzione”. Ovvero una speciale causa di non punibilità “per la spontanea, tempestiva e fattiva collaborazione” del corrotto. In sostanza, se ti penti, confessi, fai i nomi dei complici, e restituisci il malloppo in un tempo molto ristretto, puoi tornartene a casa senza danni, perché così si è spezzato quel vincolo di omertà e convenienza che forma quel substrato ricattatorio alla base dei reati di corruzione, concussione, induzione indebita e traffico di influenze illecite. Dopo mafia e terrorismo, avremo dunque anche il fenomeno del pentitismo per corruzione. Ammesso che i corrotti vengano scoperti e presi. Per i tecnici del ministero di via Arenula la novità è “in linea con la ratio che ispira la legge sul wistleblowing”, ovvero la norma che consente di denunciare rimanendo sotto copertura, eventuali episodi di corruzione e che va ad aggiungersi alla figura “dell’infiltrato” o agente provocatore che dir si voglia, ispirato dal sistema americano ma contemplato in realtà dall’articolo 50 della convenzione di Merida (Onu) verso cui l’Italia è tutt’ora inadempiente. L’ipotesi in questione però si rifà direttamente a una vecchia idea, nata all’inizio degli Anni 90 dal pool milanese che si occupò dell’inchiesta “Mani pulite”, rivendicata da Piercamillo Davigo e Gherardo Colombo in particolare, ma mai recepita in oltre 25 anni da nessun governo. È ora l’arma più potente contenuta nel disegno di legge anticorruzione che il guardasigilli Alfonso Bonafede si appresta a portare nella riunione dell’esecutivo di questo fine settimana e che “La Stampa” è in grado di anticipare. Il nuovo articolo di legge prenderà il numero “323-ter” e verrà applicato appunto ai reati che vanno dalla corruzione alla concussione, al voto di scambio (traffico di influenze illecite). Secondo il ministero, la norma consegue due scopi: sul piano “special-preventivo”, rompe il muro di omertà che di solito accompagna questi reati, rendendo possibile anche l’acquisizione di elementi probatori normalmente molto difficili da assicurare al processo; sul piano invece “general-preventivo”, disincentiva la condotte illecite, introducendo, e questo è forse il punto più importante, un “fattore insicurezza” con effetti dissuasivi che renderebbero “inidoneo” per sempre al sistema correttivo chi ha denunciato in precedenza i suoi sodali. Ma come si svolgerà il percorso del “pentito di corruzione”? Intanto ci saranno due strade, con l’introduzione di un secondo comma nell’articolo 323 bis che, peri soli casi di corruzione o induzione indebita, prevede l’attenuante “a effetto speciale” (diminuzione della pena da un terzo a due terzi) nel caso il colpevole “si sia efficacemente adoperato” per conseguire uno di questi risultati: evitare che l’attività delittuosa sia portata a conseguenze ulteriori; collaborare con gli inquirenti per l’individuazione di altri complici; favorire la raccolta e la conservazione delle prove dei reati o il sequestro delle somme o di altre utilità ottenute. Per ottenere la causa speciale di non punibilità, l’autore del reato dovrà invece attivarsi entro i limiti temporali strettissimi dalla commissione dei fatti “prima” di essere iscritto sul registro degli indagati “e comunque entro 6 mesi dalla commissione del fatto”; dovrà inoltre denunciare il reato “volontariamente” e fornire “indicazioni utili per assicurare la prova del reato e per individuare altri responsabili”. Nel caso si tratti di un pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio, inoltre, la non punibilità è “ulteriormente subordinata alla messa a disposizione dell’utilità percepita o, in caso di impossibilità, di una somma di denaro di valore equivalente ovvero all’indicazione di elementi utili a individuare il beneficiario effettivo”. Infine, per evitare strumentalizzazioni della nuova norma, l’ultimo comma del 323 bis cp. prevede che la causa di non punibilità “non si applica quando vi è prova che la denuncia sia stata premeditata rispetto alla commissione del reato denunciato”. Insomma, i pm dovranno vigilare sull’autenticità dei pentimenti. E le polemiche non mancheranno. Corruzione, l’ennesima riforma che riduce solo le garanzie di Carlo Nordio Il Messaggero, 5 settembre 2018 Il progetto, l’ennesimo, per una “definitiva” lotta alla corruzione, è dunque in cantiere: gli arnesi sono sempre gli stessi: nuovi reati e pene più severe; con l’aggiunta del Daspo e dell’agente infiltrato. Proviamo a vederne i caratteri trattenendo, come dice la canzone, il pianto e il riso. Noi abbiamo sempre diffidato degli inasprimenti delle pene che non intimidiscono nessuno, né i criminali in genere né i corrotti in specie. Questo perché il potenziale bottino è enorme e il rischio di esser presi - e condannati - è minimo. E se anche riuscissimo a incarcerare tutti i corrotti, questa fila di caduti sarebbe subito sostituita, come i fucilieri di Wellington, da una seconda linea pronta a prenderne il posto. Ecco perché, più che impaurire gli amministratori infedeli, preferiremmo disarmarli, togliendo loro di mano i micidiali strumenti di cui dispongono: le troppe leggi, contraddittorie e oscure, che conferiscono a questi signori una discrezionalità che sconfina nell’arbitrio, e consente ai disonesti di fare quello che vogliono. Ma sono prediche inutili. La parola corruzione genera - come la pedofilia e la violenza sessuale - una sorta di incontrollata reazione epidermica che pretende la shakespeariana libbra di carne: e allora, “so let it be”. Rassegniamoci, e così sia. Dunque, il “Daspo”. Esso prevede, per il corruttore condannato, il divieto di contrattare con la pubblica amministrazione. Ora, se la sanzione colpisce - come parrebbe - la sola persona fisica, è assolutamente inutile, perché in genere si tratta di un manager che l’Azienda può benissimo sostituire, e riprendere i sui traffici equivoci. Oppure riguarda anche l’Azienda, per la legge sulla responsabilità amministrativa degli enti la famosa 231/01. E allora la sproporzione è enorme, e rischia di farla fallire mandando a casa migliaia di dipendenti. Non basta. C’ è un aspetto di strategia investigativa. Il reato di corruzione si consuma nel silenzio e nel segreto, non lascia tracce (perché nessuno paga le mazzette con bonifici bancari) e non ha testimoni. Gli unici che possono riferire sono i due protagonisti: chi prende e chi dà. Attualmente entrambi hanno interesse a tacere, perché altrimenti finiscono in galera, e questa attitudine sarà ora rafforzata dal timore che,oltre alla condanna, scatti anche la preclusione contrattuale. È esattamente il principio opposto a quello che il raziocinio suggerisce: spezzare cioè il comune interesse all’omertà del corrotto e del corruttore, premiando quest’ultimo se decide di collaborare. Non sarà eticamente pedagogico, ma funziona. Vedo con piacere che questa mia idea, vecchia di quasi trent’anni, è stata riaffermata dall’ex Procuratore di Milano. E ora l’agente infiltrato. In un primo tempo pare si fosse pensato addirittura all’agente provocatore, cioè a un subdolo individuo che, dopo aver rifilato una mazzetta, si rivela nella sua veste di sbirro e arresta il corrotto in flagranza di reato. Questa bella pensata, oltre a essere ignobile sotto il profilo giuridico e morale, era anche assurda, perché questa “corruzione” sarebbe stata solo simulata e avrebbe costituito un “reato impossibile”: come, per intenderci, vender farina spacciandola per droga. Abbandonata questa via, si ricorre ora all’ “infiltrato”: una figura che in effetti per certi reati funziona. Ma si tratta di reati che coinvolgono parecchi individui, come l’associazione mafiosa o quella terroristica, dove l’infiltrato può confondersi tra i malviventi e smascherarli. Mentre la corruzione, come s’è detto, è tutt’altra cosa: è’ un rapporto tra due persone, sole e circospette. Che farà l’infiltrato? Si proporrà come portaborse di uno dei due? Mah. Concludo. Questa nuova riforma, al netto della sua velleitaria prospettiva palingenetica, infligge una nuova ferita al nostro già malconcio stato di diritto. Essa sposta pericolosamente l’assetto culturale dell’ordinamento a scapito delle garanzie, nella funesta direzione di una repressione fondata sull’ambiguità e minata dall’inefficacia. Ma forse i pentastellati lo sanno già. Tant’è vero che, come principale rimedio alla corruzione, ripiegano sulla rinunzia alle grandi opere, come avviene ogni volta che un costoso progetto viene bocciato siccome callidamente preordinato a una gigantesca abbuffata di imprenditori rapaci. Ed è questo, alla fine, il rischio che corriamo: chiudere i cantieri affinché non ci scappi la mazzetta. Il che sarebbe come smettere di far bambini, per paura che si ammalino, e muoiano. Rischi di incostituzionalità per il Daspo a vita ma i 5 Stelle tirano dritto di Giulia Merlo Il Dubbio, 5 settembre 2018 Che si tratti di corruzione o di un qualsiasi altro reato, l’interrogativo è sempre la stessa: inasprire le pene - quelle principali o quelle accessorie - è un efficace deterrente? La questione ritorna prepotentemente, dopo le anticipazioni sul contenuto del ddl Anticorruzione, primo disego di legge del dicastero di Alfonso Bonafede e in progetto di calendarizzazione al Consiglio dei Ministri già entro questa settimana. In attesa del testo definitivo, le parole chiave sono: Daspo a vita per i condannati per corruzione, che non potranno mai più fare affari con la Pa (nemmeno in caso di patteggiamento o sospensione condizionale della pena) senza possibilità di riabilitazione e agenti sotto copertura per accertare reati contro la pubblica amministrazione. Proprio la pena accessoria del Daspo “perpetuo” - che viaggerà di pari passo all’interdizione dai pubblici uffici - è al centro del dibattito politico e giuridico. Più voci si sono levate sul suo potenziale rischio di incostituzionalità, posto che la pena accessoria non si estinguerebbe all’estinguersi della pena principale e non tenderebbe in alcun modo alla rieducazione del condannato, come prevede l’articolo 27 della Costituzione. Già nei mesi scorsi, in un fuori onda pubblicato dal Fatto Quotidiano, il presidente Anticorruzione, Raffaele Cantone e il procuratore capo di Roma, Giuseppe Pignatone avevano espresso dubbi di costituzionalità sul Daspo a vita e l’ex procuratore di Milano, Edmondo Bruti Liberati, in un’intervista a Repubblica, ha commentato come “La perpetuità del Daspo e dell’interdizione dai pubblici uffici, addirittura nei casi di esito positivo dell’affidamento e dopo la riabilitazione, mi sembra un irrigidimento eccessivo”. Considerazioni che non toccano il vicepremier, Luigi Di Maio, il quale pubblica su Facebook una “lettera ai corrotti”, in cui si accalora: “Potrete anche patteggiare, ma il Daspo ad aeternum non ve lo toglie nessuno. Marchiati a vita. È un modo, l’unico giusto, per proteggerci da voi”. Sul fronte dell’opposizione, invece, le critiche maggiori arrivano dagli scranni di Forza Italia, con Gianfranco Rotondi che ha definito il ddl Anticorruzione “un feroce mostro incostituzionale, una fabbrica di reati fatta apposta per consegnare ai pubblici ministeri il diritto di vita o di morte sulla vita economica del Paese”. Il senatore Lucio Malan ha aggiunto che “Secondo la nostra Costituzione le pene sono volte all’educazione della persona, se la punizione è per sempre non vedo che tipo di educazione ci possa essere. Non c’è più l’ergastolo, ce lo si inventa dal punto di vista lavorativo”. Quanto all’agente sotto copertura, anche la magistratura si divide sulla loro vera o presunta utilità. L’ex procuratore antimafia, Franco Roberti (ospite alla festa del Fatto Quotidiano) l’ha definito “uno strumento molto efficace nella lotta contro la corruzione, ma anche un modo molto efficace er prevenirla: è un deterrente formidabile perché riempie la relazione di fiducia tra corrotto e corruttore”. Di parere opposto, invece, Bruti Liberati, che definisce l’agente provocatore “non dannoso, bensì sostanzialmente inutile, perché gestibile con grande difficoltà in ambienti che, ovviamente, sono molto diversi da quelli del traffico di droga o della malavita organizzata”. Il Movimento 5 Stelle, in ogni caso, tira dritto. Il contratto di governo parla chiaro, elencando le misure su cui c’è accordo con la Lega: “il Daspo per i corrotti e corruttori, ovvero l’interdizione dai pubblici uffici e la perpetua incapacità a contrarre con la pa per chi è stato condannato definitivamente per un reato di tipo corruttivo contro la Pubblica Amministrazione”, dunque non dovrebbero esserci problemi di tenuta per la maggioranza. “Le norme di portata rivoluzionaria e storica formulate nel disegno di legge tendono a scoprire i casi di corruzione attraverso strumenti efficaci come l’agente “infiltrato”“ ha sottolineato il capogruppo M5S a Montecitorio Francesco D’Uva, il quale poi ha aggiunto che “L’aumento delle pene non solo è utile a creare il massimo effetto deterrente, ma in alcuni casi può consentire anche di applicare la custodia cautelare in carcere ed effettuare intercettazioni. Il sistema funziona: è un circolo virtuoso che si stringe come una morsa attorno ai corrotti, i quali saranno circondati e non avranno scampo”. Una misura - quella dell’aumento delle pene per reati corruttivi - che però non è prevista almeno in questa versione del ddl Anticorruzione, nonostante sia elencata nel contratto di governo gialloverde (“Aumento di pene per tutti i reati contro la pa di tipo corruttivo per i quali debbono essere preclusi gli sconti di pena mediante un sistema che vieti l’accesso a riti premiali alternativi”). Il primo sgombero dell’era Salvini: grida, collassi e famiglie in strada di Chiara Baldi La Stampa, 5 settembre 2018 Nello stabile anche 25 bambini. L’operazione in una palazzina di Alitalia a Sesto San Giovanni su richiesta del sindaco forzista. Metà italiani, metà stranieri regolari. Alcuni erano stati mandati lì dai Servizi sociali di Milano. Alla fine con il cerino in mano rimangono 25 bambini che nessuno sa bene dove mettere o mandare e che gli agenti in assetto antisommossa hanno preferito far rientrare nei locali che avevano appena sgomberato, giusto per non lasciarli in strada. Alle dieci del mattino in piazza Don Mapelli, a Sesto San Giovanni, il primo sgombero voluto del governo giallo verde e deciso direttamente dal ministro Matteo Salvini con una circolare firmata appena tre giorni fa, si conclude con un bel po’ di amaro in bocca e una sessantina di famiglie che non sanno più dove andare o cosa fare e per questo se ne tornano piano piano da dove erano venute: un’altra casa occupata in via Oglio, a Milano. Tanti sono italiani, altri sono stranieri e comunque tutti sono regolari, mandano i bambini a scuola e vivono nel nostro Paese da anni. Qualcuno piange, qualcuno impreca, nessuno fortunatamente si è fatto male. Solo una donna, madre di 5 figli, è svenuta per un collasso e la tensione. Non sono squatter o abusivi aiutati dai racket quelli che mestamente lasciano una palazzina di Alitalia abbandonata da anni, ma famiglie intere di gente povera che ottiene il triste record del primo sgombero del ministro Salvini chiamato sabato scorso dal sindaco di Sesto San Giovanni, Roberto Di Stefano, un duro di Forza Italia, allarmatissimo per “le illegalità delle occupazioni”. “Io una casa l’avevo, pagavo l’affitto ogni mese. Solo che quando abbiamo firmato il contratto c’era anche una fregatura e l’abbiamo persa. Per quattro notti abbiamo dormito per terra al Parco Trenno”. Poi, racconta Antonio, tre bambini dai 6 ai 15 anni, una vita di lavoretti qua e là, hanno incontrato quelli del gruppo “Aldo dice 26x1”, un collettivo che ha dato vita qualche anno fa a un esperimento di “residence sociale”: in pratica una casa occupata ma non del tutto irregolare (luce e gas per esempio si pagavano) e che in alcuni casi ha dato perfino rifugio a dei senzatetto su richiesta del Comune di Milano. Antonio e i suoi sono andati a vivere lì finché venerdì scorso la variopinta comunità ha deciso di disoccupare a Milano e occupare a Sesto. Che non è più da un pezzo la “Stalingrado d’Italia”, ma un feudo di centrodestra leghista. Antonio e famiglia, figlio disabile compreso, appena spuntato il sole hanno rimpacchettato le loro quattro cose e sono usciti tra grida, fischietti e un centinaio di poliziotti da uno stabile vuoto da anni e senza alcuna prospettiva di riqualificazione. All’inizio sono usciti anche tutti gli altri bambini, ma poi i più piccoli sono stati fatti rientrare perché nessuno sapeva bene dove metterli. E dire che al “residence sociale” Antonio e la sua famiglia erano stati indirizzati addirittura dai servizi sociali del Comune di Milano che adesso si sono ripresi questi “sfollati urbani”, piazzandoli di nuovo in via Oglio, 8 piani e 102 appartamenti di una certa dignità, rimessi a posto dagli stessi occupanti che entro pochissimi giorni però dovranno comunque andarsene: i nuovi proprietari dell’edificio hanno deciso di farci un pensionato universitario. Franco, una moglie e due figli, una quantità indefinita di case prese e lasciate abusivamente, allarga le braccia: “Siamo stati sfortunati, abbiamo occupato a Sesto poco prima che Salvini firmasse la circolare contro gli sgomberi. Ci chiamano delinquenti ma noi siamo solo persone che non vogliono che i propri figli finiscano in mezzo alla strada”. “In questi anni il Comune ha trovato soluzioni soprattutto per le famiglie di tre persone. Ma per i nuclei familiari più grandi è più complicato. Così si sono appoggiati ad “Aldo dice”, spiega Bruno Cattoli, segretario dell’Unione inquilini di Milano, che da anni segue da vicino le vicissitudini del residence. “Le 62 famiglie sono per metà italiane e per metà straniere, in Italia da anni. Altre, poi, erano persino proprietarie di casa ma poi, vuoi per una vicenda vuoi per un’altra, l’hanno persa”. È il caso di Maya e sua figlia 17enne Ines, italo-sudamericane. “Avevo comprato casa con mia sorella - racconta - però poi mi sono separata e mia sorella se n’è andata a fare la badante. Pur lavorando non riuscivo più a pagare il mutuo. Un giorno siamo tornate a casa e abbiamo trovato la porta murata”. Era l’ottobre scorso e Maya, con sua figlia, non sapevano dove andare. Poi sono approdate in via Oglio, quindi a Sesto e ora il futuro che le attende è la strada. In Italia 48.000 case occupate da abusivi. Al via il censimento delle prefetture di Francesco Grignetti La Stampa, 5 settembre 2018 Il ministero chiede l’identificazione delle famiglie che vivono negli stabili. Indagini con la Finanza per individuare redditi personali e dei parenti. Il nuovo fronte, Matteo Salvini l’ha aperto il 1° settembre. I prefetti sono stati invitati a effettuare un censimento delle occupazioni abusive entro il 30 settembre perché il paradosso italiano è che nessuno conosce davvero i confini del problema. Allo stesso tempo, ha rovesciato la dottrina Minniti sul tema: prima si sgombera, per evitare di pagare i danni ai privati ed evitare focolai di criminalità, poi si pensa alla sistemazione di chi è senza casa. Entro un mese, dunque, si dovrebbe avere una sorta di “catasto” delle occupazioni illegali. Finora vi è soltanto una somma di dati disomogenei. Secondo Federcasa, ad esempio, nel 2016 c’erano 48mila case popolari occupate abusivamente su un totale di oltre 750 mila alloggi pubblici. Il dato però sembra da correggere per difetto. Soltanto in Sicilia, l’assemblea regionale ha censito 8.879 famiglie che occupano abusivamente immobili pubblici, di Stato, di Comuni o degli Istituti di case popolari. A questi, restando a Palermo, vanno aggiunte decine di famiglie che occupano immobili della Curia o ex conventi. E poi ci sono quelli che si sono sistemati in immobili requisiti alla mafia. Da Sud a Nord, il fenomeno è enormemente cresciuto negli ultimi anni e non coinvolge soltanto immobili pubblici, ma anche privati. A Roma, dove oggi si terrà un vertice in prefettura, sono stati censiti 92 immobili occupati abusivamente con almeno 12 mila residenti illegali censiti e altri 8 mila clandestini. Alcuni casi sono davvero clamorosi: un palazzo nel quartiere San Giovanni, di proprietà della Banca d’Italia, è stato occupato abusivamente da una trentina di famiglie ben 14 anni fa. Altro discorso sono gli appartamenti della case popolari occupati nel quadrante Est della città e a Ostia. In questo caso ci ha pensato la magistratura con le sue inchieste a chiarire come sia all’opera un racket riconducibile agli Spada o ai Casamonica. E ancora. A Napoli si parla correntemente di Immobiliare Camorra a cui rivolgersi per avere facilmente una casa popolare. Sarebbero 1.500 gli occupanti abusivi a Firenze. A Bari, nel quartiere San Paolo, su 443 alloggi popolari di proprietà del Comune gestiti dall’Arca, 222 sono risultati irregolari. Esplosivo il fenomeno a Milano, con 4.300 le case popolari occupate sotto la regia di clan, spesso stranieri. Più leggero il problema a Torino, dove si calcolano 28 edifici occupati. Demolito un tabù Se questo è il quadro, la circolare del Viminale demolisce un tabù: ai prefetti è richiesto di effettuare un censimento delle “vere” criticità. Significa che non può essere sufficiente un’autodichiarazione. E infatti i prefetti sono stati invitati di avvalersi della Guardia di Finanza per i controlli patrimoniali (contro i furbetti che occupano abusivamente e magari hanno altre case a disposizione) e dei Servizi sociali dei Comuni per avere il quadro esatto di chi è l’occupante abusivo. Dice poi la circolare che va vagliato se gli abusivi che stanno per essere sgomberati non siano in grado di trovarsi da sé una sistemazione “autonomamente o attraverso il sostegno dei loro parenti”. Solo in caso di vero disagio, “i Servizi sociali dei Comuni dovranno attivare gli specifici interventi”. Ancor più rivoluzionaria è la seconda indicazione del ministero dell’Interno: le sistemazioni alternative che i Comuni sono tenuti a garantire a chi è senza casa, i cosiddetti interventi sociali, “nella misura in cui siano ritenuti sufficienti e adeguati dai competenti uffici comunali”, e tenendo in considerazione le possibilità concrete e non astratte degli enti locali, “non potranno essere considerati negoziabili”. In pratica si vuole impedire che gli sgomberi finiscano nel nulla delle infinite trattative sulle sistemazioni. Il punto è quello che Salvini ha condensato in uno dei suoi immancabili tweet: “La proprietà privata è sacra e sono troppi gli italiani vittime di occupazioni da parte non di bisognosi, ma di furbi e violenti”. Taser, che cos’è e perché non è una “alternativa innocua” alla pistola di Susanna Marietti* Il Fatto Quotidiano, 5 settembre 2018 Quando nel marzo scorso i giornali riportarono la notizia che la sperimentazione della pistola taser sarebbe stata avviata in alcune città italiane, chiesi formalmente notizie al ministero dell’Interno della circolare che la disponeva. Una legge dello Stato nota come “Freedom of information act”, infatti, prevede ragionevolmente che il cittadino debba sempre poter avere informazioni su qualsiasi atto di ogni pubblica amministrazione. Il ministero mi rispose, altrettanto formalmente, che non poteva fornirmi alcuna risposta in quanto non di una circolare si trattava, bensì di una nota. Al di là dei miei errori terminologici, dei quali mi scuso, non mi parve una grande prova di trasparenza. Oggi, con l’avvio concreto della sperimentazione, le cose si sono fatte più chiare e il nuovo ministro dell’Interno ha più volte espresso pubblicamente il proprio entusiasmo nei confronti del taser, enunciando da ultimo di volerlo utilizzare anche all’interno delle carceri. Vediamo dunque di cosa si tratta e cerchiamo di capire se davvero costituisca uno strumento tanto prezioso per le forze di polizia. Il taser è una pistola elettrica capace di produrre un elettroshock e bloccare muscolarmente il soggetto colpito così da immobilizzarlo. La pistola porta la marca dell’azienda statunitense Axon, che un tempo si chiamava addirittura Taser International in relazione al proprio prodotto di punta. Ma gli Stati Uniti, si sa, non sono una Paese dove si tenda a minimizzare l’uso delle armi in generale. Prendere l’esempio americano per introdurre anche in Italia le pistole taser non è davvero una buona idea. Cosa è infatti successo dal 2000, anno in cui le forse dell’ordine statunitense hanno cominciato a usare il taser, al 2017? Ce lo dice l’agenzia di stampa britannica Reuters, che nell’agosto 2017 ha reso pubblica un’inchiesta effettuata attraverso l’analisi di un numero elevatissimo di certificati autoptici. Quel che è emerso è che sarebbero oltre mille le persone decedute a seguito di immobilizzazione con la pistola taser. Di queste, 153 sarebbero morte per conseguenze dirette della scarica elettrica ricevuta. Il taser, ufficialmente qualificato come dispositivo assolutamente non letale, si rivela invece mortale in più di un’occasione difficilmente prevedibile in anticipo. Lo è ad esempio per un feto custodito dal grembo materno, anche nelle prime fasi della gravidanza quando quest’ultima non è ancora immediatamente identificabile. Lo è inoltre - come certificato da vari studi scientifici - per persone che presentano precedenti problemi di tipo neurologico o cardiaco. La stessa azienda Axon ha dovuto ammettere un elemento di rischio pari allo 0,25%, dunque niente affatto trascurabile. È ancora la Reuters a raccontarci come ben un quarto delle persone colpite da elettroshock da taser soffrisse di disturbi psichici o neurologici. Il taser sembra dunque venir utilizzato con leggerezza nei confronti di persone difficili, agitate, irrequiete, che certo avrebbero bisogno di un altro tipo di approccio da parte di forze di polizia competenti e capaci. Per non dire - e da qui molte cose si comprendono - che ben nove su dieci delle persone verso le quali il taser è stato rivolto lungo i quasi 17 anni coperti dall’indagine erano disarmate. Cosa significa ciò? Innanzitutto che in moltissimi casi queste persone potevano essere affrontate con strumenti differenti, non a rischio di morte, senza con ciò mettere a rischio gli agenti delle forze dell’ordine. Ma, ancor più, significa che il taser viene utilizzato, nella pratica di polizia americana che adesso si vuole imitare anche in Italia, per affrontare le situazioni meno pericolose. Vale a dire: là dove prima si sparava si continuerà a sparare. Il taser non è un’alternativa innocua alla pistola a proiettile, bensì un’alternativa potenzialmente letale alle mani o agli strumenti di immobilizzazione quali le manette. Il rapinatore non verrà immobilizzato dal taser. Ciò accadrà invece alla persona con disturbi mentali che dà in escandescenze o al ragazzo che manifesta contro la Tav, giusto per fare degli esempi. Infine, il carcere. Se mai la sperimentazione del taser dovesse allargarsi alle patrie galere, si tornerebbe indietro anni luce rispetto alla legge penitenziaria italiana del 1975 e a tutte le disposizioni internazionali che raccomandano di mettere a contatto con i detenuti esclusivamente personale disarmato. Non perché vogliano dare folli consigli e mettere a rischio l’incolumità degli agenti, ma perché chiunque conosca il carcere sa che l’ordine interno non si garantisce con la violenza ma con l’autorevolezza dell’istituzione. Le rivolte penitenziarie sono finite negli anni 80. È stata la legge Gozzini, che ha previsto benefici penitenziari per chi sapeva rispondere alla fiducia accordata, a farle terminare, dove l’uso delle armi non faceva altro che accrescere la spirale della violenza. Pensare che per le città gireranno poliziotti armati di taser dovrebbe solo accrescere il senso di insicurezza. L’ordine pubblico non può gestirsi con l’elettroshock. Auspichiamo comunque che nella nota ministeriale che non ci è stato permesso leggere e nelle altre disposizioni non si preveda mai l’uso del taser nei confronti di chi pacificamente manifesta le proprie opinioni. Sarebbe certo uno strumento dissuasivo nei confronti di ogni dissenso. Uno strumento, dunque, di abbassamento della democrazia. *Coordinatrice associazione Antigone Bancarotta: affidamento in prova se l’ex amministratore lavora in una società diversa di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 5 settembre 2018 Corte di cassazione - Sezione I - Sentenza 4 settembre 2018 n. 39909. Il giudice non può negare l’affidamento in prova al servizio sociale all’ex amministratore condannato per bancarotta fraudolenta in una delle società che facevano capo a lui, se l’altra non è coinvolta nel fallimento e dunque neppure nella bancarotta, sull’assunto che finirebbe per restare nello stesso contesto imprenditoriale in cui si è consumato il delitto. La Corte di cassazione, con la sentenza 39909, accoglie il ricorso contro la decisione del Tribunale di sorveglianza che, pur sospendendo la pena (articolo 656 del Codice di rito penale) per il reato di bancarotta fraudolenta, aveva detto no al beneficio più ampio dell’affidamento in prova al servizio sociale. Il Tribunale aveva espresso un giudizio sfavorevole sull’idoneità lavorativa, intrapresa dal condannato, per garantire la sua risocializzazione. L’imputato era, infatti, occupato alle dipendenze di una società, di cui in passato era stato amministratore e di cui era presumibile gestisse ancora le sorti, che aveva la stessa sede sociale di una delle società già dichiarata fallita. La permanenza nello stesso contesto imprenditoriale avrebbe dunque vanificato lo scopo risocializzante della misura alternativa. La Suprema corte accoglie invece il ricorso. La compagine dove il ricorrente lavorava, non era stata coinvolta nella omonima società in accomandita fallita, e quindi neppure nel reato contestato, inoltre l’oggetto sociale era diverso. La decisione del Tribunale, chiarisce la Cassazione, sarebbe stata condivisibile solo in virtù della verifica di un collegamento tra imprese fallite - che tra l’altro non risultavano operative - e quella in cui il ricorrente prestava la sua attività, mentre il solo elemento della sede comune non basta. Per finire, il no poteva essere giustificato in presenza di un’ingerenza del condannato, attuale ed effettiva nella gestione della società finita nell’occhio del ciclone. Ordine di espulsione: no alla condanna dell’immigrato indigente di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 5 settembre 2018 L’immigrato indigente non può essere condannato per non aver obbedito all’ordine di lasciare l’Italia se è indigente al punto da non poter organizzare la partenza. Né spetta a lui l’onore di provare la situazione di estrema povertà. La Cassazione, con la sentenza 39773, accoglie il ricorso di un cittadino algerino privo di documenti e alloggiato presso la Caritas, che era stato condannato, da un giudice di pace, a pagare 10 mila euro di multa per non aver eseguito quanto ordinato dal questore dopo il decreto di espulsione emesso dal prefetto di Alessandria. Con un’indagine, che la stessa Cassazione considera a tempo di record, il giudice di pace era giunto alla conclusione “ frettolosa” che il disagio economico non era tale da impedirgli di rispettare la legge e dunque di comprare il biglietto per tornare al suo paese. Un rapido controllo che aveva portato a concludere per la sanzione pecuniaria, malgrado qualche “indizio” di indigenza esistesse. L’uomo era nel circuito assistenziale e lo stesso ordine di espulsione era scattato proprio per “mancanza di fonti lecite finanziarie”. In più la Suprema corte ricorda che sulla scia della pronuncia El Dridi della Corte Ue ci sono stati degli interventi sia sul testo unico immigrazione sia sul Dlgs che detta le disposizioni sulla permanenza degli stranieri nel territorio. E oggi l’intimazione di allontanamento può avvenire solo nel caso siano infruttuosi i meccanismi per agevolare la partenza volontaria e alla fine del periodo di trattenimento nei centri di identificazione. Il detective non può spiare i dipendenti di Daniele Cirioli Italia Oggi, 5 settembre 2018 Il detective non può “spiare” i lavoratori. In nessun caso, infatti, un’agenzia investigativa può controllare e riferire al datore di lavoro circa il corretto adempimento, da parte dei lavoratori, del rapporto di lavoro. A stabilirlo è la cassazione con la sentenza n. 21621/2018, grazie alla quale può farla franca un dipendente licenziato per “sistematico allontanamento dal luogo di lavoro, in assenza di qualsiasi comunicazione”. Presenze truccate - Con la pronuncia depositata ieri, la cassazione ribalta le decisioni del tribunale e della corte di appello di Napoli che avevano approvato il licenziamento per giusta causa di un dipendente il quale, nello svolgimento delle mansioni di addetto al sistema di rilevazione delle presenze, aveva fittiziamente fatto figurare la sua presenza sul posto di lavoro in diversi giorni di lavoro. La condotta irregolare era emersa in seguito a controlli effettuati dal datore di lavoro a mezzo di un’agenzia investigativa, per cui aveva anche proceduto al licenziamento per giusta causa. Vietato spiare i lavoratori - Per la cassazione, però, il licenziamento è da ritenersi illegittimo con riferimento alle norme sui controlli dei lavoratori (art. 2 e 3 della legge n. 300/1970, il c.d. statuto dei lavoratori). Tali norme delimitano, a tutela della libertà e della dignità del lavoratore, la sfera d’intervento di persone preposte dal datore di lavoro a difesa dei propri interessi, e cioè per scopi di tutela del patrimonio aziendale (art. 2) e vigilanza dell’attività lavorativa (art. 3). Il datore di lavoro, per tali scopi, può anche ricorrere alla collaborazione di soggetti terzi (guardie giurate e anche agenzia investigative), ma questi non possono mai controllare l’adempimento di prestazioni lavorative e, quindi, non possono accertare mancanze specifiche dei dipendenti. Pertanto, è da ritenersi illegittimo il licenziamento del lavoratore da parte dell’azienda, nonostante il datore di lavoro sia venuto a conoscenza, perché appurato tramite un’agenzia investigativa, del suo “sistematico allontanamento dal luogo di lavoro, in assenza di qualsiasi comunicazione”. Campania: nelle carceri oltre 1.000 detenuti in più della capienza consentita di Antonio Cembrola vivicampania.net, 5 settembre 2018 Una fotografia complessa che rispecchia, senza ulteriori dubbi o incertezze, la società e la realtà nazionale che ogni giorno viviamo e raccontiamo. Questo è ciò che emerge dall’analisi delle statistiche elaborate dal Ministero della Giustizia, pubblicate il 31 agosto, sullo stato della popolazione carceraria. Al di là di quelle che possono essere i dati nazionali, siamo riusciti ad estrapolare quelli relativi alla nostra regione. L’elemento che subito salta all’occhio e che si collega istantaneamente ad una criticità di livello nazionale è sicuramente il numero elevato dei detenuti in rapporto alla capacità dei nostri istituti penitenziari. Sul territorio campano sono presenti ben 15 carceri per una capienza regolamentare di 6.161 detenuti; ebbene i soggetti rinchiusi in questi istituti sono 7.477. Si tratta di un esubero di ben oltre le mille unità. Altro elemento che appare chiaro dalla statistica è il numero dei detenuti stranieri che per la Campania equivale a 1.000 unità, quasi la cifra dell’esubero di detenuti. Naturalmente si tratta di uomini e donne provenienti da diversi territori, ma possiamo comunque individuare le componenti più numerose. Nelle carceri campane sono detenuti: 130 nigeriani, 116 marocchini, 112 rumeni, 91 albanesi, 61 tunisini, 53 ghanesi, 47 algerini, 40 gambiani. Dalle statistiche in definitiva emergono due elementi che altro non sono che il problema e la causa che lo ha scatenato: se infatti i dati del Ministero della Giustizia ci sottolineano la criticità del sovraffollamento delle carceri, dall’altro individuano, per chi li vuole leggere e comprendere, anche la causa che lo ho fatto esplodere, ovvero la crescente presenza di cittadini comunitari ed extracomunitari nel nostro paese. Se il numero di cittadini aumenta è anche normale e plausibile un aumento della popolazione carceraria. Su questo elemento si alimenteranno polemiche politiche e si elaboreranno le più svariate soluzioni alla problematica. Questo però a noi non interessa. Noi abbiamo voluto semplicemente riportare la realtà dei fatti che non può essere in alcun modo alterata. Milano: la nuova Guida dei diritti-doveri dei detenuti, sarà presentata l’11 settembre Ansa, 5 settembre 2018 Arriva la seconda edizione della “Guida ai diritti e ai doveri dei detenuti”, realizzata con il contributo dell’Osservatorio carcere dell’Unione Camere penali italiane. Sarà presentata ai detenuti, come si legge in un comunicato della Camera penale di Milano, martedì 11 settembre nel carcere milanese di San Vittore. La guida è stata redatta a cura della Commissione di studio “Il carcere possibile” Onlus della Camera penale di Napoli, con la collaborazione del Garante dei diritti dei detenuti della Regione Campania. E vuole fornire “a coloro che sono ristretti ed ai loro familiari uno strumento per orientarsi in carcere, al fine di affrontare una detenzione consapevole dei diritti riconosciuti e delle regole da rispettare”. Oristano: la moglie ha il cancro, niente trasferimento per il marito detenuto di Elia Sanna L’Unione Sarda, 5 settembre 2018 Un detenuto rinchiuso nel carcere di Massama ha chiesto al Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria il trasferimento in Sicilia per essere vicino alla moglie gravemente malata di tumore. Ma il Dap ha risposto picche e la vicenda è stata denunciata da Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione Socialismo diritti riforme, dopo aver ricevuto un’accorata lettera di aiuto dal detenuto. “Le condizioni della donna si sono aggravate con le metastasi - dice Maria Grazia Caligaris - e il marito M. R. è ristretto nel carcere di Oristano-Massama. Aveva chiesto al Dap il suo trasferimento in una struttura penitenziaria siciliana per potersi avvicinare alla famiglia”. “È evidente che il caso appare emblematico per diversi aspetti - prosegue Caligaris - presentando tratti in netta contraddizione con quanto previsto perfino dalle circolari del ministero della Giustizia e del Dap. Ad iniziare dal mancato rispetto del principio della territorialità della pena. Da quando in Sardegna sono stati realizzati i nuovi penitenziari, con un’alta percentuale di cittadini privati della libertà in regime di alta sicurezza, è passato in secondo piano il problema della regionalizzazione della pena, sempre enunciata ma mai davvero rispettata”. Ancora: “Occorre poi considerare che la moglie del detenuto vive una condizione fisica e psicologica particolarmente delicata e la vicinanza del marito, benché dentro un istituto di pena, potrebbe rappresentare per lei motivo di conforto. Mi auguro che venga accolta la nuova istanza”. Sala Consilina (Sa): sul destino del carcere fumata grigia al ministero La Città di Salerno, 5 settembre 2018 Si è conclusa ieri mattina a Roma, con una fumata grigia, la conferenza dei servizi indetta dal Dipartimento per l’amministrazione penitenziaria al fine di decidere se far riaprire il carcere di Sala Consilina o se confermarne la chiusura, disposta nel 2015, con un nuovo Decreto ministeriale. Al tavolo hanno preso parte, oltre ai rappresentanti del ministero della giustizia e del Dipartimento per l’amministrazione penitenziaria, anche il sindaco di Sala Consilina, Francesco Cavallone, e l’avvocato Gherardo Cappelli, presidente dell’Ordine degli avvocati di Lagonegro. “Non possiamo dirci ottimisti, ma nemmeno pessimisti in merito a quella che potrebbe essere la decisione che sarà adottata dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria unitamente alla ministero della giustizia - ha dichiarato Cavallone - anche se rispetto ad una iniziale chiusura da parte dei funzionari del Dap e del dicastero di via Arenula, abbiamo avuto invece la sensazione della possibilità che si possa arrivare ad una soluzione positiva per la nostra casa circondariale. Abbiamo portato sul tavolo una serie di documenti nuovi ed il progetto relativo alla ristrutturazione dell’edificio che ha ospitato la casa circondariale in via Gioberti, e sarà il Comune che si farà carico delle spese necessarie per poterlo adeguare e far sì che possa essere nuovamente utilizzato. I funzionari si sono presi una pausa di riflessione che non sappiamo quanto durerà prima di prendere una decisione definitiva. Importante in questa fase è anche l’apporto ed il supporto che stiamo avendo da parte del senatore Francesco Castiello del Movimento 5 Stelle che si sta prodigando per fare in modo che non venga emesso un nuovo decreto di chiusura dopo quello annullato dal Consiglio di Stato”. Da tre anni, con la casa circondariale chiusa, il Tribunale di Lagonegro si ritrova ad essere forse l’unico in Italia sprovvisto di un carcere nel proprio circondario. Questione questa che è stata sollevata anche dall’ex presidente del Tribunale di Lagonegro, Claudio Matteo Zarrella. Napoli: la villa del boss Cesarano ai testimoni di giustizia di Vincenzo Sbrizzi napolitoday.it, 5 settembre 2018 Lo stabile di via Andolfi è stato confiscato da tempo ma mai utilizzato. Potrebbe essere utilizzata per il recupero di bambini a rischio. Per anni è rimasta inutilizzata e lasciata all’incuria. Apparteneva ad uno dei più feroci boss della storia della camorra, Ferdinando Cesarano, e adesso potrebbe essere affidata a dei testimoni di giustizia. È la decisione presa dal comune di Torre Annunziata riguardo una villa confiscata a via Andolfi. Il sindaco Vincenzo Ascione ha firmato la delibera per la manifestazione d’interesse per adibire la villa a centro deputato ad attività sociali. Un’idea sul tavolo è rappresentata da un’associazione di testimoni di giustizia che si occuperebbero di recupero di bambini a rischio. La procedura è aperta, comunque, a tutte le associazioni che ne faranno richiesta e comunque l’affidamento non sarà fisso ma potrà esserci avvicendamento tra gli affidatari. Si riattiva così l’iter burocratico per riutilizzare un bene nella disponibilità del comune oplontino ma mai utilizzato per fini sociali, in una zona della città dove ce ne sarebbe molto bisogno. “Dopo diversi anni in cui l’immobile è rimasto inutilizzato - spiega l’assessore al Patrimonio, Emanuela Cirillo - abbiamo ora, con l’approvazione di una nuova delibera di giunta, la possibilità concreta di poterne usufruire, dandolo in concessione ad associazioni ed enti impegnati in diversi ambiti sociali. La volontà dell’Amministrazione Comunale è quella di recuperare gli immobili sottratti alla camorra per destinarli ad attività socio-culturali che, oltre alla promozione di progetti ed iniziative, costituiscono anche un’opportunità di sviluppo e lavoro. Il bene verrà assegnato a titolo gratuito e per un periodo da determinarsi a seconda della destinazione d’uso - conclude l’assessore -, e sarà rinnovabile una sola volta, al fine di consentire la possibilità di avvicendamento dei concessionari” Ferrara: la Coop aiuta i detenuti più poveri estense.com, 5 settembre 2018 Donati generi alimentari e beni di uso quotidiano al carcere di via Arginone Co.Ind e Coop Alleanza 3.0 hanno donato alla casa circondariale “Costantino Satta” di Ferrara generi alimentari e beni di uso quotidiano per i detenuti più indigenti dell’istituto di via Arginone. “Ringraziamo le due cooperative che, grazie all’intervento di Legacoop Estense, si sono attivate tempestivamente per rispondere alla nostra esigenza” afferma don Antonio Bentivoglio, ex cappellano del carcere ed attualmente volontario autorizzato, insieme al nuovo cappellano don Tiziano Pegoraro. “Durante una visita della consigliera del M5S Ilaria Morghen e di alcuni delegati delle camere penali con il comandante Annalisa Gadaleta - ricorda don Antonio - abbiamo esposto la situazione di grande difficoltà dei detenuti più poveri, che faticano ad avere accesso a beni di uso comune, quali caffè o detergenti. Legacoop Estense ha risposto sensibilmente e prontamente a questa problematica, dando una risposta concreta”. Co.Ind ha donato cacao e caffè per la prima colazione, mentre Coop Alleanza 3.0 ha donato un valore di 500 euro di spesa per generi alimentari e non all’associazione Noi per Loro, presieduta dallo stesso don Bentivoglio, che da vent’anni gestisce l’Emporio del carcere: uno sportello di sostegno e supporto ai detenuti più poveri. Bologna: fiabe da grandi, il ritorno in carcere di Massimo Marino Corriere di Bologna, 5 settembre 2018 Istituto penale minorile. La compagnia del Pratello diretta da Paolo Billi torna tra le sua mura, stasera, con “Bellinda e Bestia” un nuovo spettacolo di teatro/danza tratto da versioni della favola di Apuleio “Amore e Psiche”. Sul palco ragazzi sottoposti a misure restrittive, minori del sistema Sprar e studenti. Torna il teatro nell’Istituto penale minorile di via del Pratello. Il carcere aveva visto la presentazione di uno spettacolo all’anno dal 1999 al 2014. Paolo Billi e la sua compagnia, denominata appunto Teatro del Pratello, avevano aperto le mura a un totale di 1.400 spettatori creando spettacoli fantasiosi e pieni di spunti di riflessione con ragazzi detenuti e giovani attori o studenti, con anziani e con altri innesti. Dal 2015 le rappresentazioni erano state sospese, togliendo un’importante occasione di incontro tra il mondo dei giovani reclusi e la città. Da stasera all’8 settembre, alle 21, si apriranno di nuovo le porte del carcere per ospitare Bellinda e Bestia, una nuova creazione, sempre con la regia di Billi. Si succederanno due compagnie: stasera e domani quella formata da una decina di ragazzi ristretti nel carcere insieme a due studentesse del Laura Bassi e a due attrici di Botteghe Molière; il 7 e l’8 andranno in scena ragazzi in carico a istituti dell’area penale esterna al carcere, provenienti da vari luoghi della Romagna, con le due attrici e, per la prima volta, con due minori stranieri non accompagnati, uno proveniente dal Centro Africa, l’altra dal Marocco. La storia rappresentata è arcinota: è quella che Calvino ha raccolto nelle sue Fiabe italiane come Bellinda e il Mostro, narrata sulla montagna pistoiese, ma presente in molte varianti in differenti tradizioni e basata sull’archetipo della favola di Amore e Psiche dell’Asino d’oro di Apuleio. Una storia che ha trovato varie volte la via dello schermo, fino a Walt Disney. “Ma da questa versione ci siamo tenuti lontani”, precisa il regista (e spiegherà alla fine perché). “Torniamo nel carcere, e in particolare nella zona verde appena restaurata, all’aperto. Non credo che questo rientro preluda a una riedizione degli spettacoli invernali interni: la chiesa, che abbiamo usato come spazio fino al 2014, è destinata a diventare sala udienze del tribunale dei minori; i lavori per il restauro del teatro non sono mai partiti”. La storia della ragazza portata in sposa a un mostro, per scontare un affronto fatto dal padre, si sviluppa, come è noto, da un’iniziale paura e repulsione per l’orribile coniuge a un sempre maggiore affetto per l’essere strano, diverso. Ed è trasparente cosa la scelta di un tale soggetto voglia significare. Interessante saranno le soluzioni sceniche e il taglio registico. “Altri modelli per la regia, che firmo come la drammaturgia con Elvio Pereira de Assunçao, sono stati il film di Jean Cocteau del 1946 e l’opera lirica di Philip Glass che riprende quella pellicola”. Forte sarà la cifra figurativa: “È come uno strano film muto dal vivo. Non ci sono parole, ma solo azioni danzate, dietro un velo di tulle su cui vengono proiettate immagini disegnate da una giovane che frequenta l’Accademia, Carmina Melania Tramite. Su quello stesso “schermo” appariranno alcune scritte, come didascalie”. La scena è composta, inoltre, da sette grandi porte mobili su ruote che creano ambienti diversi, evocando i vari palazzi della vicenda. Il tema è evidentemente il rapporto con la diversità. “Abbiamo fatto una prima tappa di questo progetto l’anno scorso nel carcere femminile di Pontremoli. Le attrici erano tutte donne e c’era una sola presenza maschile a indicare l’Altro. In questa versione le “bestie” sono maggioritarie e il femminile è minoranza: risalta l’alterità. Il finale, raccontato da Calvino, è il punto da cui siamo partiti. Bellinda, quando il Mostro si trasforma in principe, dice: “Ma io voglio il Mostro”. È una conclusione contro gli stereotipi del lieto fine, del “vissero felici, contenti e belli”. È l’opposto della chiusa consolatoria del film di Walt Disney”. Venezia: il regista Salvatore Mereu alla Casa circondariale Santa Maria Maggiore Ristretti Orizzonti, 5 settembre 2018 Prosegue la proficua collaborazione tra gli Istituti Penitenziari di Venezia e la Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, con le attività coordinate da Michalis Traitsis, regista e pedagogo teatrale di Balamòs Teatro e responsabile del progetto teatrale “Passi Sospesi” attivo dal 2006 negli Istituti Penitenziari veneziani. Avviate nel 2008, le iniziative si svolgono dentro e fuori la Casa di Reclusione Femminile di Giudecca e la Casa Circondariale Maschile di Santa Maria Maggiore di Venezia durante il periodo della Biennale Cinema. In questi anni, sono stati organizzati incontri, conferenze, proiezioni di documentari dal progetto teatrale “Passi Sospesi” nell’ambito della Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica, ma anche all’interno degli Istituti Penitenziari. Nelle ultime edizioni Michalis Traitsis ha invitato registi e attori ospiti della Mostra per un incontro con la popolazione detenuta preceduto dalla presentazione dei film più rappresentativi degli artisti ospitati. Negli anni scorsi hanno visitato le carceri veneziane Abdellatif Kechiche, Fatih Akin, Mira Nair, Gianni Amelio, Antonio Albanese, Gabriele Salvatores, Ascanio Celestini, Fabio Cavalli, Emir Kusturica, Concita De Gregorio. Significativa ora la visita del regista Salvatore Mereu, presente a Venezia come presidente della giuria della sezione Venezia Classici della 75. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia. L’incontro si svolgerà presso la sala teatro della Casa Circondariale di Santa Maria Maggiore di Venezia, venerdi 7 Settembre 2018, alle ore 16.00. L’incontro è riservato agli autorizzati. Per l’occasione, mercoledì 5 settembre alle ore 10.00, all’interno dell’istituto penitenziario di Santa Maria Maggiore verrà organizzata la proiezione del film “Sonetàula” di Salvatore Mereu per facilitare l’incontro con il regista. La collaborazione tra gli Istituti Penitenziari di Venezia, la Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia e Balamos Teatro ha come obiettivo quello di ampliare, intensificare e diffondere la cultura dentro e fuori gli Istituti Penitenziari ed è inserita all’interno di una rete di relazioni che comprende come partner il Coordinamento Nazionale di Teatro in Carcere, l’Associazione Nazionale dei Critici di Teatro, il Teatro Stabile del Veneto, il Teatro Ca’ Foscari di Venezia, il Centro Teatro Universitario di Ferrara e la Regione Veneto. Per il progetto teatrale “Passi Sospesi”, Michalis Traitsis ha ricevuto nell’Aprile del 2013 l’encomio da parte della Presidenza della Repubblica e nel Novembre del 2013 il Premio dell’Associazione Nazionale dei Critici di Teatro. Balamòs Teatro - balamosteatro.org, info@balamosteatro.org, +39 328 81 20 452. Salute e libertà, il Garante tutela i pazienti in Tso di Grazia Zuffa Il Manifesto, 5 settembre 2018 I pazienti psichiatrici sottoposti a Trattamento Sanitario Obbligatorio (Tso) sono protetti dalla vigilanza del Garante nazionale delle persone private della libertà personale, come ricorda la recente Relazione al Parlamento dello stesso. Di più. Il controllo sui luoghi e sulle condizioni in cui si svolgono i Tso è segnalato come settore di intervento nuovo e privilegiato, insieme ad altri nello stesso ambito sanitario: riguardanti soggetti deboli (anziani come disabili), che, dietro lo schermo delle pretese cure, rischiano di scivolare in situazioni di limitazione o privazione della libertà. È un’indicazione che merita grande attenzione. L’impegno del Garante apre una nuova prospettiva in tema di salute e libertà, atta a svelare situazioni lesive della dignità delle persone, nascoste sotto l’ombrello rassicurante della “cura”. Il Trattamento Sanitario Obbligatorio poi è questione particolarmente delicata, legata com’è alla concezione del malato mentale, tuttora in evoluzione. La privazione della libertà è stata il cardine del modello manicomiale, per i soggetti “pericolosi a sé e agli altri”. Il passaggio al modello terapeutico, centrato sul “malato da curare” alla pari di altri, non ha sciolto del tutto le ambiguità. La “normalizzazione” del paziente psichiatrico si scontra col residuo di approccio manicomiale, connesso all’idea della “compromissione della capacità di intendere e decidere su di sé” quale caratteristica portante della patologia stessa. La stessa concezione all’origine della compressione dei diritti, secondo cui per questi malati non potrebbero valere le stesse regole di competenza e responsabilità legali dei non malati di mente. Dunque, la ribadita volontà del Garante di esercitare i propri compiti di vigilanza sul Tso è un grande contributo nel processo di normalizzazione dell’assistenza psichiatrica: richiama tutti, le autorità sanitarie e gli operatori in primo luogo, a considerare l’obbligatorietà della cura come una assoluta eccezione al principio costituzionale che stabilisce la libertà della persona di non sottostare alle cure (art.32). Se non per dispositivo di legge, come prosegue lo stesso articolo. Ma il rinvio alla legge va inteso come garanzia alla persona rispetto alla straordinarietà della procedura, e non come viatico alla ordinarietà della stessa. Su questa linea garantista, la Relazione offre osservazioni e suggerimenti importanti: dall’allarme per la carenza di dati certi, all’invito a riflettere se alcuni reparti “a porte chiuse” (di stile segregativo) “siano tali da assicurare la tutela dei diritti fondamentali”; alla sottolineatura della perniciosa sovrapposizione e confusione fra obbligatorietà del trattamento e contenzione (quanto mai indicativa di cascami di cultura manicomiale); fino alla richiesta di istituire un Registro Nazionale dei Tso, dove trovare informazioni fondamentali a garanzia dei diritti. Circa la contenzione, sono riprese le raccomandazioni del Comitato Nazionale di Bioetica alle autorità sanitarie, perché attivino programmi per la riduzione fino al superamento della contenzione e predispongano indici di qualità dei servizi, promuovendo le pratiche no restraint, nei reparti che abbiano rinunciato ad applicare la contenzione. Sono indicazioni corpose che presuppongono un lavoro capillare nei territori, di vigilanza, ma anche di interlocuzione con le autorità preposte, dagli assessori regionali alla Sanità, ai responsabili sanitari delle Asl e dei dipartimenti di Psichiatria. L’attivazione della rete dei Garanti regionali è perciò fondamentale. Mi permetto un suggerimento: perché non iniziare il confronto con le autorità citate proprio su quanto ha scritto il Garante delle persone private della libertà? La stretta sui ricorsi dei migranti? Fatta già dalla Cassazione di Errico Novi Il Dubbio, 5 settembre 2018 Tra le novità in arrivo con il decreto Sicurezza, una riguarderebbe la difesa dei richiedenti asilo: verrebbe negata la liquidazione del patrocinio a spese dello Stato in quei casi in cui il migrante ricorre in Cassazione e vede dichiarata inammissibile la propria impugnazione. “Ma non si farebbe altro che codificare un orientamento già ampiamente consolidato nelle pronunce della Suprema corte”, fa notare il consigliere del Cnf Nino Gaziano, che si è occupato della proposta di riforma sulla materia. È una non riforma. Una stretta fantasma. La cancellazione del patrocinio a spese dello Stato per i migranti che chiedono asilo e ricorrono in Cassazione non cambierebbe di fatto nulla, rispetto all’effettivo riconoscimento del diritto. Si tratta di una norma che, secondo un’anticipazione proposta ieri da Repubblica, troverà spazio nel decreto Sicurezza voluto da Matteo Salvini. Una delle non poche misure destinate a rendere più difficile la permanenza nel nostro Paese per chi aspira a vedersi riconosciuto lo status di rifugiato, ma anche per coloro che hanno già acquisito tale diritto. Basti pensare alla perdita dell’asilo per chi facesse ritorno nel proprio Paese per un periodo troppo lungo. Ma nel caso del diritto a un’assistenza legale pagata dallo Stato, “non si farebbe altro che recepire un orientamento giurisprudenziale già consolidato presso la stessa Suprema corte”, spiega Nino Gaziano, consigliere del Cnf che tra l’altro ha curato la proposta di riforma avanzata in materia dallo stesso Consiglio nazionale forense. “Saremmo di fronte a un classico caso di ius receptum”, cioè di una norma che tutt’al più cristallizza una giurisprudenza già affermatasi da tempo. Nulla cambierebbe nella sostanza. Anche se, come aggiunge lo stesso consigliere Gaziano (il quale rappresenta nel massimo organismo dell’avvocatura i Fori dei distretti siciliani occidentali, evidentemente tra in più esposti in questo campo), “è difficile esprimersi sulla base di mere anticipazioni: bisognerà leggere il decreto quando sarà emanato. Certo è che la Cassazione si è espressa esattamente secondo tale linea: nel caso in cui un richiedente asilo veda respinto dal Tribunale il proprio ricorso e decida di andare alla Suprema corte, quest’ultima ritiene che non debba essere accolta la richiesta di patrocinio a spese dello Stato quando l’impugnazione sia dichiarata inammissibile. Attenzione: la liquidazione del patrocinio è negata se appunto si decide per l’inammissibilità ma non in caso di rigetto di un ricorso ritenuto ammissibile in via preliminare. Il punto è che, secondo quanto si apprende, la norma del decreto non sposterebbe nulla rispetto al quadro appena descritto”. Ed ecco perché non si determinerebbe alcuna modifica nel comportamento degli avvocati: i quali continuerebbero ad assumere l’incarico e a predisporre ricorsi in Cassazione per i migranti esattamente con la stessa attuale disponibilità. Il difensore fa una valutazione tecnico- professionale: guarda alle fasi anteriori del procedimento, dunque alla pronuncia della commissione territoriale, a cui il richiedente si rivolge in prima istanza, e alla successiva sentenza del Tribunale, presso il quale il migrante ha cercato di veder riconosciuto quel diritto negato in sede amministrativa. Nel momento in cui l’avvocato accetta l’incarico per ricorrere anche contro il diniego del Tribunale e andare dunque davanti alla Cassazione (il decreto Minniti ha abolito l’appello), è perché ritiene che sussistano i presupposti per ottenere una sentenza favorevole. Ma è chiaro che già oggi il professionista assume un rischio notevole. Sa che dalla Suprema corte potrebbe arrivare una declaratoria di inammissibilità. E che a quel punto, in base alla giurisprudenza consolidata di cui si è detto, lo Stato non liquiderebbe l’onorario spettante per il patrocinio. “Certo che gli avvocati si assumono un rischio”, nota Gaziano. “È quanto avviene seppur in forme diverse e a deter- minate condizioni, anche con le difese d’ufficio nel processo penale. Ed è chiaro che i Consigli dell’Ordine non esitano a evadere tutto quel lavoro necessario per individuare il collega a cui proporre il patrocinio di ciascun richiedente asilo che non possa permettersi di pagare da solo la propria difesa”. Perché è chiaro che in questi casi il rischio, per il professionista, non prevede proposizioni subordinate: nella quasi totalità dei procedimenti, lo straniero non è in grado di sostenere da solo le spese legali. “I singoli avvocati e i singoli Consigli dell’Ordine”, ricorda il consigliere del Cnf, “antepongono la tutela dei diritti alla valutazione economica: mi pare che questa particolare materia lo dimostri”. Così come la questione dimostra, se ce ne fosse bisogno, che il patrocinio a spese dello Stato non è un istituto pensato a favore dell’avvocatura ma dei meno abbienti. Alla luce della riforma- non- riforma in arrivo col decreto sicurezza, appare ancora meno sensata la polemica sollevata da Salvini a giugno, quando prefigurò il provvedimento in arrivo come una risposta a una fantomatica “lobby degli avvocati d’ufficio” che secondo il vicepremier “si sta arricchendo in modo che non ritengo opportuno”. Casomai è una categoria che ci rimette. E che, come il presidente del Cnf Andrea Mascherin ricordò al leader della Lega, si impegna a dare sostanza a un istituto previsto dalla Costituzione per “scongiurare l’applicazione del “diritto di diseguaglianza” fissato dal regime fascista”. Le ronde anti-migranti di Forza Nuova al vecchio confine con la “Yugo” di Ernesto Milanesi Il Manifesto, 5 settembre 2018 Silenzio e imbarazzo del centro destra. L’uomo simbolo del “Prima gli italiani” è Fabio Tuiach, classe 1980, portuale con la boxe nel sangue (è campione d’Italia dei pesi massimi). Tre anni fa sale sul ring della politica, dopo le risse ai bagni “Topolini” di Barcola. Si candida con la Lega Nord alle Comunali: secondo con 524 preferenze conquista un seggio nell’aula di piazza Unità d’Italia. E diventa un caso. Fanno scandalo le sue esternazioni: Maometto? “Pedofilo”. Femminicidio? “Un’invenzione della sinistra”. Fino all’apoteosi del like filo-nazista. Dal vecchio confine “con la Yugo” fino alle Rive qui soffia la bora del fascio-leghismo. Prima una specie di pulizia etnica del vice sindaco Paolo Polidori, poi le ronde di Forza Nuova e Casa Pound spaccano (e imbarazzano) perfino la giunta di centrodestra o Forza Italia. Un clima tutt’altro che funzionale alle celebrazioni del mezzo secolo della Barcolana, maxi-regata velica in programma il 14 ottobre che ha dovuto “strappare” il manifesto di Marina Abramovic (Wère All In The Same Boat) giudicato filo-migranti. Trieste capitale dell’intolleranza, del razzismo e dei rigurgiti fascisti non merita nemmeno una dichiarazione del Viminale o del neo-governatore leghista Massimiliano Fedriga. Prefettura e questura sono in silenzio, mentre il sindaco berlusconiano Roberto Dipiazza si trincera dietro la sintetica affermazione: “Non concordo, ma comprendo le ragioni”. Paradossalmente, l’azione delle squadre notturne fasciste in città (con l’annunciato sconfinamento in Val Rosandra) risveglia i cattolici di Fi come Bruno Marini: “Simili episodi irritano e preoccupano. Abbiamo già condannato il blitz di Polidori, irrituale ma non così grave. Le ronde invece suscitano preoccupazione, il mantenimento dell’ordine pubblico non è compito dei cittadini” afferma convinto. Tutto comincia a fine agosto. Centinaia di migranti sull’ultima rotta balcanica, che fa tappa a Sarajevo, approdano fin dentro il “salotto” di Trieste. Il governatore Fedriga annuncia la mobilitazione della Forestale a presidio dei confini. Ma Polidori non aspetta nemmeno il suo Capitano di palazzo Chigi: sgombera un gruppo di pakistani e afghani davanti alla Capitaneria di porto. Per il vice sindaco leghista, Trieste va immediatamente “ripulita” dai migranti che dormono per terra con gli zaini come cuscino. Sono le stesse scene dell’autunno scorso a Gorizia, con la galleria Bombi trasformata in dormitorio d’emergenza fino all’intervento del sindaco Rodolfo Ziberna nei confronti dei migranti, che in passato si erano dovuti accampare perfino in riva all’Isonzo. Ma a Trieste l’atmosfera delle ultime settimane si è avvelenata all’insegna del più becero nazionalismo. Nel mirino gli ambulanti abusivi, la prostituzione, i migranti in generale. Un pretesto per schierare le truppe dei fascisti in versione terzo millennio. Le ronde hanno guadagnato visibilità mediatica fino a diventare un’ingombrante concorrenza politica ai seguaci di Salvini. Per Denis Conte, coordinatore regionale di Forza Nuova, sono “passeggiate” ispirate dalla lettura del quotidiano Il Piccolo. In realtà, si dimostrano funzionali alla manifestazione nazionale di sabato a Rimini: “Rimpatrio subito!” tuonano i manifesti affissi anche in Friuli. E c’è anche un uomo-simbolo del “Prima gli italiani” che slitta dal Carroccio a Forza Nuova. Fabio Tuiach, classe 1980, portuale con la boxe nel sangue (è campione d’Italia dei pesi massimi). Tre anni fa sale sul ring della politica, dopo le risse ai bagni “Topolini” di Barcola. Si candida con la Lega Nord alle Comunali: secondo con 524 preferenze conquista un seggio nell’aula di piazza Unità d’Italia. E diventa un caso. Fanno scandalo le sue esternazioni: Maometto? “Pedofilo”. Femminicidio? “Un’invenzione della sinistra”. Fino all’apoteosi del like filo-nazista. La Lega è costretta a espellere il suo vice-capogruppo in Comune. Tuiach non batte ciglio e si converte a Forza Nuova. Senza smettere con esternazioni clamorose come quella recente, dedicata a don Massimo Biancalani, che dirige il centro per migranti di Pistoia: “Ogni tanto per sbaglio finisco sul profilo del prete sodomita che ringrazia Allah per i bei maschioni palestrati africani da coccolare e portare in piscina”. Insomma, Trieste come trincea per “pugili e picchiatori di Forza Nuova” (sempre Tuiach). Lo conferma Fabio Vallon, presidente dell’Anpi che “guarda con estrema preoccupazione la riedizione locale delle squadracce fasciste rinominate ronde”. E anche Michele Tarlao, segretario regionale Silp Cgil, che le censura come illegali e aggiunge: “Potrebbero degenerare in alcuni reati ed esporre gli stessi cittadini, che partecipano volontariamente ai “pattugliamenti” a concreti rischi. E potrebbero screditare, ostacolare, e in taluni casi, vanificare il lavoro delle forze di polizia”. Svezia. Finisce il mito del paese che accoglie i profughi di Carlo Lania Il Manifesto, 5 settembre 2018 Giro di vite del governo: tetto al numero di rifugiati e ricongiungimenti familiari più difficili. Le prossime elezioni svedesi potrebbero sancire la fine ufficiale di un mito che ha resistito per decenni, quello della Svezia come modello di accoglienza per ogni profugo in cerca di un rifugio sicuro. E non si tratta certo di un processo cominciato oggi. È almeno dal 2016, dopo la crisi dei migranti che l’anno prima aveva raggiunto il suo picco, che il Paese ha cominciato lentamente a chiudersi diventando sempre meno accogliente verso i suoi ospiti stranieri. Un cambiamento dovuto non solo alla pressione esercitata sull’opinione pubblica dalla destra xenofoba, ma anche alla sinistra, ai Socialdemocratici svedesi al governo che lentamente ma costantemente hanno cominciato a modificare le politiche sull’accoglienza rendendo sempre più difficile la permanenza - oltre che l’ingresso - nel Paese. Tutto pur di rincorrere i Democratici svedesi, la formazione anti migranti e anti europeista confinata al terzo posto in parlamento fino alle ultime elezioni, ma che tra pochi giorni potrebbe uscire vincitrice dalle urne. I segnali del malumore creato da anni di politica delle porte aperte non sono mancati. Un recente sondaggio ha rivelato come sia proprio l’immigrazione il tema che maggiormente preoccupa gli svedesi (20%), più della salute (19%), della sicurezza (12%) e dell’ambiente (9%), molto più - e la dice lunga - del lavoro (3%) segno che oltre al mito dell’accoglienza sta per tramontare anche quello del multiculturalismo. Percentuali che si spiegano solo in parte con altri numeri, quelli relativi alle richieste di asilo presentate nel Paese negli ultimi quattro anni e che ammontano a più di 314.000. L’apice nel 2015, con 163 mila richieste delle quali 70.384 da parte di minori non accompagnati. Numeri che fanno della Svezia il Paese europeo con la maggiore percentuale di rifugiati in rapporto alla popolazione (9,5 milioni di abitanti), ma che nel corso degli anni sono diminuiti sempre più, tanto che da gennaio a oggi si contano solo 12.000 nuove richieste. Il fiume di persone arrivate nel 2015 ha provocato come prima reazione del governo la sospensione nel novembre dello stesso anno del trattato di Schengen con il ripristino dei controlli alla frontiera con la Danimarca, insieme alla successiva adozione di una serie di misure inizialmente presentate come temporanee ma che dallo scorso mese di maggio sono diventate definitive. Tra queste la decisione di mantenere i controlli alle frontiere, di consentire i ricongiungimenti familiari solo a chi ha ottenuto la status di rifugiato e di fissare a 14.000 l’anno il tetto per le richieste di asilo, la metà rispetto al 2017 quando furono 27.205. Ma soprattutto ha intensificato le espulsioni degli afghani, con il conseguente aumento di suicidi tra i più giovani: pur di non tornare in Afghanistan 12 ragazzi tra i 10 e i 21 anni si sono tolti la vita solo nel 2017. Fine del “Paese dell’accoglienza”, ma fine anche dell’impegno preso nel 2014 da Stoccolma quando promise che i siriani in fuga dalla guerra civile avrebbero sempre trovato ospitalità. Uno dei motivi per cui nel 2015 a migliaia fecero di tutto pur di arrivare in Svezia. “Da una politica dell’asilo considerata generosa, la Svezia passa allo stretto minimo europeo”, ha scritto Le Monde. Dietro il giro di vite del governo svedese, che può sembrare esagerato per un paese la cui economia gode comunque di buona salute, c’è sicuramente la constatazione di un’integrazione fallita, ma anche l’ansia di non perdere terreno rispetto a una destra xenofoba che a lungo ha alimentato la paura dell’imminente fine di un generoso stato sociale, indicando come prime vittime anziani e disoccupati. “L’immigrazione è costosa, prende risorse da insegnanti, medici, assistenti sociali e influisce su tutto il resto. Non possiamo non renderci conto di questo”, è uno degli slogan più ripetuti dai Democratici svedesi. Che adesso, fiutando un possibile successo elettorale, promettono di finanziare un miliardo di corone (cento milioni di euro), un programma di rimpatri volontari nei paesi di origine. Libia. Raggiunto un accordo per il cessate il fuoco a Tripoli di Monica Guerzoni Corriere della Sera, 5 settembre 2018 L’Onu media la tregua tra le milizie dopo una giornata di scontri alle porte dell: gli obiettivi dell’intesa sono “mettere fine a tutte le ostilità, proteggere i civili, salvaguardare la proprietà pubblica e privata”. Dopo nove giorni di scontri e di sangue a Tripoli si smette di sparare e, anche a Roma, si muove la diplomazia. La missione dell’Onu Unsmil annuncia il cessate il fuoco tra le milizie libiche, un accordo che il ministro degli Esteri, Enzo Moavero Milanesi, considera “importante e significativo”. Nelle stesse ore il governo italiano, spiazzato dall’improvvisa fiammata che ha incendiato la Libia, decide di battere un colpo. Rientrato dalle sue brevi ferie a New York, Giuseppe Conte si è trovato sul tavolo il dossier incandescente della Libia. E ha convocato un vertice a Palazzo Chigi per affrontare con i ministri di Esteri, Interno e Difesa una crisi che mette a rischio enormi interessi italiani sul fronte economico e della sicurezza. Al centro dell’incontro la questione immigrazione, con la necessità di placare le tensioni tra Lega e M5S e trovare un compromesso tra la ruvidezza di toni di Matteo Salvini e il realismo istituzionale di Conte e Moavero, impegnati a ricucire gli strappi e a mediare con l’Europa. A sentire i protagonisti del vertice, l’asse tra Palazzo Chigi e Farnesina ha consentito di mediare tra due linee ritenute complementari. “Se evitiamo straripamenti ed eccessi - ha ammonito Conte - può essere molto positivo questo doppio registro”. Un primo risultato il governo ritiene di averlo ottenuto nei rapporti con Parigi, che ieri ha compiuto un passo formale di riconciliazione. Il nuovo caos - “Gli sforzi della Francia non sono diretti contro l’Italia” rassicura il ministro degli Esteri Jean-Yves Le Drian ed esprime il sostegno dell’Eliseo per la conferenza di Roma sulla Libia, in agenda a novembre. Incoraggiato da Donald Trump, Conte ci punta molto, ma ha capito che è ora di passare dalle parole ai fatti. “Smettiamola con gli annunci e definiamo i dettagli”, ha spronato il premier. La mossa del ministro degli Esteri d’Oltralpe dopo gli sforzi di ricucitura della Farnesina ha convinto Di Maio che fare la voce grossa paga. Il vicepremier del M5S, contrario a “esportare la democrazia con le bombe”, passa all’incasso: “Se Macron la pensa come lui, aprano i porti anche loro”. Il 31 agosto a Vienna i ministri degli Esteri si sono impegnati a trovare una soluzione comune per distribuire tra gli Stati membri i migranti salvati nel Mediterraneo. E ieri il governo italiano ha preso atto “positivamente” dell’intesa, a cui molto hanno lavorato Conte e Moavero. Libia. Fuga in massa da carceri, ora è allarme jihadisti sui barconi di Claudio Cartaldo Il Giornale, 5 settembre 2018 Migranti in fuga dalle carceri e dai centri di detenzione. Tra loro molti terroristi. A rischio gli accordi sul blocco dei barconi. Meno di un mese fa la polizia tunisina e l’antiterrorismo catturarono nove terroristi islamici su un barcone diretto nel Belpaese. Il pericolo jihadista è reale. Chi sosteneva che i miliziani mai sarebbero saliti su un gommone sfidando il mare si è dovuto ricredere. Allora successe a Tunisi, ma ora è la Libia a preoccupare. Ora che a Tripoli è tornata nel caos, la situazione si farà ancora più difficile: il rischio è che la bomba immigrazione riparta. E che con i migranti possano mischiarsi pure i terroristi. Pronti ad approdare in Europa. In fondo solo due giorni fa oltre 400 persone sono evase delle carceri e, fa notare il Messaggero, molte di loro erano considerati jihadisti. Tripoli ha rassicurato sulla loro cattura, ma non è escluso che qualcuno sia sfuggito. Oggi, peraltro, altre 500 persone sono scappate da un centro di detenzione situato sulla strada vicino all’aeroporto di Tripoli. Lì le milizie stanno combattendo una guerra che ha già provocato 50 morti. Se Al Serraj dovesse cadere o se il suo potere dovesse indebolirsi ulteriormente rischia di crollare tutto il castello costruito in questi anni dai governi italiani. Gli accordi di Minniti con la Libia prevedevano il sostegno ad Al Serraj e alla sua Guardia costiera, ma di mezzo c’erano (e ci sono) anche diverse milizie. Senza Serraj come riferimento sarà difficile tenere ancora chiusi i confini. In più bisogna tenere conto anche dell’Europa. È vero che l’Ue ha concesso all’Italia il riconoscimento della zona Sar di competenza libica per intercettare i migranti. Ma alla richieste di Salvini non ha acconsentito a riconoscere Tripoli come un porto sicuro dove riportare gli immigrati. Ora che la situazione sta precipitando, è ancora più difficile che questo accada. La stessa Europa, peraltro, che ancora non ha alzato un dito contro quella che molti considerano una ingerenza di Macron nello scacchiere libico. Stati Uniti. Corte Suprema, scontro in Senato per il giudice vicino a Trump di Paolo Mastrolilli La Stampa, 5 settembre 2018 Le audizioni al Senato per la conferma del nuovo giudice della Corte Suprema Brett Kavanaugh, nominato nei giorni scorsi dal presidente Trump, si sono aperte ieri con una rissa tra repubblicani e democratici. I primi, che hanno la maggioranza, vogliono votare subito la conferma, temendo che le elezioni Midterm di novembre possano cambiare i rapporti di forza in Congresso; i secondi, che oggi non avrebbero i voti per fermare la nomina, chiedono un rinvio del procedimento, perché non hanno ricevuto tutti i documenti sull’operato del nuovo giudice. Kavanaugh è un magistrato della Corte d’Appello di Washington, che aveva servito nella Casa Bianca con Bush figlio. Trump lo ha nominato per prendere il posto di Anthony Kennedy, conservatore ma moderato, allo scopo di garantire che il massimo tribunale Usa conservi una maggioranza conservatrice. Le paure dei democratici I democratici temono che Kavanaugh usi lo scranno per limitare o cancellare il diritto all’aborto, abolire quel che resta della riforma sanitaria “Obamacare”, e proteggere il capo della Casa Bianca dall’eventuale impeachment che potrebbe nascere dal Russiagate e le altre inchieste aperte su di lui. Al momento però l’opposizione non ha i voti per bocciare la nomina, anche perché alcuni senatori democratici di Stati vinti nel 2016 da Trump, come North Dakota, West Virginia e Montana, potrebbero appoggiare Kavanaugh per non urtare gli elettori, dato che a novembre si giocheranno la riconferma. La strategia è quindi boicottare il dibattito, evitando di arrivare al voto, basandosi sul precedente del 2016, quando i repubblicani avevano rifiutato di tenere le audizioni per Merrick Garland, il giudice liberal che Obama aveva nominato al posto del conservatore Scalia. La differenza però è che allora il Gop aveva la maggioranza al Senato, e quindi poteva imporre la propria volontà. I democratici hanno basato la loro richiesta soprattutto sul fatto che non hanno ricevuto tutti i documenti necessari a valutare Kavanaugh. L’amministrazione Trump ha infatti negato loro circa 100.000 pagine di scritti relativi al suo servizio alla Casa Bianca, e solo ieri sera gli avvocati di Bush figlio hanno consegnato 42.000 documenti, senza quindi dare ai senatori la possibilità di leggerli davvero. “Questa - ha dichiarato il rappresentante del Vermont Leahy - è una truffa”. Tra le proteste del pubblico, però, il presidente della Commissione Giustizia Grassley ha rifiutato di rinviare le audizioni, aggiungendo che “Kavanaugh verrà confermato”. Stati Uniti. Il grande sciopero dei detenuti d’America treccani.it, 5 settembre 2018 Una figura maschile che sventola una bandiera con su scritto “strike” e alle sue spalle i volti di un ragazzo afroamericano e di un uomo dai tratti ispanici disegnati sotto lo slogan “End prison slavery!”: è il manifesto dalle tonalità psichedeliche diffuso dal collettivo di carcerati Jailhouse Lawyers Speak per chiamare i detenuti a quello che è forse il più grande sciopero carcerario della storia americana. Vi hanno aderito i detenuti di 17 Stati, che dal 21 agosto e fino al 9 settembre si asterranno dal lavoro o metteranno in atto scioperi della fame, sit-in e opere di boicottaggio. La protesta è sorta in risposta alla “insensata insurrezione”, come viene definita nel comunicato stampa dei promotori, che in aprile ha causato al Lee Correctional Institution, in South Carolina, la morte di 7 detenuti appartenenti a bande rivali costretti nelle stesse celle. Ma origina più in generale dal sovraffollamento e dallo sfruttamento delle carceri statunitensi, in cui è internato in termini assoluti e relativi il numero maggiore di detenuti al mondo: secondo i dati del dipartimento di Giustizia, nel 2016 erano 1.506.800, di cui il 41,3% afroamericani e il 21,1% ispanici, due minoranze che insieme raggiungono il 13,3% della popolazione totale. I detenuti hanno stilato una lista di richieste che include tra l’altro l’abolizione dell’istituto dell’ergastolo senza condizionale, l’istituzione di programmi di rieducazione, la fine all’interno del carcere delle discriminazioni razziali e, appunto, “della schiavitù carceraria”, un riferimento non casuale: il loro lavoro, di cui si servono anche diverse aziende private, è retribuito con meno di 1 dollaro all’ora (e, secondo l’Economist, nel 2016 dalla vendita dei loro prodotti lo Stato federale ha guadagnato 500 milioni di dollari). Quest’estate, poi, l’impiego durante gli incendi in California di 2.000 detenuti “volontari”, allettati da un misero aumento salariale e da qualche beneficio carcerario - ma secondo molti non ben informati riguardo ai rischi -, ha sollevato anche nell’opinione pubblica dubbi sull’opportunità di un compenso dignitoso almeno per i lavori a così alto rischio. Le due date dello sciopero sono simboliche: quella di inizio coincide con l’uccisione nel 1971 nel carcere di San Quintino, in California, dell’attivista delle Black Panther George Jackson; quella di fine con la grande rivolta del carcere di Attica, nello Stato di New York, avvenuta nello stesso anno, in cui persero la vita 29 prigionieri e 10 guardie carcerarie. Le proteste nelle carceri americane non sono infatti nuove, hanno una radicale connotazione razziale e hanno vissuto la loro più intensa stagione negli anni Settanta. Difficilissime da organizzare per via dell’isolamento dei detenuti, spesso impossibilitati a comunicare anche all’interno dello stesso istituto (si narra che i messaggi siano urlati dentro le condutture d’aria), nonché molto pericolose, perché i detenuti possono essere sottoposti a gravi ritorsioni, negli ultimi anni le azioni di protesta non del tutto estemporanee e violente stanno nuovamente prendendo forza: nel 2013, 29.000 carcerati californiani hanno aderito a uno sciopero della fame e, nel 2016, per i 45 anni dalla rivolta di Attica, una protesta ha coinvolto 24.000 detenuti di 50 carceri soprattutto del Sud e del Midwest. Lo sciopero in corso, sostenuto anche da associazioni esterne che hanno contribuito al difficile lavoro di passaparola tra i diversi istituti mediante invio di lettere, organizzazione di sit-in e una copertura mediatica la più ampia possibile affinché gli stessi carcerati ne apprendessero notizia via TV, difficilmente otterrà qualche risposta nell’immediato, ma almeno avrà forse il merito di richiamare l’attenzione dell’opinione pubblica sulle condizioni di sfruttamento dei detenuti. Sud Sudan. Amnesty: “omicidi, torture e sparizioni nell’inferno delle carceri” di Sandro Pintus africa-express.info, 5 settembre 2018 Stroncare l’opposizione con tutti i mezzi. Questa pare essere la parola d’ordine di Salva Kiir, presidente del Sudan del Sud. “Le persone sono arrestate per le loro affiliazioni politiche e in base all’appartenenza etnica - denuncia Seif Magango, vicedirettore di Amnesty International per il Corno d’Africa e la Regione dei Grandi Laghi - Per mano delle forze di sicurezza del governo sono sottoposte a sofferenze inimmaginabili, a volte fino alla morte”. Secondo una nota dell’ong che difende i diritti umani, quattro uomini arrestati nel 2014 sono deceduti in carcere nel 2017 a causa delle torture, delle difficili condizioni carcerarie e delle inadeguate cure mediche. Si chiamavano Mike Tyson, Alison Mogga Tadeo, Richard Otti e Andria Baambe. Erano prigionieri nelle galere sud sudanesi per presunta appartenenza all’opposizione. Si aggiungono ad almeno altri 20 detenuti morti di stenti e torture nell’inferno delle carceri del giovane Paese africano. Eppure il presidente Kiir, nel marzo 2017, si era impegnato a rilasciare i prigionieri politici entro il 30 agosto dello stesso anno. Poi ha cambiato idea e spostato la data al dicembre 2017 in occasione della firma dell’accordo di cessazione delle ostilità. E l’ha rimandata ancora una volta decidendo per il mese di giugno 2018 al momento della firma della Dichiarazione dell’accordo di Khartoum tra le parti del conflitto. Nell’ultimo report di Amnesty pubblicato oggi intitolato “A trail of broken promises” (Una scia di promesse non mantenute), si trova il terrificante racconto di ex detenuti. Obbligati a bere acqua del gabinetto o picchiati con spranghe di ferro; raramente venivano fatti uscire dalle loro celle per vedere la luce del sole ed era loro vietato parlare con altri prigionieri. Ad alcuni veniva dato il cibo una volta al giorno, ad altri qualche volta alla settimana e venivano torturati con i cavi elettrificati finché svenivano. Ex detenuti hanno raccontato che alle loro famiglie e agli avvocati difensori è stato negato l’accesso al carcere. In alcuni casi, le autorità, in modo deliberato, hanno trasferito i detenuti in altra struttura detentiva per impedire che le famiglie e gli avvocati li trovassero. Una delle ultime vittime del regime dittatoriale di Salva Kiir è Peter Biar Ajak. Accademico laureato ad Harvard e attivista sud sudanese, è presidente del Forum dei Giovani leader del Sud Sudan. Biar Ajak è stato arrestato lo scorso 28 luglio all’aeroporto internazionale di Juba mentre stava per partire per Aweil, nel nord-ovest del Paese. Doveva partecipare a un incontro del Forum da lui organizzato. L’accademico è in carcere a Juba nel quartier generale delle forze di sicurezza sud sudanesi senza conoscere i motivi del suo arresto e gli è stato impedito incontrare il suo avvocato. Il Sudan del Sud è il 54esimo Stato africano e il più giovane. Ha conquistato l’indipendenza da Sudan con un referendum il 9 luglio 2011 passato con oltre il 98 per cento. Dal dicembre 2013 è in atto una guerra civile tribale tra l’etnia dinka, rappresentata dal presidente Salva Kiir, e l’etnia nuer, dell’ex vicepresidente Riek Machar. Si stima che il conflitto abbia causato circa 50 mila morti e quattro milioni di sfollati. Il 29 agosto scorso è stato firmato il trattato di pace tra le parti in lotta. Reggerà? Iran. Studentessa condannata a 7 anni di carcere e 74 frustate gaiaitalia.com, 5 settembre 2018 Parisa Rafiei, studentessa di fotografia dell’Università di Teheran - appena ventunenne - è stata condannata a sette anni di carcere e 74 frustate. Secondo quanto denuncia l’avvocato di Parisa, Saeed Khalili, la ragazza è accusata di “minaccia alla sicurezza nazionale” e “propaganda contro lo Stato” per aver preso parte alle proteste popolari contro il regime - soprattutto contro la corruzione nel sistema finanziario - all’inizio del 2018. Parisa Rafiei è stata arrestata il 25 febbraio 2018 dagli agenti del Ministero dell’Intelligence iraniano (Mois), Ministero che dipende direttamente dal Presidente Rouhani. Parisa è stata rilasciata solamente dopo tre settimane di isolamento e dopo aver pagato una condizionale. Secondo quanto riportato dalle agenzie e dalle Ong, almeno 150 studenti universitari sono stati arrestati tra la fine del 2017 e l’inizio del 2018, per aver protestato a manifestazioni popolari. Di questi, a meno di un anno dal loro arresto, almeno 22 sono stati condannati a dure pene detentive. Secondo quanto ammesso dalla parlamentare iraniana Parvaneh Salahshouri, il Ministero dell’Intelligence iraniano è direttamente coinvolto in tutte le fasi delle persecuzioni contro questi studenti.