Il taser nelle carceri? Idea da paura di Piero Colaprico La Repubblica, 4 settembre 2018 Da “non professionisti” della sicurezza non ci va d’intervenire sulle questioni che riguardano l’autodifesa delle forze di polizia. Sapranno loro. Ma abbiamo memoria e antiche letture, questo sì, lo possiamo rivendicare. E allora l’idea del sindacato degli agenti di Polizia penitenziaria, che dentro il “Beccaria” chiedono di usare il Taser, la pistola elettrica, ci sembra molto, molto rischiosa. Come mai dentro San Vittore non c’è un’arma da decenni? Diciamo da sempre? Perché c’è sempre o un agente corrotto, o un agente distratto, o un agente che sbaglia a fidarsi. O no? Quindi introdurre armi (o telefoninì) nelle carceri, equivale a dare ai detenuti minorenni una possibilità, forse una tentazione di scappare, di vendicarsi, di ribellarsi. In un luogo chiuso, com’è un corridoio, o una cella, non si può arretrare e “sparare”: non esiste una via per farcela senza danni quando scatta la “colluttazione”. Se i nuovi ministri sono favorevoli al Taser, noi - e siamo sinceri - non vorremmo un giorno scrivere: l’avevamo scritto che era follia. Sigaretta elettronica nelle carceri, per tutelare la salute anche dei non fumatori di Stefano Caliciuri svapo.it, 4 settembre 2018 L’introduzione della sigaretta elettronica nelle carceri è tra le priorità politiche dell’associazione Progetto Firenze. A cominciare dall’istituto penitenziario di Sollicciano. Massimo Lensi, promotore dell’iniziativa, lo ha detto nel corso della conferenza stampa di presentazione delle attività associative. “Consentire l’utilizzo della sigaretta elettronica nelle carceri è una nostra battaglia che segue gli altri piccoli grandi successi che siamo riusciti ad ottenere per tutelare le condizioni di vita dei detenuti: la consegna di trecento ventilatori e la riapertura dei passeggi per avere l’ora d’aria durante l’estate. Ultimamente, insieme a Vincenzo Donvito, stiamo facendo una battaglia piccola ma significativa per avere all’interno del carcere la possibilità per i detenuti di usufruire della sigaretta elettronica. Gli studi sanitari di Sollicciano ci dicono che una delle principali cause di malattie nel carcere sono le malattie dell’apparato respiratorio; la sigaretta elettronica - è ormai dimostrato - aiuta a uscire dal tabagismo e ad impedire che col fumo passivo si faccia male anche a coloro che non fumano. È una battaglia - conclude Massimo Lensi - che stiamo impostando e ci appelliamo al provveditore e all’assessorato alla sanità della Regione Toscana perché si faccia partire quanto prima un progetto pilota anche sulle sigarette elettroniche in carcere. Una cosa semplice che costa anche poco”. Circa due anni fa, il direttore del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria Santi Consolo e il Ministero della Salute diedero il via libera all’introduzione della sigaretta elettronica nelle carceri. Ma intoppi tecnici e burocratici arenarono il progetto poiché non si trovano sigarette elettroniche che non necessitano di fili per essere caricate. “Ilaria Cucchi non attacchi più la polizia penitenziaria” di Donato Capece Il Dubbio, 4 settembre 2018 Spettabile Redazione, chiedo la cortesia esprimere alcune considerazioni dopo avere letto l’articolo, e soprattutto il titolo, pubblicati da Il Dubbio del 30 agosto scorso - “Tra Cucchi e la luna il Festival parte anche con le polemiche”. In una parte dell’intervista, Valentina Stella chiede alla signora Cucchi un commento sull’iniziativa del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe che ha ricordato al giornalista del Corriere della Sera, Pierluigi Battista, un dato oggettivo: tutti gli appartenenti al Corpo di Polizia Penitenziaria indagati nella triste vicenda del fratello Stefano sono stati assolti in tutti e tre i gradi di giudizio ed è quindi sbagliato citare il carcere in relazione alla morte di Stefano Cucchi. Il commento di Ilaria Cucchi è stato: “Battista faceva un discorso molto più ampio rispetto a quello che sostiene Donato Capece del Sappe. Battista scrive di violazione dei diritti dei cittadini privati della libertà personale in stato di detenzione: ciò è intollerabile. Poi leggo che Capece esprime solidarietà a me e alla mia famiglia. Sinceramente tutta questa solidarietà non la vedo: lui insieme ad altri suoi colleghi è imputato per averci offeso”. Considerata l’approssimazione e la genericità delle notizie divulgate, sono doverose alcune precisazioni Da subito esprimemmo solidarietà alla famiglia Cucchi, come riteniamo sia giusto sempre fare quando un lutto colpisce negli affetti più cari, dichiarandoci, allo stesso tempo, fiduciosi nell’operato della magistratura e certi che il personale di Polizia Penitenziaria in servizio nelle celle di sicurezza di piazzale Clodio a Roma non avesse nessuna responsabilità nella tragica vicenda di Stefano Cucchi. In una intervista da me rilasciata alla trasmissione radiofonica La zanzara di Radio24, espressi tra le altre l’opinione che la famiglia non fosse stata abbastanza vicina allo sfortunato ragazzo deceduto all’ospedale Pertini nel 2009. Per questa affermazione la signora Ilaria Cucchi, sorella di Stefano, ritenne di essere stata offesa e presentò l’ennesima querela. All’esito delle indagini susseguenti, il Pubblico Ministero titolare dell’azione penale ha chiesto l’archiviazione del procedimento ritenendo la notizia di reato infondata o comunque non idonea a sostenere l’accusa in giudizio. A seguito dell’opposizione della Cucchi alla richiesta di archiviazione il Giudice per le indagini preliminari ha disposto al PM di formulare comunque la richiesta di rinvio a giudizio. Allo stato attuale, quindi, è necessario attendere l’Udienza Preliminare per formalizzare l’eventuale rinvio a giudizio al quale, ovviamente, il mio legale si opporrà. Per tale ragione, allo stato, io non sono affatto “imputato” di nulla come la signora Cucchi vuole far credere. Condividiamo pienamente, infatti, la valutazione del Pubblico Ministero e riteniamo, senza ombra di dubbio, che la querela presentata dalla signora Cucchi sia assolutamente infondata, come del resto la precedente che ha presentato nei nostri confronti. A questo punto, per dovere di cronaca, ma anche per delineare meglio il modus operandi della signora Cucchi, voglio ricordare che in occasione della querela che, a nostra volta, abbiamo presentato nei confronti della signora Cucchi in altra circostanza, il Pubblico Ministero nel chiedere l’archiviazione osservò come, in quella circostanza, la signora Cucchi travisò la situazione a causa della sua situazione personale, che la indusse a interpretare negativamente l’operato delle forze dell’ordine. Ma, soprattutto, osservò che “una maggiore prudenza da parte della Cucchi nel formulare giudizi tranchant sull’agire della Polizia Penitenziaria, prima di rilasciare interviste esponendo come verità rivelata la propria interpretazione degli eventi, sarebbe stata cosa corretta e rispettosa dell’altrui sensibilità, atteso che la Polizia Penitenziaria, intervenuta su richiesta di cittadino, si è vista accusare di comportamenti gravi e illeciti ingiustamente”. Maggiore prudenza che, invece, non abbiamo affatto riscontrato da parte sua, perché riteniamo di continuare a subìre un particolare accanimento da parte della signora Cucchi nei confronti miei personali, del Sappe e del Corpo di Polizia Penitenziaria più in generale. Soltanto noi, infatti, e gli sfortunati colleghi che sono rimasti coinvolti nella vicenda, ricordiamo l’acrimonia, l’astio e il livore con cui la Signora Cucchi parlava ingiustamente dei poliziotti penitenziari. Quella stessa acrimonia con la quale presentò una denuncia nei confronti dal film e dalla campagna mediatica messa in piedi dalla Cucchi a sostegno e supporto della vicenda processuale. Nessuno si scandalizzi per quello che stiamo dicendo, perché bisogna essere consapevoli che nessuna vicenda al mondo, per quanto tragica possa essere, può conferire a chicchessia la “licenza” di poter dire quello che vuole contro tutto e contro tutti. Insomma, crediamo sia arrivato il momento in cui la signora Cucchi lasci definitivamente in pace la Polizia Penitenziaria, che nella triste vicenda di Stefano non ha alcuna responsabilità. *Segretario Generale Sappe Giustizia: un collasso che non si cura con tweet e annunci di Valter Vecellio lindro.it, 4 settembre 2018 Tutti ricordano le parole del presidente del Consiglio Giuseppe Conte, all’indomani della tragedia del ponte Morandi a Genova: “Non ci si può permettere il lusso di attendere i tempi lunghi, lunghissimi della giustizia italiana; e che qualcosa va fatta subito”. Senza attendere che la magistratura accerti le indubitabili responsabilità per l’accaduto, occorre revocare subito alla società che gestisce quell’autostrada, la licenza. Senza indugiare, dare subito un segnale. Una posizione che non è del solo Conte: prontamente, e convintamente, l’hanno fatta loro anche i dirigenti e i leader del Movimento 5 Stelle. Qualche giorno dopo, alla notizia di essere stato indagato per la vicenda della nave “Diciotti” e i suoi profughi, il ministro dell’Interno Matteo Salvini reagisce da par suo; e tra i vari stupori che esprime c’è quello del cittadino indignato per il fatto che in questo paese vi sono milioni di processi che non vengono celebrati, che rischiano di andare al macero per prescrizione, che per la vicenda di Genova non ci sono ancora indagati, e si perde tempo con lui. Fermiamoci qui, e senza entrare nel merito delle singole affermazioni, se non per sottolineare il fatto che Conte si mostra consapevole che i tempi della giustizia sono lunghi; al punto che non si può attendere i suoi scadenzari. E il ministro dell’Interno sa che migliaia di processi vanno in fumo per questi tempi lunghi. Bene, che ci si aspetta che facciano. Magari che ci spieghino che cosa intendano fare come azione politica urgente e necessaria per superare questa situazione. E invece nulla. Dopo le prime dichiarazioni, i primi tweet, il nulla. Si è convocato un consiglio dei ministri con all’ordine del giorno: i tempi lunghi della giustizia italiana, come contenerli? Il ministro della Giustizia, per quel che è di sua responsabilità e compito, si è attivato? Ha fatto e vuole fare qualcosa? E i due partiti di maggioranza, Lega e Movimento 5 Stelle, che intendono fare, che fanno? A quel che è dato sapere, niente, non si fa nulla; dietro una valanga di dichiarazioni e tweet, non c’è nulla. È questo “nulla”, questo “niente”; questo non saper “fare” e non voler “fare” che inquieta, preoccupa; che dovrebbe essere contestato, rimproverato, costituire atto di accusa: un’inerzia grave, un’indifferenza colpevole. E invece anche da chi dovrebbe e potrebbe “nulla”, “niente”. Altro che lambiccarsi a cambiare il nome, se sotto il nuovo vestito, come per quello vecchio, resta questo “nulla”, questo “niente”. Da Maurizio Mosca a Bracardi, ecco a chi si ispira Di Maio sulla giustizia di Luciano Capone Il Foglio, 4 settembre 2018 “Non aspetteremo i tempi della giustizia”, perciò “in galera!”. Di Maio di reddito di cittadinanza viene in mente, si parva licet, quel fenomeno del giornalismo e dell’avanspettacolo sportivo di Maurizio Mosca che, dopo una telefonata di un telespettatore molesto che l’accusava di essere “stato visto in piazza Aspromonte comprando 500 mila lire di cocaina”, passati i 5 minuti di un intervallo pubblicitario, annunciava solennemente: “Quel signore di prima, che ha lanciato un’accusa grave e gratuita nei miei confronti, è stato già arrestato! Abbiamo i telefoni controllati, abbiamo già mandato la polizia a casa di questo signore, che è stato già arrestato. Dovrà rendere conto di quello che ha detto, provare, documentare… intanto adesso è in galera!”. Ecco, più o meno questo è il succo del dialogo - molto più amichevole rispetto a quello di Mosca con l’anonimo disturbatore - tra Peter Gomez e Di Maio alla festa del Fatto quotidiano a Marina di Pietrasanta: “Come farete a scoprire coloro che chiederanno il reddito di cittadinanza e hanno un lavoro in nero?”, chiede il giornalista. “Chi froderà per avere il reddito rischierà fino a sei anni di galera - risponde il ministro del Lavoro e dello Sviluppo economico - Gli strumenti per controllare ci sono, però vanno usati meglio”. Ecco però che Gomez incalza: “Ma come pensate di beccare un ragazzo che lavora di sera in pizzeria? E poi i tempi della giustizia li conosciamo…”. Nessun problema: “Non aspetteremo i tempi della giustizia - risponde Di Maio - faremo come abbiamo già fatto con Autostrade”. E qui, evidentemente tranquillizzato dalla soluzione in stile Maurizio Mosca, si fermano le obiezioni di Gomez al vicepremier. Non si capisce bene di quale reato sarebbero colpevoli i camerieri che percepirebbero indebitamente il reddito di cittadinanza per meritarsi fino a 6 anni di carcere. L’indebita percezione di erogazioni a danno dello stato è punita fino a 3 anni, la truffa ai danni dello stato è punita fino a 5 anni, forse in questo caso siamo di fronte all’errore determinato dall’altrui inganno (art. 48 cp) che in questo caso - l’errore - sarebbe la falsità ideologica commessa dal pubblico ufficiale in atti pubblici (art. 479 cp), che è appunto punito da 1 a 6 anni. Ma probabilmente non siamo di fronte a nulla di tutto ciò, perché un governo che non aspetta i tempi della giustizia, evidentemente, non avrà perso tempo a leggere il codice penale. In questo, come in tantissimi altri casi per cui sono invocate pene prima delle sentenze, l’indirizzo del governo verso ciò che va purificato segue l’indirizzo della crociata contro gli albigesi: “Uccideteli tutti! Poi Dio riconoscerà i suoi”, si diceva allora. “Arrestateli tutti! Poi la giustizia farà il suo corso”, si dice adesso. Che qualcosa non stesse cambiando per il verso giusto con il nuovo governo del cambiamento bisognava capirlo già dal giorno della fiducia, quando il presidente autonominatosi “avvocato del popolo” Giuseppe Conte disse al Parlamento che il governo avrebbe agito rispettando il principio costituzionale della “presunzione della colpevolezza”. Solo un lapsus, colpevolezza al posto di innocenza, e Freud ha insegnato cosa può esserci in un semplice lapsus. Ora si dice: “Non aspetteremo i tempi della giustizia”. È la massima di governo, che ha acquistato piena cittadinanza, accolta così morbidamente che ormai non solo non suscita lo scandalo di nessuno, ma neppure un sopracciglio alzato. Domanda: ma come risolvete quel problema (l’immigrazione clandestina, i furti, gli stupri, la corruzione, le autostrade, le frodi o qualsiasi altra cosa a piacere)? “Non aspetteremo i tempi della giustizia”, è la risposta. Sempre quella. È un mantra che ha sostituito una formula molto in voga nei decenni passati, che era: “Bisogna garantire la certezza della pena”. Dicevano tutti così, da destra a sinistra. Al fondo, intimamente in chi lo diceva, o come sottinteso per chi l’ascoltava, c’era comunque l’idea che bisognasse mettere più gente in galera. Certezza della pena, si diceva, non a caso, e non “certezza del diritto”. Però, con questa formula, almeno la forma era salva. Se era stata stabilita una pena - che i politici volevano “certa”, qualsiasi cosa questo aggettivo volesse dire - si presupponeva che ci fosse stato un processo, che si presumeva giusto, e un giudizio, che si ipotizzava equo. Con il “non aspetteremo i tempi della giustizia” di Luigi Di Maio e del suo governo del cambiamento, tutto questo ragionamento implicito salta. Si passa dal diritto dei brocardi a quello di Bracardi, il personaggio che - ai tempi in cui Maurizio Mosca arrestava i telespettatori - cantava: “In galera!”. Ecco il ddl Bonafede: “Daspo a vita per i corrotti” di Giulia Merlo Il Dubbio, 4 settembre 2018 Nome provvisorio, “legge Bonafede”, punto chiave: Daspo perpetuo per i corrotti. Anticipato da Repubblica, il disegno di legge sulla giustizia che porta il nome del Guardasigilli potrebbe approdare già in settimana al Consiglio dei Ministri e il fulcro del provvedimento saranno le misure contro la corruzione. “Il disegno di legge a breve andrà all’esame delle Camere”, ha garantito il vicepremier Luigi Di Maio, a ulteriore dimostrazione di come il Movimento 5 Stelle consideri centrale nella realizzazione del programma di governo la riforma della giustizia. Il termine Daspo, mutuato dalla misura che vieta per 5 anni ai tifosi violenti l’ingresso allo stadio, entrerà nel codice penale. Nel disegno di legge del ministro, però, gli imprenditori condannati per corruzione subiranno un Daspo perpetuo, ovvero il divieto di ottenere contratti o dal fare affari con qualsiasi pubblica amministrazione. A nulla, dunque, varranno la riabilitazione o l’affidamento con esito positivo ai servizi sociali. Il Daspo rimarrà come elemento accessorio della pena anche nel caso in cui l’imputato patteggi o ottenga la sospensione condizionale. Insomma, un’interdizione perpetua per chi paga mazzette per ottenere appalti. La misura, considerata fiore all’occhiello dal ministro, è stata paragonata alle leggi eccezionali contro la mafia dopo le stragi del 1992. La lista di reati - Il Daspo perpetuo e l’interdizione perpetua dai pubblici uffici verrà applicata ai seguenti reati: malversazione aggravata dal danno patrimoniale grave, corruzione nell’esercizio della funzionale; corruzione propria; induzione indebita a dare o promettere utilità; corruzione attiva; istigazione alla corruzione; peculato; concussione; abuso d’ufficio aggravato dal vantaggio o dal danno di rilevante gravità; traffico di influenze illecite. Oggi, l’articolo 29 del codice penale dispone l’interdizione perpetua dai pubblici uffici solo nel caso di condanna “all’ergastolo” e “alla reclusione per un tempo non inferiore a cinque anni”. Lo stesso vale per il divieto di ottenere contratti con la pa, che attualmente dura per un massimo di cinque anni e interessa chi ha subito una condanna superiore a 2 anni. Altra novità, l’agente sotto copertura per spiare dall’interno attività criminali e per rendere più efficaci le indagini. Attualmente, l’agente sotto copertura può essere utilizzato solo nell’ambito di indagini sul traffico di droga, terrorismo e mafia, ma il disegno di legge punta a introdurli anche per i reati contro la pubblica amministrazione. Accantonato, almeno per ora, sembra invece l’agente provocatore, ipotizzato dall’ex presidente dell’Anm, Piercamillo Davigo e fortemente criticato dal Presidente dell’Autorità Anticorruzione, Raffaele Cantone. Appropriazione indebita - Il disegno di legge dovrebbe contenere anche il ripristino della procedibilità d’ufficio per il reato di appropriazione indebita, cancellata dal governo Gentiloni con un decreto legislativo deliberato dal Cdm il 21 marzo e poi varato il 10 aprile. “Rivoluzionaria” - Il ministro Bonafede ha definito il disegno di legge “una riforma straordinaria”, perché “tutti devono sapere che ci si può fidare del nostro Paese, che si può investire senza il timore di essere danneggiati da chi usa la corsia preferenziale della corruzione”. Ogni riforma sul fronte del termine di prescrizione, invece, slitta almeno a dicembre. Stessa sorte, anche per le intercettazioni. La riforma scritta dall’ex Ministro Andrea Orlando è stata indirizzata su un binario morto e la cui entrata in vigore è stata prorogata al 2019 con il decreto Milleproroghe. Legittima difesa - La modifica alla legittima difesa particolarmente cara alla componente leghista del governo - non è prevista dal disegno di legge di Bonafede ma è tutt’altro che dimenticata. Il vicepremier Matteo Salvini ne ha parlato nel suo intervento alla Berghem fest, definendola “il suo obiettivo” : “Ce la metterò tutta e ho buone motivazioni per dire che ce la possiamo fare: entro la fine di quest’anno la legittima difesa sarà legge”. “Falsa partenza” per l’Anticorruzione di Dino Martirano Corriere della Sera, 4 settembre 2018 Bonafede illustra al governo il ddl con il Daspo perpetuo. Ma la decisione slitta. I dubbi della Lega. Il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede (M5S) era pronto con i sei articoli del disegno di legge anticorruzione che prevede la linea dura: l’introduzione del “Daspo” perpetuo per gli imprenditori condannati per reati contro la pubblica amministrazione e introduzione dell’agente sotto copertura nelle indagini sugli appalti finanziati dallo Stato. Il Guardasigilli e lo staff legislativo di via Arenula, in vista del Consiglio dei ministri che ieri si è riunito dopo la pausa estiva, aveva anche sottoposto il provvedimento a una serie di “stress test” per misurarne la tenuta giuridica e costituzionale. Tuttavia, la prova più difficile per il disegno di legge anticorruzione - quella politica, con la Lega di Matteo Salvini - è stata rimandata a giovedì o venerdì, a un’altra seduta del consiglio. Ieri, infatti, a Palazzo Chigi non c’erano il premier Giuseppe Conte e il vicepremier Luigi Di Maio. Il ministro della Giustizia è stato poi costretto a spartire il poco tempo a disposizione (50 minuti) con il collega Toninelli che riferiva sugli sviluppi del dossier Autostrade. Bonafede ha confermato la “volontà politica di dare una lezione forte ai corrotti”: prevedendo che il “Daspo” per gli imprenditori cui vengono inflitte pene definitive superiori ai due anni sia mantenuto pure se interviene la successiva riabilitazione del condannato. Ma la giornata, dominata dalla crisi libica, non ha consentito di varare (anche “salvo intese”) il ddl anticorruzione: sul fronte leghista è immaginabile che la base elettorale nelle regioni del Nord (imprenditori, partite Iva, agricoltori, artigiani) chieda ora un approfondimento sebbene, replicano i grillini, il “Daspo perpetuo è nel contratto di governo”. Sul tema, si limita a commentare il sottosegretario alla Giustizia Jacopo Morrone (Lega), “non abbiamo ancora messo il becco...”. Sul calendario parlamentare d’autunno, poi, ci potrebbe essere una sorpresa: il decreto legge sicurezza targato Salvini, che renderà più difficile presentare le domande di asilo politico (in arrivo tra 15 giorni in Consiglio dei ministri) alla fine potrebbe superare il ddl Bonafede. Il senso profondo delle violenze contro le donne di Dacia Maraini Corriere della Sera, 4 settembre 2018 Chi stupra non se ne rende conto, ma si sta vendicando contro qualcosa che trova intollerabile: l’ offesa a una idea arcaica di virilità. Una donna tenuta chiusa in una cassetta di mele per mesi e poi abbandonata in strada, una ragazzina drogata e seviziata da due energumeni. La cronaca ci carica ogni giorno di notizie terribili. Molti si chiedono il perché di tanta violenza contro le donne e la risposta è: viviamo il degrado di una cultura che ha perso il senso della responsabilità, una cultura in cui ciascuno fa quello che crede senza mai riflettere sulle conseguenze. Certamente è vero che stiamo scivolando in una crisi etica che, se non stiamo attenti, finirà in qualche guerra atroce. Così succede nella storia quando gli esseri umani perdono il senso della convivenza, che si chiama civiltà. Al degrado culturale ed etico che sta sommergendo come uno tsunami il mondo intero, però aggiungerei una reazione tutta maschile alle nuove conquiste delle donne. Chi stupra non se ne rende conto, ma si sta vendicando contro qualcosa che trova intollerabile: l’ offesa a una idea arcaica di virilità. Purtroppo si tratta di un sentimento diffuso che ha radici nel razzismo, se per razzismo intendiamo la paura e l’insofferenza nei riguardi del diverso. Il sentimento è naturale, animalesco, ma noi ci pretendiamo differenti, superiori e migliori rispetto agli animali, noi ci diciamo figli di Dio, fratelli di un Cristo che ha detto “Ama il prossimo come te stesso”. Come tutti i razzismi, anche quello contro le donne nasce da una idea costruita di identità, dal bisogno di mostrare la propria forza proprio quando ci si sente deboli e sopraffatti. Per molti uomini l’autonomia sessuale delle donne risulta intollerabile: la sentono come un attentato alla loro identità. La cultura, anche quella religiosa, ha inventato la colpevolezza delle donne e l’ha spesso teorizzata. Da qui il sentimento di liceità di certi comportamenti che alla coscienza obnubilata appare lecita: “Io colpevole? ma neanche per sogno, l’ha voluto lei!”. Troppo spesso le violenze suonano come punizioni per le nuove libertà femminili: anche quelle semplici di uscire la notte, di bere, di ballare, di decidere con chi amoreggiare. Per gli uomini saggi (ce ne sono ancora molti per fortuna) i cambiamenti sociali possono essere dolorosi, ma vanno accettati. Per i più deboli e spaventati, i cambiamenti sono visti solo come minacce e cercano rivalsa. Ma la cosa più grave è che fra chi dovrebbe dare il buon esempio c’è qualcuno che soffia sul fuoco delle paure e crea una atmosfera di scontro grave e pericolosa. Inchiesta su Salvini, ora cade l’ipotesi di “arresto illegale” dei 177 migranti di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 4 settembre 2018 Diciotti, vertice dei pm per decidere quali richieste trasmettere al tribunale dei ministri La Procura potrebbe chiedere accertamenti anche su altri membri del governo. Il problema è dover decidere senza poter fare indagini, ma è ciò che prescrive la legge. Sia per quanto riguarda i reati da contestare al ministro dell’Interno Matteo Salvini, sia per chi dovrà eventualmente giudicarlo. Per questo di qui alla fine della prossima settimana il procuratore di Palermo Franco Lo Voi, l’aggiunto Marzia Sabella e gli altri magistrati dell’ufficio dovranno studiare le carte arrivate dalla Procura di Agrigento e stabilire con quali richieste trasmettere gli atti al tribunale dei ministri nel procedimento a carico del titolare del Viminale finito sotto inchiesta (insieme al capo di gabinetto Matteo Piantedosi) per il trattenimento illegittimo di 177 migranti a bordo della nave militare Diciotti. E ieri, al secondo piano del palazzo di giustizia, ci sono state le prime, lunghe riunioni. Il procuratore di Agrigento Luigi Patronaggio ha individuato cinque possibili accuse - al termine di una breve istruttoria, necessariamente incompleta poiché anche lui s’è dovuto fermare di fronte alla supposta responsabilità ministeriale - ma alcune sono alternative tra loro. A cominciare dalle più gravi. Il sequestro di persona “semplice”, ad esempio, cadrebbe se venisse confermato il sequestro di persona “a scopo di coazione”, introdotto con il recente articolo 289-ter del codice penale; reato punito con una pena più pesante, che rientra nella categoria dei “delitti contro la personalità dello Stato” (quelli solitamente contestati ai terroristi) e finirebbe per assorbire l’altro tipo di sequestro compreso fra i “delitti contro la persona”. Inoltre, un’eventuale imputazione per il 289-ter potrebbe non rimanere confinata al solo Salvini, giacché il presunto “ricatto” agli organismi europei per costringerli a farsi carico dei migranti “sequestrati” a bordo della Diciotti sarebbe stato rafforzato dalle contemporanee o successive dichiarazioni di altri componenti del governo: il presidente del Consiglio Conte, l’altro vicepremier Di Maio, il ministro dei Trasporti Toninelli. Sono ipotesi da valutare sulla base degli elementi già raccolti, fatta salva l’autonomia dell’attività politica e di governo; è dunque possibile che nel suo ruolo “classificatorio, sollecitatorio e di impulso”, (così lo definisce la dottrina) la Procura chieda al tribunale dei ministri di prenderle in considerazione attraverso ulteriori accertamenti che solo a quell’organismo sono consentiti. Un altro reato inizialmente considerato dalla Procura di Agrigento era l’arresto illegale, che però è stato escluso poiché presuppone l’esistenza di un provvedimento (l’arresto, per l’appunto) che in questo caso non c’è. Anzi, l’accusa di sequestro deriva proprio dal fatto che i migranti sono stati costretti a rimanere sulla Diciotti in assenza di un provvedimento motivato di chicchessia; tutto sarebbe avvenuto, secondo ciò che è stato ricostruito finora, sulla base di ordini e indicazioni trasmesse a voce. Gli altri reati configurati, omissione di atti d’ufficio e abuso d’ufficio, sono “residuali”; in particolare il secondo, previsto quando non sussistano accuse più gravi. E in tal caso il peso anche politico di tutta la vicenda verrebbe ridimensionato. Ma non sono queste le preoccupazioni di una Procura che deve limitarsi a un “preventivo inquadramento giuridico della fattispecie” prima di trasmettere il fascicolo al tribunale dei ministri, il quale diventerà il dominus e deciderà in totale autonomia. Anche sui capi d’imputazione e sulla competenza: se il trattenimento dei migranti (illegale perché non dovuto a motivi tecnici o di altra natura) è cominciato al largo di Lampedusa il giudizio spetterà ai giudici di Palermo; se invece il mancato approdo era giustificato e l’ipotetico sequestro si è verificato a Catania, allora le carte dovranno ripartire per la città etnea. Dove, eventualmente, un altro tribunale dei ministri dovrà rivalutare tutto daccapo. Sullo spacciatore del Gambia si è fatto dire ad una sentenza il suo esatto opposto di Bruno Tinti Italia Oggi, 4 settembre 2018 Le sciocchezze pubblicate sul web e su qualche quotidiano in merito alla decisione del Tribunale della Libertà di Milano di scarcerare uno spacciatore originario del Gambia, puntualmente riprese da Matteo Salvini, alimentano la disinformazione. Salvini ha pubblicato un post in cui dice: “Roba da matti. Un immigrato del Gambia, con precedenti penali, beccato a spacciare morte, è stato scarcerato perché per i giudici del tribunale di Milano: “Vendere droga è la sua sola fonte di sostentamento”. Poverino”. Tutto falso. Ma ci sono stati 18.758 commenti, 22.985 condivisioni e 68.896 faccine con la boccuccia e gli occhioni spalancati, che vuol dire “non è possibile! Non ci credo!” L’unica cosa vera è che il Tribunale del Riesame di Milano ha ordinato la scarcerazione di un certo Buba, spacciatore professionista e, quel che più conta, immigrato dal Gambia. Il Gip aveva convalidato l’arresto per via di precedenti specifici e quindi per impedire la reiterazione del reato. Gli avvocati hanno fatto ricorso: aveva 5 pasticche di ecstasy, troppo poche per ritenere applicabile il primo comma dell’articolo 73 del Testo Unico sulla droga, che prevede la reclusione da 6 a 20 anni. Poi la consueta strategia difensiva: uso personale, comma 5 bis, niente prigione; in subordine modica quantità, comma 5, reclusione fino a 4 anni, non consentita la carcerazione preventiva. E qui la cosa si è fatta difficile da capire per i faziosi. Cinque pasticche sono modica quantità. Lo ha da anni spiegato la Cassazione. Migliaia di spacciatori recidivi hanno beneficiato di questa giurisprudenza e hanno evitato carcerazione preventiva e pene intorno ai 10 anni di reclusione. Non avrebbe avuto senso disapplicarla solo perché il loro collega Buba è un immigrato. Quindi niente articolo 73 primo comma e niente immediato arresto e carcerazione preventiva. Ma cinque pasticche si possono detenere per uso personale o per spaccio. Nel primo caso, la pena va fino a 4 anni di reclusione, nel secondo non si va in galera. Quindi il Tribunale ha dovuto affrontare il problema ed escludere che Buba detenesse le pasticche per suo uso personale. Da qui l’argomentazione: “Vendere droga è la sua sola fonte di sostentamento e lo spaccio appare l’unico modo per mantenersi”. In altri termini: questo tizio non lavora, ha precedenti per spaccio, dunque si mantiene vendendo droga; ed è ragionevole pensare che anche in questo caso le pasticche le detenesse a questo scopo. Un esperto della materia avrebbe apprezzato lo sforzo fatto dal Tribunale per “incastrare” Buba; perché, a dirla tutta, questa argomentazione è un po’ forzata: si chiama “deduzione sfornita di valida prova”. Però, o così, oppure ammettere la detenzione per uso personale e la conseguente sostanziale impunità. Allora, comma 5, detenzione di modica quantità di droga a fine di spaccio. E qui carta canta, come si alce; con una pena edittale non superiore a 4 anni, la carcerazione preventiva non è ammessa. A me pare una stupidaggine, se ci sono valide prove, comunque in galera il tizio ci deve finire, quindi perché non arrestarlo subito? Però la politica ha deciso diversamente, nel suo costante tentativo di impedire interventi rapidi ed efficaci della giustizia penale. Oggi avrebbero fatto comodo, per Buba; ma per molti reati contro la Pubblica amministrazione (articoli 316 - forme attenuate di peculato, 316 bis - malversazione di contributi e sovvenzioni statali ed europee, 316 ter - indebite percezioni di erogazioni statali, e soprattutto 323 - abuso d’ufficio; e molti altri reati “scomodi”), la norma che impedisce la carcerazione per reati con pena inferiore a 4 anni era una mano santa. Che avrebbe dovuto fare il Tribunale? Lo so, Salvini vorrebbe tanto che la giustizia fosse un elastico: “Se l’interesse del Paese lo richiede, che volete che siano due o tre reati? Per me sono medaglie”. Però non funziona così. Per fortuna. È lo stato di diritto. Attenuante della provocazione se il padre ferisce il figlio che ruba più volte soldi per la droga di Andrea Alberto Moramarco Il Sole 24 Ore, 4 settembre 2018 Corte d’appello di Napoli - Sezione III penale - Sentenza 26 marzo 2018 n. 266. La circostanza attenuante della provocazione, prevista dall’articolo 62 n. 2 del codice penale, è configurabile anche nel caso in cui l’aggressione nei confronti di una persona sia la conseguenza di plurimi comportamenti di quest’ultima ripetuti nel tempo, frutto della inosservanza della civile convivenza familiare. La reazione iraconda, infatti, ben può scaturire da un accumulo di rancore, per esplodere, anche a distanza di tempo, in occasione di un episodio scatenante. Questo è quanto si afferma nella sentenza della Corte d’appello di Napoli 266/2018. La vicenda - Oggetto della decisione è la determinazione del trattamento sanzionatorio da riservare nei confronti di un uomo, il quale si era reso autore di un accoltellamento ai danni del figlio a seguito di un litigio. Nello specifico, l’imputato aveva aggredito il figlio tossicodipendente, colpendolo ripetutamente con un paio di forbici in più parti del corpo, dopo aver scoperto che quest’ultimo era il responsabile della sparizione di alcuni oggetti d’oro custoditi nella cassaforte di casa, per un valore di circa 20 mila euro, utilizzati probabilmente per l’acquisto di sostanze stupefacenti. Tratto a giudizio per tentato omicidio, il padre del ragazzo veniva condannato in primo grado per lesioni aggravate e, in seguito, appellava la sentenza chiedendo il riconoscimento della circostanza attenuante della provocazione, prevista dall’articolo 62 n. 2 cp. L’imputato sosteneva, infatti, che la sua azione era la conseguenza di un accumulo di rabbia e frustrazione nei confronti del figlio che, data la sua particolare situazione, in passato più volte aveva tenuto comportamenti scorretti e ingiusti nei confronti della sua famiglia. La decisione - Fermo restando la responsabilità penale per il grave gesto compiuto, la Corte d’appello accoglie la richiesta dell’imputato, evidenziando come nella fattispecie è ben possibile riconoscere l’attenuante della provocazione. Difatti, afferma il giudice, la circostanza consistente nell’ aver “agito in stato di ira, determinato da un fatto ingiusto altrui” si configura quando il comportamento della persona offesa che determina la commissione del reato sia non solo contrario a norme giuridiche, ma anche frutto della “inosservanza di norme sociali e di costume regolanti l’ordinata e civile convivenza”. Inoltre, per l’integrazione dell’attenuante “non è richiesto che la reazione iraconda segua immediatamente il fatto ingiusto, ben potendo detta reazione conseguire a un “accumulo” di rancore, sotto lo stimolo di reiterati comportamenti ingiusti, per esplodere - anche a distanza di tempo - in occasione di un episodio scatenante”. Ciò posto, per la Corte non c’è dubbio che le continue minacce e le condotte predatorie poste in essere dal figlio, a causa dei suoi problemi di droga, nei confronti del genitore integrino il fatto ingiusto altrui, richiesto dalla norma. Si tratta, cioè, di comportamenti sicuramente “idonei a potenziare, per accumulo, la carica di dolore e sofferenza sedimentata nel tempo” del genitore il quale, “una volta accortosi dell’ennesima spoliazione realizzata dal figlio ai danni della cassaforte di famiglia”, ha perso il controllo scagliandosi violentemente verso di lui cagionandogli gravi lesioni. Concorso formale e reato continuato: giudice dell’esecuzione deve riconoscere il “vincolo” Il Sole 24 Ore, 4 settembre 2018 Esecuzione penale - Applicazione della disciplina del concorso formale e del reato continuato - Valutazione della continuazione in sede di cognizione - Vincolo per il giudice dell’esecuzione. Il giudice dell’esecuzione, investito da richiesta ai sensi dell’articolo 671 c.p.p., non può trascurare, ai fini del riconoscimento del vincolo della continuazione, la valutazione già operata in fase di cognizione, con riguardo a episodi criminosi commessi in un lasso di tempo al cui interno si collocano in tutto o in parte i fatti oggetto della domanda sottoposta al suo esame, nel senso che le valutazioni espresse in proposito nel giudizio di cognizione assumono una rilevanza indicativa da cui il giudice dell’esecuzione può anche prescindere, ma solo previa dimostrazione dell’esistenza di specifiche e significative ragioni per cui tali ultimi fatti, e soprattutto gli episodi omogenei rispetto a quelli tra cui il vincolo è stato riconosciuto, non possono essere ricondotti, a differenza degli altri, al delineato disegno. • Corte di cassazione, sezione I penale, sentenza 2 agosto 2018 n. 37583. Giudice dell’esecuzione - Concorso formale e reato continuato - Riconoscimento della continuazione in sede di cognizione - Obbligo del giudice di esecuzione di considerare la valutazione effettuata dal giudice della cognizione - Sussistenza - Possibilità di prescindere - Condizioni. Sebbene ai pregressi provvedimenti che abbiano riconosciuto il vincolo della continuazione non possa riconoscersi alcun carattere vincolante con riferimento alla deliberazione sull’istanza ex articolo 671 c.p.p., proposta dal condannato, anche in considerazione della diversità e maggiore ampiezza del “petitum”, e sebbene la continenza temporale non implichi ex se il riconoscimento della continuazione, nondimeno la già ritenuta sussistenza del disegno unitario affasciante reati cronologicamente prossimi ad altri separatamente giudicati non può essere totalmente ignorato dal giudice dell’esecuzione, che, sia pure in piena libertà di giudizio, con tale precedente valutazione e con la relativa ratio decidendi è tenuto comunque a confrontarsi, salvo discostarsene, motivatamente, in relazione al complessivo quadro delle circostanze di fatto e giuridiche emergenti dai provvedimenti giudiziali dedotti nel nuovo procedimento e potendo pervenire anche a un accoglimento soltanto parziale della domanda quanto ai reati maturati in un contesto unitario, di più ravvicinata consumazione e commessi nel medesimo ambito spaziale. • Corte di cassazione, sezione I penale, sentenza 30 novembre 2017 n. 54106. Esecuzione - Giudice dell’esecuzione - Concorso formale e reato continuato - Precedente riconoscimento della continuazione per alcuni episodi criminosi - Nell’ambito di altro procedimento ex art. 671 cod. proc. pen. - Obbligo del giudice di considerare la valutazione in precedenza espressa - Configurabilità - Limiti. Il giudice dell’esecuzione, investito da richiesta ai sensi dell’art. 671 cod. proc. pen., non può trascurare, ai fini del riconoscimento del vincolo della continuazione, una precedente valutazione già operata in fase di esecuzione relativamente ad alcuni reati, potendo da essa prescindere solo previa dimostrazione dell’esistenza di specifiche e significative ragioni per cui i fatti oggetto di detta richiesta non possono essere ricondotti al delineato disegno. • Corte di cassazione, sezione I penale, sentenza 31 gennaio 2014 n. 4716. Esecuzione - Giudice dell’esecuzione - Concorso formale e reato continuato - Precedente riconoscimento della continuazione per alcuni episodi criminosi - Nell’ambito di altro procedimento ex art. 671 cod. proc. pen. - Obbligo del giudice di considerare la valutazione in precedenza espressa - Configurabilità - Limiti. Il pregresso provvedimento, quand’anche adottato in sede esecutiva, che abbia riconosciuto il vincolo della continuazione sia pure soltanto tra alcuni dei reati commessi dal condannato, pur non avendo carattere vincolante con riferimento alla deliberazione sulla nuova istanza ex articolo 671 c.p.p. proposta dal condannato, non può tuttavia essere totalmente ignorato, in sede di deliberazione sulla nuova istanza, dal giudice dell’esecuzione, il quale, sia pure in piena libertà di giudizio, con tale precedente valutazione è tenuto comunque a confrontarsi, salvo discostarsene, motivatamente, in relazione al complessivo quadro delle circostanze di fatto e giuridiche emergenti dai provvedimenti giudiziali dedotti nel nuovo procedimento. • Corte di cassazione, sezione I penale, sentenza 31 gennaio 2014 n. 4716. C’è tenuità se l’omesso versamento delle ritenute sfora di poco la soglia di Laura Ambrosi Il Sole 24 Ore, 4 settembre 2018 Corte di cassazione - Sezione III - Sentenza 3 settembre 2018 n. 38413. È applicabile la causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto anche per i plurimi omessi versamenti contributivi se di poco superiori alla soglia prevista: la consumazione del reato è infatti collegata al debito complessivo annuo e non alle singole condotte mensili. A fornire questo principio è la Corte di cassazione, terza sezione penale, con la sentenza n. 39413 depositata ieri. Il legale rappresentante di una società veniva condannato per omesso versamento di ritenute assistenziali e previdenziali operate sulle retribuzioni dei dipendenti in diverse mensilità del 2010. La pena, sebbene ridotta, veniva confermata anche dalla Corte di appello e l’imputato ricorreva in Cassazione. In particolare, lamentava l’omessa applicazione della causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto, atteso che il debito complessivo per l’anno era di circa 11.000 euro e quindi solo di 1.000 euro oltre la soglia penale. Evidenziava poi che gli omessi versamenti erano riferiti soltanto ad alcune mensilità, peraltro discontinue, mentre per altre si era proceduto al regolare pagamento. Secondo la difesa, mancava così l’abitualità a delinquere e, stante l’esiguità del valore oltre la soglia, doveva applicarsi la causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto prevista dall’articolo 131 bis del Codice penale. I giudici di legittimità hanno innanzitutto ricordato che l’istituto è precluso quando i reati in contestazione sono riferiti a condotte plurime e reiterate. Per tale ragione, la Corte di appello aveva escluso il beneficio nel presupposto che i singoli versamenti omessi rappresentassero le citate plurime condotte delittuose. La Cassazione ha tuttavia precisato che la norma, nel collegare l’abitualità del comportamento alla pluralità o reiterazione, si riferisce a condotte che già di per sé costituiscono reato, anche isolatamente valutate. Nella specie, invece, le diverse mensilità non versate solo sommate tra loro integravano il reato. Secondo un consolidato orientamento, peraltro confermato anche da un’altra pronuncia di ieri (Cassazione 39423/2018), il delitto di omesso versamento delle ritenute previdenziali è caratterizzato da una consumazione prolungata, connotato da una progressione criminosa di comportamenti che se adottati nello stesso anno, vanno considerati momenti esecutivi di un unico reato. Esso si consuma solo al superamento della soglia di punibilità di 10.000 euro annui. La Cassazione ha così affermato che la causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto è applicabile se l’omissione è di poco superiore alla soglia fissata dal legislatore, considerando però tutti i versamenti non eseguiti nel loro complesso. Nella specie, quindi, la soglia era superata per poco più di 1.000 euro. La decisione è interessante poiché conferma l’applicazione del particolare istituto anche per i reati collegati al superamento di una soglia, che in passato invece era stata talvolta esclusa. È indubbio, infatti, che individuando un importo rappresentativo della tenuità del fatto verrebbe, in concreto, ad innalzarsi la soglia penale prevista per legge. Da evidenziare poi che il principio affermato è certamente applicabile anche in ambito penale tributario, nel quale solo il superamento di una o più soglie integra il reato. Si tratta poi di stabilire, di volta in volta, quale possa essere l’importo della somma non versata (superiore alla soglia) da considerarsi particolarmente “tenue” da escludere l’illecito penale. L’accordo di ristrutturazione del debito non scrimina l’omesso versamento ritenute Inps di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 4 settembre 2018 Corte di cassazione - Sezione III - sentenza 3 settembre 2018 n. 39396. L’imprenditore che non versa le ritenute previdenziali e assistenziali all’Inps non può invocare, a giustificazione dell’omissione, i vincoli posti dall’accordo di ristrutturazione del debito. La Corte di cassazione, con la sentenza 39396, definisce “suggestiva” la tesi della difesa - che puntava sulla “forza” scriminante dell’accordo previsto dall’articolo 67, comma 3 lettera d) della legge fallimentare - ma la boccia. Il ricorrente aveva fatto presente ai giudici che la sua società aveva avviato la procedura, con un accordo sottoscritto nel 2009 e rimodulato nel 2012. La compagine aveva dunque avviato i pagamenti dei debiti nei tempi e nei modi previsti dall’accordo. La ristrutturazione del debito, nato a causa della grave crisi finanziaria del 2008, aveva consentito, ad avviso del ricorrente, di dilazionare anche il debito Inps. Ma la Suprema corte spiega che la conclusione della difesa si basa su un’interpretazione sbagliata degli effetti giuridici del piano. L’accordo in questione infatti, introdotto dalla legge 35/2005 e modificato dal Dl 83 del 2012, è uno strumento “riservato all’imprenditore per risanare l’impresa e riportala in equilibrio economico e finanziario, attraverso la realizzazione di una serie di operazioni strategiche, garantendo la continuità aziendale, senza che vi sia alcun controllo da parte del tribunale, come invece avviene nelle procedure concorsuali di cui all’articolo 182-bis e 161 della legge fallimentare”. La ratio - avverte la Cassazione - è quella di salvaguardare gli atti esecutivi all’interno di un attendibile piano di risanamento, nel caso in cui il programma non vada a buon fine e si apra il fallimento dell’imprenditore. L’obiettivo è anche esonerare i terzi, che hanno confidato in un successo del piano, dalle conseguenze di un’eventuale azione di revocatoria fallimentare. Da questo quadro non si può dedurre, come voleva il ricorrente, che l’omissione contributiva sia scriminata dall’adempimento del piano. Non si è, infatti, in presenza di una procedura concorsuale tesa a garantire il soddisfacimento dei creditori in ordine di tempo con gli effetti protettivi tipici del concordato preventivo. Va dunque esclusa qualunque ipotesi di “congelamento” del debito Inps o di dilazione. Lombardia: celle piene, paga solo la sicurezza di Mario Consani Il Giorno, 4 settembre 2018 Risse e spaccio: boom fra gli 8mila reclusi. Ieri è toccato a tre agenti aggrediti al “Beccaria”, il carcere minorile milanese sul quale da tempo si sprecano senza successo allarmi e denunce per le condizioni di invivibilità. Ma più in generale è in tutta la Lombardia che i numeri sono tornati a salire: più detenuti e maggior tasso di affollamento nelle celle. A sorpresa, invece, a diminuire è la percentuale degli stranieri dietro le sbarre. I dati messi a disposizione dal ministero della Giustizia fotografano la situazione dei 18 istituti lombardi al 31 agosto, appena quattro giorni fa. Sono in totale 8.440 gli ospiti di cui 462 donne (appena il 5%) e 3.638 gli stranieri, pari al 43 per cento del totale. Erano il 45,7% solo un anno fa. Le maggiori presenze sono di marocchini, albanesi, romeni e tunisini. Sempre rispetto ad un anno fa, le persone rinchiuse in Lombardia sono aumentate nel totale di un 1,5% e addirittura del 6,5% rispetto al 2016, quando di fermavano sotto la soglia degli 8mila (erano 7.927). Più detenuti, dunque, e maggior affollamento. Rispetto alla capienza regolamentare dei penitenziari lombardi (6.226 posti) siamo in media a un abbondante 35% di presenze in più: dove dovrebbero stare in due, stanno almeno in tre. Andava leggermente meglio un anno fa, quando il sovraffollamento era “solo” del 33% e ancora nel 2016, quando si fermava sotto il 30 per cento. La tendenza, in ogni caso, è chiara, tanto più se si considera che a livello nazionale il tasso di sovraffollamento medio si ferma al 16%: meno della metà di quello lombardo. E c’è da aggiungere che la realtà delle varie situazioni è ancora peggiore. La maglia nera spetta al carcere di Como, che ospita 454 detenuti in soli 231 posti regolamentari: il 96% in più. Appena meglio si deve vivere a Lodi, dove a numeri più bassi (86 detenuti per 45 posti) corrisponde comunque un “surplus” del 91 per cento. Molto male anche i due penitenziari bresciani: a Canton Mombello +82% con 345 detenuti per 189 posti; a Verziano solo 131 ma dove c’è posto per 72 (+81%). Nei peggiori cinque finisce anche il carcere di Busto Arsizio con 423 ospiti per 240 posti (+76%). L’intero panorama delle carceri lombarde resta comunque sopra la media nazionale di sovraffollamento salvo le eccezioni di Sondrio (+11%), Cremona (+14%) e come sempre Bollate (dove c’è addirittura qualche posto libero). Le altre due strutture di Milano sono a metà strada, con un 18% in più a San Vittore (dato positivo, comunque sotto le mille presenze) e Opera (+46%) il più affollato in assoluto con i suoi 1.347 ospiti per 918 posti. Velletri (Rm): cardiopatico e in sedia a rotelle, così l’hanno lasciato morire in cella di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 4 settembre 2018 Era gravemente malato, cardiopatico e in forte sovrappeso, tanto da muoversi con le sedie a rotelle, con tanto di assistenza alla persona. Sabato mattina il 63enne in condizioni di disabilità ha smesso di respirare nel carcere di Velletri dove avrebbe dovuto scontare una pena per rapina e ricettazione fino al 2024. Ad accorgersi del fatto è stato il suo compagno di cella che dopo aver tentato varie volte di chiamarlo senza ricevere risposta e non sentendolo più respirare ha dato l’allerta. Grazie al tempestivo intervento dell’Agente di sezione, si è subito recato sul posto il personale sanitario che ha immediatamente attivato tutte le procedure di emergenza e tentato di rianimare il detenuto, ma purtroppo i tentativi di salvataggio si sono rivelati inutili, il detenuto è stato giudicato dal personale sanitario deceduto. A darne notizia sono i sindacalisti Carmine Olanda e Ciro Borrelli dell’Ugl Polizia Penitenziaria che denunciano con forza “che il carcere deve essere tale e non paragonato a un Ospedale e che i detenuti che manifestano problemi di natura psichiatrica o di salute gravi, devono essere gestiti dal Personale sanitario specializzato e in luoghi adatti”. Sempre nello stesso carcere, nell’aprile scorso, è morto un detenuto di 77 anni a causa di un infarto. Sempre i sindacalisti dell’Ugl accusarono la Asl di competenza che continuerebbe a fare “orecchie da mercante” sulla necessità “di garantite h24 il servizio sanitario al nuovo Padiglione D, ad oggi garantito sul posto solo parzialmente”. Un problema enorme la salute all’interno delle patrie galere. Solo quest’anno, ancora non concluso, siamo giunti a 18 morti per malattia, 41 suicidi (dato elaborato da Ristretti Orizzonti che ha compreso coloro che si sono tolti la vita ai domiciliari) e 13 morti ancora da accertarne la causa. Un totale di 91 morti dall’inizio dell’anno. L’ultimo suicidio è avvenuto il 31 agosto. Era una straniera di 35 anni ed era stata tratta in arresto per spaccio in carcere genovese di Pontedecimo la sera del 31 alle 21 e 30. Poche ore dopo, nella stessa notte, si è impiccata. Poteva essere evitato il suicidio? Forse sì se ci fosse stata la visita medica o un minimo di prima assistenza piscologica come ha denunciato il sindacato penitenziario della Uil che mette all’indice la criticità sanitaria in carcere. “Mai più arrestati a Pontedecimo denuncia il segretario regionale della Uil Fabio Pagani - e in tutti i penitenziari liguri, se non è presente il servizio sanitario h24”. Ritornando al detenuto con la sedia a rotelle deceduto al carcere di Velletri, ricordiamo che i detenuti disabili si aggirano nell’ordine delle centinaia (628 solo l’anno scorso) e vivono una vera e propria doppia pena a cui contribuiscono barriere architettoniche, mancanza di strutture in grado di accoglierli pienamente, fatica a usare i servizi igienici e a lavarsi come tutti gli altri. Molto spesso il Tribunale di Sorveglianza respinge le istanze di scarcerazione, anche di fronte a condizioni cliniche oggettivamente gravi. Lecce: protocollo d’intesa per l’inserimento lavorativo delle persone detenute puglialive.net, 4 settembre 2018 Questa mattina a Palazzo Carafa è stato firmato il protocollo d’intesa tra Comune di Lecce, Casa Circondariale, Monteco srl ed Aps Green Live per individuazione di soluzioni progettuali che consentano l’inserimento e il reinserimento lavorativo delle persone detenute. A questo proposito la Casa Circondariale di Lecce ha redatto un progetto di inserimento di soggetti in esecuzione di pena, che dovrà ottenere il finanziamento del Dipartimento Amministrazione Penitenziaria - Cassa Ammende - Roma, che prevede l’immissione al lavoro esterno, ai sensi dell’art. 21 dell’Ordinamento Penitenziario, di n. 6 detenuti, per 24 mesi, opportunamente selezionati, formati ed assunti dalla Casa Circondariale di Lecce, che saranno impiegati con la qualifica di “operatore ecologico” nell’area comunale del quartiere Borgo San Nicola. I detenuti potranno occuparsi dello sfalcio e della pulizia di aree verdi, dello spazzamento e della raccolta dei rifiuti presenti sui bordi stradali e nella riqualificazione delle aree verdi. Con il protocollo sono state definite le modalità operative con le quali i firmatari collaboreranno per la realizzazione del progetto e per la sua estensione ad altre aree verdi della città. Sala Consilina (Sa): carcere chiuso, domani si decide di Erminio Cioffi La Città di Salerno, 4 settembre 2018 A Roma l’incontro presso il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. “Lega e M5S mantengano fede agli impegni presi e facciano in modo che sia riaperta la casa circondariale di Sala Consilina”. L’appello alle due forze politiche del Governo arriva dall’avvocato Antonello Rivellese, presidente dell’associazione forense “Igino Cappelli” alla luce anche di una indiscrezione della quale è venuto a conoscenza in questi giorni. “Una persona vicina agli ambienti del Ministero della Giustizia - ha spiegato l’avvocato Rivellese - mi ha fatto sapere che il dicastero di via Arenula ha chiesto al Dipartimento per l’amministrazione penitenziaria un parere in merito alla possibile riapertura del carcere e questo parere è stato negativo. Ciò lascia presagire a questo punto che senza un intervento della politica arriverà un nuovo decreto di soppressione della casa circondariale così come accaduto nel 2015”. Domani intanto è previsto a Roma il secondo incontro nell’ambito della conferenza dei servizi in corso di svolgimento presso il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria con la partecipazione dell’Ordine degli Avvocati di Lagonegro e del Comune di Sala Consilina. Questa potrebbe essere l’ultimo incontro dopodiché si deciderà se far riaprire i cancelli del carcere di via Gioberti oppure confermare la chiusura, disposta nel 2015 con un Decreto Ministeriale, poi annullato dal Consiglio di Stato per un vizio procedurale. La prima seduta della conferenza si era tenuta a giugno, in quella circostanza si era trattato di un incontro interlocutorio e domani invece si discuterà sulle motivazioni che sono alla base della richiesta di lasciare in vita il carcere fatta dall’Ordine degli Avvocati di Lagonegro e del Comune di Sala Consilina. Da 3 anni, con la casa circondariale chiusa, il Tribunale di Lagonegro si ritrova ad essere forse l’unico in Italia sprovvisto di un carcere nel proprio circondario. Questione questa che è stata sollevata anche dall’ex presidente del Tribunale di Lagonegro, Claudio Matteo Zarrella, da qualche mese in pensione che, in una lunga lettera inviata al Ministero della Giustizia aveva definito “una contraddizione in termini” avere un circondario di Tribunale senza una casa circondariale. Zarrella aveva anche sottolineato che con la chiusura del carcere salese veniva violato il principio delle territorialità dell’esecuzione penale con un pregiudizio per le comunità locali, gli operatori di diritto, i detenuti e le loro famiglie. Alla lettera di Zarrella il Ministero aveva risposto ipotizzando la riapertura, dopo lavori di ristrutturazione particolarmente onerosi, del carcere di Lagonegro o di Chiaromonte, chiusi da oltre 30 anni, senza fare però alcun riferimento a quello di Sala Consilina che invece necessita solo di piccoli interventi. Napoli: la villa del boss Cesarano ai testimoni di giustizia di Vincenzo Sbrizzi napolitoday.it, 4 settembre 2018 Lo stabile di via Andolfi è stato confiscato da tempo ma mai utilizzato. Verrà utilizzata per il recupero di bambini a rischio. Per anni è rimasta inutilizzata e lasciata all’incuria. Apparteneva ad uno dei più feroci boss della storia della camorra, Ferdinando Cesarano, e adesso potrebbe essere affidata a dei testimoni di giustizia. È la decisione presa dal comune di Torre Annunziata riguardo una villa confiscata a via Andolfi. Il sindaco Vincenzo Ascione ha firmato la delibera per la manifestazione d’interesse per adibire la villa a centro sociale gestito da testimoni di giustizia. Si occuperanno di recupero dei bambini a rischio. Si riattiva così l’iter burocratico per riutilizzare un bene nella disponibilità del comune oplontino ma mai utilizzato per fini sociali, in una zona della città dove ce ne sarebbe molto bisogno. “Dopo diversi anni in cui l’immobile è rimasto inutilizzato - spiega l’assessore al Patrimonio, Emanuela Cirillo - abbiamo ora, con l’approvazione di una nuova delibera di giunta, la possibilità concreta di poterne usufruire, dandolo in concessione ad associazioni ed enti impegnati in diversi ambiti sociali. La volontà dell’Amministrazione Comunale è quella di recuperare gli immobili sottratti alla camorra per destinarli ad attività socio-culturali che, oltre alla promozione di progetti ed iniziative, costituiscono anche un’opportunità di sviluppo e lavoro. Il bene verrà assegnato a titolo gratuito e per un periodo da determinarsi a seconda della destinazione d’uso - conclude l’assessore -, e sarà rinnovabile una sola volta, al fine di consentire la possibilità di avvicendamento dei concessionari” Foggia: articolo sulla mafia dei ghetti, lo scrittore Palmisano minacciato di morte Corriere della Sera, 4 settembre 2018 Il sociologo e scrittore barese ha sporto denuncia alla Polizia postale dopo alcuni messaggi ricevuti in seguito a un reportage pubblicato sul Corriere del Mezzogiorno. Il sociologo e scrittore barese Leonardo Palmisano, editorialista peraltro del Corriere del Mezzogiorno, ha denunciato alla polizia postale di avere ricevuto minacce di morte sul suo profilo Facebook dopo la pubblicazione il 25 aprile scorso sul Corriere del Mezzogiorno, di un suo articolo su presunti legami tra la mafia garganica e quella nigeriana per la gestione della prostituzione e lo spaccio di droga nel Nord della Puglia. L’inchiesta fa parte di uno studio più ampio sul presunto radicamento della mafia nigeriana in Africa e in Europa e in particolare in Italia come paese di cerniera. L’asse criminale tra la Nigeria e la Capitanata - Palmisano avrebbe scoperto la presenza di esponenti della organizzazione criminale nigeriana black ace all’interno del ghetto di Borgo Mezzanone, nel foggiano, che gestirebbero il giro della prostituzione nella zona. Si tratta di un’inchiesta giornalistica a cui Palmisano sta lavorando da tempo e che è anche stata ripresa dal Corriere della Sera con un servizio di Goffredo Buccini nel maggio scorso. Le minacce a Palmisano sarebbero partite da 5 differenti profili fake di presunte ragazze nigeriane. I messaggi si sarebbero autodistrutti dopo essere stati letti e questo induce a ipotizzare che dietro le minacce ci siano gruppi bene organizzati. La denuncia è stata presentata una settimana fa ma se ne è avuta notizia solo oggi. “A Facebook - ha detto Palmisano - chiederemo copia delle conversazioni che in realtà sono state unilaterali. “We kill you”, ti uccideremo, era scritto nei messaggi dietro cui non ho trovato corrispondenza e spariti subito dopo averli letti in allegato a copia degli articoli pubblicati”. Roma: l’orto di Rebibbia sulle tavole stellate di Paola D’Amico Corriere della Sera, 4 settembre 2018 Dal carcere ai piatti stellati. L’ocra-gombo è quasi un peperone, con un retrogusto tra il carciofo e l’asparago, contiene molto acido folico e tra le sue proprietà pare ci sia quella di regolarizzare la glicemia. Insieme allo Snap sugar pea (pisellino mangiatutto) tipico dei paesi anglosassoni e ad altri ortaggi molto particolari, le sue piantine crescono dietro le mura del carcere di Rebibbia per poi continuare la coltura fuori dalle sbarre, nella piana reatina dove chef stellati, Alaine Ducasse, Heinz Beck e, soprattutto Massimiliano Alajmo, vengono a fare la spesa. Scegliendo direttamente dal campo. Luca Rando, 36 anni, guida con passione un gruppo ormai esperto di detenuti, qualcuno “recluso da trentacinque anni, altri - racconta - ergastolani. Uno di loro si era rinchiuso nel mutismo che però, lavorando la terra, un giorno si è spezzato”. Sono diventati i suoi assistenti, curano i semi da cui nasceranno pomodori di particolari varietà americane, la bieta giapponese, i cavoli cinesi. All’interno del carcere, coltivano anche i prodotti che poi consumeranno con il personale. Dai sequestri e dagli assalti alle banche a mettere le mani nella terra, per poi prendersi cura di fragili piantine adattandosi ai ritmi lenti e talora anarchici della natura, il passo non è breve. Ma Luca ama follemente questa parte del lavoro perché, aggiunge, “li ho visti cambiare faccia e aprirsi”. Rando è nato a Chieri, in Piemonte, da genitori veneti ed è cresciuto a Padova. Studi di agraria, poi l’università. Nel suo curriculum c’è anche il diploma di super-intendente di tappeti erbosi (campi da golf e calcio). A Rieti lo hanno portato il cuore, la fidanzata, e il concorso per il Coni: “Se vado avanti con il progetto è anche grazie al supporto dei miei genitori e della famiglia della mia ragazza che mi sorreggono”. E nella città della Sabina c’è stato poi l’incontro fortunato con Musetta Mantero, pittrice comasca e figlia di un industriale della seta che ha deciso di finanziare il suo sogno ed entrare in società con lui: “L’ambiente sotto il profilo umano non è dei più facili. Qui - aggiunge - molti mi vedono ancora come uno straniero, ma la terra e l’aria che si respira sono perfette per realizzare il mio progetto. Coltivare ortaggi particolari per un pubblico che ama il cibo di qualità”. L’azienda si chiama “L’Orto di Leopoldo” e si sviluppa su un terreno di sette ettari e mezzo nella pianura, molto fertile e ricca di acqua, cratere post sisma, dove Luca coltiva verdure ricercate come, per esempio, il baby broccolo, il radicchio rosa e quello oro. Si aggiungono altri diciassette ettari presi in affitto in un comune di montagna, Leonessa, famosa per le patate. “Parto da una base sperimentale, faccio delle campionature, osservo come funzionano le piante, come reagiscono al clima. Poi provo le piantine, dal seme al prodotto in tavola”. L’incontro con Rebibbia avviene quando Rando viene chiamato dall’impresa sociale Enaip a fare il docente nei corsi regionali per i detenuti di tutte le età, ed è poi una naturale conseguenza decidere di rimettere in piedi una cooperativa nata nel carcere, “Le Terre di Barbara”, che oggi fa squadra con l’“Orto di Leopoldo” e dà lavoro ai detenuti-agricoltori. L’agronomo padovano è anche impegnato nella Cia-agricoltori italiani di Roma e nell’associazione dei giovani agricoltori Agia. Da qualche tempo si divide tra il suo Orto, dove conduce una ricerca sulle verdure utili contro il morbo di Gaucher, il carcere di Rebibbia e ora anche la sezione femminile, dove c’è una squadra di dieci agricoltrici. Il suo sguardo si perde sui prati con le arachidi in piena fioritura: “Queste sono per lo chef Alajmo. Le ho seminate solo per lui”. Tra pionieri ci si intende. Reggio Calabria: partito dal carcere di Arghillà il torneo Asi di Pallacanestro ilmetropolitano.it, 4 settembre 2018 È iniziato domenica 2 Settembre all’interno della casa circondariale di Arghillà un torneo amatoriale di pallacanestro a 6 squadre, promosso dall’Asi (Associazioni Sportive e Sociali Italiane), che si confronteranno con quella formata da detenuti. Ciò è stato possibile grazie alla donazione dell’Asi, di due tabelloni con i relativi canestri e alla disponibilità della direzione della casa di pena guidata dalla dott.ssa Maria Carmela Longo e alla professionalità del pool di educatori diretti dal dott. Speranza, i quali hanno allestito, in tempi record, con l’aiuto dei detenuti e degli operatori interni, un campo all’aperto di ottima qualità. Il torneo, partito domenica, proseguirà per 5 giornate, a conclusione delle quali verranno decretate le 4 squadre che si contenderanno le semifinali e finali. Le formazioni che non faranno visita alla squadra di Arghillà, giocheranno le partite presso l’impianto sportivo “Palaboccioni” come da calendario allegato. Per la cronaca, il primo incontro ha visto prevalere la squadra di “Arghillà” su quella del “Metropolitano” per 53 a 45. Questa iniziativa si inquadra in un più ampio progetto promosso dall’ASI, attivo da parecchi anni a livello nazionale e che è iniziato già dal mese di maggio, in concomitanza con la visita ufficiale del Presidente nazionale dell’Ente, sen. Claudio Barbaro, presso la casa circondariale reggina. Il progetto, curato dal Vicepresidente Nazionale Tino Scopelliti e dal Vicepresidente del Consiglio Nazionale Giuseppe Agliano, prevede un intenso programma di iniziative, attività ed eventi di carattere sportivo, culturale e di spettacolo che si stanno svolgendo a cadenza periodica all’interno dell’istituto di pena. Altre iniziative partiranno nei prossimi mesi e vedranno coinvolti anche i detenuti della casa circondariale di San Pietro. È da rilevare, inoltre, la completa disponibilità della polizia penitenziaria che collabora fattivamente alle iniziative, con abnegazione e spirito costruttivo. Questa sinergia d’intenti permette, soprattutto ai detenuti, momenti di distrazione e di svago in un ambiente che fino a qualche mese fa era privo di rilevanti strutture sportive. Diritto d’asilo, stretta sui ricorsi. “Basta avvocati gratis per i migranti” di Fabio Tonacci La Repubblica, 4 settembre 2018 La bozza del decreto sicurezza: protezione revocata se si commettono reati o si torna in patria per troppo tempo. La morsa del ministro dell’Interno sull’immigrazione è arrivata al capitolo decisivo. La bozza del decreto Sicurezza, nella parte che riguarda il governo dei flussi, la protezione internazionale e l’accoglienza, è praticamente pronta. E contiene norme dure, che non è difficile immaginare faranno discutere. A cominciare da quella che si pone l’obiettivo di ridurre, se non di annullare, i ricorsi in Cassazione da parte dei richiedenti asilo a cui è stata già rifiutata la domanda dalle commissioni territoriali. Il decreto, che dovrebbe essere presentato entro settembre ed è ritenuto crociale per Matteo Salvini, cancella il gratuito patrocinio legale a chiunque si vedrà respingere l’istanza dalla Suprema Corte con la motivazione dell”‘in-nammissibilità del ricorso”. Di fronte a questo tipo di pronunciamento, il richiedente asilo dovrà pagare di tasca propria l’avvocato che lo ha seguito e gli ha preparato le carte. Ovvio i migranti sbarcati sulle nostre coste che potranno permettersi di pagare saranno pochissimi. Come è ovvio - ed è questo il lato della storia che la nuova norma intende colpire - che gli avvocati difensori saranno scoraggiati dal prendersi in carico i casi, visto che non avranno più la certezza di essere rimborsati. Già il decreto Minniti aveva messo mano alla normativa in materia, togliendo un grado di giudizio (l’appello) ai procedimenti di ricorso contro il rifiuto della domanda di protezione internazionale. La prassi seguita dai migranti sbarcati in Italia è sempre stata quella di opporsi fino in Cassazione, grazie proprio al patrocinio legale gratuito. Spesso, però, viene fatto in maniera strumentale. Le statistiche del ministero dicono infatti che nel 90 per cento dei casi i ricorsi sono inammissibili per mancanza dei presupposti di base. Ad esempio quando a presentarla sono i migranti cosiddetti economici. Con la nuova nonna, la percentuale delle cause in Cassazione si abbasserà drasticamente, ma il calo rischia di portarsi dietro anche quel 10 per cento che, invece, potrebbe avere una sentenza positiva. Repubblica aveva già dato conto dell’intenzione del Viminale di prolungare da 90 a 180 giorni il periodo di trattenimento degli stranieri nei Cpr (Centri di permanenza e rimpatrio), allo scopo di dare più tempo alle ambasciate estere per riconoscere i propri cittadini e rilasciare il nullaosta al rimpatrio. Così come dell’ampliamento della platea dei reati per cui le Commissioni possono negare, o revocare, la protezione internazionale (il decreto aggiunge anche alcuni reati senza aggravanti), della norma per cui se uno straniero torna nel Paese di origine per un periodo troppo lungo perde lo status di rifugiato, e dell’esclusione dell’iscrizione dei richiedenti asilo nell’anagrafe dei comuni. Negli ultimi giorni la bozza si è definita, e altre novità sono apparse nel testo. Ad esempio si ordina che la rete di accoglienza Sprar, quella gestita dai comuni, debba essere obbligatoriamente riservata a chi ha già ottenuto l’asilo, e non possa essere più utilizzata per ospitare chi è in attesa della domanda, come accade adesso in emergenza quando gli enti locali non trovano altri spazi disponibili. Viene inoltre prorogato di un anno l’esercizio della delega per l’adozione di un Testo unico sull’asilo. E si modifica, in parte, anche la gestione dei primi arrivi. Presso alcune prefetture di frontiera, infatti, saranno aperte sezioni della Unità Dublino, la struttura del dipartimento dell’Immigrazione preposta a determinare lo Stato dell’Unione competente all’esame della domanda d’asilo, nei casi in cui questa sia stata presentata anche in altri Stati. Attualmente la sede è unica, a Roma. Delocalizzando il servizio, secondo i funzionari del Viminale, si accorcerà a due-tre mesi il tempo necessario per analizzare le pratiche e stabilire il Paese giusto. Quando vengono superati i sei mesi dall’ingresso, invece, i migranti restano comunque in Italia, a prescindere dall’esito della pratica. La guerra sporca delle multinazionali del tabacco di Mariella Bussolati businessinsider.com, 4 settembre 2018 Sono loro a incentivare di nascosto il contrabbando di sigarette. Due nuovi studi pubblicati sul British Medical Journal lanciano un allarme: le grandi compagnie che producono tabacco, incentivano direttamente il mercato di contrabbando. Circa due terzi delle sigarette illegali arrivano dall’industria. Le ricerche sono state condotte dal Tobacco Research Group dell’Università di Bath, un team internazionale e interdisciplinare. In sostanza è un cane da guardia del settore. Per esempio controlla che non vengano fatte promozioni e il tipo di messaggi che vengono applicati sui pacchetti. Ma anche il comportamento a livello di lobby nei confronti della politica. La prima pubblicazione si basa su documenti trapelati in segreto che dimostrano che i produttori stanno violando l’Illicit Trade protocol, un trattato internazionale ratificato da oltre 40 Paesi che punta a eliminare ogni diffusione illecita tramite misure prese in cooperazione tra le varie nazioni. Le denunce sono precise: alla fine degli anni Novanta un terzo della produzione di sigarette è andato “perduto” e i documenti scoperti dimostrano che alcuni mercati sono stati forniti solo di prodotti di contrabbando. Nel secondo studio viene dimostrato che le aziende del tabacco hanno avuto un ruolo contraddittorio e cercano costantemente di manipolare l’opinione pubblica e i controlli. Dopo aver a lungo osteggiato l’adozione del protocollo, hanno cercato di lavare la propria immagine e si sono offerte come partner. Hanno organizzato conferenze in Paesi come Kenya, Uganda, Zimbabwe e Sud Africa, con la collaborazione dei Governi di quei Paesi. Lo hanno fatto però per promuovere Codentify, un sistema che permette il tracciamento della catena distributiva e che viene proposto in alternativa ai sistemi governativi pubblici. Infine hanno finanziato studi. Uno di questi, pagato da Philip Morris è stato svolto da Transcrime, un centro di ricerca legato all’Università Cattolica di Milano e all’Università di Trento. I risultati a cui arrivano, sostiene il team del Tobacco Research Group, sono sempre sottostimati, rispetto a quelli che provengono da fonti indipendenti. Dunque non possono essere presi in considerazione. E l’approccio poco trasparente e l’adozione di tattiche che cercano di interferire con gli organi di sorveglianza viene sottolineato anche da un documento pubblicato dal Framework Convention on tobacco control dell’Organizzazione mondiale della sanità, un organismo che ha stilato anche le linee guida del protocollo. In pratica quella portata avanti è una guerra sporca, in cui il controllato mette le mani sul controllo e agisce nelle retrovie in modo da sbilanciare la situazione. “le compagnie continuano a spendere milioni di euro per finanziare la ricerca sul tabacco illecito. Ma se questi dati non rispettano gli standard scientifici ci dobbiamo chiedere se non servano invece a infangare un tema che ha molta importanza per la salute dell’uomo”, ha detto Karen Evans-Reeves, uno degli autori dello studio. In Italia il 5-6% delle sigarette consumate è illecito. Ma perché le industrie hanno interesse a farlo? Le compagnie vengono pagate per il loro prodotto in ogni caso, sia venduto legalmente oppure no. La vendita a prezzi ribassati in compenso aumenta le vendite, ovvero il consumo, senza limiti di età. I marchi illegali presenti in Italia sono Regina, Marble, Pine, Minsk e Mark1 e hanno un prezzo che va da 2,5 a 3,5 euro. Ci sono poi anche brand noti illeciti, come Marlboro, Winston, Rothmans e Chesterfield, il sui prezzo è intorno ai 2,5 euro, mentre dal tabaccaio dovrebbero costare tra 4,50 e 5,20. Il contrabbando viene utilizzato inoltre come scusa per chiedere una riduzione delle tasse. Fa parte di una strategia di marketing perché, incentivandolo, nonostante esistano dei controlli, è possibile chiedere misure per limitarlo che poi diventano vantaggiose, come l’eliminazione restrizioni sulle importazioni o la privatizzazione delle compagnie statali. Legate al contrabbando ci sono insomma questioni di salute, perché consente l’accesso al tabacco con prezzi molto inferiori e accessibili anche ai più giovani, ma soprattutto economiche perché consente l’evasione delle tasse. Alla Ue il mercato nero del tabacco costa ogni anno 10 miliardi di euro di mancati introiti da imposte e dazi e, di questi, 1 miliardo è l’evasione relativa all’Italia. Il nostro Paese è sia mercato di destinazione finale sia area di transito dei commerci illegali da e verso gli altri Stati dell’Unione Europea e che partono dalla Grecia. Nel 2016 sono arrivati da Asia, Africa e Turchia in Grecia 4 miliardi di sigarette di contrabbando. In gennaio l’Osservatorio sulla criminalità nell’agricoltura e sul sistema agroalimentare in collaborazione con Olaf, European anti-fraud office, ha pubblicato una indagine sul collegamento tra criminalità organizzata e traffici illeciti. Gli esperti che lo hanno compilato sostengono che il traffico illecito viene incentivato anche da un altissimo livello di accettabilità sociale del fenomeno, che favorisce lo sviluppo di questo commercio. Secondo la Guardia di Finanza il fenomeno del contrabbando è concentrato in Campania, Friuli Venezia Giulia e Sicilia. In Sicilia, quasi tutte le provenienze avvengono dal Nord Africa, da traghetti provenienti dalla Tunisia o da natanti di clandestini. Inoltre le tasse pagate variano da un Paese all’altro e in questo caso si producono simmetrie che consentono ai mercati non regolari di a espandersi. Il documento The Tobacco Industry and the Illicit Trade in Tobacco Products prodotto dalla Framework convention on tobacco control identifica sei aree di interferenza da parte delle multinazionali: prima di tutto intervengono in politica e fanno lobbying per far accettare dai governi l’organismo di controllo delle compagnie o per non ratificare il protocollo. Sottolineano sempre l’importanza economica dell’industria senza valutare i costi per i sistemi sanitari nazionali dovuti alle patologie da tabacco. Manipolano l’opinione pubblica per guadagnare rispettabilità pubblicizzando la propria responsabilità sociale di impresa, creano gruppi di supporto “indipendenti”, discreditano le ricerche scientifiche pubblicate o propongono come scienza pubblicazioni che non hanno nessun riscontro. Infine minacciano i governi di fare causa perché il loro impegno contro il contrabbando non viene riconosciuto. Gli autori del Tobacco Research Group dichiarano che è ora che governi, uffici delle tasse e organismi dei consumatori, che vengono costantemente gabbati dalle tattiche dell’industria, reagiscano, non credendo alle ricerche prodotte da chi produce tabacco e non accettando i loro sistemi di tracciamento, perché non sono credibili. Libia. Allarme profughi e piano sugli sbarchi a rischio di Fiorenza Sarzanini Corriere della Sera, 4 settembre 2018 La Guardia costiera così non può operare. Impossibile per le motovedette rifornirsi in Libia. Si teme che i trafficanti tornino a intensificare le partenze. Si parla di 50mila persone in attesa di salpare. Adesso il rischio forte è che possa saltare l’intesa sui flussi migratori. L’accordo siglato dal governo Gentiloni è stato di fatto rinnovato dopo l’arrivo a Palazzo Chigi di Giuseppe Conte con la decisione di inviare a Tripoli le motovedette destinate alla Guardia Costiera locale. Ma la guerra civile per ora ha messo all’angolo il capo del governo libico Fayez Sarraj e la situazione appare ormai fuori controllo, anche perché sono saltati i presìdi che consentivano il pattugliamento della costa e le vie di accesso al mare. Il ruolo di Haftar - Diplomazia e intelligence stanno cercando nuovi interlocutori nel timore che i trafficanti tornino a intensificare le partenze. E in questo quadro anche il generale Khalifa Haftar potrebbe avere interesse a indebolire l’Italia - che finora ha platealmente evitato di aprire con lui qualsiasi tipo di negoziato - appoggiando quelle milizie che collaborano con le organizzazioni criminali. Le notizie giunte dalla Libia nelle scorse settimane parlavano di almeno 50mila migranti in attesa di salpare e ciò basta a rendere fin troppo chiaro che cosa potrebbe accadere se non si riuscirà a fermare lo scontro tra le varie fazioni. Anche tenendo conto che dai centri di detenzione sono fuggite centinaia di persone e nessuno al momento è in grado di sapere se tra loro possano esserci pure fondamentalisti islamici. Le motovedette - Il dispositivo di sicurezza è saltato e questo - come viene sottolineato dagli analisti - potrebbe impedire agli ufficiali della Guardia costiera di fare rifornimento di carburante e dunque salpare per effettuare i controlli in mare. Senza contare che gli stessi militari, finora in maggioranza fedeli a Sarraj, potrebbero decidere di inseguire interessi diversi. L’ultima crisi libica, nel giugno 2017, causò l’arrivo in Italia di 12 mila e 500 migranti in 36 ore su 25 navi diverse. Alla guida del Viminale c’era il ministro Marco Minniti che decise di siglare patti con i sindaci delle varie città libiche e varare il codice di comportamento per le Ong. Ora la situazione è radicalmente mutata, le Ong sono fuori dal Mediterraneo e Salvini continua a dichiarare che a nessuna imbarcazione sarà consentito di approdare. Ma la possibilità che ci siano arrivi di massa è concreta, dunque è con questo che l’Italia potrebbe trovarsi a fare i conti, in una situazione di isolamento rispetto agli altri Stati europei che - come è accaduto nel caso della Diciotti - hanno rifiutato la distribuzione dei profughi costringendo Palazzo Chigi ad appellarsi ad Albania e Irlanda prima che la Santa Sede decidesse poi di accogliere 100 stranieri. E nella consapevolezza che non potrà esserci alcun rientro visto che, ora più che mai, la Libia non può essere considerata “porto sicuro”. I diplomatici - L’ambasciatore Giuseppe Perrone sta gestendo la situazione da Roma - dove era arrivato da qualche giorno - visto che l’aeroporto di Tripoli non è agibile e dunque non può rientrare. Ma la sede diplomatica rimane aperta, sia pur con personale ridotto, così come le aziende italiane che operano in Libia. Si è deciso di “alleggerire” le presenze in alcune sedi, come viene specificato alla Farnesina, ma senza prevedere l’evacuazione del personale. Anche l’Eni ha fatto sapere che “l’attività procede regolarmente” e in questo modo ha voluto rassicurare chi ha ipotizzato che potesse esserci un arretramento, soprattutto in un momento di massima tensione tra Italia e Francia che riguarda proprio gli interessi economici in quell’area. I militari italiani - Rimane da decidere il destino dei circa 300 militari dell’esercito italiano che si trovano a Misurata dove hanno allestito l’ospedale da campo che da settimane appare ormai inutilizzato e i 100 uomini della Marina Militare che si trovano a Tripoli. Per questo non è escluso che a breve vengano convocate le commissioni Esteri e Difesa di Camera e Senato proprio per disegnare il percorso da seguire. La Libia lascia il governo senza parole di Angela Mauro huffingtonpost.it, 4 settembre 2018 L’esecutivo esclude l’intervento militare e attacca Macron. L’analisi dell’intelligence italiana: Tripoli occupata dai clan, tornati a 2 anni fa. Ore 15.30 circa del primo lunedì di settembre: a Palazzo Chigi inizia il primo Consiglio dei ministri dopo la pausa estiva. A Tripoli invece si spara. Ma nella riunione del governo italiano non se ne parla: non una parola, riferiscono più fonti di governo. Eppure il caos scoppiato in questi giorni in Libia tocca direttamente gli interessi italiani: quelli strategici in Africa, quelli legati ai flussi migratori. Ed è un caos allarmante perché di fatto potrebbe mettere fine all’esperienza di Fayez al-Serraj alla guida dell’unico governo riconosciuto dalla comunità internazionale e sostenuto soprattutto dall’Italia. Ma a Roma il caos libico spiazza il governo, lo ammutolisce nelle sedi deputate alle decisioni, come il primo consiglio dei ministri dopo l’estate, dove però mancano sia il premier Giuseppe Conte (in vacanza a New York) sia il vicepremier Luigi Di Maio (al tavolo sul caporalato a Foggia). Governo spiazzato: esclude categoricamente l’intervento militare, prende fiato con la polemica politica. Contro Emmanuel Macron. Il primo ad accusare la Francia è Matteo Salvini: lo fa da due mesi, oggi ritorna sull’argomento. “Sono molto preoccupato per la Libia. Evidentemente c’è dietro qualcuno”, dice il leader leghista dopo aver lasciato a metà la riunione del consiglio dei ministri per recarsi alla festa patronale di Santa Rosa a Viterbo. “Nulla succede per caso. Il mio timore è che qualcuno, per motivi economici nazionali, metta a rischio la stabilità dell’intero Nord Africa e conseguentemente dell’Europa”. Qualcuno come la Francia? “Penso a qualcuno che è andato a fare una guerra e non doveva farlo e a qualcuno che fissa delle date delle elezioni senza interpellare gli alleati, l’Onu, i libici. Le forzature, le esportazioni di democrazie e la fissazione di date elettorali a prescindere da quel che pensano i cittadini, non hanno mai portato nulla di buono”. Esclusi però “interventi militari: non servono a nulla”. Stavolta il ministro degli Interni non è solo. Passa qualche ora e contro Macron si scaglia pure Roberto Fico, cioè quanto ci sia di più lontano da Salvini nell’alleanza tra Lega ed M5s. “Sulla Libia sono molto preoccupato - dice il presidente della Camera ospite alla Festa del Pd a Ravenna - perché c’è una tensione enorme ed è qualcosa di cui l’Europa si deve fare carico assolutamente. È un problema grave che ci ha lasciato senza dubbio la Francia”. Dopo Fico arriva Elisabetta Trenta: bisogna “lavorare tutti nella stessa direzione, vale a dire per la cessazione delle ostilità” in Libia, scrive il ministro della Difesa a sera su Facebook, “il presidente Fico ha ragione: la Francia, in questo senso, ha le sue responsabilità!”. Anche Trenta esclude un “intervento militare, in risposta agli scontri che si stanno verificando: non prendo minimamente in considerazione l’argomento”. A parte escludere (l’invio di una task force italiana in Libia è stata smentita già all’ora di pranzo con una nota ufficiale del governo), sulla Libia il governo legastellato sta a guardare. Spiazzato da una situazione che non si aspettava. Salvini ha sempre considerato la Libia il porto sicuro dove rimandare i migranti respinti in Italia. Adesso gli scontri di Tripoli gli tolgono argomenti. Libia porto sicuro? “Chiedetelo a Parigi”, risponde. Si può anche chiedere all’Eliseo, ma sul campo la situazione resta preoccupante e svantaggiosa per l’Italia. In pratica, in vista delle elezioni che Macron ha fissato per il 10 dicembre, si sono rimessi in azione tutti i clan in lotta tra loro in Libia, è l’analisi dell’intelligence italiana. Tripoli in pratica è diventata loro territorio di conquista: occupata, quartiere per quartiere, dai clan provenienti da fuori città, da Misuraca, Tobruk e gli altri centri abitati del paese. Tutti vogliono influenzare il processo elettorale, vogliono contare, prendere il potere: come se a Tripoli non ci fosse un governo a tenere l’ordine. Come se non ci fosse al-Serraj. Questa lotta senza quartiere ha praticamente azzerato gli ultimi due anni di lavoro diplomatico del governo al-Serraj. In pratica è come se il suo governo non ci fosse stato. Tornati a due anni fa: prima cioè della nascita di un governo libico riconosciuto dalla comunità internazionale, un governo che facesse da contraltare al potere stabilito a Tobruk dal generale Haftar, sostenuto da Francia ed Egitto. Insomma un vero caos per l’Italia. Non solo per la propaganda di Salvini sui “porti sicuri”. Gli italiani in Libia sono stati sistemati al sicuro, dicono fonti di intelligence. Tutto ciò che non era necessario, è stato portato via. Ma la decisione politica? Il consiglio dei ministri di oggi si arena sui tabù libici, serve solo a fare una panoramica delle cose da fare dopo l’estate: dalle norme anti-corruzione di cui parla il Guardasigilli Alfonso Bonafede, al dossier Genova, di cui parla il collega delle Infrastrutture Danilo Toninelli. L’esecutivo decide di riconvocarsi entro la fine della settimana. Tripoli può attendere.