No agli impianti anti-fumo in cella, condotti di areazione incompatibili con la sicurezza di Angela Pederiva Il Gazzettino, 3 settembre 2018 Di fatto nelle carceri la legge Sirchia non viene applicata: i detenuti continuano a fumare. Così, lamentando di essersi ammalato a causa del fumo passivo, un agente della Polizia penitenziaria di Montorio (Verona) aveva presentato ricorso al Tar del Veneto, chiedendo la condanna del ministero della Giustizia e l’installazione di un sistema di aerazione. Domanda respinta: un impianto di questo tipo sarebbe incompatibile con le esigenze di sicurezza del penitenziario. Una sentenza che riporta alla memoria la celebre Fuga da Alcatraz, avvenuta proprio tramite le condotte della ventilazione. I detenuti fumano e gli agenti si ammalano, ma il ministero della Giustizia non risarcisce. Così è, e così sarà, perlomeno al carcere veronese di Montorio: il Tar del Veneto ha respinto il ricorso di un secondino, che lamentava di aver contratto una patologia respiratoria proprio a causa della nicotina inalata per colpa delle sigarette altrui. Secondo i giudici, infatti, l’installazione di un impianto di aerazione sarebbe incompatibile con le esigenze di sicurezza del penitenziario: il rischio, pare di capire, è che i reclusi possano scappare, in stile Fuga da Alcatraz. La vicenda - Secondo quanto emerge dagli atti della causa, il poliziotto lavora dal 1999 a Montorio, interessato dal problema “della costante stagnazione di grandissime quantità di fumo”, il che avviene anche in tante altre prigioni, stando alle periodiche denunce dei sindacati di categoria (come ad esempio il Sappe: “Il personale che lavora nelle sezioni detentive, alla stregua dei detenuti non fumatori, è costretto a respirare per 8,9 ore al giorno il fumo passivo emanato dai detenuti”). Per questo nel 2008 il dipendente aveva presentato una querela e aveva ottenuto un sopralluogo mirato alla tutela della salute dei lavoratori, ma “nonostante le diffide e intimazioni” ad attivare dei meccanismi di aerazione, la direzione del carcere si era limitata per “meno di due anni” ad impiegarlo in posti di servizio esterni, salvo farlo ritornare all’interno dal 2012. L’agente affermava di essersi ammalato alle vie respiratorie proprio a causa dell’esposizione al tabacco, tanto da aver riportato otto punti percentuali di invalidità biologica permanente. La contestazione all’amministrazione penitenziaria era di non aver “predisposto un sistema di aspirazione localizzata, e nemmeno un adeguato sistema di ventilazione”, malgrado la “presenza di elementi cancerogeni e mutageni nell’aria”. Da qui la richiesta al Tribunale amministrativo regionale di condannare il ministero sotto tre profili: a risarcire il danno alla salute subìto, quantificato in 30.293,69 euro; a rendere il luogo di lavoro conforme alla normativa sulla sicurezza sul lavoro, installando un idoneo impianto di aerazione; ad esonerare il secondino dai servizi interni finché gli ambienti non saranno resi salubri. le motivazioni - La prima domanda è stata però respinta, mentre la seconda e la terza sono state dichiarate inammissibili. Il risarcimento è stato negato perché, secondo il Tar, non è stato chiaramente dimostrato un nesso di causalità tra l’esposizione al fumo passivo e l’insorgenza della patologia respiratoria. Quanto all’installazione di sistemi di aspirazione e ventilazione forzata, “tale rimedio potrebbe non essere compatibile con la funzione di restrizione della libertà personale”: parole che fanno andare il pensiero alla celebre evasione dal carcere di massima sicurezza di Alcatraz, portata sul grande schermo da Clint Eastwood, che nel 1962 vide scappare tre detenuti proprio attraverso un tunnel scavato all’interno della griglia di areazione delle celle. Alternative? L’opzione delle sanzioni per la violazione del divieto di fumo, sancito dalla legge Sirchia del 2003, viene scartata dai giudici “vista la sua scarsa efficacia” nei confronti della popolazione carceraria: chi mai riuscirebbe ad imporre il pagamento delle multe da parte dei detenuti? E della rotazione del personale, in modo da adibirlo a servizi in luoghi differenti senza destinarlo continuativamente alle sezioni interne, l’agente ha beneficiato in passato e potrà tornare a farlo in futuro, “ovviamente senza poter pretendere di essere l’unico a goderne”. Salvini: proporrò a Bonafede di estendere la sperimentazione del taser alle carceri di Andrea Lattanzi La Repubblica, 3 settembre 2018 “Domani ne parlerò con il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, la Polizia penitenziaria è di sua competenza. Dal mio punto di vista non ci sarebbe alcun problema a estendere anche ai lavoratori delle carceri la sperimentazione del taser”. Il ministero degli Interni e vicepremier Matteo Salvini risponde così a chi gli chiedeva se dopo l’incidente in carcere a Prato - nel quale un detenuto sudamericano ha aggredito quattro agenti - vi fosse la possibilità di estendere anche alla polizia penitenziaria la dotazione del taser. “Amnesty International parla di mille morti l’anno? Lo usano in Vaticano e non vedo l’ora che diventi uno strumento effettivo”. Esecuzione penale esterna in cerca di esperti Italia Oggi, 3 settembre 2018 Esecuzione penale esterna, al via la selezione di esperti. La Direzione generale per l’esecuzione penale esterna e per la messa alla prova del ministero della giustizia ha pubblicato un avviso per il conferimento mediante procedura selettiva comparativa di incarichi di collaborazione esterna di supporto al progetto «Innovazione sociale dei servizi di reinserimento delle persone in uscita dai circuiti penali». La ricerca verte su un esperto in gestione, rendicontazione e revisione di progetti finanziati con fondi europei e un esperto legale in contrattualistica pubblica e gestione e rendicontazione di progetti fi nanziati con fondi europei. La presentazione della candidatura dovrà avvenire entro e non oltre le ore 20 del giorno 21 settembre 2018. Il bando al link https://www.giustizia.it/giustizia/it/mg_1_6_1.page?contentId=SCE132616&previsiousPage=mg_16_1. Ddl anticorruzione, arriva il Daspo per i condannati: appalti pubblici vietati per sempre di Liana Milella La Repubblica, 3 settembre 2018 Finora la “squalifica” massima era di 5 anni. Ora l’esclusione perpetua scatterà con pene oltre i due anni. “Necessario punire l’intrinseco disvalore di quelle condotte”. Perpetuo. Per tutti i reati di corruzione. Per tutte le condanne oltre i due anni. Per tutti i reati futuri, non appena sarà approvata la legge Bonafede che trasferisce nel codice penale il Daspo, misura severa che oggi vieta ai tifosi che commettono atti di violenza di entrare allo stadio. Se quella è una “pena” che dura solo cinque anni, il Daspo del Guardasigilli grillino sarà una definitiva spada di Damocle sulla testa dei chi paga mazzette e viola la legge. Una volta condannato, l’imprenditore sarà per sempre escluso dagli affari della Pubblica amministrazione, mentre oggi può esserlo soltanto per un periodo massimo di cinque anni. Per lui non varrà neppure l’eventuale riabilitazione. Né avrà effetto un affidamento con esito positivo ai servizi sociali. Non basta: non gli servirà neppure patteggiare la pena, né tantomeno ottenere una sospensione condizionale. Il Daspo sarà sempre lì, a segnare negativamente la carriera di chi ha violato le regole pur di ottenere un appalto. Il Daspo è il “cuore” della legge anticorruzione che il ministro della Giustizia si appresta a portare a uno dei prossimi consigli dei ministri e di cui Repubblica anticipa il contenuto. Daspo, agenti sotto copertura, appropriazione indebita perseguibile d’ufficio e non soltanto su denuncia, un mini pacchetto di norme che il “Greco”, il Gruppo europeo anticorruzione, e l’Ocse, sollecitavano da tempo all’Italia. Ma il fiore all’occhiello, la norma su cui Bonafede ha lavorato tutta l’estate, ascoltando a tappeto il parere di molti esperti, è proprio il Daspo. Una misura che, per l’impatto e le conseguenze fortemente dissuasive e disincentivanti, al ministero di via Arenula viene paragonata alle leggi eccezionali contro Cosa nostra varate nel 1992 dopo le stragi di mafia. La relazione che accompagna il disegno di legge contiene il lungo elenco di reati per i quali l’interdizione perpetua dai pubblici uffici e il Daspo - due misure che correranno a braccetto - diventeranno la regola. Ecco la lista: malversazione aggravata dal danno patrimoniale grave, corruzione per l’esercizio della funzione, corruzione propria, induzione indebita a dare o promettere utilità, corruzione attiva, istigazione alla corruzione, peculato, concussione, abuso d’ufficio aggravato dal vantaggio o dal danno di rilevante gravità, traffico di influenze illecite. Una lista ben più pesante rispetto alla short list prevista oggi per l’interdizione perpetua dai pubblici uffici. Sotto e sopra i due anni I giuristi di via Arenula spiegano che “per ambedue le pene accessorie (Daspo e interdizione) viene previsto il divieto di contrattare per il periodo di cinque anni nel caso in cui la pena inflitta non superi i due anni; in perpetuo nel caso in cui sia superiore”. Perché mantenere comunque il tetto dei due anni? “L’esigenza di garantire intrinseca razionalità al sistema sanzionatorio e di evitare automatismi che violino i canoni di proporzionalità e adeguatezza e la finalità rieducativa della pena suggeriscono di mantenere il tetto dei due anni pur a fronte del prolungamento della durata a cinque anni”. Giustificata invece la misura perpetua per chi è condannato oltre i due anni “per l’intrinseco disvalore delle condotte a tutela del buon andamento e del prestigio della pubblica amministrazione”. Riabilitazione ininfluente A “salvare” l’imprenditore corrotto dal Daspo non basterà neppure una eventuale riabilitazione concessa dal giudice e neppure il fatto di aver scontato con esito positivo la pena con l’affidamento ai servizi sociali. (Il caso più noto è quello di Silvio Berlusconi, il cui reato però, la frode fiscale, non è compreso nella lista di Bonafede). Anche in questo caso Daspo e interdizione proseguiranno il loro “cammino” e rappresenteranno un ostacolo insormontabile e definitivo rispetto alla possibilità di ottenere ancora commesse o contratti dalla pubblica amministrazione. Annunciano da Via Arenula anche “l’esclusione di automatismi fra sospensione condizionale della pena o applicazione della pena concordata”. Quindi anche chi sceglierà la procedura del patteggiamento o avrà ottenuto la sospensione condizionale della pena non potrà sfuggire al Daspo permanente. In più il disegno di legge Bonafede spezza gli automatismi consentiti finora dalla legge che avevano legato le mani ai giudici, i quali torneranno invece pienamente “padroni” della gestione di entrambi gli istituti. Di Maio: nel ddl anti anticorruzione anche l’agente sotto copertura di Alessandra Arachi Corriere della Sera, 3 settembre 2018 L’annuncio del vicepremier: il ddl conterrà anche il daspo per i corrotti e l’agente sotto copertura. Le perplessità del presidente dell’Anticorruzione Cantone. Luigi Di Maio lo ha annunciato come ormai pronto: “Il disegno di legge anti corruzione a breve andrà all’esame delle Camere”, ha detto il vicepremier pentastellato, commentando uno dei provvedimenti più voluti dal M5S che non poche critiche ha suscitato e sta suscitando tra gli addetti ai lavori, l’Associazione nazionale magistrati e penalisti in testa. “Il ddl conterrà norme aspettate per anni e non fatte perché la politica aveva paura di farle, come il daspo per i corrotti e l’agente sotto copertura”, ha detto il vicepremier Di Maio citando uno dei provvedimenti che già a giugno aveva sollevato dubbi nel presidente dell’Anticorruzione Raffaele Cantone. All’epoca sembrava che nel disegno di legge dovesse esserci oltre che quello sotto copertura anche l’agente provocatore che Cantone aveva stroncato senza appello e che adesso sembra essere stato accantonato. Ma anche per l’agente di copertura Cantone aveva espresso riserve: “È una figura che va usata con parsimonia e sotto lo stretto controllo della magistratura”. Fino a oggi gli agenti coperti agivano nell’ambito di indagini su traffico di droga, terrorismo, mafia. Adesso potranno entrare negli uffici della pubblica amministrazione. Il daspo per i corrotti è un provvedimento a vita: per un condannato per corruzione in via definitiva le porte delle stanze della pubblica amministrazione saranno chiuse per sempre. “Toglieremo le mani dalla marmellata a tanti furbi”, ha detto Di Maio, rincalzato dal Guardasigilli Alfonso Bonafede che ha parlato di “una riforma rivoluzionaria”, spiegando: “Tutti devono sapere che ci si può fidare nel nostro Paese, che si può investire senza il timore di essere danneggiati da chi usa la corsia preferenziale della corruzione”. Nel frattempo il ministro Bonafede ha voluto bloccare due richieste di due magistrati che erano diventati parlamentari: Anna Finocchiaro, senatrice del Pd, e Felice Casson, già senatore del Pd poi passato ad Articolo 1. Anna Finocchiaro aveva chiesto - e ottenuto dal Csm - di essere destinata al Dipartimento per gli Affari di Giustizia. Ma adesso dopo l’intervento del Guardasigilli dovrà tornare a fare il magistrato. E anche per Felice Casson si dovrà trovare un altro ruolo: quello voluto dal precedente ministro Orlando - magistrato di collegamento a Parigi - a Bonafede non va bene. Ecco il “taser” nelle fondine, mercoledì via alla sperimentazione La Repubblica, 3 settembre 2018 Si parte in una dozzina di città. La novità annunciata da Salvini su Facebook per “aiutare migliaia di agenti a fare meglio il loro lavoro”. E dal Viminale arriva anche una stretta sulle occupazioni abusive: “Subito un censimento e sgomberi più rapidi”. Da mercoledì, nelle fondine degli agenti arriveranno i taser. Parte ufficialmente in una dozzina di città la sperimentazione delle pistole elettriche da parte delle forze dell’ordine. Gli agenti che hanno completato qualche mese di formazione avranno dunque in dotazione l’arma ad impulsi elettrici che inibisce i movimenti dei soggetti colpiti. Lo ha annunciato ieri il Viminale con una circolare in cui rende nota anche una seconda novità: la richiesta di effettuare un censimento degli occupanti abusivi di immobili e di accelerare gli sgomberi. Il taser “aiuterà migliaia di agenti a fare meglio il loro lavoro. Per troppo tempo le nostre forze dell’ordine sono state abbandonate, è nostro dovere garantire loro i migliori strumenti per poter difendere in modo adeguato il popolo italiano. Orgoglioso del lavoro quotidiano delle forze di polizia e carabinieri”, ha scritto il ministro Matteo Salvini affidando ancora una volta a Twitter la comunicazione delle novità in arrivo dal Viminale. Dopo un iter partito nel 2014, il decreto per l’ok alla sperimentazione, affidata alla polizia, ai carabinieri e alla guardia di finanza, è stato firmato lo scorso luglio: le città coinvolte in questa prima fase sono Milano, Napoli, Torino, Bologna, Firenze, Palermo, Catania, Padova, Caserta, Reggio Emilia, Genova e Brindisi. Secondo le linee guide diffuse dal ministero, la distanza consigliabile per un tiro efficace è dai 3 ai 7 metri. Il Taser “va mostrato senza esser impugnato per far desistere il soggetto dalla condotta in atto”. Se il tentativo fallisce si spara il colpo, ma occorre “considerare per quanto possibile il contesto dell’intervento ed i rischi associati con la caduta della persona dopo che la stessa è stata attinta”. Gli agenti dovranno inoltre tener conto della “visibile condizione di vulnerabilità” del soggetto, ad esempio una donna incinta, e fare attenzione all’ambiente circostante per il rischio di incendi, esplosioni, scosse elettriche. Il Taser è già in dotazione alle forze di polizia di circa 107 paesi tra cui Canada, Brasile, Australia, Nuova Zelanda, Kenya e in Europa in Finlandia, Francia, Germania, Repubblica Ceca, Grecia e Regno Unito. Sul fronte degli sgomberi, invece, le novità riguardano una richiesta con massima rapidità di un censimento degli occupanti abusivi di immobili e l’individuazione di minori o soggetti ‘fragili’, per i quali in caso di necessità i servizi sociali dei Comuni attiveranno specifici interventi “non negoziabili”. Secondo il documento, il censimento degli occupanti deve essere “condotto, anche in forma speditiva, sotto la regia dei servizi sociali dei Comuni e, laddove occorra, con l’ausilio dei soggetti del privato sociale”. Linea dura del Viminale: via gli occupanti abusivi dalle case, anche senza alternative di Fabio Tonacci La Repubblica, 3 settembre 2018 Salvini liquida il sistema Minniti: soltanto i soggetti deboli avranno diritto all’assistenza. La preoccupazione di Pd e Unione inquilini. Con la circolare sugli sgomberi delle occupazioni abusive che, in parte, riscrive quelle firmate dal suo predecessore, il ministro dell’Interno Matteo Salvini coglie tre “obiettivi” in un colpo solo: sollecitare l’indignazione dell’opposizione (“direttiva folle”) e dell’Unione degli inquilini (“socialmente aberrante”); mostrare ai suoi l’ennesima gestione muscolare di un problema complesso; complicare, non poco, la vita ai sindaci. In Italia non si sa, con precisione, quanti siano gli edifici occupati abusivamente per emergenza abitativa. Federcasa, nel 2016, li stimava in 48.000 unità, tra pubblici e privati. Al Viminale girano cifre che variano a seconda che siano conteggiati, o meno, gli alloggi popolari. Comunque, la fotografia che se ne ricava, grossomodo, è questa: Milano 42 immobili e 4.000 appartamenti popolari e Aler, per circa 5.000 inquilini abusivi; Napoli 80 immobili; Firenze 30 immobili e 1.500 inquilini; Roma 92 immobili, di cui 66 a uso abitativo, e 12.000 occupanti. Proprio Roma, per un cortocircuito tra Campidoglio e Prefettura, nell’agosto scorso fu teatro dell’emergenza degli “ottocento immigrati di via Curtatone”, sgomberati dal palazzo senza però che fosse stato previsto un piano di sistemazione alternativa per tutti. Per tre giorni, quindi, bivaccarono in piazza Indipendenza e dovette intervenire la polizia. Quel cortocircuito, con la nuova circolare, rischia di riproporsi. Vediamo come. Le cinque pagine inviate a tutti i prefetti dal Capo di gabinetto Matteo Piantedosi ordinano ai Servizi sociali comunali di fare un censimento, “condotto anche in forma speditiva”, per identificare gli occupanti abusivi, rilevarne il reddito attraverso l’anagrafe tributaria e la Guardia di finanza, verificare la regolarità dei permessi di soggiorno degli stranieri. Il censimento serve per individuare chi è “in condizioni di fragilità” (principalmente minorenni, anziani, malati, donne incinte) ma anche per scoprire chi fa il furbo. Solo all’esito del monitoraggio, che il Viminale vorrebbe avere entro settembre, scatterà il piano degli sgomberi con la forza. E qui si arriva al punto. Finora valevano le disposizioni dell’ex ministro Minniti, secondo cui, oltre all’ordine pubblico e ai diritti dei proprietari, bisognava tutelare anche gli occupanti, “quando essi possano vantare dei diritti per i quali occorre intervenire con prestazioni assistenziali, o si trovino comunque in condizioni di marginalità sociale”. Tradotto nella prassi, significava che prima di cacciare la gente, il Comitato metropolitano a cui sedevano gli enti locali doveva aver trovato una sistemazione alternativa. A tutti, e proprio per evitare altri casi tipo piazza Indipendenza. Ora non sarà più così. In nome della velocità, il principio viene ribaltato. Per i soggetti vulnerabili, non autonomi e “privi anche del sostegno dei parenti”, si devono attivare i Servizi sociali per interventi “non negoziabili”. E solo nella fase successiva, a sgombero avvenuto, i Comuni penseranno a una soluzione che “permetta loro l’inclusione sociale”. Per tutte le altre persone, sarà sufficiente trovare una soluzione provvisoria, un “parcheggio” di qualche giorno, “il tempo strettamente necessario - recita la circolare - all’individuazione, da parte loro, di un alloggio alternativo”. Quindi devono trovarsi, da soli, la casa che non avevano trovato e per cui avevano deciso di occupare. In ogni caso, si rimanda a dopo l’intervento della polizia “ogni valutazione in merito a tutela delle altre istanze”. La direttiva, che andrà a colpire anche i centri sociali, ha sollevato un polverone. “Questo governo fa la guerra ai poveri e non alle mafie, la circolare è una follia”, sostiene il presidente del Pd Matteo Orfini. Al quale ribatte, via twitter, lo stesso Salvini. “Roba da matti! La proprietà privata è sacra. Se affitti il tuo appartamento alla persona sbagliata, non puoi metterci due anni a tornare in casa tua”. La mafia uccide e lo Stato non paga i parenti di Nello Trocchia Il Fatto Quotidiano, 3 settembre 2018 Basta una parentela sospetta e il Viminale blocca gli assegni per le famiglie delle persone ammazzate dalla malavita. Ma i parenti continuano a lottare e fanno ricorso: “perso il senso della dignità”. Ercolano, provincia di Napoli. Per Salvatore Barbaro, vittima innocente della camorra nel 2009, c’è anche una lapide. Gennaro Migliore, sottosegretario al ministero della Giustizia, in rappresentanza del governo alla commemorazione del 2016 disse: “Ci inchiniamo di fronte alla dignità di questa famiglia”. Una famiglia che, oggi, si sente tradita. Per il ministero dell’Interno, i familiari non possono ricevere il sussidio come parenti di una vittima innocente di camorra perché in famiglia, entro il quarto grado di parentela ci sono alcuni componenti con precedenti penali, ma che nulla hanno a che fare con reati di mafia. E di casi come questo se ne contano sempre più negli ultimi anni per una interpretazione molto stringente della legge risalente al 1990 e modificata, l’ultima volta, nel 2009. “I provvedimenti recentemente assunti da Ministero e Prefettura mortificano i parenti delle vittime. Non è tollerabile applicare criteri diversi, visto che con questa impostazione il sussidio non sarebbe stato dato a familiari di vittime, oggi, diventate un riferimento per tutti”, spiega l’avvocato Gianni Zara che segue i familiari. Il matrimonio mai celebrato di Barbero - Salvatore era in auto, ad Ercolano, a pochi metri dal centro storico. Era il 13 novembre del 2009. In quei giorni stava ristrutturando la casa dove avrebbe trascorso la sua vita da marito e da padre di una bimba di tre mesi. Viene affiancato da uno scooter e ucciso da undici colpi di pistola. I killer avevano sbagliato persona, l’auto era la stessa del loro obiettivo. “Barbaro è stato ammazzato per errore, era un bravo ragazzo, era un cantante, andava a cantare”, racconterà un pentito durante il processo. Lo scorso dicembre, gli assassini di Salvatore sono stati condannati, in primo grado, all’ergastolo. Si tratta di Natale Dantese detenuto al 41 bis, Pasquale Spronello e Antonio Sannino ritenuti elementi di vertice del clan Ascione-Papale, egemone ad Ercolano. I familiari di Salvatore hanno chiesto di accedere ai benefici di legge come familiari di una vittima innocente della camorra, ma il ministero dell’Interno ha rigettato la richiesta perché, tra le altre ragioni, a un parente di Salvatore è stato contestato il reato di detenzione e spaccio di droga. “Quei reati non c’entrano nulla con i limiti previsti dalla norma”, spiega l’avvocato Gianni Zara. C’è anche un foglio di via obbligatorio a cui è stato sottoposto un’altra parente. “È un atto del 1981, la signora è stata riabilitata”, ribatte il legale nel ricorso pendente davanti al Tribunale di Napoli. Zara è da sempre in prima linea contro i clan, in passato fu anche sindaco di Casapesenna, feudo dello spietato boss Michele Zagaria. Il pentito Michele Barone ha raccontato che Zagaria avrebbe voluto morto quell’avvocato, perché da sindaco ha mantenuto la schiena dritta. Oggi Zara assiste i familiari delle vittime, questa la sua nuova battaglia. “Tra pochi giorni con i familiari - spiega l’avvocato - presenteremo un esposto contro Ministero e Prefettura”. Ma tra i dinieghi che fanno discutere non c’è solo il caso dei familiari di Salvatore Barbaro. Pagliuca e l’orrore del clan dei Casalesi - Quella di Genovese Pagliuca è una storia che racconta la crudeltà e gli orrori commessi dal clan dei Casalesi. La sua fidanzata finisce nelle grazie di Angela Barra, amante del boss Francesco Bidognetti, conosciuto come “Cicciotto e mezzanotte”, ma la rifiuta. Un “no” che le costerà abusi e angherie: per diversi giorni la ragazza viene sequestrata e violentata per ordine del criminale. Genovese non si dà pace e va di persona a parlare con i vertici del clan. La ferocia della camorra ha una sola risposta: Pagliuca ha sfidato e viene ucciso a Teverola, in provincia di Caserta. Era il 19 gennaio del 1995. Ad ucciderlo il boss e killer del clan Giuseppe Setola, ora rinchiuso al 41bis, e per quel delitto condannato all’ergastolo invia definitiva insieme ad altri vertici del clan. Per la giustizia Genovese Pagliuca è vittima della camorra, vittima innocente. Per il ministero dell’Interno no, perché in una informativa, confluita nel processo che ha stabilito l’innocenza e l’estraneità di Pagliuca da contesti criminali, viene scritto che frequentava un esponente del clan, una conoscenza giovanile. Il ricorso dei familiari, ormai ottantenni e provati da questa infinita trafila, è stato accolto dal giudice Vincenzo Pappalardo del Tribunale di Napoli. La sentenza ribadisce “l’estraneità della vittima a organizzazioni criminali”. Finita? Neanche per sogno. Il ministero ricorre in appello suscitando l’ira dei familiari: “Hanno perso il senso di umanità”. Condannato con diritto a sospensione, il giudice dell’esecuzione deve accogliere domanda di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 3 settembre 2018 Cassazione - Sezione I penale - Sentenza 20 luglio 2018 n. 34427. In riferimento alla declaratoria di illegittimità costituzionale dell’articolo 656, comma 5, del Cpp (affermata dalla sentenza della Corte costituzionale n. 41 del 2018), il giudice dell’esecuzione, lì dove il condannato, da detenuto in espiazione per reati non ostativi, formuli domanda di sospensione temporanea dell’ordine di esecuzione (relativo a pena superiore a tre anni e inferiore a quattro anni), ha il dovere di valutare la domanda e di provvedere, in presenza degli ulteriori presupposti di legge, al ripristino della facoltà di proposizione - da libero - della domanda di misura alternativa, con temporanea sospensione della esecuzione, salva l’ipotesi di avvenuta decisione da parte del tribunale di sorveglianza di una analoga domanda proposta dopo l’inizio della esecuzione cui la richiesta si riferisce. Lo ha chiarito la sezione I penale della Cassazione con la sentenza 20 luglio 2018 n. 34427. La Cassazione ha accolto il ricorso del condannato avverso il provvedimento del giudice dell’esecuzione che aveva dichiarato inammissibile la domanda tesa a ottenere - ora per allora - la sospensione dell’ordine di carcerazione già eseguito. A supporto della decisione, la Corte ha, in primo luogo, ricordato che spetta in ogni caso al giudice dell’esecuzione - quale organo teso a dirimere i conflitti su diritti soggettivi insorti dopo la formazione del giudicato - la potestà di accordare al condannato, lì dove ciò non sia avvenuto da parte del pubblico ministero e ne ricorrano i presupposti di legge, la facoltà di presentazione dell’istanza di misura alternativa in condizione di libertà (o di arresti domiciliari esecutivi) ai sensi dell’articolo 656, commi 5 e 10, del Cpp. In secondo luogo, la Corte si è soffermata sugli effetti e l’ambito di operatività della sentenza 6 febbraio-2 marzo 2018 n. 41 con cui la Corte costituzionale ha dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’articolo 656, comma 5, del Cpc, nella parte in cui si prevede che il pubblico ministero sospende l’esecuzione della pena detentiva, anche se costituente residuo di maggiore pena, non superiore a tre anni, anziché a quattro. In proposito, il giudice di legittimità, proprio sullo specifico tema degli effetti della declaratoria di incostituzionalità, ha inteso ribadire che le sentenze dichiarative di illegittimità costituzionale di una norma hanno efficacia erga omnes dal giorno successivo a quello in cui la decisione è pubblicata nella “Gazzetta Ufficiale”, e spiegano i loro effetti non soltanto per il futuro, ma anche retroattivamente in relazione a fatti o a rapporti instauratisi nel periodo in cui la norma incostituzionale era vigente, con il solo limite delle situazioni giuridiche “esaurite”, e cioè non più suscettibili di essere rimosse o modificate, come quelle determinate dalla formazione del giudicato, dall’operatività della decadenza, dalla preclusione processuale (cfr. sezioni Unite, 29 marzo 2007, Lista; nonché, Sezione I, 1° aprile 2016, Arifaj e altro). Da questa premessa, la Corte di legittimità ha ritenuto, per le vicende esecutive interessate dalla sentenza n. 41 del 2018 (pubblicata il 2 marzo 2018), l’avvenuto “esaurimento del rapporto” solo nel caso di intera esecuzione terminata alla data del 2 marzo 2018 e nel caso in cui, a tale data, fosse già intervenuta la valutazione da parte della magistratura di sorveglianza di una domanda di misura alternativa. Per l’effetto, si è considerato non ancora “esaurito” il rapporto nel caso in cui sia stata posta in esecuzione una condanna “sospendibile” in virtù della declaratoria di incostituzionalità (condanna a pena residua superiore a tre anni ed inferiore ad anni quattro) e sia mancata una valutazione da parte della magistratura di sorveglianza in punto di applicazione della misura alternativa (senza che rilevi, sul punto, che la mancata valutazione sia dipesa da assenza di domanda o da ritardo nella decisione), con la conseguenza che in tale ipotesi il condannato avrebbe diritto, ora per allora, di ottenere (in concorrenza degli ulteriori presupposti) la “restituzione” nella facoltà a lui spettante, preclusa al momento dell’emissione dell’ordine di esecuzione da una norma di legge contrastante con la Costituzione ed espunta dall’ordinamento. La sentenza, ineccepibile, non sembra però legittimi una attivazione officiosa del pubblico ministero per tutti i casi di ordine di carcerazione eseguiti, rendendosi a tal fine necessaria l’iniziativa del condannato diretta a sollecitare l’intervento del giudice dell’esecuzione, giacché non sembra revocabile in dubbio che il rapporto esecutivo, benché non esaurito per il condannato, che volesse chiedere di essere restituito in termini per chiedere l’applicazione di misura alternativa, lo è per il pubblico ministero, allorquando questi, nella vigenza della norma poi solo successivamente dichiarata incostituzionale, ha “esaurita” l’attività di competenza, onde ogni successiva determinazione è rimessa al giudice dell’esecuzione, attivato dalla domanda dell’interessato. Nel decreto di sequestro specifica motivazione sulla finalità perseguita di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 3 settembre 2018 Cassazione - Sezioni Unite penali - Sentenza 27 luglio 2018 n. 36072. Il decreto di sequestro (così come il decreto di convalida di sequestro) probatorio, anche ove abbia a oggetto cose costituenti corpo di reato, deve contenere una specifica motivazione sulla finalità perseguita per l’accertamento dei fatti, dovendosi escludere la sussistenza di una sorta di “obbligatorietà” del sequestro del corpo di reato tale da esonerare dall’obbligo di motivazione. Lo hanno detto le sezioni Unite penali con la sentenza n. 36072 del 27 luglio 2018. Le sezioni Unite hanno supportato l’affermazione dell’obbligo di motivazione anche nel caso di sequestro probatorio del corpo di reato principalmente dalla portata precettiva degli articoli 42 della Costituzione e 1 del primo protocollo addizionale della Convenzione Edu, laddove trova fondamento il diritto alla “protezione della proprietà”, giacché la motivazione sulle ragioni probatorie del vincolo di temporanea indisponibilità della cosa, anche quando si identifichi nel corpo del reato, garantisce che la misura sia soggetta al permanente controllo di legalità e di concreta idoneità in ordine all’an e alla sua durata, in particolare per l’aspetto del giusto equilibrio o del ragionevole rapporto di proporzionalità tra il mezzo impiegato, ossia lo spossessamento del bene, e il fine endoprocessuale perseguito, ovvero l’accertamento del fatto di reato. A ciò, si è aggiunta la considerazione che anche per le misure cautelari reali (quindi, anche per il sequestro probatorio, quale mezzo di ricerca della prova) devono valere i principi di proporzionalità, ragionevolezza, adeguatezza e residualità della misura, dettati dall’articolo 275 del codice di procedura penaleper le misure cautelari personali, i quali devono costituire oggetto di valutazione preventiva e non eludibile da parte del giudice nell’applicazione delle cautele reali, al fine di evitare un’esasperata compressione del diritto di proprietà e di libera iniziativa economica privata. A conforto ulteriore della necessità della motivazione, le sezioni unite hanno valorizzato, dal punto di vista sistematico, le indicazioni ricavabili dagli articoli 262, comma 1, e 354, comma 2, del codice di procedura penale: in particolare, la valenza generale della prima disposizione, secondo cui “quando non è necessario mantenere il sequestro a fini di prova, le cose sequestrate sono restituite a chi ne abbia diritto prima della sentenza”, la rende applicabile anche al corpo di reato e conferma l’inaccettabilità dell’assunto secondo cui il fine probatorio sarebbe automaticamente e connaturalmente insito al corpo di reato; mentre, l’articolo 354, comma 2, del codice di procedura penale, che, facendo riferimento al momento genetico del sequestro, attribuisce alla polizia giudiziaria il potere di procedere “se del caso”, al sequestro del corpo del reato e delle cose a questo pertinenti, proprio per l’utilizzo di detta locuzione è ulteriormente confermativo del fatto che anche per il corpo del reato non vi è alcun automatismo acquisitivo. Reato di interferenze illecite nella vita privata: configurabilità e oggetto giuridico Il Sole 24 Ore, 3 settembre 2018 Reati contro la persona - Delitti contro l’inviolabilità del domicilio - Interferenze illecite nella vita privata - Configurabilità. Il discrimine tra interferenza illecita e lecita non è costituito dalla natura del momento di riservatezza e di intimità violato, ma dalla circostanza che il soggetto attivo vi sia stato o meno partecipe. Di conseguenza risponde del reato di cui all’art. 615-bis cod. pen. anche il dominus loci che predisponga mezzi di captazione sonora o visiva nella propria dimora di immagini o situazioni, senza esserne soggetto partecipe, riguardanti la sfera privata degli altri soggetti che vi si trovino, sia che siano stabili conviventi che ospiti occasionali. (Nella specie i Giudici della Suprema Corte hanno condannato il marito per aver ripreso la moglie in momenti di intimità nella cura della propria persona). • Corte di cassazione, sezione V penale, sentenza 27 luglio 2018 n. 36109. Delitti contro l’inviolabilità del domicilio - Interferenze illecite nella vita privata - Bene tutelato. L’oggetto giuridico del reato di interferenze illecite nella vita privata di cui all’art. 615-bis c.p.è la riservatezza domiciliare, formula che identifica il diritto alla esclusiva conoscenza di quanto attiene alla sfera privata domiciliare e cioè all’estrinsecazione della personalità nei luoghi di privata dimora. In altri termini oggetto della tutela è la proiezione spaziale della personalità nei luoghi in cui questa si manifesta privatamente. • Corte di cassazione, sezione V penale, sentenza 27 luglio 2018 n. 36109. Privacy - Interferenze illecite nella vita privata - Consumazione - Possibile permanenza - Effetti in tema di arresto in flagranza. Per il reato di interferenza illecita nella vita privata di cui all’articolo 615-bis del C.p. il momento perfezionativo non coincide con l’istallazione delle telecamere presso l’abitazione altrui, ma con il procurarsi indebitamente notizie o immagini attinenti alla vita privata, svolgentesi nei luoghi indicati nell’art. 614 Cod. pen.: ricorre, quindi, una fattispecie che, pur essendo a consumazione istantanea, può anche atteggiarsi a reato eventualmente permanente, quando il suo autore lo progetti e lo esegua con modalità continuative (nella specie, in cui l’indagato veniva fermato nel mentre aveva con sé il telefono cellulare sul quale era installato il programma che gli consentiva di visionare a distanza quanto captato attraverso le microcamere collocate presso l’abitazione e il cortile della vittima, la Corte ha ritenuto che il reato fosse da considerare permanente, con la conseguenza che l’arresto dell’autore, diversamente da quanto ritenuto dal giudice della convalida, doveva considerarsi legittimamente eseguito, posto che, ai sensi dell’articolo 382, comma 2, del C.p.p., nel reato permanente lo stato di flagranza dura fino a quando non è cessata la permanenza). • Corte di cassazione, sezione V penale, sentenza 5 marzo 2018 n. 9966. Reati contro la persona - Delitti contro la libertà individuale - Collocazione all’interno d’autovettura di telefono cellulare in grado di intercettare le conversazioni tra i presenti - Configurabilità del reato di cui all’art. 615 bis cod. pen. - Esclusione. La collocazione occulta all’interno di un veicolo di un telefono cellulare in grado di intercettare le conversazioni intercorse tra le persone a bordo non integra il reato di interferenze illecite nella vita privata, non essendo qualificabile l’autovettura come luogo di privata dimora. • Corte di cassazione, sezione V penale, sentenza 4 febbraio 2009 n. 4926. Reati contro la persona - Interferenze illecite nella vita privata - Elementi della fattispecie - Ripresa filmata all’interno di un’abitazione - Presenza dell’imputato - Conoscenza della registrazione da parte della persona offesa. Non integra il reato di interferenze illecite nella vita privata di cui all’art. 615 bis cod. pen. la condotta di colui che, mediante l’uso di strumenti di ripresa visiva, filma in casa propria rapporti sessuali intrattenuti con la convivente, in quanto l’interferenza illecita prevista e sanzionata dal predetto articolo è quella proveniente dal terzo estraneo alla vita privata e non già quella del soggetto che, invece, sia ammesso, sia pure estemporaneamente, a farne parte, mentre è irrilevante l’oggetto della ripresa, considerato che il concetto di “vita privata” si riferisce a qualsiasi atto o vicenda della persona in luogo riservato. • Corte di cassazione, sezione V penale, sentenza 14 gennaio 2008 n. 1766. Abruzzo: carceri di Teramo e Sulmona, ecco come vivono (male) i detenuti di Alessandra Lotti primadanoi.it, 3 settembre 2018 Report del Garante nazione dei detenuti. Carceri d’Abruzzo malandati e con necessità di correre ai ripari. È impietoso il giudizio del Garante nazionale che esattamente un anno fa ha visitato il Carcere di Sulmona, quello di Teramo, l’unità operativa che si trova nell’ospedale di L’Aquila e pure quello nell’ospedale di Sulmona. A Teramo, zona sismica, non ci sono vie di fuga sicure in caso di terremoto. Lo stesso carcere è isolato e raggiungibile solo in macchina. E lì, come a Sulmona, sono evidenti problemi di sovraffollamento, mancanza di spazi adeguati, in alcuni casi pure luce ed attività di intrattenimento. I corsi scolastici? Pochi e poco frequentati. I carcerati non conoscono i propri diritti: le strutture non gli mettono a disposizione nemmeno i documenti necessari. Perché? Perché manca la carta per stampare, dicono. La relazione è stata resa noto solo qualche settimana fa. Prima ancora di poter “ammirare” tutte le criticità delle case circondariali e cominciare a lavorare, la delegazione ha dovuto constatare “in più occasioni” che i loro interlocutori non sapessero manco chi fosse il Garante dei detenuti (sarà anche perché manca quello regionale, che da anni non si riesce a nominare?). Difficile da credere ma, si legge proprio così nel rapporto, in molti non ne sapevano nemmeno l’esistenza e questo ha creato alcuni problemi. “Il difetto è stato riscontrato uniformemente nelle strutture visitate, si tratta di un dato preoccupante”, si legge nella relazione. Questo ha causato difficoltà nello svolgimento delle attività di monitoraggio, soprattutto nel primo momento. Nel carcere di Teramo, ad esempio, in un primo momento c’è stato il diniego alla visione dei registri dell’area sanitaria da parte del responsabile del presidio carcerario, Franco Paolini. Poi, si legge sempre nel rapporto, il problema è stato superato. La posizione - Il carcere teramano di Castrogno, 5 piani in totale, viene descritto, in pratica, come una cattedrale nel deserto. Al momento della visita era stato segnalato un indice di sovraffollamento pari al 129% con 322 ospiti per i 255 posti disponibili. Ma non è solo questo il problema. Si contesta la sostanziale inaccessibilità con mezzi pubblici di trasporto: tre chilometri dalla prima fermata di autobus utile, lo stabile si raggiunge da una strada extraurbana collinare sprovvista di illuminazione e marciapiedi. Si contesta quindi l’isolamento logistico che colpisce i familiari delle persone detenute. “Nessun può raggiungere la struttura se non ha un mezzo privato. Gli autobus sono stati eliminati a causa della riduzione dei fondi destinati al trasporto pubblico”. Il Garante ha chiesto proprio al presidente della Regione Abruzzo di provvedere con urgenza al finanziamento. Nell’ultimo anno è stato fatto qualche passo in avanti? Problemi di luce - Tra i problemi più sentiti dai detenuti quello della schermatura delle finestre delle camere e di ambienti comuni che riduce sensibilmente il passaggio di luce naturale, aria e la dimensione della vista esterna. Un problema comune al carcere di Teramo e a quello di Sulmona. Ma questo non crea solo disagi ai detenuti ma è anche in contrasto con il regolamento di esecuzione dell’ordinamento Penitenziario che sancisce proprio che le finestre delle camere debbano consentire il passaggio di luce e aria a sufficienza. I bagni e le docce - Le camere di pernottamento sono generalmente senza docce all’interno e acqua calda ad eccezione della sezione isolamento nel reparto femminile di Teramo e del reparto collaboratori di giustizia a Sulmona. A Teramo nel reparto femminile l’accesso alle docce è consentito solo dalle 8:30 alle 11:30 e dalle 14:00 alle 15:30, lo stesso orario che coincide con il passeggio all’aria aperta. Dunque le detenute devono scegliere: o si lavano o passeggiano. Oppure si lavano in fretta (file permettendo) e prendono aria velocemente. Le condizioni igieniche delle docce sono state definite “compromesse” e viene segnalata la necessità di “interventi di ristrutturazione e di manutenzione”. Sempre a Teramo, nella seconda sezione del circuito ‘alta sicurezzà, dove ci sono gli esponenti della criminalità organizzata (As3), nella zona docce sono trovate tracce di umidità sulle pareti. Stessi problemi anche nel reparto detentivo annesso all’ infermeria del carcere di Sulmona. “Il locale è in gravi condizioni di degrado, si segnala presenza di muffa sulle pareti, assenza totale di aerazione per mancanza di finestre, elementi elettrici scoperti, ruggine sul termosifone, attivazione del miscelatore dall’esterno”. Va decisamente meglio nel reparto dei collaboratori di giustizia dell’Istituto di Sulmona che si trova in un edificio separato dal corpo principale: 15 stanze per due persone, tutte con bagno separato e doccia interna con acqua calda Il terremoto - Per quanto riguarda il carcere di Teramo la commissione ha valutato anche i rischi connessi ai recenti fenomeni sismici. E c’è poco da stare tranquilli: “la struttura costruita in una zona sismica è priva di strumenti ed attrezzature necessarie ad affrontare i fenomeni, a partire da via di fuga immediata e luoghi di permanenza all’interno che siano in sicurezza”. Gli spazi angusti - Il dato problematico dell’affollamento è evidente anche nelle stanze: nel carcere di Sulmona le stanze predisposte come singole sono arredate con letti a castello anche nel caso in cui siano occupate da una sola persona. L’ingombro del letto superiore, inutile, è un disagio per i movimenti e per il passaggio dell’aria e della luce. Il garante ha chiesto che i letti superiori inutilizzati vengano eliminati. Sull’eventualità di ospitare un’altra persona nella stanza originariamente predisposta come singola “sia valutata tenendo in primaria considerazione i parametri di vivibilità dello spazio vitale delineati dalle pronunce della Corte europea dei diritti dell’uomo”. I colloqui - Sugli spazi destinati ai colloqui l’attenzione del Garante nazionale si è soffermata sui reparti femminili e quello dell’alta sicurezza che determina assegnazione distanti dal luogo di residenza della famiglia. Per quanto riguarda la sezione femminile di Teramo è stata valutata la completa inadeguatezza, con l’ area verde utilizzabile solo con il bel tempo, appena 7 gazebo con panche e tavoli di legno e nessuno gioco per l’intrattenimento dei bambini. la sala colloqui al chiuso è composta da 6 tavolini: “la vicinanza dei tavoli risulta incompatibile con qualsiasi esigenza di minima riservatezza”. Poi non ci sono sale d’attesa per i bambini nei locali per i colloqui a loro destinati. Fa eccezione la sezione a custodia attenuata con trattamento avanzato destinato alle madri con bambini sotto i 3 anni di fatto inutilizzata da molto tempo. Ironia della sorte, questa “è comunque ben strutturata, provvista di 4 stanze con il bagno in camera, spazi comuni come la cucina, la sala da pranzo e una ludoteca ben fornita”. A Sulmona per i colloqui con i familiari dei detenuti dei reparti dell’alta sicurezza ci sono tre sale con 6 postazioni attrezzate ad accogliere tre familiari per volta. Sono previste nuove aperture anche per i bambini. “Al momento”, si segnala nella relazione, “non ci sono in istituto spazi organizzati per incontri con i minori solo una sala d’attesa decorata con colori è provvista di qualche gioco”. Cosa fanno i detenuti - Nel carcere di Teramo oltre alle criticità strutturali e al tasso di affollamento emerge anche la scarsità dell’offerta per le detenute (al momento della visita c’erano 45 persone rispetto alle 20 stabilite con un tasso di sovraffollamento del 225%): “non ci sono attività comuni a parte un corso di cucito e uno di auto aiuto per le persone con patologie da dipendenza organizzati per un solo giorno a settimana. Non ci sono corsi di formazione al lavoro e corsi di scuola superiore, attività sportiva di alcun genere. I televisori fanno vedere soltanto i tre canali della Rai e tre Mediaset ed uno musicale: anche le opportunità di intrattenimento individuale sono sensibilmente ridotte”. A Sulmona, invece, ci sono tre laboratori di lavorazione artigianali, di calzoleria, di falegnameria “ben organizzati”. Ma anche qui non mancano problemi: “le produzioni sono rivolte esclusivamente all’uso interno e occupavano soltanto 85 persone del circuito di alta sicurezza, per non più di 10 giorni al mese a causa della mancanza di disponibilità del personale di sorveglianza”. È stato verificato anche che i corsi scolastici “sono pochi e poco frequentati”: tre corsi di scuola secondaria di primo grado a cui partecipano sette detenuti e tre di scuola secondaria di secondo grado con 72 partecipanti. L’offerta educativa offerta alle persone del circuito Alta sicurezza 3 è maggiore rispetto a quello di Alta sicurezza 1 e dei collaboratori di giustizia: “questo produce conseguenze in termini di tensione interna per la sperequazione”. Suicidi - Nel report ci si dedica poi al numero dei tentati suicidi: la situazione del carcere di Teramo viene definita “preoccupante” sia per l’entità sia per l’andamento di continua crescita. Nei primi 7 mesi del 2017, annota la commissione, ben 7 episodi. I propri diritti - È emerso pure che i detenuti conoscono ben poco i propri diritti. Nel carcere di Teramo è risultato che agli ospiti non viene distribuita la carta dei diritti e dei doveri, almeno fino alla visita del luglio 2017. Perché? Dal penitenziario parlano di carenza di risorse materiali per stamparle in numero sufficiente. Stessa situazione anche nel carcere di Sulmona. I dati nascosti - Criticità anche sull’inserimento dei dati nel sistema informatico ministeriale: per quanto riguarda il carcere di Teramo è emerso che tutti gli eventi critici -e in particolari le sanzioni disciplinari o gli atti di isolamento- non vengono riportati tutti nella applicativo informatico del Ministero. Ad esempio, sui 168 rapporti disciplinari definiti, solo uno è stato inserito nell’ applicativo. Da Sulmona, invece, non vengono inserito nel sistema le notizie riguardanti le relazioni comportamentali, le sintesi o i colloqui. Questo vuol dire che gli avvenimenti interni all’istituto Penitenziario restano non leggibili dall’amministrazione centrale e dalle autorità indipendenti di garanzia, come il Garante nazionale. Resta tutto “in casa”. Le visite mediche - Critici anche i dati sulle carenze fondamentali e gravemente incisive sulla qualità della vita delle persone detenute, ovvero i tempi di attesa per le visite specialistiche essenziali (odontoiatria, chirurgia, oculistica e accertamenti clinici). Mancano specialisti (endocrinologo, gastroenterologo e reumatologo) ed è stato segnalato anche il ritardo nella consegna dei referti che vengono consegnati solo in copia e solo su richiesta della persona interessata. Sempre a Sulmona non esiste la cartella clinica digitale e nel caso di trasferimento di una persona ad un altro istituto il diario clinico lo segue ma non viene custodito alcun dato, neppure su supporto informatico Unità ospedaliere - Critiche anche le condizioni emerse nelle unità operative penitenziaria che si trovano all’interno dell’ospedale San Salvatore dell’Aquila e Santissima Annunziata di Sulmona (quest’ultimo chiuso nei mesi scorsi). Si parla di condizioni strutturali, igieniche e qualità della vita “inferiori ad ogni standard di compatibilità con il rispetto della dignità delle persone e con i diritti dei malati”. Per quanto riguarda l’unità al San Salvatore dell’Aquila ci sono due stanze con 3 posti letto: le finestre sono oscurate con sbarre e griglie anti getto con un apertura a vasistas di 5 cm, bagno a vista e quattro telecamere posizionate sugli angoli della camera, compresi quelli del servizio igienico. La luce naturale nella camera “è scarsa e quella artificiale proviene da una lampada al neon sul soffitto”. Niente tv in camera o campanello di chiamata o “materiale igienico”. È stato inoltre segnalato alla delegazione che “per ragioni di sicurezza” le telecamere della stanza restano attive anche durante le visite mediche. “Una circostanza questa che viola palesemente il diritto alla riservatezza del paziente” tanto che il Garante nazionale ha chiesto l’immediata disattivazione delle telecamere. La situazione dell’ unità ospedaliera di Sulmona è stata definita, se possibile, ancor più grave tanto che è stato suggerita “la chiusura e il non utilizzo”. Ed infatti qualche mese fa è arrivata la chiusura. Gli agenti di polizia penitenziaria l’avevano definita “una trappola per topi”. Il reparto si trova sotto il piano stradale, in un seminterrato: una sola stanza con due letti, una finestra sigillata priva di apertura che consenta il passaggio di aria naturale. L’aria esterna proviene esclusivamente da una ventola costantemente attiva sulla sommità della parete. Il bagno si trova in uno spazio separato. Niente water ma una spartanissima turca, “quindi incompatibile con condizioni fisiche di disabilità, anche temporanea”. La stanza non è fornita di pulsante di chiamata e nemmeno di un televisore. Non c’è nessun registro di annotazione degli ingressi e delle dimissioni. Al momento della visita non c’era ricoverato alcun paziente ma l’Unità era formalmente attiva”. Napoli: detenuto di 65 anni muore in carcere, soffriva di asbestosi di Rossella Fierro Il Mattino, 3 settembre 2018 La scia di morte dell’ex Isochimica rischia di allungarsi ancora. Un altro ex scoibentatore della fabbrica killer di Borgo Ferrovia è infatti deceduto nei giorni scorsi. La verità sulle cause della morte sarà stabilita dall’autopsia già fissata e prevista per domani. Solo dalle risultanze dell’esame autoptico si capirà se, a causare la morte o quantomeno a contribuire alla prematura scomparsa, sia stato o meno l’amianto respirato a pieni polmoni negli anni 80. In questo caso il killer invisibile avrebbe mietuto la sua venticinquesima vittima. L’uomo, G.C. le sue iniziali, 65enne, è morto a Napoli dove si trovava in regime di detenzione in una delle case circondariali partenopee. La sua è una storia tipica del macabro copione Isochimica: ha lavorato nei capannoni di Elio Graziano come addetto alla bonifica delle carrozze di amianto e il suo nome figura nello sterminato elenco di parti offese costituite al processo in corso presso l’aula bunker di Poggioreale contro ventotto imputati per reati che vanno dall’omicidio plurimo colposo alle lesioni gravi all’omessa bonifica. L’ex operaio, assistito dall’avvocato Brigida Cesta, si era costituito parte civile come tutti i suoi ex compagni di fabbrica, dopo che gli era stata certificata la malattia professionale. Negli ultimi tempi, a quanto si apprende, si era visto rigettare la domanda di aggravamento della patologia, asbestosi, inizialmente riconosciuta nella misura del 6%. Diversi i messaggi di cordoglio degli ex colleghi che hanno diffuso la notizia dell’ennesima morte tramite social network. Inevitabile per loro ricadere ogni volta nello sconforto e nel panico più totali. Una paura, quella della morte, che accomuna tutti i “dead men walking” della fabbrica scelta da Ferrovie dello Stato per la più grande bonifica di amianto mai compiuta in Italia. Scontato ormai, per quanti vedono morire tra sofferenze inaudite uno ad uno i loro ex colleghi, chiedersi quando toccherà loro e se mai riusciranno ad ottenere una parola di verità e giustizia in vita e non post mortem. E così i messaggi di cordoglio si mischiano a quelli di rabbia per i tempi lunghi della giustizia, per il mancato ritorno del processo da Napoli ad Avellino, per il trattamento ricevuto da enti che avrebbero dovuto tutelarli in quanto lavoratori a servizio all’epoca, sì di un imprenditore privato, Elio Graziano, ma anche di un ente dello Stato quale era appunto Fs. Dopo un anno di calma apparente, il 2017, in cui non si erano registrati lutti nella comunità di ex scoibentatori, la morte ritorna prepotentemente di scena nell’affaire Isochimica con due decessi nel giro di soli sei mesi che si aggiungono, solo per ricordare i più recenti, a quelli di Alessandro Manganiello, morto nel febbraio 2016 e ai cinque registrati nel solo 2015, quelli di Vittorio Pellino, Antonio Solomita, Antonio Graziano, Carmelo Iacobelli e Salvatore Alterio. Segno che il picco delle morti da amianto, così come prospettato dalla comunità scientifica, ancora non sia arrivato. Moscato e Ricciardi saranno chiamati a ricostruire quanto emerso dalla loro consulenza medico scientifica volta a dimostrare il nesso di causalità tra l’insorgere delle malattie tra gli ex operai, ma anche per fare luce sul tipo di sorveglianza sanitaria a cui sono stati sottoposti gli ex scoibentatori, durante e dopo gli anni di lavoro nell’ex Isochimica e se, i protocolli sanitari applicati, siano stati o meno idonei a diagnosticare in tempo la malattia. Restano per ora confermati tutti gli altri appuntamenti già calendarizzati dal giudice Matarazzo fino al prossimo anno: in aula si tornerà il 28 settembre, poi il 26 ottobre, 23 novembre, 14 dicembre e 25 gennaio 2019. Salvo novità sul fronte cittadino, le udienze continueranno a svolgersi a Napoli. Velletri: detenuto 63enne gravemente ammalato muore in cella ilmamilio.it, 3 settembre 2018 Nella prima mattinata di ieri un detenuto Italiano, residente a Roma, di 63 anni, che aveva il fine pena nel 2024 ha cessato di vivere nel Penitenziario di Velletri. Ad accorgersi del fatto è stato il suo compagno di cella che dopo avere tentato varie volte di chiamarlo senza ricevere risposta e non sentendolo più respirare dava l’allerta. Grazie al tempestivo intervento dell’Agente di sezione, si è subito recato sul posto il personale sanitario che ha immediatamente attivato tutte le procedure di emergenza e tentato di rianimare il detenuto, ma purtroppo i tentativi di salvataggio si sono rivelati inutili, il detenuto è stato giudicato dal personale sanitario deceduto. A darne notizia sono i sindacalisti Carmine Olanda e Ciro Borrelli dell’Ugl Polizia Penitenziaria che da sempre denunciano le gravose condizioni in cui si trovano a lavorare gli operatori penitenziari. Il detenuto in questione - commenta Borrelli - era gravemente ammalato ed in cura presso il Servizio Sanitario del carcere dove hanno ritenuto utile affidargli un assistente alla persona e una sedia a rotelle per potersi muovere. Come sindacato Ugl Polizia Penitenziaria - conclude Olanda - ribadiamo con forza il che il carcere deve essere tale e non paragonato a un Ospedale e che i detenuti che manifestano problemi di natura psichiatrica o di salute gravi, devono essere gestiti dal Personale sanitario specializzato e in luoghi adatti. Chiediamo al nuovo Ministro della Giustizia Alfonso Bonafede di dare più autorevolezza alla Polizia Penitenziaria e non camici bianchi. A darne notizia sono i sindacalisti Carmine Olanda e Ciro Borrelli dell’ Ugl Polizia Penitenziaria che da sempre denunciano le gravose condizioni in cui si trovano a lavorare gli operatori penitenziari. Il detenuto in questione - commenta Borrelli - era gravemente ammalato ed in cura presso il Servizio Sanitario del carcere dove hanno ritenuto utile affidargli un assistente alla persona e una sedia a rotelle per potersi muovere. Come sindacato Ugl Polizia Penitenziaria - conclude Olanda - ribadiamo con forza il che il carcere deve essere tale e non paragonato a un Ospedale e che i detenuti che manifestano problemi di natura psichiatrica o di salute gravi, devono essere gestiti dal Personale sanitario specializzato e in luoghi adatti. Chiediamo al nuovo Ministro della Giustizia Alfonso Bonafede di dare più autorevolezza alla Polizia Penitenziaria e non camici bianchi. Bari: i magistrati nel fortino “no allo sgombero, restiamo qui” di Giuliano Foschini La Repubblica, 3 settembre 2018 Braccio di ferro sul palazzo di giustizia dichiarato inagibile. Da oggi via gli impiegati. Ma i giudici non vogliono traslocare nella nuova sede. “Troppo stretta, lì non si lavora”. Il ministro fa il suo mestiere. Ma noi dobbiamo fare il nostro: uscire da questo palazzo significherebbe venire meno al nostro dovere costituzionale di esercitare l’azione penale. Andando fuori da questo palazzo le indagini su banche, mafiosi, femminicidi si bloccherebbero. Capisce? Bloccherebbero. Non possiamo”. È partendo da questo sfogo, che arriva da un magistrato di grande esperienza, che bisogna raccontare il secondo atto della storia più assurda d’Italia, la vergogna della giustizia del nostro Paese, la storia del tribunale di Bari. Tutto era cominciato con il palazzo - abusivo, e per il quale il ministero della Giustizia non pagava l’affitto da anni - costruito sulla sabbia e con cemento scadente, che rischiava di crollare. Il procuratore Giuseppe Volpe era stato costretto a montare una tendopoli nel cortile per poter tenere le udienze. Poi - dopo una sfilata di politici ed esponenti del Csm - era arrivato il ministero e aveva promesso una soluzione in tempi rapidi. Bloccando le attività fino al 30 settembre. Ora ci troviamo con i pm asserragliati nel vecchio palazzo che non hanno alcuna intenzione di uscire. E l’ordine perentorio del ministero ai dipendenti che, da oggi, dovranno andare a timbrare in un’altra sede, provvisoria, dove però non c’è spazio né per i magistrati né per i documenti. Dunque, i magistrati saranno da una parte. I cancellieri da un’altra. La Giustizia nel mezzo, smarrita. Ma cosa è accaduto? Spiegano dalla procura: “Quando fu ordinato lo sgombero, ci fu proposta una soluzione provvisoria in un palazzo qui vicino, in via Brigata Regina, che doveva servire soltanto come appoggio per le pratiche urgenti. Il ministro, intanto, aveva trovato una nuova sede”. Da allora sono accadute però due cose. La prima: dopo un’inchiesta di Repubblica che raccontava le non poche anomalie del palazzo scelto per ospitare gli uffici giudiziari, il ministero, il 14 agosto, ha revocato la scelta. E non ha ancora individuato la nuova soluzione. Il Comune ha invece concesso una proroga allo sgombero del vecchio palazzo, posticipando l’uscita al 31 dicembre sulla base di una nuova perizia: limitati i carichi e chiuso al pubblico, non c’è più pericolo crollo, dicono. Il ministro Alfonso Bonafede però non c’è stato. Travolto dalla polemica politica, ha affidato a Facebook la sua posizione: “Da lì bisogna uscire lunedì”, costringendo la dirigente amministrativa a firmare, venerdì sera, un ordine di servizio indicando il nuovo palazzo come sede di lavoro per i cancellieri. “Da qui noi non ci muoviamo”, hanno messo per iscritto i vertici della procura. “La sede individuata è assolutamente inadeguata e non è più transitoria. Siamo in alto mare per la scelta del nuovo palazzo”. Due conti li fa il segretario dell’Anm di Bari, Michele Parisi. L’immobile scelto da Bonafede in via Brigata Regina è grande 1.050 metri quadrati contro i 4mila e 800 del vecchio palazzo. Alla procura sono destinate due stanze da venti metri quadrati. I pm dovrebbero dunque fare i turni: sette alla volta, quattro in una stanza. E tre in un’altra. “Domani - spiega un pm - ho una riunione su una delle inchieste più delicate che c’è oggi in Italia. Che facciamo? Facciamo una comune con gli altri colleghi?”. Le stanze dei giudici non si riescono a chiudere: i mobili impediscono la chiusura delle porte. “La situazione è drammatica - dice Parisi - Un gip che decide dell’applicazione o meno di una misura cautelare non può stare in un corridoio. Non è questione di comodità, ma di decenza”. Dice il presidente della Camera penale di Bari, Gaetano Sassanelli: “Ho visto un gip che non poteva sedersi a lavorare perché doveva attendere che il collega terminasse un atto che stava scrivendo”. Un carabiniere nella vecchia sede: “In quella stanza ci sono corpi di reato: armi, droghe, gioielli. Ma nessuno può accedervi. È a rischio crollo”. Per mancanza di spazio, i documenti non si possono muovere nel nuovo palazzo. E così, da oggi, i cancellieri dovrebbero fare su e giù per spostare le carte. Un bus navetta invece dovrebbe collegare Bari con il palazzo della vicina Modugno dove si terranno le udienze. E non si è vista neppure l’ombra della squadra di cancellieri extra che doveva mettere mano a qualche decina di migliaia di notifiche. Il risultato non può che essere uno: da Foggia, per esempio, è arrivata nelle scorse settimane una richiesta di arresti sul caporalato, un’inchiesta delicatissima con colletti bianchi tra gli imputati e braccianti-schiavi coraggiosi che hanno collaborato. Si doveva fare in fretta e invece tutto è rimasto bloccato sotto le tende e le crepe di questa burocrazia che chiamano giustizia. Brescia: affidato il progetto di ampliamento per Verziano, ospiterà 400 detenuti Giornale di Brescia, 3 settembre 2018 Nel 2022 il carcere di Verziano sarà completamente ristrutturato ed in grado di ospitare 400 persone. Questo consentirà di chiudere definitivamente Canton Mombello, da tempo inadeguato. Il costo totale dell’operazione è di 16,6 milioni di euro, di cui circa 600 mila per la progettazione definitiva ed esecutiva della struttura affidata. Ad aggiudicarsi il progetto, dopo il via libera del ministero delle Infrastrutture, è un pool di professionisti torinesi (Rtp Tecnicaer Engineering- RPA - Progettisti associati Tecnarc) che ha offerto il ribasso del 40,5% e, quindi, per un importo netto di poco meno di 450mila euro. La progettazione definitiva ed esecutiva sarà pronta tra sei mesi. Poi ce ne vorranno altri due per il bando di gara e, al netto di eventuali ricorsi al Tar delle ditte perdenti, i lavori dovrebbero iniziare alla fine dell’anno prossimo per durare un paio di anni. “Un’ottima notizia”, è il commento dell’onorevole Alfredo Bazoli che, nella precedente legislatura, ha seguito da vicino il percorso che porterà alla chiusura di Canton Mombello. “Ottima notizia - continua - anche perché l’affidamento del progetto esecutivo sancisce l’irreversibilità del percorso. C’è anche il rammarico legato al fatto che si è perso almeno un anno e mezzo di tempo. E, comunque, sulla tempistica preferisco essere cauto, perché l’avvio dei lavori potrebbe slittare nel caso in cui ci dovessero essere ricorsi al Tribunale amministrativo”. Il progetto - così come indicato dal ministero di Grazia e Giustizia - prevede la ristrutturazione del fabbricato attuale ed un nuovo padiglione di 11mila metri quadrati. Armamenti. Stop ai robot-killer: l’Onu resta in panne e fallisce l’accordo di Lucia Capuzzi Avvenire, 3 settembre 2018 A Ginevra la Campagna anti-armi preme. Ma i Grandi paralizzano la Conferenza. Il bando può attendere. Eppure il consenso sull’urgenza di controllare le cosiddette “armi autonome letali” è diffuso. I membri della Convenzione Onu sulle armi convenzionali (Ccw) ne discutono dal maggio del 2014. L’ultima riunione, però, s’è conclusa ieri a Ginevra senza alcun passo avanti decisivo. Ovvero senza avviare i negoziati per un trattato di divieto giuridicamente vincolante, sul modello del bando all’atomica, approvato nel luglio del 2017. Era questa la richiesta forte della società civile, rappresentata al summit da 76 organizzazioni di 32 diversi Paesi, riunite da aprile 2013 nella Campagna internazionale “Stop killer robots”. Così vengono chiamati comunemente i sistemi di armi controllati da intelligenze artificiali. Sono queste ultime a selezionare, individuare e colpire il “nemico”. In modo del tutto autonomo, cioè senza alcun intervento umano. Una sorta di “Blade runner” ma senza “replicanti”. “Le armi attuali causano già abbastanza vittime nel mondo. Davvero vogliamo in futuro anche delle macchine capaci di prendere decisioni di vita o di morte?”, si domanda Francesco Vignarca, di Rete disarmo, esponenti italiano della Campagna insieme all’Unione scienziati per il disarmo (Uspid). Non sono solo le organizzazioni pacifiste ad opporsi ai robot-killer. Il mondo scientifico è preoccupato. Già nel 2017, un gruppo di esperti della robotica, guidati da Elon Musk, aveva esortato l’Onu a fermare lo sviluppo delle “armi pensanti”. E, ieri, l’International commettee for robots arms control (Icrac) - che riunisce scienziati specializzati in intelligenza artificiale - hanno definito tali dispositivi “un rischio per la sicurezza globale”. Vari Stati ne sono consapevoli: il numero dei favorevoli al bando è salito a ventisei. Tra questi, figura la Santa Sede, la cui rappresentanza permanente a Ginevra ha definito “inaccettabili” i robot-killer, fosse anche solo perché ci sarebbe una deresponsabilizzazione collettiva nei confronti di eventuali vittime e del loro legittimo diritto alla riparazione. La comunità internazionale nel suo insieme, però, a mettere nero su bianco un impegno definitivo. L’Italia, ad esempio, propende per dichiarazione politica congiunta. Il principale scoglio, però, è rappresentato dal fronte delle potenze militari: Francia, Israele, Russia, Regno Unito, Stati Uniti, Cina e Corea del Sud. Nazioni che stanno stanziando ingenti risorse negli armamenti con gradi decrescenti di controllo umano. L’Istituto Sipri di Stoccolma ha censito, nel 2017, già 381 sistemi di tale tipo, di cui 225 già completati. E gli investimenti continuano a crescere. Perfino nel Fondo Europeo di difesa potrebbero essere previsti stanziamenti per i robot-killer, mentre un emendamento che voleva impedirlo è stato cancellato. La società civile, però, non è disposta a gettare la spugna. “Non ci accontenteremo di niente di meno di un trattato. È fondamentale per evitare di disumanizzare l’uso della forza”, ha detto Mary Wareham di Human Rights Watch, coordinatrice della Campagna. Prossimo round a novembre, al nuovo summit della Ccw. Lavoro e immigrati, la frase da non dire di Pierluigi Battista Corriere della Sera, 3 settembre 2018 Chi usa l’espressione “lavori che gli italiani non fanno più” vada a controllare il colore della pelle di chi svolge le mansioni più umilianti, con salari che sfiorano e spesso scavalcano la soglia dell’indecenza. Sarebbe il caso, però, che il presidente della Confindustria Vincenzo Boccia, ma non solo lui beninteso, evitasse un’espressione diventata odiosa come “gli immigrati fanno lavori che gli italiani non fanno più”. Non è una frase neutra, una constatazione di buon senso. O addirittura, come un’esortazione a non rinchiuderci nel recinto autarchico anti-migranti, a sottolineare il bene che gli stranieri portano alla nostra economia. È invece un’espressione inconsapevolmente cinica ed egoista. Evoca il lavoro sottopagato, ai limiti dello schiavismo, come si è visto tra i braccianti stagionali vessati dal caporalato nel foggiano e in Calabria. Evoca mancanza di diritti, condizioni talvolta infami di lavoro, così infami che noi italiani, fortunatamente muniti di diritti conquistati nemmeno da tanto tempo, non potremmo più accettare. È un’espressione che non rimanda a figure professionali nuove e fresche: quelle, quando esistono, non è che gli italiani non vogliono più fare, è che non sanno fare. Forze giovani, qualificate, colte, desiderose di emergere. Magari fosse questo. Invece è un’altra cosa. Chi usa l’espressione “lavori che gli italiani non fanno più” vada a controllare il colore della pelle di chi svolge le mansioni più umilianti, con salari che sfiorano e spesso scavalcano la soglia dell’indecenza. Faccia un salto nelle cucine per vedere chi fa il lavapiatti, quanto prende, quante ore lavora, dove vive, da dove viene, di che colore è la sua pelle. O gli addetti alle pulizie nelle stazioni, nei porti, negli aeroporti: come mai non si trovano italiani tra loro? In quali tuguri alloggiano, questi lavoratori che sostituiscono gli italiani che non accetterebbero mai la loro condizione? E i pomodori che consumiamo al supermercato rallegrandoci del loro prezzo basso, chi li raccoglie, con quale remunerazione, per quante ore al giorno? Ce lo potrebbe spiegare, l’Ispettorato del lavoro, questa contagiosa riluttanza degli italiani a fare lavori che altri, meno fortunati di loro, sono disposti a prendere? Faccia così, presidente Boccia: trovi un’altra espressione per formulare il suo pensiero sul mercato del lavoro. Sia meno conformista, meno corrivo, più rispettoso verso chi si carica di mansioni che sono la disperazione per gli italiani che oramai si possono permettere di rifiutare. Le sue idee certamente giuste non ne avranno che da guadagnare. Rapporto Unhcr: “nel Mediterraneo muore un profugo su 18” di Alessandra Ziniti La Repubblica, 3 settembre 2018 Gli sbarchi sono in forte calo ma il numero delle vittime è in crescita Il tasso di mortalità è più che raddoppiato. Il rischio di morte durante le traversate nel Mediterraneo è in continua crescita: muore un migrante su 18, una percentuale più che raddoppiata visto che nel 2017 il tasso di mortalità era di una persona su 42. Sono le cifre del nuovo rapporto di Unhcr secondo cui, nei primi otto mesi dell’anno sono 1.600 le persone che hanno perso la vita o risultano disperse lungo la rotta del Mediterraneo. Dunque ad una forte diminuzione (oltre l’80 per cento) di chi arriva in Europa corrisponde un’allarmante crescita del tasso di mortalità. Il rapporto “Desperate journeys” analizza anche tempi e rotte che confermano come il Mediterraneo, con una drastica riduzione del dispositivo di soccorso prima formato dalle navi umanitarie e dai mezzi militari italiani ed europei in posizione più avanzata rispetto alla Libia, sia ormai un mare pericolosissimo. Dei dieci naufragi di cui si ha notizia, sette sono avvenuti da giugno a oggi, dunque nei mesi in cui la stretta del governo italiano ha di fatto lasciata sguarnita la rotta più battuta dalla Libia verso l’Italia. Ma rischiosa è diventata anche la tratta più breve, dal Marocco alla Spagna, su cui i trafficanti hanno spostato parte dei loro flussi: qui dall’inizio dell’anno a oggi sono morte 300 persone contro le 200 dello scorso anno, portando il tasso di mortalità ad una persona su 14 di quelle che intraprendono il viaggio. Quasi raddoppiati anche i migranti morti sulle rotte terrestri, in Europa o ai confini, passati da 45 a 78. “Il rapporto conferma ancora una volta come la traversata del Mediterraneo sia tra le più rischiose al mondo - dice Pascale Moreau, Direttrice dell’Ufficio Unhcr per l’Europa - Il calo di persone che arrivano sulle coste europee non è più un test per stabilire se l’Europa possa gestire tali flussi, ma per capire se sia in grado di fare appello a quel senso di umanità necessario a salvare vite umane”. All’Europa l’Unhcr chiede di favorire l’accesso a percorsi legali per i rifugiati, attraverso l’aumento dei posti di reinsediamento e la rimozione degli ostacoli al ricongiungimento familiare, che contribuiscono a fornire alternative a tragitti potenzialmente mortali. Prendendo atto delle misure adottate da alcuni Paesi per impedire l’ingresso di rifugiati e migranti, il rapporto esorta a garantire a coloro che cercano protezione internazionale un accesso tempestivo alle procedure di asilo e invita a rafforzare i meccanismi di protezione nel caso di minori che viaggiano da soli e sono in cerca di asilo. Libia. Scontri a Tripoli: è stato d’emergenza. Evacuati diplomatici e tecnici italiani di Lorenzo Cremonesi Corriere della Sera, 3 settembre 2018 L’ambasciata resta aperta. “Solo precauzione”. Battaglia vicino all’aeroporto, scarseggia la benzina. Il numero dei morti si avvicina a quota duecento. Dal carcere della capitale sono evasi 400 detenuti. Ufficialmente l’ambasciata italiana non chiude, ma la situazione a Tripoli si è fatta talmente critica che una parte del personale viene evacuata assieme ad altri concittadini che lavorano in Libia. “Siamo pronti ad ogni evenienza. Reagiamo in modo flessibile”, spiegano cauti i portavoce della Farnesina. Tale “flessibilità” ha implicazioni già molto tangibili. Ieri pomeriggio una nave dell’Eni che fa regolarmente la spola con il porto di Tripoli, dove stazionano anche le unità della marina militare italiana che assistono i guardiacoste libici, ha evacuato un numero considerevole di tecnici italiani impiegati a terminali e pozzi che fanno capo al complesso di Mellitah, nell’ovest del Paese. Con loro sono stati evacuati anche otto dipendenti dell’ambasciata. “È una misura puramente precauzionale. Allontaniamo temporaneamente il personale non strettamente necessario, che tornerà appena la situazione si sarà calmata”, dicono alte fonti diplomatiche. L’utilizzo della nave Eni si è reso indispensabile dopo che i combattimenti si sono avvicinati minacciosamente alla pista dell’aeroporto di Tripoli, tanto da spingere il governo di Fayez Sarraj a decretarne la chiusura. Anche i 200 chilometri di litoranea per lo scalo di Misurata sono poco sicuri. Alla sede dell’ambasciata restano comunque sei diplomatici, tra cui il numero due della missione, Nicola Orlando, e l’addetto agli affari politici, economici e al servizio stampa, Steve Forzieri. A garantire della loro incolumità sono presenti i carabinieri e gli uomini dei servizi di sicurezza. Il collaboratore locale del Corriere ha notato ieri pomeriggio che la bandiera italiana sventola sul pennone dell’edificio, però le persiane sono chiuse e all’esterno stazionano almeno due auto della polizia libica con una decina d’agenti. Per il momento resta invece in “vacanza” all’estero l’ambasciatore Giuseppe Perrone. Il suo basso profilo si è reso necessario dopo che il generale Khalifa Haftar, l’uomo forte della Cirenaica che da tempo non nasconde l’intenzione di allagare il suo controllo sulla piazza di Tripoli, agli inizi di agosto ne aveva pubblicamente chiesto l’espulsione dal Paese. Da allora sui social media locali sono cresciute le voci di un’eventuale rimozione di Perrone dal suo incarico, che vengono prontamente smentite dalla Farnesina. Ma l’incertezza dell’evoluzione militare rischia di pregiudicare i tentativi di mediazione italiani. Non è neppure chiaro se si riuscirà a tenere a Roma la preannunciata conferenza sulla Libia entro la fine di settembre. La possibilità sempre più reale dell’eclissi di Sarraj toglierebbe all’Italia il suo partner storico. Un passo importante potrebbe rivelarsi l’incontro, previsto ma senza una data specifica, tra il ministro degli Esteri italiano Moavero e Haftar. Sino ad ora infatti i contatti pubblici del nuovo governo italiano sono stati unicamente con la coalizione di unità nazionale di Tripoli e in particolare con il vice-premier Ahmed Maiteeq (che dovrebbe tornare a vedere Matteo Salvini a Roma questa settimana), considerato uno degli avversari più acerrimi di Haftar. A Tripoli intanto Sarraj lancia appelli per la pacificazione e proclama lo stato d’emergenza. Pure, i cessate il fuoco vengono metodicamente violati. La Settima Brigata, che fa capo alle tribù leali all’ex regime di Gheddafi e adesso vicine al campo di Haftar, continua ad avanzare verso il cuore della capitale dove le milizie locali sembrano divise e incapaci di reggere il colpo. Scontri violenti sono registrati nella zona dell’aeroporto, oltre ai quartieri di Abu Salim, Salahaddin e Rabiah. Il numero dei morti si avvicina a quota duecento. Nella regione cominciano a scarseggiare benzina, acqua ed elettricità. E ieri sera dal carcere della capitale sono evasi 400 detenuti. Libia. Sarraj sotto assedio. I ribelli puntano al centro di Tripoli di Giordano Stabile La Stampa, 3 settembre 2018 I miliziani decisi a “ripulire” la città dai governativi. Scomparso a Misurata il capo forze armate libiche. Il premier libico Fayez al Sarraj è sotto assedio a Tripoli, dopo una settimana di scontri che hanno portato le milizie ribelli sempre più vicine ai centri del potere. Ieri sera il consiglio presidenziale libico, guidato dallo stesso al Sarraj, ha proclamato lo stato di emergenza. Il governo non controlla la parte meridionale della città, l’aeroporto è chiuso perché a portata dei razzi degli insorti, e non è più scontata la fedeltà dei combattenti di Misurata, un alleato strategico del governo di “accordo nazionale” che doveva condurre alla pacificazione del Paese. L’ex ingegnere, il volto moderato della Libia post-Gheddafi, può contare ancora sull’appoggio dell’Italia, mentre gli altri alleati occidentali sono più defilati e la Francia, nei fatti, ostile. Roma ha confermato che la sua ambasciata resta aperta, nonostante il colpo di mortaio, o razzo, che ieri ha colpito l’hotel dove alloggia parte del personale. La Settima Brigata - Sabato Stati Uniti ed Europa avevano chiesto alle milizie di moderarsi ma ieri Abdel Rahim Al-Kani, comandante della cosiddetta Settima Brigata, una formazione con base nella cittadina di Tarhouna, 60 chilometri a Sud di Tripoli, ha annunciato l’assalto decisivo. Al-Kani ha dichiarato che “continuerà a combattere fino a quando le milizie armate non lasceranno la capitale e la sicurezza sarà ripristinata”. Le sue forze, ha precisato, “sono posizionate lungo la strada per l’aeroporto” e si apprestano ad attaccare il quartiere di Abu Selim, la porta di accesso al centro storico. Se prende Abu Salim il comandante ribelle potrebbe piombare sulla zona dei ministeri, fino alla base navale di Bu Sitta, l’estremo fortino del governo. I soldi degli aiuti - Al-Kani ha già minacciato di “ripulire” la città dalle milizie rivali, accusate di essere “l’Isis dei soldi pubblici”, perché si accaparrano la maggior parte dei fondi pubblici che derivano dagli introiti petroliferi, ma anche i finanziamenti che arrivano dall’Unione europea. Il capo della Shura degli anziani, Mohamed al-Mubshir, una figura rispettata, ha lanciato il tentativo di mediazione per arrivare a un cessate il fuoco. A disinnescare la battaglia lavora soprattutto però la diplomazia italiana. La nostra ambasciata ha comunicato, su Twitter, che resterà aperta: “Continuiamo a sostenere l’amata popolazione di Tripoli in questo difficile momento”, anche se i rischi sono sempre più alti perché l’ambasciatore Giuseppe Perrone è inviso al grande avversario di Al Sarraj, il generale Khalifa Haftar. La strategia di Haftar - Haftar sta corteggiando il comandante di Tarhouna da mesi, così come i capi di una altra potente tribù, i Warfalla. La rivolta si sta trasformando in un confronto fra milizie pro o contro Al Sarraj. Tutti inviano rinforzi dalle aree limitrofe alla capitale. Al Sarraj può contare su pochi alleati certi: le Brigate rivoluzionarie di Tripoli, guidate dal signore della guerra Haithem al-Tajouri, la “Rada” di Abdul Rauf Kara, boss dell’aeroporto Mitiga, la Brigata Abu Selim agli ordini del controverso Abdul Ghani al-Kikli, e la Brigata Nawassi. Più defilata è la Brigata 301 di Misurata, un alleato strategico. Sabato il premier ha inviato proprio a Misurata il generale Mohammed Al-Haddad, capo delle forze armate governative a Tripoli, per chiedere ai leader locali di inviare rinforzi. Il generale avrebbe avuto uno scontro con quelli restii a impegnarsi. Nella serata di sabato la sua macchina è stata ritrovata vuota alla periferia della città. Nessuno ha rivendicato il sequestro: forse è stato ucciso. Un altro brutto segnale. Crisi in Libia, tre punti fermi per chi cerca una soluzione di Franco Venturini Corriere della Sera, 3 settembre 2018 La prima parziale evacuazione dalla Libia del personale italiano, anche se l’ambasciata resta aperta e l’Eni resta operante, conferma fino a che punto gli scontri armati che si susseguono a Tripoli dal 25 agosto mettano a rischio i nostri interessi. L’Italia appoggia il governo internazionalmente riconosciuto di Fayez Sarraj che ha sede a Tripoli, l’Italia ha in Tripolitania rilevanti interessi economici che contribuiscono a soddisfare i nostri consumi energetici, e i nostri governi sono da anni impegnati in una doppia azione a largo raggio: per la pacificazione della Libia, certo, ma anche per contenere le correnti migratorie che proprio dalle coste libiche tentano di raggiungere il nostro territorio. Se i flussi dei migranti sono notevolmente diminuiti (ma restano anche così al centro delle diatribe politiche romane), il dossier della pacificazione non avanza e rischia ora la catastrofe. Il motivo è semplice: una alleanza di milizie che hanno base non lontano da Tripoli ha dato l’assalto alle milizie che difendono la città e il governo Sarraj denunciando l’iniqua ripartizione dei proventi petroliferi. Armi e soldi, è sempre stata questa la combinazione che alimenta la guerra civile libica da quando il dittatore, ma anche abile distributore di privilegi, Muammar Gheddafi è stato eliminato dall’Occidente nel 2011. Il rischio è ora che la battaglia di Tripoli non abbia soltanto un significato locale. Si dice che le milizie all’offensiva siano in contatto con il generale Haftar, dominus della Cirenaica, vicino alla Francia (che ha interessi energetici in rivalità con i nostri), e avversario di Serraj. Se così fosse, dovremmo aspettarci una estensione dei combattimenti. Tre cose appaiono chiare, ma lo erano già prima degli ultimi avvenimenti. Primo, l’idea di Parigi di tenere elezioni in Libia il 10 dicembre prossimo non è realistica e potrebbe gettare nuovo olio sul fuoco. Secondo, la riunione multilaterale che l’Italia tenta di organizzare a Sciacca può essere utile soltanto se pensata in effettiva collaborazione con la Francia (e viceversa). Terzo, lasciamo perdere le “cabine di regia” con gli Usa per la Libia. Lì le parole non bastano. Stati Uniti. Il business corre dietro le sbarre di Giampiero Gramaglia Il Fatto Quotidiano, 3 settembre 2018 Gli Stati Uniti hanno la più numerosa popolazione carceraria al mondo: rappresentano meno del 5% della popolazione mondiale - quasi 330 milioni su oltre sette miliardi di persone - ma hanno i125% dei detenuti e il più alto tasso d’incarcerazione (primati occasionalmente loro contesi a sorpresa dalle Seychelles). Secondo i dati del Dipartimento della Giustizia e dell’International Center of Prison Studies dietro le sbarre, negli Usa, ci sono oltre 2,3 milioni di persone (quasi la metà i neri, che sono appena un settimo della popolazione), ma oltre sette milioni sono quelle soggette a misure restrittive di varia sorta. Il sovraffollamento e le violenze Sovraffollamento, disagi, repressione, violenze fra detenuti o verso gli agenti (o da parte degli agenti) sfociano spesso in episodi letali. Una violenta rissa esplosa a metà aprile nella Lee Correctional Institution, carcere di massima sicurezza della South Carolina, causò la morte di sette detenuti e il ferimento di 17. Ci vollero ore e ore per riprendere il controllo della struttura nota come una degli istituti più intolleranti e pericolosi di tutto il Paese. L’episodio è all’origine dello sciopero nazionale dei detenuti negli Stati Uniti, promosso il 21 agosto per protestare contro le condizioni di detenzione: fino al 9 settembre, la protesta s’articola in sit-in, scioperi della fame, interruzioni di lavoro e boicottaggi, in particolare con l’astensione da ogni tipo di mansione retribuita da parte delle detenute e dei detenuti. Lo sciopero in corso e le richieste “Sciopero”, azione collettiva per antonomasia, è parola che si declina male nell’Unione, dove l’individualismo è forte (e, fra i detenuti, fortissimo); e nazionale è una dimensione che non s’adatta alla frammentatissima realtà carceraria Usa, con competenze federali, statali, locali e con una miriade di prigioni appaltate a privati (spesso, le peggiori, dal punto di vista della disciplina e del trattamento). Negli Stati Uniti, secondo dati citati dai promotori della protesta, tra cui la Commissione Carceri del sindacato IWW e il movimento abolizionista Ram, il business della detenzione fa girare circa due miliardi di dollari l’anno, mentre i detenuti vengono pagati tra i 5 e i 10 centesimi di dollaro l’ora per svolgere lavori interni di pulizia, cucina, lavanderia, etc.: condizioni che gli organizzatori dello sciopero equiparano alla schiavitù, proibita dalla Costituzione statunitense (i lavori forzati sono previsti solo per chi ha commesso determinati reati). La protesta si propone di ottenere il miglioramento delle condizioni di detenzione, la parità di salario con gli “esterni” - cioè quelli escono dal carcere per lavorare - e il riconoscimento del diritto di voto in prigione. Le carceri private nel mirino Nell’estate del 2016 era stato annunciato che il Dipartimento della Giustizia avrebbe messo fine all’utilizzo delle prigioni gestite da due grandi gruppi quotati in borsa, la Corrections Corporation of America (CCA) e The Geo Group, che, nella campagna elettorale per le presidenziali di quell’anno, avevano finanziato entrambi i candidati alla Casa Bianca, Donald Trump e Hillary Clinton. Il tema delle carceri private, infatti, sparì, di comune accordo, dai dibattiti presidenziali. Secondo i dati del Dipartimento, i due gruppi ricevevano 70 dollari al giorno per ognuno dei195mila detenuti nelle loro prigioni, quasi 14 milioni di dollari complessivamente al giorno, ma ne spendevano appena12 per la loro cura. Il margine operativo è molto alto e per mantenerlo tale nel tempo s’è progressivamente ridotto numero e qualifica degli operatori, pagati ai minimi salariali e spesso reclutati fra reduci dall’Iraq e dall’Afghanistan con disturbi post-traumatici da stress aggravati dall’ambiente carcerario. Dietro CCA e The Geo Group, ci sono grossi nomi della finanza americana e internazionale, fra cui Lazard e Vanguard Group e banche come Bank of America, Bank of New York Mellon, Wells Fargo e molti altri. Il vice-procuratore generale Sally Yates, poi cacciata dal presidente Trump, mentre assicurava l’interim alla Giustizia, chiese ai funzionari di non rinnovare, alla scadenza, i contratti con i gestori delle carceri private o di ridurne “in modo sostanziale” la portata, adducendo un rapporto molto negativo dell’Ufficio dell’Ispettore generale del Dipartimento. Il giornalista Shane Bauer ha descritto, in un crudo reportage sulla rivista Mother Jones, i quattro mesi passati come guardia carceraria presso una struttura della CCA, rivelando che le carceri private registrano un tasso di casi di violenza e di infrazione alle regole più elevato di quelle statali e non comportano risparmi per le casse pubbliche. I migranti irregolari i “nuovi neri”. L’Amministrazione Trump non ha finora mostrato una sensibilità pari a quella di Obama sul tema delle carceri. The Donald ha incentivato la detenzione degli immigrati irregolari già foraggiata dal Congresso, fin dal 2010. Una norma, citata dall’ong Grassroots Leadership, dispone che i fondi a favore dell’Immigration and Customs Enforcement, agenzia del Dipartimento della Sicurezza Interna responsabile del controllo della sicurezza delle frontiere e dell’immigrazione, debbano essere sufficienti a mantenere almeno 34.000 “posti letto” per gli immigrati irregolari detenuti. La norma ha creato una vera e propria quota di detenzione degli immigrati, favorendo una politica di incarcerazione sempre più aggressiva e ulteriormente incoraggiata dall’attuale amministrazione, che, nei mesi scorsi, aveva anche cominciato a separare le famiglie dai minori, creando l’esigenza di ulteriori strutture detentive. Myanmar. Due reporter della Reuters condannati a 7 anni per spionaggio di Carlotta De Leo Corriere della Sera, 3 settembre 2018 I cronisti imprigionati da dicembre per possesso documenti ufficiali. Avevano denunciato violenze sui musulmani Rohingya. Due reporter dell’agenzia Reuters sono stati ritenuti colpevoli dell’accusa di possesso illegale di documenti ufficiali e sono stati condannati a sette anni di prigione in Myanmar. Secondo il giudice del distretto settentrionale di Yangon, Wa Lone (32 anni) e Kyaw Soe Oo (28 anni) avrebbero violato l’Official Secrets Act, legge sul segreto di stato dell’era coloniale, quando hanno raccolto e ottenuto documenti riservati. Le associazioni per la libertà di stampa, le Nazioni Unite, l’Unione Europea e gli Stati Uniti avevano chiesto l’assoluzione dei due giornalisti. “Oggi è un giorno triste per Myanmar, per i giornalisti della Reuters Wa Lone e Kyaw Soe Oo, e per la stampa in generale”, ha commentato il direttore della Reuters, Stephen J Adler. “Non ho fatto nulla” - Arrestati lo scorso dicembre per aver raccolto documenti segreti sulla morte di dieci musulmani, i due giornalisti avevano denunciato lo scorso anno la brutale repressione in Myanmar contro i Rohingya a Rakhine, stato occidentale del Paese. Gli investigatori delle Nazioni Unite per i diritti umani hanno detto che gli alti ufficiali militari del Myanmar dovrebbero essere accusati di genocidio per le violenze perpetrate durante la repressione. “Non ho paura - ha detto Wa Lone dopo il verdetto - Non ho fatto nulla di sbagliato... credo nella giustizia, nella democrazia e nella libertà”. I perseguitati - I Rohingya sono un gruppo etnico prevalentemente musulmano di un milione circa di persone, che risiedevano nel Rakhine, la regione più povera di Myanmar. Provenivano dal Bangladesh ma non sono mai stati accettati dalla maggioranza buddista del Myanmar. L’arresto dei due cronisti è l’ultimo atto della stretta sulla stampa voluta dal governo birmano: accuse sono piovute anche contro il premio Nobel per la Pace, Aung San Duu Kyi, che non ha mai oluto commentare la notizia dei reporter Reuters.