La paciosità del Male di Giuseppe Genna L’Espresso, 30 settembre 2018 L’urgenza securitaria brandita mentre i reati calano. E “il popolo” evocato dal più fetido dei capitalismi. Come in un libro di Orwell. Si potrebbe, si dovrebbe rovesciare l’antico lamento di un grande poeta, andando a ripeterne le parole a ogni italiana, a ogni italiano, scuotendoli uno per uno, per sessanta milioni di volte: “O mio popolo, che cosa hai fatto?”. Il Mercoledì delle ceneri di Eliot sembra però inapplicabile a questa landa desolata di umanità, che il 24 settembre scorso ha assistito al ripristino di una legge razziale, tronfiamente personalizzata sotto il nome del ministro degli interni, a cui di interiorità è rimasto poco o nulla. Si tratta del “decreto legge su immigrazione e sicurezza” - e già questo suona pericoloso, come se l’immigrazione fosse nella sua generalità un problema di cupa e minacciosa illegalità, anziché una zona della nostra vita civile in cui intervenire, proprio per evitare che si intacchino le garanzie fondamentali a protezione di ogni persona. Politicamente parlando, si vorrebbe che l’istituzione di una legge tanto crudele fosse un peccato imperdonabile. La sua codifica probabilmente consoliderà la schiavitù in Italia, ma darebbe una scossa all’intera democrazia, se ancora si fosse in una nazione che si autointerpreta come democratica. Moralmente parlando, pare che una parte della luce umana si chiami fuori dalla causa dei milioni di supporter governativi e che le nozioni di giustizia e ingiustizia siano in questo modo nascoste nell’oscurità, aspettando il giorno in cui si vedrà che l’assassinio commesso ai danni dell’emancipazione è stato perpetrato nel nome stesso della libertà. È questa la caratteristica precipua della nazione rinnovata secondo illogicità e abbattimenti reiterati del principio di non contraddizione: l’intervento per il ponte Morandi si annuncia velocissimo ed è di una lentezza intollerabile, la legge sull’occupazione crea disoccupati, si urla all’invasione mentre al Brennero passano due migranti a maggio e zero a giugno. Si celebra in Italia il trionfo del bis-pensiero teorizzato da Orwell. La mendacità si organizza sotto forma di struttura politica permanente. Il decreto Salvini viene emesso per rispondere alla “straordinaria necessità e urgenza di introdurre norme per rafforzare i dispositivi a garanzia della pubblica sicurezza”, nel momento in cui le cifre diffuse dal ministero dell’interno dimostrano che i reati calano da anni e dunque non c’è alcuna urgenza. Dalle parole, ai fatti: se le formulazioni restano illogiche, gli esiti che ne conseguono non possono che risultare tragici. Dove avviene tutto ciò? In un Paese che non chiude i suoi porti soltanto, ma tutto il proprio territorio, considerato una proprietà invalicabile e inalienabile, uno sterminata Arizona mediterranea, popolata da feroci anabattisti, votati alla più bieca e violenta intolleranza. È troppo dire violenta? Niente affatto: ci sono i morti a testimoniarlo e di loro andrebbero pronunciati i nomi. Per esempio quello di Mohamed Ben Said, la prima vittima a inaugurare la lugubre conta dei deceduti presso le strutture di cosiddetta accoglienza, che si sono rinnovate nel corso di un’abominevole storia di altrettanto abominevoli acronimi, fino all’attuale Cie, ovvero centro di identificazione ed espulsione. Il decreto Salvini raddoppia il soggiorno forzato presso queste strutture dell’orrore, portandolo da tre a sei mesi. Che cosa è un Cie? È un mostro giuridico, un carcere privo di norma, uno spazio limbico che sospende i diritti di chi non è colpevole di nulla se non di essere straniero, dove la vita è vilipesa e l’atmosfera concentrazionaria comporta tentativi di suicidio, atti di autolesionismo, rivolte violente - e morte. Come nel caso di Mohamed, trovato cadavere la mattina del natale 1999 in una cella presso il centro di Ponte Galeria: era riverso in una pozza di vomito, la mandibola fratturata, in overdose da psicofarmaci. Stavano per espellerlo illegittimamente, non controllando il suo certificato di matrimonio con un’italiana, che ai tempi gli valeva la cittadinanza, mentre ciò non è più garantito con le norme di questa nuova legge razziale, istituita dal governo più repressivo dal dopoguerra. A tre giorni dalla morte di Mohamed, nella notte del 28 dicembre, presso un’analoga struttura a Trapani, sei ragazzi tunisini (di cui è prezioso ripetere i nomi: Nasim, Nashreddine, Rabah, Jamel, Ramsi e Lofti) rimasero ingabbiati in cella mentre divampava un incendio. Nel centro non erano disponibili estintori, le chiavi non si trovarono, i ragazzi morirono ingabbiati. Fu il momento in cui l’Italia si accorse di avere istituito autentici lager? Per niente. L’ipocrisia nazionale è un alimento naturale per i volonterosi carnefici della Repubblica. L’inasprimento delle norme, che condurrà a un aumento vertiginoso degli ospiti presso questi famigerati luoghi estranei allo stato di diritto, segue in modo coerente una politica della segregazione, che data dal 1995. Fu il governo Dini il primo a prevedere la detenzione amministrativa degli “immigrati irregolari”. Il salto di qualità si è compiuto nel 1998, con la legge Turco-Napolitano, che ha disposto l’istituzione dei centri di permanenza temporanea e ha normalizzato la privazione della libertà su base amministrativa. Si è aperta così la strada a uno dei dispositivi legislativi più esecrabili nella storia repubblicana, la legge Bossi-Fini del 2002, passando poi per Maroni e Minniti, fino alla stretta annunciata da Salvini in conferenza stampa congiunta con il premier più secondario di sempre. Un provvedimento tout court malvagio, diffuso con enfasi social a partire dal volto infidamente sorridente del ministro: la paciosità del male. La storia dei famigerati Cie accompagna e macchia l’arco intero della Seconda Repubblica. Ora sono l’ombelico di una legislazione che sottrae ai richiedenti asilo il diritto al patrocinio gratuito, li rende rimpatriabili in base a sentenze di primo grado, li minaccia di revoca a fronte della più ridicola delle violazioni, cioè la resistenza a pubblico ufficiale. Contestualmente viene colpito il virtuoso sistema di inclusione, lo Sprar, che è pubblico e realizzato in collaborazione con gli enti locali. Non potrà più essere accessibile a richiedenti asilo, tra i quali anche disabili, anziani, donne gravide, genitori singoli con figli minori, vittime della tratta di esseri umani, persone affette da gravi malattie o da disturbi mentali, chi ha subito torture o stupri o mutilazioni genitali. Immaginiamoli uno per uno, i volti e i corpi di questi esclusi. Questa repressione generalizzata, questa riduzione a caste di chi calca il territorio italiano, ripristina il diritto di sangue, teorizza cittadini di prima e seconda serie, inserisce la discriminazione come norma civile e giunge a fornire un alibi e una grammatica alla pubblica esasperazione, che è in realtà un’incredibile dispercezione, di cui finisce vittima la schiacciante maggioranza degli italiani, capace di credere che l’immigrazione tocchi il 25 per cento della popolazione, quando si attesta al 7 per cento. In una simile misconoscenza della realtà avviene il delitto sociale. Se non si vuole il progresso, si avranno le rivoluzioni. Ma gran parte degli italiani ritiene di farla ora e in questo modo, la rivoluzione: ledendo il diritto alla protezione umanitaria. È un regresso che dà le vertigini. Una delle assillanti ansietà del pensatore consiste nel vedere l’ombra sull’anima umana e tastare nelle tenebre, senza poterlo svegliare, il progresso addormentato. Bisogna sottrarre al sonno della sua ragione il progresso. Svegliamolo: dateci gli stanchi, i poveri, le masse infreddolite desiderose di respirare libere, i rifiuti miserabili delle spiagge affollate, i senzatetto, gli scossi dalle tempeste. Offriremo loro visti e fraternità, perché possano circolare liberamente sui territori dolcissimi che i nostri padri ci hanno consegnato, non perché fossero nostri, ma perché fossero aperti e miracolosi. Non è vero che c’è da avere paura, non è vero che il crimine trionfa: sono parole d’ordine del più fetido capitalismo mai apparso sulla faccia del pianeta, all’interno del quale viviamo e respiriamo, senza immaginarne l’estinzione. Che invece è pensabile. È possibile partire da qui: che l’Italia inizi a ritenere che c’è qualcosa di più spaventoso di Caino che uccide Abele, ed è Salvini che uccide il Negro. Messa alla prova come crocerossini per oltre 350 imputati studiocataldi.it, 30 settembre 2018 Firmata la convenzione di 5 anni tra il ministero della giustizia e la Croce rossa italiana per la messa alla prova di oltre 350 imputati nei comitati Cri in tutta Italia. Raggiunta l’intesa tra la Croce Rossa e il ministero della Giustizia per la messa alla prova. Il capo del Dipartimento per la giustizia minorile e di comunità Gemma Tuccillo e il segretario generale della Croce Rossa italiana Flavio Ronzi hanno sottoscritto, in questi giorni, la convenzione della durata di cinque anni, in base alla quale 354 imputati potranno fare richiesta di svolgere lavori di pubblica utilità, ai fini della messa alla prova, in più di 100 Comitati Cri in tutta Italia. Lo comunica una nota di via Arenula. La messa alla prova, ricorda il ministero, “è un procedimento speciale, introdotto anche per gli adulti nel 2014, al quale l’imputato può accedere, una sola volta e per reati puniti con pena non superiore a quattro anni, per ottenere l’estinzione del reato, dopo avere svolto gratuitamente lavori di pubblica utilità a favore della collettività, che viene così risarcita del danno causato”. Gli imputati ammessi alla messa alla prova potranno svolgere, lavori socio-sanitari con persone con problemi di alcolismo o tossicodipendenza, diversamente abili, malati, anziani, minori e stranieri e attività di protezione civile, anche mediante soccorso alla popolazione in caso di calamità naturali, e di manutenzione di beni pubblici. Una opportunità, insomma, si legge ancora “che da oggi, grazie al protocollo siglato, potrà essere garantita a un numero maggiore di soggetti ancora in attesa”. Messa alla prova, i dati - Gli imputati che scelgono tale strada alternativa al processo sono in costante crescita, ricorda il ministero: le misure eseguite sono passate dalle 9.690 del 2015 alle 23.492 del 2017, con un incremento del 142%. Sono aumentate inoltre del 57% le istanze pervenute, passate da 9.185 a 14.385. Bonafede “convenzione con Cri di grande importanza” - La firma della convenzione con la Cri, ha commentato il ministro Alfonso Bonafede “rappresenta un’iniziativa di grande importanza che lo Stato mette in campo per garantire una seconda opportunità ai cittadini che hanno commesso errori ma che intendono intraprendere un percorso di riabilitazione e responsabilizzazione”. La possibilità di svolgere attività lavorative gratuite a beneficio della collettività consente, infatti, “all’imputato di rimediare al danno causato, restituendo qualcosa di quello che, con i comportamenti devianti, è stato sottratto alla comunità d’appartenenza - ha proseguito Bonafede ringraziando la Croce Rossa Italiana per l’attenzione e sensibilità dimostrate rispetto a questi temi - Prendersi cura degli altri, aiutare una persona bisognosa, occuparsi della tutela di un bene pubblico o prestare soccorso ad una popolazione in difficoltà: sono tutti impegni ad elevato valore sociale che permettono all’imputato di riscattarsi, e di ‘mettere alla prova’ la propria intenzione di cambiamento e crescita personale”. “Questa firma rientra in un quadro di collaborazione tra lo Stato e la società civile, al quale la Croce Rossa Italiana intende dare un contributo in termini di progettualità, strutture e risorse” ha detto il segretario generale Flavio Ronzi. “Crediamo fortemente che quello della messa alla prova rappresenti prima di tutto un momento di riflessione e responsabilizzazione per quelle persone che, pur avendo sbagliato, restituiscono alla società qualcosa con lavori di pubblica utilità. Inoltre - ha concluso il segretario della Cri - questa convenzione con il Ministero è anche un modo per far conoscere ai cittadini un istituto ancora poco diffuso”. Chi comprerà i beni dei mafiosi di Roberto Saviano L’Espresso, 30 settembre 2018 Nel decreto sicurezza una norma sulla vendita delle proprietà confiscate. Senza garanzie che non tornino ai boss. Cosa hanno in comune criminalità organizzata, terrorismo e immigrazione? Sicuramente Matteo Salvini, che ci tiene sempre a sottolineare come l’approccio agli immigrati debba essere un approccio mediato dalla diffidenza. Si parla di immigrazione nello stesso documento che tratta di terrorismo e criminalità organizzata e non per un caso, ma perché è così che si comunica per essere ascoltati. La diffidenza verso lo straniero è ormai un sentimento trasversale e diffuso, è un sentimento di “destra” e di “sinistra”. È un sentimento che appartiene a tutti. E quindi ora siamo qui a interrogarci sui profili di costituzionalità del cosiddetto decreto Salvini, siamo qui a indignarci per come quel “per motivi umanitari” venga sostituito ovunque da altro. È un po’ come la funzione “trova e sostituisci” di Word, trova “per motivi umanitari” e sostituisci con qualcosa che dia la sensazione forte che la pacchia sia finita, ma finita davvero. Per chi non è chiaro. Cioè, è chiaro che per gli stranieri in Italia non è un buon momento ed è chiaro anche che tra poco toccherà ai rom. E qui vale la pena fare una considerazione. Salvini nella conferenza stampa a Palazzo Chigi che ha seguito il Consiglio dei Ministri sul decreto sicurezza, ha parlato di “campi rom zero” entro la fine della legislatura e sottolinea come nel decreto non ci siano misure sui rom “altrimenti sarebbe scoppiato il putiferio”. Ma perché sarebbe scoppiato il putiferio? Semplice, perché basta un attimo e questa labile pace sociale si infrange, perché sui rom c’è un dato costante che bisogna tenere presente: è un popolo che non ha mai smesso di subire persecuzioni. Mai. Sembra quasi che in questa sorta di “allegra” ascesa nei sondaggi, giocata tutta sulla pelle dei poveri (stranieri e italiani), alla fine anche Salvini abbia capito che la corda non può tirarla all’infinito. Ma tra le parole “immigrati” e “sicurezza” la relazione più evidente che mi viene in mente è anche quella di tenerci occupati qui tutti a parlare di come questo governo abbia in spregio i più elementari diritti umani. Il ministro Bonafede si è vantato di aver fatto introdurre almeno la condanna di primo grado per la perdita dello status di rifugiato o della cittadinanza per gli stranieri, inizialmente si ipotizzava potesse bastare una denuncia o un’azione di polizia, senza che la magistratura dovesse intervenire in alcun modo. Come se fosse legittimo non attendere fino al terzo grado di giudizio per i cittadini di origine straniera e come se fosse legittimo togliere lo status di rifugiato o la cittadinanza in seguito a una condanna di primo, secondo o anche di terzo grado. La cittadinanza non ha nulla a che vedere con la fedina penale e con la buona condotta. Se così fosse si dovrebbe avere analogo atteggiamento verso gli italiani che delinquono per non creare una situazione di insanabile conflitto sociale che prevede l’esistenza di cittadini di serie A e di cittadini di serie B. E però, mentre noi stiamo qui a dirci tutte queste belle cose, nel decreto del Ministro della Mala Vita, c’è una novità degna di nota: Capo II: “Disposizioni sull’organizzazione e il funzionamento dell’Agenzia nazionale per l’amministrazione e la gestione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata”. Articolo 38, (Razionalizzazione delle procedure di gestione e destinazione dei beni confiscati), comma 3: “I beni […] di cui non sia possibile effettuare la destinazione o il trasferimento per le finalità di pubblico interesse ivi contemplate, sono destinati con provvedimento dell’Agenzia alla vendita”. Hai capito? Ora gli immobili sequestrati alle mafie si potranno vendere ai privati. Va da sé “la vendita è effettuata al miglior offerente, con esclusione del proposto o di colui che risultava proprietario all’atto dell’adozione della misura penale o di prevenzione, se diverso dal proposto, di soggetti condannati, anche in primo grado, o sottoposti ad indagini connesse o pertinenti al reato di associazione mafiosa o a quello di cui all’articolo 416-bis.1 del codice penale, nonché dei relativi coniugi o parti dell’unione civile, parenti e affini entro il terzo grado, nonché persone con essi conviventi”. Esclusi tutti, ma non i prestanome, ovviamente. Csm, governo e magistrati ai ferri corti pianetagiustizia.it, 30 settembre 2018 Dopo Di Maio e Bonafede, tocca a Salvini. Nuove critiche al nuovo Csm, ovviamente per quanto riguarda l’elezione del vicepresidente Ermini: “Dopo quanto si è visto con l’elezione del vicepresidente del Csm - spiega il leader leghista - c’è da lavorare dal punto di vista della vera indipendenza” della magistratura. Pere cui, la conseguenza secondo Salvini è che occorre procedere speditamente “con la riforma della giustizia”, assieme a tutti gli altri punti del contratto di governo. Parole che suscitato l’immediata reazione dell’Associazione nazionale magistrati: “Ogni percorso che conduce ad una carica elettiva è frutto di scelte democratiche che, in quanto tali, devono essere rispettate da tutti - replica il presidente Minisci - specie da chi ricopre incarichi istituzionali”. Che giudica inopportuno “ricercare motivazioni politiche nelle scelte democratiche operate o far assumere alle scelte ricadute sull’indipendenza della magistratura, tanto da fare collegamenti con la necessità di riformare la giustizia”. Prima di Salvini era stato Bonafede a stigmatizzare la nomina di Ermini: “Il Csm ha voluto creare un legame fortissimo con la politica e con un partito”. “Affermazioni particolarmente gravi”, secondo Magistratura Indipendente, componente vicina al deputato Pd Cosimo Ferri: “Le decisioni del Csm possono essere criticate ma l’istituzione consiliare non può essere oggetto di delegittimazione, specie da parte di esponenti istituzionali”. “Leggere la scelta di un candidato o di un altro in una prospettiva di antagonismo o favoritismo politico - il commento di Unicost - rischia di compromettere l’equilibrio fra i poteri dello Stato disegnato nella Carta costituzionale”. Tensioni forti fuori dal Csm - spaccato nella votazione fra l’ex Pd Ermini e il candidato portato da Cinque stelle e Lega Benedetti - ma anche dentro, come si vedrà probabilmente lunedì, quando il Consiglio sarà chiamato a scegliere i membri della sezione disciplinare, presieduta dallo stesso vice presidente. Sul tavolo infatti c’è il fascicolo sull’inchiesta Consip e sui pm napoletani Woodcock e Carrano nei confronti del padre di Matteo Renzi. Un’indagine su cui Ermini in passato ha avuto modo di esprimersi in termini non proprio lusinghieri ma che ora, nella sua veste di guida dell’organo di autogoverno dei giudici, dovrà guardare con occhi diversi. Csm: perché eleggere David Ermini, l’unico non togato con tessera di partito di Daniela Gaudenzi Il Fatto Quotidiano, 30 settembre 2018 Era difficile immaginare che le parole pronunciate da Pierluigi Bersani, quando il Giglio Magico era a Palazzo Chigi ed il caso Consip e Banca Etruria erano sulle prime pagine, potessero sembrarci più che mai attuali in occasione dell’elezione del vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura, e cioè l’uomo che con competenza e assoluto distacco da logiche ed interessi partitici dovrebbe garantire l’indipendenza e l’autonomia del potere giudiziario. Il nome di David Ermini neoeletto con soli 13 voti su 24, amico di Tiziano Renzi nonché del figlio Matteo nato a Figline Valdarno a quindici chilometri da Rignano, renziano della prima ora e con un curriculum partitico “lineare” Dc, Pp, Margherita, Pd, deputato per due legislature nonché responsabile giustizia per il partito, evoca quella “sovrabbondanza di relazioni amicali e localistiche”, quelle “troppe cose in pochi chilometri quadrati” a cui si riferiva Bersani nel gennaio del 2016, circa un anno prima della scissione. E rappresenta con perfetta continuità e coerenza l’avversione renzusconiana per i magistrati indipendenti: sia quelli “troppo zelanti” e “complottisti” come Henry Woodcock che lo “angosciava” per quell’“inchiesta inquietante” contro il presidente del Consiglio, ma non si riferiva dalla mole di corruzione annidata nella centrale acquisti della Pubblica Amministrazione, sia quelli “discreti” e meno esposti ai riflettori ma critici nei confronti delle mirabolanti riforme del rottamatore, come Piergiorgio Morosini, dai quali non avrebbe mai voluto essere giudicato. Non solo è stato eletto l’unico non togato con tessera di partito, ma curiosamente anche il più direttamente e formalmente “partitico” ricollegabile ad un ex segretario che continua a fare il bello e cattivo tempo in quello che resta del Pd, sceso secondo le rilevazioni sotto al 18%, in forza del controllo sui gruppi parlamentari ritagliati a suo piacimento grazie al Rosatellum. Così non solo per la prima volta il vicepresidente del Csm non è un consigliere eletto dal partito di maggioranza in Parlamento, ma rappresenta solo una parte all’interno di un partito in stato confusionale ed in caduta libera in attesa di un congresso finora rinviato a tempi migliori. La convergenza sul super-politico renziano di Giovanni Mammone di Mie di Riccardo Fuzio di Unicost, a cui sono aggiunti i voti dei vertici della Cassazione ha finito per ricomporre una specie di riedizione del modello Nazareno per l’organo di autogoverno della magistratura e cioè qualcosa di assurdo e vagamente inquietante. Una scelta peraltro che ha totalmente disatteso le chiare raccomandazioni di Sergio Mattarella, a cui tutti si richiamano per aggirarle metodicamente, riguardo la distanza che i consiglieri togati dovrebbero tenere da “logiche di pura appartenenza”; così come “la competenza” e non l’appartenenza ad un partito dovrebbe essere il criterio di elezione per i componenti laici. Non va nemmeno sottovalutato che il contributo determinante all’accordo trasversale tra le correnti con cui Ermini ha prevalso, il Csm si è spaccato e di cui Matterella avrebbe volentieri fatto a meno, è avvenuto sotto l’oculata regia di Cosimo Ferri “tecnico di area berlusconiana” al governo con Letta, Renzi e Gentiloni, leader di fatto di Mi nonché deputato Pd di nomina renziana, un rappresentante blasonato del “modello nazareno togato”. Si è trattato di una scelta che conferma in modo purtroppo più abnorme e plateale rispetto al passato “la politicizzazione” dell’organo di autogoverno, o meglio di una parte consistente di esso, proprio a favore di quella politica politicante, trasformista e inciucista che ha sempre usato strumentalmente e pro domo sua la veemente accusa di essere politicizzati contro i magistrati indipendenti per minarne la credibilità e l’autonomia. A brindare al successo del “patto Letta-Lotti-Ferri” è Il Foglio che coglie, con incontenibile soddisfazione, nell’elezione di Ermini “il punto debole del grillismo” e cioè, secondo una fonte interna al Pd, “la debolezza dei populisti” nel convincere i togati di garantire l’indipendenza della magistratura. E sarebbe dunque questa, almeno secondo l’acutissimo Cerasa, la spiegazione del perché “i polli hanno messo la classica volpe a guardia del pollaio” come ha perfettamente registrato Marco Travaglio. Molise: progetto “Liberi nell’arte”, il volto sociale del Sinodo di Aldo Ciaramella molisenetwork.net, 30 settembre 2018 La presentazione lunedì primo ottobre presso la sala Marconi di Palazzo Pio in Piazza Pia a Roma del progetto “Liberi nell’arte” a cui partecipa anche il Molise, iniziativa di solidarietà rivolta al mondo della reclusione, in occasione del Sinodo dei Giovani. Il progetto, il cui fine è di favorire la cultura del reinserimento e dell’integrazione sociale dei detenuti sarà presentato il 6 ottobre all’interno della cerimonia di apertura del Sinodo, presso l’Aula Paolo VI in Vaticano, alla presenza del Santo Padre. L’evento si esprimerà attraverso quattro distinti momenti artistici che si svolgeranno presso l’Istituto Penale per Minorenni Casal del Marmo, il Carcere Femminile di Rebibbia la Casa Circondariale “Regina Coeli” e la Casa di Reclusione Paliano. Promosso dalla stampa cattolica - Ucsi Molise - in collaborazione con Vatican News, Ministero della Giustizia e Ispettorato Generale dei Cappellani, “Liberi nell’arte” è dunque un progetto sul tema della giustizia e della tolleranza, per promuovere la cultura del reinserimento attraverso l’arte. Milano: “Parole in Circolo”, il giardino condiviso che ingentilisce San Vittore di Federica Venni La Repubblica, 30 settembre 2018 Un angolo di San Vittore che fiorisce grazie alla cura dei detenuti: è il giardino condiviso “Parole in Circolo”, inaugurato in occasione della Green Week con un’apertura straordinaria alla città. Un sogno che i carcerati coltivano da un anno e che oggi si è realizzato, trasformando il vecchio cortile abbandonato su cui si affaccia l’ex Centro clinico in uno spazio con 1.200 piante tra fiori e alberi da frutta, una fontana e un pergolato. A guidare gli ospiti di San Vittore sono state diverse associazioni tra cui Cascina Bollate e Italia Nostra in collaborazione con il Comune e il Municipio 1. Il giardino sarà utilizzato per l’ora d’aria dei detenuti ma non solo: presto sarà a disposizione dei milanesi un calendario di eventi - a sfondo sociale e culturale - per poter conoscere San Vittore e i suoi ospiti. L’obiettivo infatti, spiega Ilaria Scauri, promotrice del progetto, è quello di “mettere in comunicazione il carcere con la città, al di là del muro che li separa, in uno spazio di condivisione come quello del giardino”. Presto sarà rimessa a nuovo anche l’area verde all’ingresso dell’edificio che ospiterà i colloqui con i parenti e i bambini. C’è anche un “patto” di convivenza stilato dagli stessi detenuti di San Vittore che si occuperanno, a turno, di mantenerlo vivo e fiorito. “Il lavoro con le piante - racconta Diego, uno dei detenuti - ci ha permesso di tenere in vita ciò che qui, spesso, ha vita dura e cioè la speranza”. “Abbiamo tifato tutti molto per la realizzazione di questo spazio - spiega l’assessore Maran - un luogo dove incontrarsi e far capire a chi è qui temporaneamente che là fuori c’è un mondo”. Siracusa: un bene confiscato alla mafia trasformato in centro servizi La Sicilia, 30 settembre 2018 Un bene confiscato alla mafia, una casa che diventi un punto di riferimento per i ragazzi che escono dal carcere e cercando di inserirsi nuovamente nella società. La giunta comunale di Siracusa ha approvato la concessione di un bene confiscato alla mafia per la realizzazione del progetto La tela di Aracne che mira proprio alla creazione di un centro servizi con l’obiettivo di inserire giovani ex detenuti nel mondo del lavoro. L’idea, in particolare, è quella di trasmettere ai ragazzi competenze e professionalità legate all’artigianato locale con l’obiettivo anche di partecipare allo sviluppo e al mantenimento dei lavori manuali e artigianali della cultura siracusana. L’appartamento si trova in via Bainsizza, nel quartiere della Borgata, e dopo la confisca a Concetto Cassia è stato assegnato al Comune nel 2015, dall’associazione nazionale beni confiscati o sequestrati alla mafia. Secondo quanto previsto dal progetto, nell’alloggio sarà realizzato anche un piccolo spazio dove poter vendere gli oggetti artigianali che saranno realizzati dai ragazzi ospiti della struttura. L’assessore al Patrimonio annuncia poi novità proprio sui beni confiscati ai clan della criminalità organizzata. “La nostra idea - ha aggiunto Lo Iacono - è quella di elaborare un regolamento che fissi tutte le norme per la concessione dei beni confiscati alla mafia. Appena sarà pronto lo trasmetteremo al consiglio comunale per il via libera definitivo”. Intanto con la delibera di giunta è stata disposta la concessione dell’unità immobiliare in maniera tale da far andare avanti tutte le procedure e consentire nei tempi più brevi possibili l’apertura del centro. Ravenna: nuove abitazioni al posto della Casa circondariale, se rifatta altrove ravennanotizie.it, 30 settembre 2018 Il vecchio carcere di Ravenna, in via Port’Aurea, potrebbe essere sostituito da nuovi appartamenti, progetto questo inserito tra quelli che - allo scopo di sviluppare il quartiere già residenziale della zona - riguardano la caserma Alighieri dove sorgeranno un parco pubblico archeologico e un hotel. A dare notizia delle indiscrezioni su quale potrebbe essere il futuro di via Port’Aurea è il Corriere Romagna, sul suo portale online. Al momento tuttavia non c’è nulla sulla carta e nessun imprenditore privato ha confermato il suo impegno a realizzare l’opera. Esiste però l’impegno dell’amministrazione comunale nei confronti del Ministero ad avviare tutti i cambiamenti urbanistici del caso per fare di quella zona un’area edificabile, se dovesse ultimarsi il progetto di spostamento del carcere, in quanto quello attuale non risulterebbe più idoneo. Il rischio, infatti, è che in breve tempo il Ministero della giustizia possa richiedere la chiusura della struttura; anche il sottosegretario alla giustizia Jacopo Morrone, dopo la sua visita alla casa circondariale più vecchia e piccola della regione, aveva detto che in effetti si potrebbe iniziare a pensare di realizzare una nuova struttura. Il sindaco Michele de Pascale, il giorno dopo la visita di Morrone - a cui aveva già accennato in precedenza se ci fossero le possibilità di creare una nuova casa circondariale - ha dichiarato che l’area da destinare al nuovo carcere in realtà esiste già. In particolare, si tratterebbe di un appezzamento di terra sito dietro il Tribunale di Ravenna. Qualora questa variante dovesse andare in porto, sono due le proposte avanzate per la nuova destinazione da riservare all’attuale casa circondariale della città: 1) il Ministero potrebbe mantenere la gestione della struttura, riconvertendola in un carcere femminile; 2) si decida di affidare tutta l’area in permuta per coprire parte dei costi della nuova struttura. E questa seconda alternativa, che sembrerebbe la più papabile, avrebbe spinto il Comune di Ravenna a pensare di mettere in atto tutte le modifiche urbanistiche necessarie al fine di riconvertire la casa circondariale in abitazioni in linea anche con lo sviluppo dell’intero quartiere, in virtù anche degli altri progetti che lo vedono protagonista, come quello per la caserma Alighieri, dove il Comune realizzerà un nuovo parco, mentre la Cassa depositi e prestiti, proprietaria dello stabile, vi costruirà un hotel. Milano: “Ci avete rotto il caos”, di e con gli attori-detenuti di Bollate di Monica Macchi magazine.com, 30 settembre 2018 Due date al Piccolo Teatro Studio Melato di Milano, il 25 ed il 26 settembre 2018, entrambe sold out per questa Produzione Teatro In-Stabile, “Ci avete rotto il caos”, che mette in scena nove attori detenuti del IV reparto della II Casa di Reclusione di Milano - Bollate in uno spettacolo con drammaturgia e regia collettiva. Gli attori che si rivolgono direttamente al pubblico riempiono il palco vuoto (arredato di volta in volta con sedie, panchine e scalini) con il loro corpo: flessioni, prove fisiche, muscoli e tatuaggi scolpiti e lucidati da un sapiente gioco di luci in un equilibrio instabile come sa essere la danza. Un balletto di storie inanellate a partire da un pestaggio “come branco di lupi affamati” su un disabile schernito, irretito, imitato e pure sul vecchio ubriacone, l’unico che ha il coraggio di intervenire e ha la peggio, e che si snodano tra ironia (il monologo del “rapinatore gentiluomo” dove l’interrogatorio diventa un’intervista ed il carcere un albergo 4 stelle tutto compreso), giochi di parole (“Campa cavallo… che l’erba se l’è fumata tutta lui!”, “Come si fa ad avere la coscienza pulita? Basta non usarla!”), disarmante sincerità e accenni a macro-dinamiche politiche (lacrimogeni e lanci di palline di carta stagnola mentre sullo schermo in fondo al palco vengono proiettate immagini del G8 e finiscono tutti a terra ammanettati tranne chi porta la cravatta e la 24ore). Dopo uno spettacolo nello spettacolo di ombre cinesi dove gli attori dietro lo schermo formano una stella, eccoli tornare sul palco ad interpretare il “Socio occulto” che consiglia il Male, la “Voce della Coscienza” così inascoltata che viene scambiata per Coscia Enza con cui il “Galeotto” pensa di aver avuto un’avventura tempo fa, le “Idee che il Galeotto ha avuto paura di realizzare” (che lo apostrofano con “Volevi diventar cannoniere, sei diventato cannaiolo!”) e che raccontano di essere state nutrite da Odio e Rabbia e dalla loro figlia prediletta: la Vendetta, l’ “Amore” che insegna come solo dando valore alle piccole cose si guadagna la serenità e la “Scelta” che spiega al “Galeotto” che solo lui può decidere cosa va bene e cosa no. E su quello che diventa il mantra “Non posso cambiare ciò che sono stato ma posso cambiare quello che farò” si riparte dalla scena iniziale per domare il Male con azioni pacifiche e giuste: sono tutti di nuovo attorno al disabile ma questa volta per farlo giocare a calcio con loro sulla canzone di Vasco Rossi “Il mondo che vorrei: “Non si può solo piangere e alla fine non si piange neanche più. E alla fine non si perde neanche più”. Alla fine dello spettacolo gli attori hanno ringraziato il Teatro Piccolo e hanno raccontato di quando hanno ricevuto l’invito e pensavano fosse uno scherzo… fino a quando hanno saputo che il direttore era Escobar (!) e hanno continuato a scherzare presentando il progetto Consorzio Viale dei Mille di cooperative sociali e imprese che lavorano in carcere e col carcere e che hanno dato appuntamento al 10 ottobre per l’apertura in Piazzale Dateo del primo store milanese interamente dedicato ai prodotti dell’economia carceraria intesa come chiave con cui ripensare l’intero sistema penitenziario. Nella mente di un terrorista di Pierluigi Longo L’Espresso, 30 settembre 2018 Biografie degli attentatori. Diari dei combattenti. Memoir sulla radicalizzazione. Dal Pakistan agli Usa, saggi e romanzi raccontano l’estremismo islamico. In questi testi non c’è traccia di dilemma morale. La violenza dell’uomo sull’uomo, ripetuta e riflessa sugli schermi, è svuotata del suo carattere tragico È nata una stella? A metà del 1998 la Casa Bianca lancia un altro cattivo sul palcoscenico mondiale: risponde al nome d’arte Osama Bin Laden, è fondamentalista islamico, porta barba e turbante e sul ventre accarezza un fucile. Farà carriera questa nuova stella? Avrà successo al botteghino?”. Nel 1998, così si chiedeva lo scrittore uruguaiano Eduardo Galeano in “A testa in giù”. Oggi, a trent’anni di distanza, il bilancio è chiaro: lo sceicco saudita e i suoi eredi, tra cui spicca il parricida Abu Bakr al-Baghdadi, hanno sbancato il botteghino. Imponendosi non solo sul piano politico e militare, ma anche su quello editoriale. Prima saggi, analisi, ricerche. Ora, sempre più, anche narrativa. Quella sul terrorismo islamista è una produzione varia e articolata, contraddistinta da un elemento comune: il tragico è stato rimosso. Il dilemma morale espunto. E con essi la responsabilità individuale. Altri tempi rispetto ai primi del Novecento, quando il socialista rivoluzionario Boris Savinkov mandava alle stampe romanzi a puntate come “Cavallo pallido”, dando voce al dilemma tragico del terrorista. Il quale sa che “uccidere non è permesso, è una colpa incondizionata e imperdonabile”, e tuttavia sa anche che deve assumersi la colpa. Così almeno sosteneva il filosofo György Lukács, come ricorda Vittorio Strada nel recente “Il dovere di uccidere. Le radici storiche del terrorismo” (Marsilio). Di filosofi oggi non c’è più bisogno. Il modo in cui la letteratura racconta la violenza politica è cambiato. La narrativa sul terrorismo islamista è descrittiva, compiaciuta o assume compiti moralizzatori, non più tormentata e tragica. Una tendenza già evidente nella narrativa italiana sugli anni di piombo, ha notato lo scrittore Demetrio Paolin in “Una tragedia negata” (il Maestrale) e poi il critico Gianluigi Simonetti ne “La letteratura circostante” (il Mulino). Dove viene proposta una scansione delle modalità narrative con cui il terrorismo è stato raccontato in Italia che sembra valida anche per quello islamista. “Nel corso degli anni Ottanta”, scrive Simonetti, “si susseguono, a ritmo sempre più intenso, le testimonianze dei militanti del partito armato”. Prima che alla fine degli anni Novanta “diventi un sottogenere riconoscibile” e approdi ai racconti autobiografici veri e propri, il filone viene inaugurato con il modulo dell’intervista pilotata, della testimonianza ibrida, “quasi sotto tutela”. Qualcosa di simile è accaduto con l’islamismo armato, come testimonia l’autobiografia “sotto tutela” “My Life with the Taliban” (Hurst) del Mullah Abdul Salam Zaeef, ex ambasciatore talebano in Pakistan, dei ricercatori Alex Strick Van Linschoten e Felix Kuehn, che hanno fondato a Berlino la casa editrice The First Draft Publishing, specializzata in testi autobiografici dei combattenti afghani. Testi che scommettono sull’autenticità delle storie raccontate, perché vissute in prima persona, con protagonisti carismatici, spesso ammantati di un’aura romantica. Convertiti e “sotto tutela” Rientra a pieno titolo nel genere memorialistico “Radical. Il mio viaggio dal fondamentalismo islamico alla democrazia di Maajid Nawaz “(Carbonio editore,), un inglese di origini pachistane, già reclutatore del partito radicale Hizb-ut-Tahrir, divenuto poi presidente di Quilliam, associazione contro gli estremismi. Maajid Nawaz non ha scelto la lotta armata, ha aderito a un partito che ambisce a restaurare il Califfato, ma la sua storia incarna quella che Simonetti definisce la parabola di conversione: “dal riconoscimento della colpa all’espiazione finale, e da questa alla conquista di nuova identità”. Nawaz conduce agilmente il lettore nell’immaginario politico di Hizb-ut-Tahrir, ma il libro è privo di vis tragica. Il dilemma morale è reso innocuo dalle finalità edificanti del Nawaz “convertito”. Perché se il diritto alla parola passa per l’abiura, per uno sguardo retrospettivo che sa ormai distinguere il bene dal male, a venir meno è la forza conturbante del testo, che diventa rassicurante, consolatorio. Per chi scrive e per chi legge. La stessa impressione si ricava dalla lettura del bel romanzo del giornalista e scrittore Pascal Manoukian, “Ciò che stringi nella mano destra ti appartiene” (66thand2nd 2018). Figlio di algerini musulmani, il protagonista Karim è innamorato di Charlotte, figlia di armeni cristiani, da cui aspetta un figlio. Charlotte muore in un attentato terroristico al bistrot Zébu Blanc, a Parigi. Uno dei due jihadisti che l’ha uccisa è Aurélien, compagno di classe di Karim alle elementari, convertito e reduce da diversi viaggi in Siria. “Come ha fatto la vita a metterli su due orbite così diverse?”. Per rispondere, Karim intraprende un rischioso viaggio verso la Siria: “Vuole affrontare il mostro, tagliargli la testa o perdere la sua”. In Siria incontra “ragazzini che, con un semplice volo low cost, sono passati dalla strada di casa alle rovine fumanti di Aleppo”. Sfoggiano kalashnikov e arroganza e come Aurélien - “attentatore che non prova niente” - sembrano privi di qualunque dilemma morale. Sta qui il limite del romanzo di Manukian. Assecondando la sua vocazione giornalistica, l’autore dice e spiega tutto, dal risentimento delle seconde generazioni al ruolo dei reclutatori su Internet, ma non riesce a scavare fino in fondo nei personaggi “ambigui”, ricondotti dentro una narrazione riduttiva o manichea, di semplice adesione ideologica al male o di ingenuità. Una scelta che non spiega, ma al contrario occulta la tragicità delle scelte individuali. Neanche Tamerlan e Dzhokhar Tsarnaev sembrano avere responsabilità vere e proprie. Autori del duplice attentato alla maratona di Boston che il 15 aprile 2013 ha provocato la morte di 3 persone e il ferimento di altre 264, sono i protagonisti del romanzo-inchiesta della giornalista Masha Gessen “I fratelli Tsarnaev. Una moderna tragedia americana”, (Carbonio). Un libro che si muove tra verticalità della ricerca di fonti, interviste, documenti e atti processuali e l’orizzontalità dell’elemento romanzesco. Il risultato è affascinante. L’autrice guida il lettore dal Kirghizistan al Dagestan, da Novosibirsk alla Calmucchia, dalla Cecenia a Cambridge, nel Massachusetts, ricostruendo le tappe di una famiglia alla costante ricerca del posto migliore in cui far crescere i propri figli. Gli Stati Uniti appaiono perfetti. Ma “il momento era il peggiore tra quelli possibili: gli Tsarnaev approdarono in America proprio quando quelli come loro”, musulmani e caucasici, “erano visti con molto sospetto”. Il sogno americano diventa una tragedia. Bravissima nel ricostruire il contesto famigliare, sociale e politico, l’autrice finisce però con l’attribuire proprio al contesto, con eccessivo determinismo, la scelta stragista dei fratelli Tsarnaev: “Bastava essere nati nel posto sbagliato nel momento sbagliato, come capita a molte persone, non sentirsi mai inseriti, vedere sfumare tutte le occasioni, anche quelle apparentemente a portata di mano - finché l’occasione di essere qualcuno finalmente, quasi casualmente, si presenta. E qui la piccola storia degli Tsarnaev si unisce alla grande storia della Guerra al Terrore”. Anche Alessandro Gazoia sceglie una forma ibrida, tra narrazione e saggistica, per “Giusto terrore. Storie dal nostro tempo conteso” (Il Saggiatore). Più che sul terrorismo di per sé, la sua è un’indagine sulla capacità mitopoietica e autopoietica dei gruppi terroristici, dalle Brigate Rosse di Curcio allo Stato islamico di al-Baghdadi. Sorretto da buone e consapevoli letture e da una scrittura sorvegliata ma disinibita, l’autore combina insieme Michel Houellebecq e Gillo Pontecorvo, Salman Rushdie e l’imam Khomeini, Enrico Ghezzi e il Bataclan. Storia e finzione. La finzione che si fa storia. Il punto di vista non è quello di un protagonista, ma di uno spettatore. È una scelta simile a quella compiuta da Alberto Arbasino che nel 1978, nei due mesi che separano il sequestro dall’omicidio di Aldo Moro, scrive “In questo stato” (nuova edizione Garzanti), “un “libretto di conversazioni”, una “performance tutta corale, aperta, spalancata, registrazione e appropriazione “personale” e “politica”“ dell’attualità. A quarant’anni di distanza, il “libretto di conversazioni” di Gazoia, pur restando aperto e spalancato, diventa più intimo, perché la società è meno corale, e la registrazione personale e politica passa inevitabilmente per un immaginario nutrito di immagini mediatiche, oltre che di parole. Se il racconto sociale degli anni di piombo “è dipinto a tinte scure, scorate, il marrone e il grigio dominano l’impasto cromatico”, con il terrorismo islamista il contesto è sociale perché mediatizzato. “Il terrorismo è solo una minuscola lanterna magica che proietta ombre lunghissime”, scrive Gazoia. La violenza è estetizzata, ricondotta dentro l’infinito gioco di rimandi dell’immaginario mediatico. La violenza dell’uomo sull’uomo, ripetuta, replicata, riflessa sugli schermi, è definitivamente svuotata del suo carattere tragico, l’elemento su cui il terrorista Boris Savinkov e il filosofo Lukács si interrogavano all’inizio del Novecento. Negato dalla letteratura sui protagonisti della violenza terroristica, il carattere tragico della libertà personale torna evidente quando questa è negata. Così nella coinvolgente storia raccontata dall’egiziano Youssef Ziedan, docente di filosofia islamica e sufismo, in “Guantánamo” (Neri Pozza). La trama è semplice: un giovane arabo del Nord del Sudan viene rapito nella zona di confine tra Pakistan e Afghanistan. Venduto da un agente corrotto pachistano, finisce nella famigerata prigione afghana di Qandahar. Accusato di essere sposato con una jihadista, di aver voluto incontrare Osama bin Laden e i Talebani, da Qandahar è trasferito a Guantánamo. “Ci hanno vestito con una tuta intera di un arancione acceso, eravamo dei fantocci, zoppi, doloranti e miseri… occhi smarriti che non sapevano da che parte rivolgersi”. A Guantánamo diventa “un nemico combattente, quindi un prigioniero di guerra, la guerra contro il terrorismo”. Gli attribuiscono una nuova identità. “Tu sei 6-7-6”. Sopravvivere non è facile: “non sperava più né di restare rinchiuso né di venire rilasciato, adesso voleva soltanto trovar pace da quella vita”. Ritrovarsi è quasi impossibile. “Ero stato sposato un giorno, e un tempo avevo un nome con cui mi chiamavamo la mia famiglia, i miei vicini, i miei compagni di scuola. Che cosa studiavo, qual era il mio nome?”. Eppure, il protagonista continua un dialogo costante, moralmente esigente con la propria anima e con Allah, interlocutore invocato, amato e temuto, riflette giorno e notte sulla forza della propria fede, sul peccato, sull’eterna ricerca di giustizia dell’uomo, negata dal potere e dalle istituzioni repressive. E proprio quando scopre, tragicamente, che “possiamo soltanto fissare smarriti i meandri delle nostre anime”, ritrova la libertà: “I giorni a venire si riempiranno di felicità, e di speranza... e di luce. Il sole è la più perfetta luce di Dio sulla terra. E al cielo si volge libera l’immaginazione”. Gli “ismi” e il linguaggio dell’idolatria di Aldo Grasso Corriere della Sera, 30 settembre 2018 Il maleficio degli ismi. “Quando qualcuno ci accusa di sovranismo e populismo amo sempre ricordare che sovranità e popolo sono richiamati dall’articolo 1 della Costituzione italiana”. Così parlò il professor Giuseppe Conte, a New York, nel corso dell’Assemblea generale dell’Onu. Le parole sono tutto. Già nel 1898, anno di pubblicazione del libro “Gli ismi contemporanei”, Luigi Capuana avrebbe potuto spiegare al nostro primo ministro che un conto è il popolo e altra cosa è il populismo. Un ismo è un sistema di pensiero che spesso pretende di dare una spiegazione totale e definitiva e la sua efficacia redentrice racchiude in sé i germi del disprezzo della realtà. Il filosofo francese Gustave Thibon, cui Simone Weil consegnò il manoscritto del fondamentale “La pesantezza e la grazia”, ha scritto: “In due parole: diffido degli “ismi” tanto quanto sono attaccato alle realtà sulle quali vengono a innestarsi, come il verme che s’intrufola in un frutto. Gli “ismi” - e Dio sa se pullulano oggi in tutti i campi - sono parassiti ideologici che svuotano le cose della loro sostanza proiettandole fuori dai loro confini”. L’ismo è un suffisso che spesso tradisce la realtà per l’idolatria. La sovranità e il popolo non vanno confusi con il sovranismo e il populismo. Così dice la lingua italiana. Così lo ribadisce la Costituzione italiana. Manifesto di un’ideologia feroce di Marco Damilano L’Espresso, 30 settembre 2018 Il decreto Salvini nega diritti sanciti dalla Costituzione. E opera discriminazioni fra i cittadini come mai era accaduto nella storia della Repubblica. Quando il 5 agosto 1938 cominciarono le pubblicazioni del quindicinale La difesa della razza, diretto da Telesio Interlandi, prototipo del giornalista fascista, con la pubblicazione del manifesto firmato da dieci scienziati, l’appoggio della stampa alla politica razziale del Duce fu “più del solito servilmente schifosa”, appuntò sul suo diario Emilio Del Bono, uno dei quadrumviri del regime. Il 2 e il 3 settembre furono approvati i primi provvedimenti: il divieto per gli studenti ebrei di frequentare le scuole pubbliche, per i bambini delle scuole elementari l’istituzione di sezioni appositamente dedicate in classi con numero non inferiore di dieci, la revoca della cittadinanza italiana per gli ebrei stranieri che l’avevano ottenuta dopo il 1918. Per arrivare all’ultimo decreto, il 17 novembre, che impediva agli ebrei di lavorare alle dipendenze di enti pubblici. La vergogna più infame della storia del diritto italiano, e anche della cultura e della ricerca scientifica: le leggi razziali approvate dal fascismo ottant’anni fa. Se ripubblichiamo quel manifesto ignobile firmato da luminari di peso in apertura dell’Espresso, e le copertine del giornale di Interlandi nei servizi di prima pagina, è perché di quella storia l’Italia ha perso memoria, al punto che il leader della destra Gianfranco Fini (poi convertitosi alla definizione di “fascismo male assoluto”) per anni giocò sulle parole, su “un errore che si era trasformato in orrore”, e sulle leggi razziali che in Italia hanno avuto “un’applicazione limitata”. Premessa di una grande rimozione nazionale, il campo di concentramento di Fossoli a due passi da Carpi, un distesa di capannoni nel cuore dell’Emilia, oggi restituito alla memoria ma per decenni dimenticato. E di nuovo, sono state a lungo rimosse quelle parole orribili pronunciate da un capo di governo italiano, Benito Mussolini, impegnato in quelle settimane, come scrisse il suo biografo Renzo De Felice, nella svolta totalitaria, che passava anche per la sostituzione del lei con il voi e per l’introduzione del passo romano, “poderosi cazzotti nello stomaco” nel sedicesimo anno del regime, mentre il cedimento di Francia e Inghilterra nei confronti della Germania di Hitler alla conferenza di Monaco anticipava l’inizio del conflitto mondiale dell’anno successivo. Bisogna sempre stare attenti quando si maneggiano paragoni storici. Materiale incandescente, pericoloso. Per di più in tempi di ignoranza e banalità da social, in cui ogni politico avversario può essere trasformato, all’occorrenza, in un nuovo Stalin o in un redivivo Hitler. Di questa banalizzazione, e di una più preoccupante mancanza di categorie nuove per definire i fenomeni inediti del XXI secolo, i primi a beneficiarne sono proprio i leader messi in parallelo con il passato. Per prima cosa perché, ben al riparo all’ombra della superficialità, possono impunemente lasciarsi andare a ogni genere di remake verbale: i sovranismi, i nazionalismi, la difesa del popolo, della nazione, se non della razza, espressi in termini anti-storici. Salvo poi difendersi, in caso di attacco, spiegando che con quel passato ripugnante loro non c’entrano nulla e che semmai sono i loro critici a essere fuori dalla storia. Facciamo un esempio: un giornale per così dire minore, nulla a che fare con Telesio Interlandi, per carità, titola all’indomani della presentazione del decreto sicurezza firmato dal ministro Matteo Salvini: “Passa la stretta sugli immigrati. Salvini: “E adesso tocca ai Rom”. Scivola così, nella rassegna stampa, come un titolo qualsiasi nel mercato delle opinioni. E affermare che si tratta di un’affermazione francamente di stampo fascista, perché si tratta di un sequenza tragicamente già vista nella storia del Novecento, significherebbe esporsi all’accusa di voler criminalizzare l’avversario. Come accadde qualche settimana fa, quando una copertina dell’Espresso con il titolo ripreso da Elio Vittorini, “Uomini e no”, fu equivocata al punto di sostenere che la nostra intenzione fosse negare al ministro Salvini l’appartenenza al genere umano. Ambizione eccessiva, in effetti. Salvini è un uomo. E Salvini non è un fascista. Tutti d’accordo su questi due punti, restano i fatti. Il primo provvedimento importante del governo in materia di ordine pubblico, dopo la marea di parole estive, è un decreto in cui i migranti finiscono trattati come un sottocapitolo della questione sicurezza. Non è la prima volta che succede: nel 2008 il centro-destra berlusconiano tornato al governo presentò subito un pacchetto sicurezza, il ministro dell’Interno era un altro leghista, Roberto Maroni. Quel provvedimento introduceva per i sindaci la possibilità di avvalersi delle ronde dei cittadini per sorvegliare il territorio, allontanamenti e espulsioni più facili, e soprattutto il reato di immigrazione clandestina, su cui nel 2010 si è abbattuta la scure della Corte costituzionale, “i parrucconi”, così li chiamò l’allora terza fila leghista Matteo Salvini. Una questione che ha diviso in anni più recenti il Movimento 5 Stelle, quando la coppia Beppe Grillo-Gianroberto Casaleggio intervenne per sconfessare un voto parlamentare di M5S: “Se durante le elezioni politiche avessimo proposto l’abolizione del reato di clandestinità, il M5S avrebbe ottenuto percentuali da prefisso telefonico”, scrissero i fondatori, poi sconfessati dal voto degli iscritti alla Rete prima dell’associazione Rousseau. Ma anche un tipo solitamente incline ad attaccare briga come Matteo Renzi quando era presidente del Consiglio rinviò ogni decisione in merito affermando che l’opinione pubblica non era matura. Quel che più conta è che tutti questi interventi su immigrazione e sicurezza sono stati sempre presentati come salvifici, decisivi. E, invece, hanno provocato problemi ancora più complessi di quelli che intendevano risolvere. La novità del decreto Salvini, come l’ha chiamato lo stesso ministro costringendo il premier Giuseppe Conte a una pietosa comparsata di tipo pubblicitario - un’immagine apocalittica, scrive Massimo Cacciari, “in senso etimologico: manifestazione di quanto la competenza culturale e il lavoro intellettuale possano smarrire la propria valenza critica e auto-critica, se fagocitati da micro-cupidità di potere e private ambizioni” - è nel suo essere un inutile, ma devastante manifesto ideologico. Per la prima volta nella storia della Repubblica viene inserito in un atto legislativo che il diritto di asilo garantito dall’articolo 10 della Costituzione può essere affievolito e annullato, che la cittadinanza italiana conquistata da uno straniero può essere revocata, che il diritto di difesa non è uguale per tutti, che la protezione umanitaria viene annullata. Certo, nell’idea salviniana i diritti si spengono e si tolgono per chi si è macchiato di un qualche delitto, o addirittura è sospettato di averlo fatto (in una prima versione bastava la semplice denuncia per far cadere la domanda di asilo). Di questo passo si arriverà alla delazione, come nei tempi più bui. Salvini, la paciosità del male, lo chiama Giuseppe Genna, agisce nel vuoto politico di tutti gli altri, di un Movimento 5 Stelle che affida il suo ruolo sulla legge di Bilancio alle minacce fuori campo di Rocco Casalino e di un’opposizione sfiancata. Si presenta come banale e innocuo, come uno di noi. E invece è il volto di un’ideologia feroce che può assumere tratti pagliacceschi (questo Steve Bannon effigiato come merita da Vittorio Malagutti) o ben più inquietanti. Inquietante è la lettura che Salvini dà del suo stesso decreto: permessi di soggiorno strappati davanti alle telecamere, “se delinqui ti leviamo il foglietto”. E allora nessun paragone con il passato è possibile. Ma, come scrive Aboubakar Soumahoro, il decreto Salvini “segna l’inizio di un processo istituzionale di deriva razzista”. E non si potrebbe dirlo meglio, ottant’anni dopo. La deriva razzista diventa legge di Aboubakar Soumahoro L’Espresso, 30 settembre 2018 C’è una politica che da tempo indica nello straniero il “nemico pubblico”. In comune con il passato c’è l’indifferenza. Si vuole distrarre l’attenzione dall’ingiustizia sociale contro cui non si fa niente: è questa la vera insicurezza. Il decreto sicurezza approvato lo scorso Consiglio dei Ministri ha deliberato il prolungamento dello scioglimento del Comune di Gioa Tauro, commissariato dal maggio del 2017 per condizionamento della criminalità organizzata. Non ci sono le condizioni per indire nuove elezioni, eppure l’emergenza sono gli immigrati. Così dopo tante parole, provocazioni e selfie è il primo provvedimento formalmente proposto dal ministro dell’Interno Matteo Salvini in tandem con il ministro Luigi Di Maio. Un decreto che segna l’inizio di un processo istituzionale di deriva razzista. Al di là dell’esame delle singole misure, che altri hanno esaminato prima e meglio di me, è evidente che questo atto mira a creare un “nemico pubblico”, individuato senza mezzi termini nello straniero. E lo fa nascondendosi dietro l’uso ambiguo della parola “sicurezza”. Eppure, tutte e tutti, indipendentemente dal colore della pelle, abbiamo bisogno di sicurezza e di giustizia sociale rispetto al dilagare delle disuguaglianze sociali che affliggono la nostra comunità in termini di disoccupazione ed impoverimento di massa. Chi non ha bisogno di sicurezza? Il problema è che quando tu non sei in grado di garantire sicurezza sociale, quando le tue promesse di un welfare più esteso si dimostrano false, allora sposti l’attenzione contro un nemico. Dalla sicurezza sociale alla pubblica sicurezza. Così il ministro Salvini, ma direi anche l’intero governo, ancora in alto mare per la ricostruzione del Ponte Morandi a Genova, tra tutte le promesse elettorali sceglie quella più demagogica e discriminatoria. Lo fa, ironia della storia, proprio nell’ottantesimo anniversario delle leggi razziali approvate dal fascismo nel 1938. Mi si obietterà che erano un altro contesto storico e giuridico e che la nostra Costituzione, che compie proprio quest’anno 70 anni dalla sua entrata in vigore nel 1948, non consentirebbe mai l’approvazione di provvedimenti di natura discriminatoria e di negazione delle libertà ad una parte della nostra comunità. A chi non crede che ciò sia possibile, lo invito a leggere un provvedimento che, mettendo sinanche in discussione la cittadinanza o il diritto alla difesa in sede giudiziaria, sancisce che di fronte alla legge non siamo tutti uguali. Devo anche osservare che questo provvedimento ha avuto la strada spianata dalle precedenti maggioranze politiche. È il caso del decreto Minniti-Orlando con l’istituzione di sessioni speciali nei tribunali per soli migranti e la trasformazione degli operatori dei Centri d’accoglienza in pubblici ufficiali, giusto per fare alcuni esempi. Anche chi ha preceduto questo governo si è impegnato in campagne di manipolazione della realtà, spesso con fini elettoralistici. A proposito vorrei ricordare le dichiarazioni dell’allora ministro dell’Interno Marco Minniti (Pd) che “sui migranti ho temuto per la tenuta democratica del paese”. Dichiarazioni rese mentre la popolazione continuava a chiedere, è il caso anche oggi con l’attuale Governo Movimento 5 Stelle e Lega, giustizia sociale. Il Dl Sicurezza varato all’unanimità è certo in palese violazione di libertà e tutele sancite dalla Costituzione e dalle Convenzioni internazionali ratificate dall’Italia, e limita di fatto la libertà e l’uguaglianza delle persone distinguendole in base alla provenienza geografica. Trasforma parte della popolazione in “categoria speciale” nonché capro espiatorio di una crisi economica che stiamo subendo e vivendo tutti, nessuno escluso, drammaticamente. Ma il Governo del Premier Giuseppe Conte rischia anche seriamente di mettere in discussione una memoria che dovrebbe essere collettiva e salvaguardata. Perché se oggi non vogliamo limitarci a celebrazioni vuote e prive di senso, dobbiamo segnalare l’indifferenza come legame tra le politiche razziali del 1938 che hanno spogliato e deprivato dei loro diritti i cittadini ebrei con quelle che oggi questo governo mette in campo per rifugiati, richiedenti asilo e migranti. La società sta smarrendo i valori fondamentali, stiamo tornando sudditi invece di cittadini e esseri umani. E queste politiche non hanno nulla a che vedere con la sicurezza, anzi funzionano come elementi di distrazione. Non dimentichiamo, per esempio, che l’Italia con un buco da 36 miliardi risulta il primo paese europeo per evasione fiscale. O che sono più di 7 milioni le persone che vivono in condizione di disagio economico in Italia. Mentre le persone costrette a sopravvivere nella povertà assoluta sono 5 milioni. Ricordiamo quanto accaduto in passato. Dobbiamo vivere il nostro presente senza però trasformare questa necessità, parafrasando Primo Levi, in una guerra di falsificazione e negazione contro la memoria. Senza la salvaguardia della memoria è difficile proiettarsi in un futuro migliore. La canapa diventa multi-business di Annamaria Lazzari Il Giorno, 30 settembre 2018 Dall’olio alla pasta: i produttori dei suoi derivati riuniti a Milano. Non solo cannabis light, quella venduta con il principio attivo che ha effetto psicotropo, Thc, sotto lo 0,2%. Dalla canapa si ricavano anche olio, pasta e birra, pasticche contro l’insonnia, una crema per la psoriasi. Oltre cento aziende che hanno costruito il business sul “fatto di canapa”, provenienti da tutta Italia, hanno esposto al secondo Salone Internazionale della Canapa, all’Officina Ventura, in zona Lambrate a Milano. L’evento (iniziato venerdì, si chiude oggi), ha il patrocinio del comune di Milano e rispetto all’anno scorso ha raddoppiato i suoi espositori e più che quadruplicato gli spazi: 120 aziende contro le 50 dello scorso anno, 4.500 metri quadri contro i mille della prima edizione in via Tortona. Tra chi ha colto le diverse opportunità dell’“oro verde” c’è Giorgio Biondi, titolare di Buena Vita Social Club: da maggio ha aperto due store, uno a Milano l’altro a Segrate, e uno shop on line. Presto arriveranno altri negozi. “Abbracciamo il mondo della canapa a 360°”, dice Biondi. Il giro d’affari? “Mille euro al giorno in ogni negozio. Il 60% dei nostri clienti sono uomini, il 40% donne”. Dunque non solo l’erba light e infiorescenze cercate soprattutto dai giovani, ma anche tanti prodotti a base di semi e olio di canapa che interessano tutte le fasce di età. Come gli alimentari. “Il contenuto vitaminico dei semi di canapa è rilevante: macinati, possono essere usati per ottenere la farina oppure estrarne l’olio per i condimenti. Il potassio, il fosforo, il magnesio, il calcio e il ferro aiutano una corretta e sana alimentazione stimolando la rigenerazione cellulare. I produttori sono quasi tutti italiani”, spiega Biondi. Così, 250 grammi di pasta sono venduti a 5 euro, lo stesso prezzo di una bottiglia di birra. E poi ci sono gli estratti di Cbd, ossia di cannabidiolo, principio attivo che ha proprietà rilassanti e non psicoattive, venduto in forma di capsule e oli: “Sono usati per combattere l’ansia e l’insonnia, ricercati da un pubblico più anziano”. L’olio, a seconda della concentrazione del principio attivo cbd, dal 2,5% al 20%, costa da 31 euro a 171 euro (per un flaconcino di 10 ml). Ci sono poi creme, impiegate come aiuto per dolori infiammatori, muscolari e persino per la psoriasi, il prodotto più venduto nel comparto “parafarmaceutico” a 19 euro. “Le creme a base di olio di canapa contengono gli omega 3 e 6, aiutando la pelle a ritrovare il suo equilibrio” aggiunge Fabio Coppolino, nel team di Buena Vita. Francesca Tronca che da anni ha una micro-azienda nel settore moda, in provincia di Varese, a Casorate Sempione, dal 2016 ha puntato su abbigliamento realizzato con filati di canapa: “La canapa è un ottimo tessuto naturale che ha proprietà termoregolatrici. Al momento i capi prodotti costituiscono il 20% del mio fatturato che si basa anche su tessuti tradizionali. Il settore vale nel mio caso 10mila euro all’anno ma conto in una crescita più sostenuta nei prossimi anni”. Una camicia costa da 150 euro in su. Egitto. Al-Sisi, dittatore da docu-film. Nuovo colpo ai diritti umani di Pierfrancesco Curzi Il Fatto Quotidiano, 30 settembre 2018 Il presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi, ossia il “Nostro uomo al Cairo”. È lui il protagonista del docu-film “Our man in Cairo” in onda stasera su Sky Atlantic (21,15), co-prodotto con Arte e Zdf. La storia degli ultimi 5 anni di terrore in cui è piombato l’Egitto dopo i moti rivoluzionari del 2011 e le prime elezioni libere, l’anno successivo, vinte dai Fratelli Musulmani di Mohamed Morsi, oggi in prigione. La prima visione in Italia arriva dopo la sentenza emessa ieri dal tribunale del Cairo nei confronti di Amal Fathy, moglie di Mohamed Lotfy, il numero due della Commissione egiziana per i diritti e la libertà (Ecrf). La Fathy, in carcere dall’Il maggio scorso, è stata condannata a due anni di reclusione,10 mila lire egiziane di multa e altre 20 mila per la cauzione e dunque la sospensione della pena nel cosiddetto caso Maadi. Si tratta della pubblicazione di un video sui social considerato “pericoloso per la pace pubblica”. Resta in piedi l’altro caso, la presunta affiliazione a un gruppo politico ormai disciolto, discusso il prossimo 14 ottobre. Un duro colpo per lei, i suoi cari e per la famiglia di Giulio Regeni che all’Ecrfsi è affidata sin dai giorni successivi alla morte del ricercatore friulano. “L’Egitto deve essere ricostruito e protetto dai suoi figli, è una profezia della storia. Lunga vita all’Egitto”. Al-Sisi, un dittatore senza scrupoli capace di far rimpiangere l’ex presidente egiziano Hosni Mubarak, ha fatto della violenza, della repressione e della paura i suoi strumenti di potere. “Persona sgradita”, non per i i leader mondiali, disposti a dichiarare la loro stima verso un militare al comando con un Golpe su commissione. Il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump ha confermato di avere “fantastiche relazioni con l’Egitto” e di “apprezzare quanto stia facendo al-Sisi”, mentre è risaputa la stretta collaborazione con il leader russo Vladimir Putin, specie sullo strategico nodo libico. Myanmar. Amal si appella a Suu Kyi: “atto di clemenza per i 2 giornalisti” di Alessandra Muglia Corriere della Sera, 30 settembre 2018 La nota avvocata dei diritti umani moglie di George Clooney si rivolge alla leader birmana per liberare i due reporter della Reuters detenuti come spie: “Gli stermini di massa non sono un segreto di Stato, lei sa cosa significhi essere un prigioniero di coscienza in Myanmar, lei ha dormito nello stesso carcere”. Rieccola più battagliera che mai Amal Clooney all’Onu. La nota avvocata dei diritti umani, moglie dell’attore George, ha lanciato un appello stringente e accorato alla leader birmana Aung Sang Suu Kyi per la liberazione dei due giornalisti della Reuters detenuti da dicembre nel suo Paese, Wa Lone e Kyaw Soe Oo. Amal, elegantissima in un abito rosso fuoco, ha iniziato il suo intervento a un incontro sulla libertà di stampa a margine dell’Assemblea generale dell’Onu, chiedendo un “atto di clemenza” politica nei confronti dei due reporter, come hanno già fatto le loro mogli una settimana con una lettera al governo, non perché i loro mariti abbiano fatto qualcosa di sbagliato ma come espediente per uscire di prigione. I due reporter stavano documentando le esecuzioni di massa della minoranza Rohingya nel Paese a maggioranza buddista e nonostante abbiano sempre detto di essere stati incastrati, ad aprile sono stati condannati a sette anni per possesso illegale di documenti governativi riservati. “Il governo può se vuole far finire questo oggi stesso” ha incalzato l’avvocato anglo-libanese. Con la richiesta di grazia, Amal ha ribaltato l’impostazione strettamente giudiziaria usata da Suu Kyi per quando a inizio settembre per la prima volta era intervenuta sul caso sostenendo che i due reporter “non sono stati arrestati perché giornalisti ma per aver violato una legge dell’era coloniale, l’Official Secrets Act”. “Se qualcuno crede che ci sia stato un fallimento della giustizia, lo indichi chiaramente” aveva detto la leader birmana. Amal ha parlato di “processo farsa”, sottolineando che la condanna a sette anni di carcere è stata “una parodia della giustizia, e spetta al governo liberarli”. Per far breccia la moglie di Clooney ha poi cercato poi di far leva sui trascorsi da paladina dei diritti umani di Aung Sang Suu Kyi. “Lei sa che gli stermini di massa non sono un segreto di stato e che metterli in luce non trasforma un giornalista in una spia” ha arringato come in un tribunale. “La preoccupazione di questi due giovani dovrebbe essere quella di riuscire a vincere o meno il premio Pulitzer, non di uscire di prigione prima del 2024”. E ancora: “Aung Sang Suu Kyi sa meglio di chiunque altro cosa significhi essere un prigioniero di coscienza in Myanmar. Ha dormito in una cella del carcere dove ora dormono Wa Lone e Kyaw Soe Oo”. Infine la conclusione, sorta di velato aut aut. “Lei ha le chiavi per arrivare alla verità e alla trasparenza, per un Myanmar più democratico e prospero, la storia la giudicherà sulla base della sua risposta”.