L’Italia e il risveglio dei demoni di Maurizio Molinari La Stampa, 2 settembre 2018 Un parrucchiere di Roma, particolarmente loquace, conversa con le clienti. “A me piace Matteo Salvini e poi, vi confesso, in fondo sono sempre stato razzista”. Davanti allo sguardo sorpreso di chi ascolta, l’uomo continua a lavorare all’acconciatura come se avesse detto la cosa più banale del mondo. A oltre 600 km di distanza, in un ristorante vicino a Belluno un imprenditore locale spiega ai commensali: “Sono in disaccordo su tutto con questo governo, tranne su un tema, i migranti, perché violentano le nostre donne, ci costano tanti soldi e generano ogni sorta di malaffare”. Fra i presenti c’è chi obietta che in realtà molti migranti vengono impiegati in lavori che gli italiani non vogliono più fare ma l’imprenditore è perentorio: “Ne abbiamo troppi”. Courmayeur è in un altro angolo di Italia, la piazzetta nella zona pedonale è un luogo di incontri ed un quarantenne in vacanza pone pubblicamente il dubbio se non ci sia “il mondialismo” all’origine “di tutti i nostri problemi” perché “il multiculturalismo oramai è fallito”. In un Autogrill vicino Bologna due giovani davanti ad un caffè descrivono i migranti in arrivo dal Nord Africa: “Altro che poveretti denutriti, hai visto che muscoli?”. Questi episodi, tutti avvenuti nelle ultime settimane, sono la cartina di tornasole di un sentimento pubblico crescente e lasciano intendere che i demoni stanno tornando fra noi. L’avversione per il prossimo è il più pericoloso dei virus perché annebbia la mente, trasforma la conoscenza in un avversario e conduce su una strada disseminata di conflitti, dunque senza uscita. L’antidoto più efficace contro questo demone è la forza della ragione: il razzismo ha causato nel Novecento 60 milioni di morti e la distruzione dell’Europa, perché resuscitarlo? Le nazioni più prospere del Pianeta sono state create negli ultimi duecento anni con il contributo vitale degli immigrati, perché rigettarli? L’avversione al “mondialismo” nasce dalla narrativa totalitaria favorevole alla chiusura ermetica delle società, può essere questo l’orizzonte della generazione Erasmus? Quando la ragione si offusca è l’intolleranza che si fa largo, accompagnandosi ad una narrativa collettiva imperniata non sulla soluzione dei gravi problemi esistenti ma sull’avversione per nemici sempre più numerosi e pericolosi che nell’odierna versione sovranista-populista italiana sono: l’establishment, l’euro, l’Unione europea, la Francia, la Germania, i migranti, i rom, Confindustria e, come ha affermato il vicepremier Luigi Di Maio il 6 agosto al Senato, il “Dio mercato” contrapposto alla “dignità dell’individuo”. Altri, prima o poi, seguiranno. Ma quando sono gli avversari a definire cosa siamo, dobbiamo chiederci chi siamo. Prendere atto del risveglio dei demoni dell’intolleranza significa chiedersi da dove vengono. L’avversione per chiunque identifichiamo come diverso è congenita ad ogni gruppo nazionale, etnico, tribale, dunque è presente anche in casa nostra ma dopo le devastazioni del Novecento la consideravamo sepolta, inghiottita dall’abisso, invece adesso riemerge con prepotenza. Appare incontenibile, accompagnata dalla costante ricerca dei nemici più diversi. La risposta al perché del ritorno dei demoni è da rintracciarsi nella somma di diseguaglianze economiche, timori per i migranti, corruzione, burocrazia e infrastrutture fatiscenti che alimentano l’insicurezza collettiva, allontanano i cittadini dalle istituzioni democratiche e minano il legame con i valori della Repubblica declinati nella Costituzione. Se una moltitudine di italiani il 4 marzo scorso ha votato per Movimento Cinque Stelle e Lega è stato proprio per chiedere sicurezza davanti ad una molteplicità di fattori che aggrediscono la vita delle famiglie e a cui i partiti tradizionali non sono riusciti a dare risposte convincenti. La sfida dunque, per la coalizione giallo-verde, è tentare di elaborare risposte strategiche a tali emergenze sfruttando il consenso popolare per varare le riforme necessarie al nostro Paese: un nuovo modello economico per battere le diseguaglianze, l’integrazione dei migranti per farne un motore della crescita, la rigida applicazione della legge per proteggere le famiglie, investimenti per le infrastrutture e lotta senza quartiere alla corruzione. Se intraprenderà la strada delle riforme il governo si guadagnerà sul campo il merito di aver dato un nuovo orizzonte al nostro Paese, se invece preferirà scagliarsi contro nemici vicini e lontani si assumerà la responsabilità del ritorno dei demoni. Il bivio è fra la scommessa su un futuro migliore e il ritorno al passato più buio. Fra fedeltà alla Costituzione e rincorsa degli istinti più pericolosi che albergano in ognuno di noi. Italiani a mano armata di Emanuele Coen L’Espresso, 2 settembre 2018 Negli ultimi tre anni circa 200 mila persone nel nostro Paese hanno iniziato a frequentare i poligoni di tiro. E si preparano a sparare. La signora, una bella donna sulla quarantina, stringe forte la pistola con entrambe le mani. Giubbotto leggero, pantaloni mimetici grigi, grandi cuffie antirumore, occhiali, punta l’arma verso una delle quattro sagome ancorate a terra da pneumatici. “Fuoco! Centrato! Riassesta, non devi abbassare, metti sulla linea mediana l’asse della canna! Brava, bravissima!”, la incalza l’istruttore, mentre lei indietreggia continuando a sparare. Alle loro spalle un gruppetto di allievi più o meno esperti - in maggioranza donne, giovani e meno giovani - non vede l’ora di mettersi alla prova e impugnare la semiautomatica. Soffia un vento torrido al Pisana Shooting Club, una landa tra la zona di Malagrotta e l’aeroporto di Fiumicino, uno dei tanti poligoni privati disseminati in tutta Italia. Oltre sessanta, soprattutto al Nord, secondo le stime della rivista specializzata “Armi e tiro” che di recente li ha censiti, considerato che neanche il ministero dell’Interno è in grado di fornirne il numero esatto. A cui si aggiungono le 263 sezioni del Tiro a segno nazionale, dalla Lombardia alla Sicilia. Poligoni per chi pratica il tiro a segno sportivo e, allo stesso tempo, palestre a cielo aperto per gli appassionati di tiro operativo, addestrati a usare le armi per difesa personale. Sono sempre più numerosi gli italiani che hanno paura e invocano sicurezza, nonostante la riduzione dei reati. Pronti a maneggiare una pistola o un fucile da usare all’occorrenza, in caso di aggressione, rapina o violazione del domicilio. Senza contare chi flirta per gioco con revolver e carabine, travestito da cowboy con tanto di musica country-western di sottofondo, cimentandosi in gare di tiro al bisonte corrente (sagome di metallo) nei poligoni autorizzati. Circa quattro connazionali su dieci, del resto, sono favorevoli all’introduzione di criteri meno rigidi per il possesso di un’arma da fuoco, secondo il Rapporto Censis sulla filiera della sicurezza in Italia, in netto aumento rispetto a pochi anni fa. Mentre risultano in crescita le licenze per porto d’armi: quasi un milione e quattrocentomila nel 2017, il 13,8 per cento in più rispetto al 2016. Negli ultimi tre anni hanno scoperto la passione per i poligoni di tiro circa 200mila italiani, molti dei quali per imparare a difendersi. Basta scambiare due chiacchiere con i frequentatori del Pisana Shooting Club per rendersi conto che le statistiche non sono campate in aria. “In Italia c’è un bisogno crescente di sicurezza, di sentirsi protetti nella propria abitazione o per strada. Un bisogno primario, legato all’esigenza di sopravvivere di fronte a una minaccia incombente, grave e attuale per la vita”, sottolinea Antonino Troia durante una pausa del suo seminario tecnico-promozionale, all’ombra di un pergolato tra colleghi, amici e allievi. Di difesa se ne intende il generale di brigata, 61 anni di cui quasi quaranta nell’arma dei carabinieri, fisico atletico e capelli corti brizzolati, paracadutista del reggimento Tuscania con un curriculum costellato di missioni in Iraq, Balcani, Afghanistan, e operazioni contro la criminalità organizzata: “L’uso delle armi per difendersi nasce da questo bisogno primario, non ha nulla a che vedere con la volontà di autorealizzazione, tipica dell’attività sportiva. Confonderli può determinare conseguenze molto gravi sul piano pratico”, aggiunge il generale, che sul tema ha pubblicato anche un libro, “L’addestramento e la cinestesia per il tiro da sopravvivenza” (Falco Editore). Troia ci tiene a mostrare il basco color amaranto dei parà nella tasca interna della giacca, poi spiega con tono concitato come, quando ci si trova in un conflitto a fuoco, anche ín ambiente domestico, non c’è tempo per mirare. Lo stress, l’istinto di sopravvivenza, domina ogni comportamento con tutti i rischi connessi, per questo serve una formazione adeguata. “Quando entra in casa una persona armata, ostile e pericolosa, per la legge attuale la prima cosa da fare è barricarsi in una stanza e chiamare le forze dell’ordine, lasciando la comunicazione aperta. Avvisare ad alta voce l’intruso che si è armati e pronti a sparare in caso di aggressione. Se la minaccia diventa potenzialmente mortale, deve essere neutralizzata anche con l’impiego di un’arma da fuoco. La cautela è d’obbligo”, aggiunge Troia. Sarà, ma la sensazione è che in Italia di pistoleri improvvisati ce ne siano già troppi in circolazione, come mostrano ogni giorno le cronache, e che il Far West sia dietro l’angolo. Per non parlare dei casi di tiro al bersaglio con pistole e carabine ad aria compressa contro rom e immigrati. Alla riapertura dei lavori parlamentari, il tema della legittima difesa (articolo 52 del codice penale) è destinato a infiammare il dibattito politico, mentre in commissione Giustizia al Senato proseguirà l’esame dei cinque disegni di legge di riforma, presentati rispettivamente da Lega, Forza Italia (due), Fratelli d’Italia e un testo di iniziativa popolare. Come previsto nel contratto per il governo gialloverde, sottoscritto da Luigi Di Maio e Matteo Salvini, l’idea è estendere la fattispecie: in particolare, l’obiettivo della proposta del Carroccio è modificare la proporzionalità tra difesa e offesa, introducendo una presunzione di legittima difesa per chi si reagisce con le armi a una intrusione con violenza o minaccia di uso di armi. Di fatto, il superamento del principio di proporzionalità, anche se resta l’obbligo per poter sparare di avere un’arma regolarmente denunciata e il porto d’armi. Oggi, se si violano questi principi si cade nell’eccesso colposo, previsto dall’articolo 55. Contro questa modifica si è scagliata anche l’Associazione italiana dei professori di diritto penale, mentre il Movimento 5 Stelle esclude che la riforma spalanchi la strada alla liberalizzazione. “Non basta che qualcuno varchi la soglia della mia casa per avere il diritto di sparargli. Ma una cosa è certa: chi entra lo fa a suo rischio e pericolo, e nel caso voglia sopraffare me e la mia famiglia con violenza, è giusto considerare legittimo l’uso della forza”, ragiona Marco Lorenzini, 58 anni, appassionato di armi, prima in campo sportivo poi nel tiro operativo. Titolare a Milano di una società che gestisce centri medici polispecialistici, una decina di anni fa prese il porto d’armi da difesa per il timore di essere rapinato. “Avevo paura di non essere all’altezza, perché è una grande responsabilità, come avere un’auto da corsa dopo aver guidato una utilitaria fino al giorno prima. E invece, per assurdo, il possesso dell’arma mi ha sedato. È uno strumento che finora, per fortuna, non ho mai dovuto usare”, aggiunge Lorenzini, che nel frattempo ha ottenuto la licenza di istruttore di tiro operativo nel poligono del capoluogo lombardo. “È un lavoro che faccio a titolo gratuito”, tiene a precisare per prendere le distanze da chi invece, cavalcando l’onda della paura, organizza corsi a prezzi salati. Lorenzini collabora con Alessio Carparelli, tenente colonnello dei carabinieri di lungo corso, ideatore e formatore di Tirooperativo.it, scuola di formazione teorico-pratica per chi possiede un’arma e vuole utilizzarla in condizioni di sicurezza. Un corso della durata di due giorni, sedici ore in tutto di cui sei in aula e dieci di tiro. “Negli ultimi anni c’è stato un cambiamento epocale, i crimini violenti e le invasioni domestiche sono all’ordine del giorno, le persone si sentono molto più fragili”, dice Carparelli: “Il nostro corso si rivolge a tutti coloro, donne e uomini, che avvertono l’esigenza di preservare l’incolumità propria e della famiglia. È solo l’inizio di un percorso formativo per accrescere la possibilità di sopravvivere. In giro c’è tanta confusione, persone che non sanno gestire un’arma in un conflitto a fuoco. Perché sparare è facile, non sparare è molto più difficile”, conclude l’istruttore. Collegato alla legittima difesa c’è poi l’altro tema, assai controverso, che riguarda il porto d’armi. Troppo facile ottenerlo, secondo alcuni: oltre al porto d’armi effettivo per difesa personale (oltre 18 mila nel 2017, in calo progressivo negli ultimi cinque anni secondo il Viminale) esistono le altre licenze, per la caccia e per il tiro a volo, senza contare il nulla osta per chi eredita un’arma, tenuto a denunciarla alla questura. In questo caso si possono detenere fino a un massimo di tre armi comuni da sparo, sei armi sportive e un numero illimitato di fucili da caccia. Un piccolo arsenale domestico. Per prendere il porto d’armi basta essere incensurati, non essere tossicodipendenti o alcolisti cronici, non soffrire di turbe mentali o psichiche. “Il corso di maneggio delle armi dura solo mezza giornata. Così, facendone richiesta alle questure, si può ottenere una licenza che dura sei anni”, commenta Piergiulio Biatta, presidente dell’Osservatorio permanente sulle armi leggere e le politiche di sicurezza e difesa (Opal), a Brescia. Secondo Opal, tra l’altro, le licenze per uso sportivo o venatorio in molti casi diventano una scorciatoia per detenere un’arma per la difesa personale. Se si vuole modificare la legge sulla legittima difesa, sostiene Biatta, bisognerebbe cambiare anche la legge sul porto d’armi. “Va studiata la possibilità di introdurre una specifica licenza per la difesa abitativa o dell’esercizio commerciale, utilizzando armi solo a scopo difensivo, come ad esempio il taser, dunque non letali. Ma soprattutto intensificare i controlli sulle persone”. Una cosa è certa, comunque: più armi in circolazione, più uccisioni. Negli Stati Uniti, nel 2016 si sono verificati oltre 14mila omicidi volontari con arma da fuoco (4,5 ogni 100 mila abitanti), contro i 150 avvenuti in Italia, dove le leggi sono più restrittive, pari a 0,2 per 100 mila residenti (Rapporto Censis). I numeri non mentono. Rifiutare la competenza, un’idea falsa di democrazia di Giovanni Belardelli Corriere della Sera, 2 settembre 2018 Una parte del Paese considera la valutazione delle capacità di una singola persona come una forma di discriminazione o come un atto di autoritarismo. Nel giro di poche settimane i commenti sul governo giallo-verde sono passati dal sottolineare i costi e l’irrealizzabilità del “contratto” di governo, nonché le contraddizioni tra Lega e Cinque Stelle, alla previsione che l’esecutivo potrebbe invece durare non poco. È la rabbia contro i vecchi partiti ad essere generalmente addotta come spiegazione principale di un consenso che non sembra scemare (lasciamo ora da parte il perché la Lega di Salvini venga percepita come una forza politica nuova). In effetti, un settore importante dell’opinione pubblica afferma con decisione che, qualunque cosa faccia o al contrario si dimostri incapace di fare il governo attuale, di sicuro quelli di prima non li voterà mai più. Questo rifiuto è solo il prodotto di anni e anni di polemica anticasta, come spesso si afferma, o c’è dell’altro? Temo che all’origine vi siano elementi non congiunturali, che rimandano a una trasformazione profonda della nostra società, che tende sempre più a concepire l’eguaglianza nel senso di un rifiuto di tutto ciò che sembra elevarsi al di sopra della massa dei cittadini comuni. Questo atteggiamento - che ritroviamo fisicamente riassunto nella “ostentata medietà” dei due vicepremier sottolineata da Federico Fubini (Corriere, 25 agosto) ma anche nello slogan “uno vale uno” del M5S - fa parte da sempre della mentalità democratica. Quasi due secoli fa, di ritorno dal suo viaggio in America, Alexis de Tocqueville scriveva: “Tutto ciò che in qualche modo lo supera, pare allora [al popolo] un ostacolo ai suoi desideri, e non c’è superiorità, anche legittima, la cui vista non affatichi i suoi occhi”. In generale i regimi democratici hanno saputo convivere con questi atteggiamenti, tenendoli dunque a bada, nella consapevolezza che le élites, politiche e tecniche, sono pur sempre necessarie, rappresentano una forma di peculiare “aristocrazia”, come scriveva Tocqueville, della quale i regimi democratici non possono fare a meno. Ora qualcosa è cambiato, in Italia e non solo. Ciò che continuiamo a definire populismo, dunque con un termine nato nell’800, si qualifica oggi, nell’era della Rete in cui tutto il sapere sembra essere alla portata di tutti, in cui tutti possono intervenire su tutto (e lo fanno), si qualifica, dicevo, anche per l’idea che solo le spiegazioni semplici sono a misura della democrazia, concepita come un regime politico ma anche sociale che non tollera nulla e nessuno che si elevi al di sopra degli uomini e delle donne comuni. Nella società italiana questo atteggiamento è probabilmente rafforzato anche da una cronica difficoltà a valutare le capacità e i meriti (o demeriti) di ciascuno: degli insegnanti e in generale dei dipendenti pubblici, ma anche dei magistrati, le cui carriere avvengono da tempo soprattutto per anzianità. Una parte del Paese considera la valutazione delle capacità di una singola persona come una forma di discriminazione, qualcosa di sostanzialmente non democratico: si tratta di un retaggio o di un effetto collaterale della battaglia del Sessantotto per l’egualitarismo e contro l’autoritarismo, che ci dice tra l’altro quanti materiali diversi confluiscano nell’attuale consenso al governo giallo-verde. La disinvoltura e, se è consentito, la faciloneria con cui esponenti di primissimo piano dell’esecutivo si pronunciano subito su tutto - dai vaccini alla ricostruzione del ponte Morandi - usando non a caso la stessa forma di comunicazione dei comuni cittadini (Twitter, Facebook) enfatizza dunque un nuovo stadio raggiunto dalla democrazia nell’era della Rete, imperniato sul rifiuto di tutto ciò che ha a che vedere con la competenza. Naturalmente, hanno ragione da vendere tutti coloro che sottolineano i pericoli di questa idea democratica (falsamente democratica, è ovvio) che - in economia come in medicina - diffida degli esperti, pretende la semplicità e quasi identifica ciò che è complicato con ciò che non è democratico, comprese le regole giuridiche. Si ricordi al riguardo “la giusta causa sono i morti” del ministro Di Maio: una pessima giustificazione per una decisione di revoca della concessione ad Atlantia che avrebbe potuto basarsi su ben più solidi argomenti (ma troppo tecnici, troppo complicati, dunque poco “democratici”). Ma, per quanto giuste, difficilmente le critiche a chi si fa beffe degli esperti sortiranno qualche effetto: come tutte le ideologie, anche questa nuova “democrazia integrale” basata sulla universale semplicità è infatti impermeabile alle contestazioni e ai fatti. O almeno, lo è entro certi limiti, che c’è da augurarsi non debbano essere superati (c’è qualche commentatore che non esclude futuri scenari venezuelani) perché il Paese sia costretto a riconoscere che in realtà degli esperti non si può fare a meno. E che semmai, e non è poco, bisognerebbe cercare di sceglierli bene. Le mafie in farmacia: così i clan si arricchiscono con furto e spaccio di medicine di Elena Testi L’Espresso, 2 settembre 2018 Sostanze per milioni ?di euro destinate ai pazienti italiani vengono rapinate dalla criminalità organizzata e rivendute in Germania: è la nuova frontiera del crimine. Mentre i nostri ospedali rischiano di restare senza antitumorali e ai malati tedeschi arrivano sostanze contraffatte o scadute. Lungo la A16, in direzione Cerignola Ovest, non passa un’auto. Attendono nascosti dietro il guard rail. L’assalto è stato organizzato da tempo. Conoscono tragitto e targa del tir, ma soprattutto hanno tra le mani la lista del carico che trasporta: farmaci antitumorali e - in minima parte - medicinali da banco. Sono le 4.30 del mattino del 4 luglio. Il volto coperto. Tra le mani fucili e pistole. Gli autisti riescono a percepire solo qualcosa di anomalo prima che l’assalto paramilitare venga messo in atto. I conducenti scendono con le mani alzate. Gli assalitori sequestrano l’autotreno e percorrono dieci chilometri esatti. Si fermano in una strada di campagna, utilizzano cesoie idrauliche per smembrare il cassone e lasciarlo vuoto. Un bottino da un milione di euro. Ad agire è un commando assoldato da un’organizzazione criminale che sa dove piazzare i farmaci e come reimmetterli nel mercato europeo del “parallel trade” farmaceutico. In sé legale, ma facile da infiltrare grazie a meccanismi di falsa fatturazione e operatori disinvolti. Parte così dall’Italia la catena criminale dei farmaci rubati e mette a rischio vite umane sia in nel nostro Paese sia all’estero. Il mercato parallelo - Per “parallel trade” s’intende la libera circolazione, all’interno del mercato europeo, di un medicinale autorizzato. Ciò significa che uno stato membro Ue può vendere un farmaco a prezzi vantaggiosi a un altro paese. E il naturale acquirente è la Germania, dove i prezzi degli antitumorali sono molto più costosi che in Italia e in Grecia. Ad esempio, a Berlino a comprare sono ospedali e cliniche che per problemi di budget preferiscono la convenienza alla sicurezza. E proprio in questi giorni nella regione del Brandeburgo è scoppiato lo scandalo: un giro di arresti e un grossista, LunaPharm, che dal 2015 ad oggi, ha introdotto farmaci salvavita all’inizio sottratti ad Atene e più recentemente al Sistema Sanitario italiano, togliendo le cure ai nostri pazienti malati di cancro. Il rischio adesso è per la salute dei pazienti che ne hanno fatto uso, visto che i medicinali venduti dalle organizzazioni criminali potrebbero essere, come già successo in passato, contaminati, diluiti o trasportati a temperature che ne eliminano il principio attivo, rendendo le cure completamente inutili. Come denuncia Aifa in un suo libro bianco: “Introducono rischi di indisponibilità delle cure per i cittadini italiani e - dove riutilizzati - diventano pericolosi a causa dell’uscita dal controllo della corretta conservazione”. Tradotto: i farmaci anti-tumorali vengono tolti ai pazienti malati di cancro in Italia e rivenduti inefficaci a quelli tedeschi. Gruppi criminali specializzati - È dunque lungo l’autostrada dei due mari, quella che taglia l’Italia a metà e collega il Tirreno all’Adriatico, che si è consumato l’ultimo assalto a un tir che trasportava medicinali salva-vita. Le rapine sembravano essersi fermate dopo la prima crisi, quella esplosa tra il 2012 e il 2014, grazie all’operazione internazionale, soprannominata Volcano e coordinata dall’Agenzia italiana del farmaco. Non solo assalti ben studiati agli autotrasportatori, ma anche furti mirati agli ospedali. Secondo lo studio pubblicato dall’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano e dall’Università degli Studi di Trento, in Italia tra il 2006 e il maggio del 2014, un ospedale su 10 ha registrato furti di farmaci con una perdita media di circa 330 mila euro per ogni colpo andato a segno, soldi e medicinali sottratti al sistema sanitario nazionale. Il 55 per cento erano antitumorali. La pausa è durata tre anni, il tempo - per i criminali - di rigenerarsi e studiare nuovi meccanismi per superare i controlli. Da pochi mesi le bande hanno ripreso gli assalti ai tir e le razzie nelle farmacie ospedaliere in Italia. Dall’inizio del 2018 sono stati già rubati milioni di euro in salvavita, gli ultimi ritrovati grazie all’indagine coordinata dal sostituto procuratore di Foggia Francesco Diliso. Su un documento pubblicato da Sifo (Società italiana di Farmacia Ospedaliera e dei Servizi Farmaceutici delle Aziende ospedaliere) si legge: “Gli investigatori sono sempre più convinti che una parte non trascurabile dei furti commessi ai danni di ospedali e farmacie sia opera di gruppi criminali specializzati”. E ancora: “Le ipotesi investigative sono confermate da dati incontrovertibili che fanno presumere la presenza delle organizzazioni criminali mafiose”. A confermare queste parole c’è un’indagine della Dda di Bologna, coordinata dal pubblico ministero Enrico Cieri. Nell’inchiesta, partita nel 2014 collegata ai 14 filoni della operazione Volcano, è emerso un legame tra le organizzazione criminali dei farmaci e il clan Licciardi, potente e spietata famiglia della camorra napoletana. Nelle intercettazioni telefoniche si parlava di soldi: cifre su cifre per poter operare nel loro territorio. Secondo la difesa si trattava “solo” di pizzo, per l’accusa di un legame tra i grossisti e il clan camorristico. ‘Ndrangheta protagonista - Ma gli investigatori tedeschi ipotizzano che anche la ‘ndrangheta possa avere addirittura una parte da protagonista nei traffici. A realizzare i furti ai danni dei pazienti italiani, con fiale che possono costare da 1.500 euro fino a 15mila, sono infatti bande specializzate assoldate da organizzazioni criminali che conoscono bene i sistemi tedeschi. Dalle inchieste si è scoperto che sono circa 200 i cognomi in odor di mafia residenti in Germania. Le autorità tedesche hanno detto apertamente di “temere la presenza della mafia” dietro ai traffici di medicinali. Ed è uno dei motivi che ha spinto gli investigatori di Berlino, i primi di agosto, a contattare l’Agenzia del farmaco italiana, che già da tempo ha apertamente messo in guardia su questi rischi, spiegando che in teoria nessun antitumorale potrebbe uscire dal nostro sistema sanitario nazionale, perché sono tutti ceduti in via esclusiva alle farmacie ospedaliere. I clan calabresi, strutturati e ben organizzati, sono da tempo presenti sul territorio tedesco. Un porto sicuro, visto che lì non esiste il reato di associazione mafiosa. Sono loro, insieme alla camorra campana, ad agire sotto traccia. E non è un caso che in Calabria i mega-furti di farmaci nell’ultimo periodo siano aumentati: cinque accertati solo negli ultimi due mesi. Più in generale, rapine e stoccaggi avvengono soprattutto nel sud Italia: tra Campania, Calabria, Sicilia, la provincia di Foggia e quella di Bari. Il meccanismo è studiato ad hoc: si infiltrano tra il personale delle strutture sanitarie o corrompono quello già in servizio. Per gli assalti ai tir si appoggiano alle bande specializzate locali. Come quello alla farmacia dell’ospedale Gravina di Caltagirone (Catania), dove il 21 aprile scorso sono state rubate centinaia di confezioni di farmaci chemioterapici. Sono entrati nei locali a notte fonda e hanno svaligiato solo uno dei tre frigoriferi presenti, quello contenente - appunto - i chemioterapici. Nel distretto socio-sanitario di Bitonto (provincia di Bari), il 9 luglio scorso sono state portati via 470 mila euro di anti-tumorali. Anche in questo caso sapevano dove andare a cercare. Un altro colpo a San Marco Argentano (Cosenza) e questa volta la cifra è più bassa: 90 mila euro. Ma il centro Italia non rimane immune alla razzia: è il 19 maggio scorso quando gli operatori sanitari spalancano le porte del mega deposito dell’Estar in via Genova a Grosseto e si accorgono che mancano tre milioni di medicinali, quasi tutti destinati ai malati di cancro. Un furto studiato in ogni dettaglio, dai sistemi di sicurezza fino alle abitudini di chi vive vicino al deposito. Hanno agito nell’unica zona d’ombra dei sensori antifurto. Le scatole cinesi nell’Est Europa - I medicinali rubati in Italia di solito vengono portati in Grecia e in Turchia, passando per un sistema di fatturazione “a scatole cinesi” tramite filiali fittizie aperte nei paesi dell’Est Europa. In alcuni casi i farmaci vengono etichettati nuovamente per mascherare la loro provenienza, in altri ceduti senza riconfezionarli. L’ultimo passaggio è la vendita agli importatori in Germania, dove la legge impone alle farmacie di comprare dal “parallel trade” almeno il 5 per cento dei medicinali. Il caso LunaPharm tuttavia ha costretto il ministero della salute del Brandeburgo a diramare un allarme pubblico d’emergenza. Diana Golze, a capo del dicastero, è a rischio dimissioni: è ormai certo infatti che dal 2015 ad oggi sono stati somministrati farmaci ai pazienti oncologici tedeschi senza un controllo serrato, nonostante l’Italia avesse informato le autorità competenti in Germania, specificando il rischio che i salvavita provenienti illegalmente dal nostro paese fossero inefficaci o addirittura contaminati. La ministra tedesca ha dichiarato: “Voglio scusarmi personalmente con i pazienti e i loro parenti. Per me è importante fare chiarezza e, soprattutto, prendere tutte le misure necessarie per evitare che accada di nuovo”. A LunaPharm, il grossista tedesco, è stata subito sospesa la licenza. Ora una linea telefonica assiste i pazienti, ma nell’allerta del ministero si legge: “Una raccomandazione chiave per tutti è rivolgersi al medico curante, solo quest’ultimo può fare una dichiarazione su quali farmaci sono stati effettivamente somministrati”. Genova: donna 35enne si suicida appena arrivata nel carcere di Pontedecimo Il Secolo XIX, 2 settembre 2018 Si chiamava Izokun Millicent, nigeriana, aveva 35 anni. Era entrata in carcere la sera del 31 agosto alle 21.30. Poche ore dopo, nella stessa notte, si è impiccata. La Uil-Pa: “non ha ricevuto visita medica primo ingresso”. Ieri alle ore 7 circa una detenuta nigeriana del 1983, arrestata per spaccio ed entrata in Istituto ieri sera intorno alle 21, si è tolta la vita, tramite impiccagione al piano terra della sezione femminile del carcere di Genova Pontedecimo - lo comunica Fabio Pagani - Segretario Regionale Uil Pa Polizia Penitenziaria - che aggiunge - non è possibile che un detenuto appena arrestato non riceva la visita di primo ingresso. Forse - commenta il sindacalista della Uil - si sarebbe potuto evitare l’insano gesto. A Pontedecimo sono presenti 79 donne detenute - troppe - tanto è vero che a breve, dopo vari solleciti l’istituto sarà sfollato. Non è possibile - conclude Pagani - che sia la Polizia Penitenziaria unico capo espiatorio e soprattutto chi si occupa dello stato psicologico dei poliziotti dopo questi tragici eventi, mai più arrestati a Pontedecimo e in tutti i penitenziari liguri, se non presente il servizio sanitario h24”. Vasto (Ch): detenuti faranno lenzuola, federe e asciugamani, al via il laboratorio sartoria zonalocale.it, 2 settembre 2018 Lenzuola, federe, copriletto e asciugamani: i detenuti del carcere di Torre Sinello si cimentano con ago, filo e macchina da cucire. La casa lavoro avvierà, la prossima settimana, il laboratorio di sartoria, una nuova attività finalizzata a perseguire lo scopo rieducativo della pena. “Lunedì 3 settembre - annuncia Lucio Di Blasio, funzionario giuridico pedagogico - nella struttura della Casa Lavoro con annessa Sezione circondariale di Vasto sarà avviato il laboratorio di sartoria. Un progetto di cui si parlava da tempo e che darà una prima risposta all’esigenza di lavoro per gli internati della struttura di località Torre Sinello. L’avvio del laboratorio di sartoria, sul quale molto ha investito l’Amministrazione, finalmente permetterà di implementare i posti di lavoro, consentendo così alla misura di sicurezza della Casa Lavoro di svolgere la funzione sua propria. In una prima fase, salvo ulteriori e più ambiziosi progetti, saranno realizzati lenzuola, copriletto, federe, asciugamani etc. su affidamento dell’Amministrazione penitenziaria”. “E’ d’uopo ringraziare - afferma la direttrice della Casa di Lavoro, dottoressa Giuseppina Ruggero - quanti hanno contribuito perché il progetto prendesse forma e si realizzasse. In primis la dottoressa Arcangela Mazzariello, capo area contabile che ha profuso, anche per l’occasione, il massimo dell’impegno, mettendo in campo le proverbiali capacità personali e professionali”. Torre Annunziata (Na): lavori sociali al Comune, accolti dieci condannati di Carlo Cafiero Metropolis, 2 settembre 2018 Protocollo d’intesa con il Tribunale di Torre Annunziata, dieci persone verranno messe alla prova in attività di pubblica utilità. Il Comune dì Sant’Antonio Abate si rende disponibile ad accogliere dicci persone condannate per dare loro la possibilità di scontare la pena attraverso lavori di pubblica utilità per la comunità. Lo ha deciso la giunta guidata dal sindaco Antonio Varone, che in settimana ha approvato la delibera proposta dall’assessore alle politiche sociali Anna D’Antuono, con la quale veniva dato il via libera alla convenzione da sottoscrivere con il Tribunale di Torre Annunziata. E con lo stesso atto veniva delegato il primo cittadino alla sottoscrizione. Quella della cosiddetta “messa alla prova” e la sospensione del processo e una possibilità prevista nei procedimenti per reati puniti con la sola pena pecuniaria o con la pena detentiva non superiore nel massimo a quattro anni. La messa alla prova comporta la prestazione di condotte volte all’eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose derivanti dal reato commesso, nonché, laddove possibile, il risarcimento del danno cagionato dal reato stesso. Comporta, inoltre, l’affidamento dell’imputato al servizio sociale, per lo svolgimento di un programma che può implicare, tra l’altro, attività di volontariato di rilievo sociale, ovvero l’osservanza di prescrizioni relative ai rapporti con il servizio sociale o con una struttura sanitaria, alla dimora, alla libertà di movimento, al divieto di frequentare determinati locali. La concessione della messa alla prova è inoltre subordinata alla prestazione di lavoro di pubblica utilità. Il lavoro di pubblica utilità consiste in una prestazione non retribuita, affidata tenendo conto anche delle specifiche professionalità ed attitudini lavorative dell’imputato, di durata non inferiore a dieci giorni, anche non continuativi, in favore della collettività, da svolgere presso lo Stato, le regioni, le province, i comuni, le aziende sanitarie o presso enti o organizzazioni, anche internazionali, che operano in Italia, di assistenza sociale, sanitaria e di volontariato. La prestazione è svolta con modalità che non pregiudichino le esigenze di lavoro, dì studio, di famiglia e di salute dell’imputato e la sua durata giornaliera non può superare le otto ore. La sospensione del procedimento con messa alla prova dell’imputato non può essere concessa più di una volta. L’attività non retribuita in favore della collettività per la messa alla prova è svolta sulla base di convenzioni da stipulare con il Ministero della Giustizia, o su delega di quest’ultimo, con il Presidente del Tribunale nel cui circondario sono presenti le Amministrazioni, gli Enti o le organizzazioni indicati nel decreto ministeriale, presso i adì pubblica utilità. Da parte sua, il Ministro della Giustizia ha delegato i Presidenti dei Tribunali a stipulare le convenzioni previste per lo svolgimento dei lavori di pubblica utilità. Ed è quindi con il Presidente del Tribunale di Torre Annunziata, dottor Ernesto Aghina, che il sindaco Antonio Varone sottoscriverà dunque l’atto con cui il Comune “accoglierà” dieci persone condannate. Alba (Cn): Casa di reclusione, il Garante dei detenuti si rivolge ai politici Gazzetta di Alba, 2 settembre 2018 Continua a essere incerta la situazione della Casa di reclusione Giuseppe Montalto di Alba, riattivata solo in minima parte. Se dal 2017 meno di cinquanta detenuti si trovano nella sezione un tempo riservata ai collaboratori di giustizia, il resto dell’edificio è abbandonato, malgrado siano stati stanziati dal Ministero 4 milioni e 500mila euro per la ristrutturazione. Un progetto esiste, come dimostra l’incarico affidato alla ditta romana Magicom ingegneria per il supporto alla progettazione, ma sulla data di apertura dei cantieri continuano a rincorrersi voci diverse. Da qui parte l’ultima iniziativa di Alessandro Prandi, garante dei detenuti, che ha ribadito l’invito ai parlamentari piemontesi a occuparsi della vicenda: “Per le 116 persone che lavorano nel carcere la situazione è precaria, dal momento che rischiano il trasferimento. Da non dimenticare il futuro dei terreni, degli edifici e degli impianti che fanno parte della struttura di proprietà statale, destinati al deperimento in assenza di manutenzione”. L’argomento è stato affrontato durante il Consiglio comunale, a partire da un’interrogazione del consigliere William Revello (Pd), che commenta: “Oggi, con il cambio di Governo, occorre vigilare affinché i denari già stanziati vengano assegnati e i lavori possano iniziare: il continuo rinvio non fa bene”. “Mai” e “Strabismi”: Nei libri di Annino Mele la follia del carcere violento e punitivo di Graziano Pintori Il Manifesto, 2 settembre 2018 Mai, tempo, 99.99.9999: qual è il nesso tra le parole e il numero? E’ una domanda che in Italia saprebbero rispondere, senza esitazione alcuna, almeno mille persone su sessanta milioni. Sono i cittadini senza tempo, sono quelli del fine pena mai, del 99.99.9999 i condannati alla detenzione pura, senza benefici o scorciatoie verso la libertà. Sono i non pentiti condannati all’ergastolo ostativo. Il pentito, o collaboratore di giustizia, non è chi si pente del reato commesso, ma colui che svela alla giustizia i nomi di eventuali complici del reato per cui è stato condannato. Annino Mele scelse di non collaborare, di conseguenza ha trascorso quasi metà della sua vita in carcere: trentuno anni, di cui ventotto senza alcun beneficio. Ha vissuto la pena inflitta nella durezza più profonda subendo altri “processi” o giudizi o programmi trattamentali legalizzati o dal 41 bis o Elevato Indice di Sorveglianza o Ergastolo Ostativo, che cumulano una serie di sofferenze: limitazioni, castighi, punizioni, istigazioni e annientamento psicofisico, mentre il tempo viene scandito dall’eterno conflitto tra sistema carcerario e i suoi prigionieri. La lunga e tragica esperienza l’ergastolano di Mamoiada la riporta pulita - pulita, senza peli sulla lingua, sui libri Mai e Strabismi, due libri editi da “Sensibili alle Foglie”. La lettura ti porta nell’incubo carcerario in cui la condanna non si limita alla negazione della libertà in se, ma si estende anche alla libertà di poter pensare e decidere della propria esistenza, essendo sottoposto al dominio assoluto dell’Istituzione. La distopia penitenziaria è ben resa dal detto: “Con la pena di morte lo Stato toglie la vita, con l’ergastolo se ne impossessa”, infatti dopo 25 o 30 o 35 anni di detenzione l’ergastolano continua a essere incatenato ai ceppi imposti dalla giustizia: legalmente è privato dei suoi beni, decade dalla patria potestà, non ha diritto di voto, le giornate sono circoscritte agli orari e ai permessi concessi da un giudice. In Francia l’ergastolo è chiamato “Ghigliottina Secca” perché trancia, senza spargimento di sangue, la speranza e il futuro. Non a caso Mele nei suoi libri definisce l’ergastolo un mostro che perseguita il condannato fino all’ultimo giorno di vita. Egli è stato un ergastolano che non ha mai accettato di annullarsi davanti all’ordine gerarchico che governa il sistema carcerario, si è sempre difeso dagli abusi con la legge e i regolamenti, rompendo schemi e sistemi arbitrari evidentemente consolidati nei penitenziari. Diciamo, rispetto al branco in cui vige il culto della personalità, l’autoritarismo e il potere assoluto del capobranco, l’ergastolano Mele fu un “lupo solitario” con la sua dignità, con una posizione tutta sua e un modo di pensare tutto suo. Nella restrizione degli spazi disponibili riuscì a creare altri spazi coltivando un’idea del Tempo per vivere (o sopravvivere) con un certo equilibrio. Si creò una corazza dotandosi di nuove protesi mentali come la scrittura, un mezzo sano quanto speciale per intraprendere la strada dell’emancipazione per recidere la persona che lo portò nell’inferno dell’ergastolo ostativo. In tempi come questi meritano di essere letti i libri di Annino Mele, perché la riforma del nuovo d.l. sull’ordinamento carcerario ha subito una sospensione di tipo ideologico, come da contratto di governo Lega / 5 Stelle: paladini della certezza della galera e non della pena. Certezza della galera nonostante i detenuti al 31 luglio siano 58.560.740, 1740 in più rispetto all’anno passato, grazie anche alla recidiva sempre in costante aumento; 31 sono i suicidi con una percentuale diciassette volte superiore a quella riscontrata nella società libera. Detenzione certa come unica ricetta rieducativa del governo, il quale fa strame dell’impegno e del lavoro di tante persone impegnatesi a fornire nuove proposte di reinserimento estese a tutti i carcerati, promuovendo attività di istruzione, formazione, inserimento lavorativo con il coinvolgimento delle amministrazioni locali, per dare più forza e unanimità a forme alternative alla centralità del carcere, riproposto come unico luogo dove si esplica la certezza della pena. Ha detto Papa Bergoglio: “La persona non è il suo reato”, una frase che si sposa benissimo con la laicità dell’art. 27 c. 3° della Carta Costituzionale; purtroppo un riferimento, anche questo, non valutato dal contratto di governo sottoscritto da Salvini e Di Maio. Migranti. Da Salvini stop ai Centri di accoglienza: “chiudiamo Cona e Mineo” di Valentina Errante Il Messaggero, 2 settembre 2018 Dai migranti alla sicurezza. Il fiume in piena Matteo Salvini non si arresta e così, mentre torna ad annunciare la progressiva chiusura del Cara di Mineo e lo svuotamento del Centro di accoglienza di Cona, da anni al centro di rivolte, polemiche e adesso anche di un’inchiesta giudiziaria che tira in ballo l’ex prefetto di Padova appena nominato a Bologna, il ministro dell’Interno non manca di ricordare che da mercoledì, in 12 città italiane, le forze dell’ordine avranno in dotazione, in via sperimentale, il taser, la pistola elettrica non letale, utilizzata dalle forze dell’ordine negli Usa. In realtà solo pochi esemplari. Il centro d’interesse del leader della Lega resta però l’immigrazione, capitolo spinoso sul quale tocca fare i conti con la realtà: su Cona, Salvini incassa la scontata soddisfazione del governatore del Veneto Luca Zaia, che ha sempre lottato contro l’inclusione del comune di Venezia nel sistema di distribuzione regionale, ma su Mineo c’è l’ipoteca della nuova gara d’appalto, pubblicata dalla prefettura venti giorni. Commesse a sei zeri che garantisce i servizi e il funzionamento del centro fino al 2021, ipotizzando anche l’ampliamento dei posti disponibili. “Al Cara di Mineo lavoriamo alla riduzione del numero di ospiti e dei costi, con l’obiettivo finale della chiusura”, è tornato a ripetere ieri Salvini. Il ministro conterebbe sulla diminuzione degli sbarchi, ma non escluderebbe neppure di pagare una penale alle società in seguito alla rescissione dei contratti, sebbene l’esito della gara, da 41 milioni di euro, sia quanto mai recente: pubblicato sul sito della prefettura di Catania lo scorso 21 agosto, comunica l’affidamento delle forniture, previste fino al 2021, divise in lotti. Una spesa alla quale si devono aggiungere il costo di locazione dell’immobile con la Pizzarotti, proprietaria dell’ex Residence degli Aranci: 2,6 milioni di euro l’anno, canone fisso stabilito dopo la perizia di congruità disposta dalla stessa Prefettura. Poi le spese di manutenzione ordinaria e straordinaria, che sfiorano i 5 milioni di euro per 36 mesi, secondo la base d’asta del bando pubblicato (e congelato) da Invitalia. L’annuncio riguarda anche una riduzione degli ospiti, 2.400 rispetto ai 3.000 di media dell’appalto precedente. Ma il bando appena assegnato prevede la possibilità di aumentare la capacità ricettiva fino a un massimo del 50 per cento e cioè di arrivare a quota 3.600. “In Veneto il centro per immigrati di Cona sarà progressivamente svuotato e prevediamo di cessare l’attività di quello di Bagnoli. Il Comune di Agna, infine, potrà beneficiare di fondi compensativi per i disagi che ha sopportato negli ultimi anni di malgoverno Pd”, annuncia ancora Salvini. A Cona, dove a margine di due ex caserme dismesse sono stati ospitati, anche in tensostrutture, fino a 1.000 migranti, attualmente ci sarebbero solo 200 persone. Scenario di rivolte e polemiche, il centro, era nato proprio dopo i contrasti tra il Viminale e il governatore del Veneto, che rifiutava l’inclusione della provincia di Venezia nel sistema di accoglienza. Una struttura “emergenziale”, rimasta aperta per anni, che avrebbe dovuto essere svuotata da tempo. In Veneto, nell’ultimo anno, il numero dei richiedenti asilo è diminuito del 26 per cento e adesso il Viminale sta organizzando il primo trasferimento degli ultimi ospiti, probabilmente, in altre regioni italiane. “Finalmente qualcuno mette il coperchio a quel bidone di illegalità che era ed è il business dei finti profughi”, commenta Zaia, soddisfatto anche per il fatto che il Comune di Agna per i disagi subiti sarà indennizzato per i disagi subiti: potrebbe essere lo Stato a pagare, per esempio i costi di illuminazione pubblica. “Per anni - continua il governatore- ci siamo sentiti ripetere da chi alimentava il business dei migranti che eravamo egoisti, razzisti, senza cuore, quando affermavamo che le nostre comunità non avrebbero potuto reggere l’urto di una massa di finti profughi e immigrati economici che le stesse istituzioni statali non erano spesso neppure in grado di identificare”. Intanto in dodici città italiane, Milano, Napoli, Torino, Bologna, Firenze, Palermo, Catania, Padova, Genova Caserta, Reggio Emilia e Brindisi, da mercoledì alcuni agenti potranno utilizzare il taser. Le forniture della pistola a impulsi elettrici, è solo sperimentale e il numero esiguo: una trentina in tutto gli esemplari. L’iter era partito nel 2014. Migranti. Sei italiani su dieci bocciano l’inchiesta dei pm sul caso Diciotti di Diodato Pirone Il Messaggero, 2 settembre 2018 I sondaggi Swg: oltre la metà degli elettori. Molto alto anche il consenso alla prospettiva favorevole al blocco della Diciotti a Catania di bloccare il sostegno finanziario a Bruxelles. La grande maggioranza degli italiani, per l’esattezza il 61%, boccia l’inchiesta della Procura di Agrigento sul ministro dell’Interno Matteo Salvini che ha deciso di bloccare nel porto di Catania, e per 5 notti, i migranti raccolti dalla sulla nave militare Diciotti. Non solo. Il consenso per l’azione del governo supera quota 50% anche sulla linea di freno all’immigrazione e sulla minaccia di non versare fondi italiani all’Ue se gli altri stati europei continueranno a non aiutare l’Italia sui profughi. Questi i risultati del primo sondaggio post estivo SWG frutto di 1.000 telefonate effettuate nei giorni scorsi a elettori ancora freschi di ombrellone. Le percentuali dei risultati sono molto nette. “Possiamo ricorrere a tutte le sfumature del mondo ma un fatto è chiarissimo - spiega Enzo Risso, direttore della SWG - Agli italiani dà fastidio l’ingerenza della magistratura in quella che considerano a torto o a ragione una mossa politica del ministro Salvini e dell’intero governo sul tema dell’immigrazione”. E’ assai interessante osservare il comportamento dei diversi elettorati su questo nodo: il 92% e 1’81% degli elettori che rispettivamente si dichiarano leghisti e pentastellati disapprovano l’indagine promossa dai magistrati di Agrigento. La percentuale scende, ma resta sempre elevatissima, fra gli elettori di Silvio Berlusconi, anti-giustizialisi per eccellenza, che sono contrari all’inchiesta al 56%. Anche la maggioranza degli elettori indecisi, per la precisione il 50,6%, è “poco o per niente” d’accordo con i magistrati. E fa notizia che su questa linea si colloca anche il 22% (cioè un elettore su cinque) di coloro che se si votasse domani darebbero la loro preferenza al Pd. Una parte dell’elettorato dem, per l’esattezza il 20,7%, condivide o comunque non condanna anche le minacce all’Europa reiterate più volte dal governo italiano di bloccare il prossimo bilancio europeo o di non pagare le nostre quote se l’Europa continuerà a a non aiutare l’Italia sul tema dell’immigrazione. Su questo punto il 54% degli italiani condividono la linea di condotta del governo. La percentuale di favorevoli è alta (anche se inferiore a quella sui magistrati) fra gli elettori leghisti che concordano all’80% e fra quelli dei 5Stelle (77,5%). Il consenso scende intorno a quota 50% fra gli elettori di Forza Italia e fra gli indecisi e, come detto, sfiora il 21% fra i democrat. Già, ma sul nodo all’origine del contendere, ovvero sul blocco dei migranti sulla nave Diciotti, come la pensano gli italiani nel dettaglio? Il 53,8% dichiara di appoggiare (“molto o abbastanza”) la linea Salvini. Qui i dati suddivisi per fede politica si discostano parzialmente dalle altre due tabelle. Salvini ha un consenso bulgaro fra i suoi elettori pari addirittura al 95,4%. I pentastellati che lo appoggiano sono il 69,6%. Va sottolineato però che fra chi dichiara di voler votare per i grillini si registra anche un 27,9% di persone “poco o per niente” favorevoli al blocco. La fotografia fra i forzisti segnala una spaccatura robusta: 40,4% favorevoli alla linea dura ma 60% (59,6 per la precisione) contrari o assai tiepidi. Sul fronte anti-immigrazione anche l’elettorato del Pd è piuttosto compatto come - a specchio - quello della Lega. Solo il 7,7% degli elettori democrat condivide le modalità di Salvini di bloccare i migranti sulla Diciotti mentre il 72% mostra il pollice verso. E’ interessante notare anche la spaccatura quasi a metà degli indecisi: 38,5% pro-Salvini e 41,6% contro. I dati complessivi sul caso Diciotti restano comunque inequivocabili: il 54% degli italiani favorevoli il 39% contrari e solo il 7% che non sanno cosa dire. Io, Garante dei minori della Calabria, denunciato per odio sociale di Maurizio Alfano La Repubblica, 2 settembre 2018 Un paio di giorni fa mi è stata notificata una denuncia per istigazione alla disobbedienza alle leggi dello Stato, ovvero all’odio fra le classi sociali [art. 415 c.p. Regio Decreto 19 Ottobre 1930 (leggi fasciste)]. La denuncia nasce da questi fatti. Sono delegato dall’Ufficio del Garante per l’Infanzia della Regione Calabria a monitorare gli sbarchi dei minori stranieri non accompagnati e le condizioni di prima accoglienza presso le strutture accreditate dai Comuni e dalle Prefetture. Ho ricevuto circa un anno fa una segnalazione di abusi e violazione della libertà di movimento da una ragazza residente in un piccolo Comune delle Serre Vibonesi. La ragazza aveva affisso un cartello scritto a mano con una richiesta esplicita di aiuto. Alla denuncia della prima ragazza se ne aggiunge una seconda e mi contattano. Intervenendo sul posto ho riscontrato purtroppo che non solo la libertà di movimento era per mesi stata impedita, ma che avveniva in un clima intimidatorio e ricattatorio (vi rispedisco a calci in Africa, siete inferiori, non vi tocca alcun diritto, ma quale pocket money, quando voglio vi faccio l’elemosina, questa è casa mia, mi avete seccato ecc.) tutto documentato nella mia prima relazione con a corredo testimonianze, registrazioni, foto, e dichiarazioni rese dai minori in presenza del loro tutore legale. Prima assurdità: quasi sempre il tutore dei minori stranieri è il direttore del centro di accoglienza che esercita di fatto una pressione psicologica atteso che il minore è obbligato a denunciare la violazione in sua presenza. La mia relazione, così come altre sui centri di accoglienza per minori stranieri non accompagnati nel Vibonese, è stata ignorata dalle autorità alle quali è stata inoltrata (spero). Un mese fa un servizio del TG3 Calabria a firma di Maria Elena Scandaliato ha riaperto il caso, denudato con aggiunta di testimonianze ed atti la mala e criminale accoglienza perpetrata per oltre un anno e mezzo in danno di minori, categoria vulnerabile. In studio io ho commentato il servizio, assumendomi la responsabilità di argomentare quanto qui finora scritto e tutto ciò e valso a ricevere insieme alla giornalista ed alla testata del TG3 Calabria la denuncia per Istigazione alla disobbedienza alle leggi dello Stato, ovvero all’odio fra le classi sociali. In buona sostanza attaccata la libertà di stampa e negato il riconoscimento di un’Autorità indipendente. Mi chiedo, come può una persona improvvisata, senza alcuna esperienza essere affidataria della gestione di tre centri di accoglienza per un giro d’affari di oltre un milione e mezzo di euro all’anno e rimanere impunita nonostante le evidenze? Come può chi infrange le leggi, malversa e terrorizza ragazzini che hanno già i loro drammi interiori del viaggio, del passaggio delle carceri in Libia, comportarsi come un nuovo carceriere in nome della superiorità della razza che ostenta nei loro confronti? E ostentare poi appartenenza a logge e sodalizi bei più rilevanti delle istituzioni dello Stato. Dall’Autorità mi sono poi dimesso, per la sua inconsistente vacuità. Libia. Tripoli fuori controllo, colpi di mortaio vicino all’ambasciata italiana di Lorenzo Cremonesi Corriere della Sera, 2 settembre 2018 Sette giorni di scontri, 45 morti, aeroporto chiuso. Si muove la diplomazia. L’avanzata di Haftar. Precipita la situazione a Tripoli. Dopo una settimana di intensificazione dei combattimenti tra milizie, non è più certo che il governo di Unità nazionale del premier Fayez Serraj sia in grado di tenere il controllo della capitale. “Il problema grave non sono neppure più gli scontri tra milizie. Da meno di 48 ore siamo terrorizzati dai colpi di mortaio, apparentemente sparati a caso nel cuore dei quartieri abitati. Nessuno è al sicuro”, ci raccontano dalla stampa locale. Il bilancio delle vittime è in continua crescita. Tra 4o e 45 i morti in sette giorni, di cui almeno una quindicina civili. I feriti sarebbero oltre 200. Gli ospedali sono in allarme rosso, come ai tempi della sollevazione assistita dalla Nato contro il regime di Gheddafi nel 2011. Non è chiaro però se anche la granata di mortaio che ieri all’alba è caduta a meno di 150 metri dall’ambasciata italiana sia casuale o meno. Il colpo è deflagrato, causando almeno 3 feriti, al quarto piano dello Al Waddan, noto hotel utilizzato in passato anche dal personale dell’ambasciata e dove non è raro tutt’ora incontrare italiani. Non sembra vi siano comunque vittime italiane negli ultimi scontri. Lo stabile dell’ambasciata è presidiato dalla polizia locale, che ha rafforzato la presenza dai tempi dell’autobomba esplosa nella zona nel gennaio 2017. Certo è che la crisi sta degenerando. Al punto tale che i governi italiano, francese, britannico e statunitense hanno diffuso un comunicato congiunto di condanna “agli attacchi indiscriminati contro la popolazione civile espressamente vietati dal Diritto Internazionale”. Si fa appello a non pregiudicare il piano delle Nazioni Unite “mirato a stabilizzare il Paese”. Da ieri lo scalo dell’aeroporto è chiuso per almeno 48 ore. Come già in passato, il traffico aereo viene dirottato su quello di Misurata. Questa nuova ondata di violenze è ripresa il 25 agosto con l’avanzata verso il centro di Tripoli della Settima Brigata di Tarhuna, guidata dal leader locale Salah Badi. Tarhuna è una nota zona di tribù, una settantina di chilometri a sud di Tripoli che una volta erano legate al clan Gheddafi e oggi si sono avvicinate al campo di Khalifa Haftar, l’uomo forte della Cirenaica deciso a controllare l’intero Paese. Per fermarli, dopo una lunga serie di cessate il fuoco falliti, Serraj sta cercando di unire le milizie di Misurata e Zintan per creare una forza di interposizione. Ma le frizioni tra le due sono antiche e virulente. Oltretutto anche Misurata è divisa. In proposito, pare che ieri vi sia stato rapito il generale Mohammad Haddad, uno dei capi delle fazioni che sono disposte a mobilitare per proteggere Serraj. Libia. La terra di torture di Nello Scavo Avvenire, 2 settembre 2018 Nuovo rapporto Onu accusa il governo libico: nei centri di detenzione violenze ed estorsioni. Il segretario generale Guterres: gli ispettori allontanati dalle strutture in cui sono rinchiusi i migranti. Nel Paese riesplode la guerra. Il segretario generale Antonio Guterres ha depositato un nuovo rapporto al Consiglio di sicurezza: “I colpevoli degli abusi sui migranti includono funzionari statali”. Nei centri governativi avvengono “torture, compresa la violenza sessuale, rapimento e schiavitù”. E da maggio il governo di Tripoli nega agli ispettori le verifiche sui diritti umani. Il segretario generale Onu gela gli entusiasmi di chi sostiene che i migranti possano essere affidati senza grosse preoccupazioni alle cure dei libici. Al contrario “migranti e rifugiati hanno continuato ad essere vulnerabili”, sottoposti “alla privazione della libertà e alla detenzione arbitraria nei luoghi di detenzione ufficiali e non ufficiali”. Lo denuncia Antonio Guterres nell’ultimo rapporto consegnato al Consiglio di sicurezza il 24 agosto. E stavolta l’accusa per i maltrattamenti non è rivolta solo ai trafficanti di uomini e alle prigioni clandestine. Guterres non è per niente contento di come si sta mettendo la situazione per gli stranieri in Libia. Le Nazioni Unite si erano esposte anche a molte critiche, insistendo per ottenere l’accesso ai centri detentivi del governo, anche a costo di apparire accondiscendente con Tripoli. Negli ultimi mesi, però, agli ispettori Onu è stato vietato l’ingresso nelle strutture di trattenimento ufficiali. L’atto d’accusa è contenuto in 16 pagine ed esamina i fatti accaduti a partire dallo scorso 7 maggio, quando il segretario generale aveva controfirmato un precedente dossier nel quale si esprimevano una serie di dubbi sull’operato delle autorità libiche a danno di persone migranti e rifugiati. Ma stavolta la missione Onu a Tripoli non ha dubbi: “I colpevoli degli abusi includono funzionari statali, gruppi armati, contrabbandieri, trafficanti e bande criminali”. Il campionario non è inedito. “Torture, compresa la violenza sessuale, il rapimento a scopo di riscatto, estorsioni, lavoro forzato e uccisioni illegali”, avvengono ai danni di stranieri in tutto il Paese. “Il numero di migranti detenuti è cresciuto - scrive Guterres - a causa dell’aumento delle intercettazioni in mare (da parte della Guardia costiera libica, ndr) e per effetto della chiusura delle rotte marittime ai migranti, impedendo la loro partenza”. Già nei giorni scorsi, rispondendo a chi sostiene che non c’è da preoccuparsi perché i centri ufficiali sono gestiti dalle Nazioni Unite, il portavoce per l’area Mediterranea dell’agenzia Onu per i migranti (Oim) aveva ribadito che “chi torna in Libia viene inviato in detenzione arbitraria, in condizioni inaccettabili (bambini compresi) così come affermato proprio da Oim, che - ha precisato Flavio Di Giacomo su Twitter - entra nei centri per alleviare sofferenze ma che non può cambiare la situazione di quei posti, gestiti solo dalle autorità locali”. Nel corso dei quattro mesi esaminati, fra l’altro l’Unsmil “ha raccolto informazioni riguardanti le condizioni di detenzione, la tortura e altri abusi commessi nel centro di detenzione di Zuara supervisionato dal Dipartimento per la lotta alla migrazione illegale”. Si tratta di una prigione governativa nei mesi scorsi presentata come modello del nuovo corso nella gestione dei flussi migratori. Neanche dieci giorni dopo la precedente denuncia “il 16 maggio all’Unsmil è stato negato l’accesso alla struttura dal sindaco di Zuara”. Un episodio che si rivelerà non isolato, ma esito di una precisa scelta delle autorità libiche che non intendono più aprire le porte a testimoni scomodi. I funzionari delle Nazioni Unite non hanno potuto “condurre visite di monitoraggio dei diritti umani nelle strutture di detenzione sotto il controllo del Dipartimento per la lotta alla migrazione illegale a causa di ostacoli burocratici imposti dall’ufficio protocollo del Ministero degli Affari Esteri e dal dipartimento per le pubbliche relazioni del Ministero degli Interni”. Il governo libico, insomma, tiene fuori l’Onu dalle prigioni dei migranti. Lo scorso 7 giugno, un mese dopo aver ricevuto il precedente rapporto di Guterres, il Consiglio di sicurezza, aveva ordinato il blocco dei beni e imposto il divieto d’espatrio a carico di sei boss del traffico di esseri umani in Libia. Tra questi, ricorda il segretario generale, anche una delle figure più volte denunciate anche da Avvenire: “Abdel Rahman Milad (noto come Bija), ex capo della guardia costiera libica ad al-Zawiya, sospeso dal suo incarico il 22 giugno”. Siria. A Idlib si prepara l’ennesimo bagno di sangue? di Riccardo Noury Corriere della Sera, 2 settembre 2018 Solo un irragionevole ottimismo ci spinge a mantenere, nel titolo, il punto interrogativo. Quella di Idlib, nella Siria nordoccidentale e a poca distanza dal confine con la Turchia, è l’ultima zona ancora rimasta nelle mani dei gruppi armati di opposizione. Dal 2011 vi hanno trovato riparo 700.000 persone, in fuga dalla violenza in atto in altre parti della Siria o costrette a seguito degli accordi di evacuazione tra il governo siriano e l’opposizione armata a Homs, Aleppo, Daraa e nella Ghuta orientale. Di conseguenza, la popolazione di Idlib è arrivata a due milioni e mezzo di abitanti, molti dei quali residenti nei campi per sfollati interni, sempre più pieni da quando la Turchia, nel luglio 2017, ha chiuso la frontiera e interrotto l’afflusso degli aiuti, dopo che la zona di Iblid era stata conquistata dal gruppo armato di opposizione Hay’at at Tahrir al-Sham (Organizzazione per la liberazione del Levante, frutto della fusione di diverse formazione armate). Nel marzo 2017 Iran, Turchia e Russia - i tre sponsor dei negoziati di Astana - hanno incluso Idlib tra le “zone di de-escalation” del conflitto e istituito osservatori militari per assicurare il rispetto del cessate-il-fuoco da pare delle forze governative e dei gruppi armati di opposizione. Dal gennaio 2018, tuttavia, le forze governative hanno condotto parecchi attacchi aerei e terrestri illegali, compreso un attacco con armi chimiche contro Saraqeb, il 5 febbraio, che ha ucciso almeno sei persone e reso necessario il trattamento sanitario d’emergenza per altre 11. Centinaia di civili, inoltre, sono rimasti uccisi in attentati con autobombe e negli scontri tra i diversi gruppi armati di opposizione. Nel luglio 2018 Iran, Turchia e Russia si erano detti d’accordo nell’evitare un’offensiva su grande scala contro Idlib. Ma recenti dichiarazioni dei governi di Damasco e Mosca fanno pensare che questa invece sia imminente. La situazione umanitaria è già catastrofica. Già ad aprile oltre due milioni di persone prive di acqua, cibo e cure mediche necessitavano di assistenza. L’accesso alle strutture sanitarie è stato compromesso dagli attacchi aerei e terrestri contro gli ospedali da parte delle forze governative e dall’aumento dei rapimenti di medici e altro personale medico da parte dei gruppi armati di opposizione. La chiusura della frontiera da parte della Turchia ha reso ancora più vulnerabile la condizione dei profughi lungo il confine. Molte scuole interne ai campi sono state chiuse per mancanza di fondi. A peggiorare le cose, i raid e gli arresti da parte di Hay’at Tahrir al-Sham e i bombardamenti da parte delle forze governative. Date le tattiche di assedio e fame usate dalle forze siriane in tutte le offensive militari lanciate per riprendere territori nelle mani dei gruppi armati di opposizione, la sorte di milioni di civili è a rischio e si teme l’ennesimo bagno di sangue. Stati Uniti. Il populismo non è un meteorite di Antonio Funiciello L’Espresso, 2 settembre 2018 C’è un’interpretazione molto diffusa dei tempi che viviamo. Si può riassumere più o meno così: un nuovo meteorite è precipitato sulla terra. Quello di 65 milioni di anni fa provocò l’estinzione dei dinosauri. Il nuovo meteorite del populismo, piombato sull’Italia il 4 marzo scorso, ha soppresso la ragionevolezza ed esiliato i ragionevoli nelle foreste, portando le belve delle foreste al governo. È la teoria del meteorite. Un’interpretazione che ormai si lascia generalizzare e, ad esempio, è molto in voga per quel che riguarda Donald Trump. C’era una volta Obama. Era buono. Era cool. Piaceva agli attori di Hollywood. Piaceva a quei cuori d’oro di Oslo, che gli assegnarono il Nobel per la pace sulla fiducia. Poi, all’altezza del 1600 di Pennsylvania Ave a Washington D.C., qualcuno aprì il vaso di Pandora e ne uscirono il ciuffo giallo di Trump e tutti i mali della terra. E la bestia entrò con le sue zampe lorde alla Casa Bianca. Ancora l’effetto meteorite. Naturalmente lo sviluppo della teoria del meteorite è che gli uomini esiliati nelle foreste devono riunirsi e, in nome del bene, ricacciare le bestie nei boschi per riprendersi città e palazzi. Pena il crollo definitivo della civiltà, le cavallette e la morte dei primogeniti maschi. Con una postilla, a suo modo, classica. Chiunque non impugni l’armi contro le bestie è un disgraziato, è finanziato dai russi ed è, ovviamente, complice delle bestie. La teoria del meteorite ha molte virtù. È una spiegazione semplice e immediata per un fenomeno, il populismo, diversamente molto complesso. È un’idea fragile sul piano teorico, ma è un’ipotesi molto scenografica, da vendere bene sui social network per chi copia le tecniche di comunicazione dei populisti. È anche un alibi morale formidabile, perché disinnesca ogni tipo di ricerca delle cause che hanno generato questa stagione. Tutti politicamente innocenti: nessuna responsabilità politica individuale può difatti essere richiamata per un evento così eclatante, un meteorite, che letteralmente irrompe sulla scena. A guardar bene, l’effetto meteorite piace molto poiché azzera la storia e ci catapulta in un eterno presente per effetto di uno shock potente, non già per conseguenza di complessi processi storici. La categoria dei politici (sedicenti) non-populisti si trova a suo agio in una simile lettura anti-storica del populismo, dacché si sente assolta da ogni verifica del proprio lavoro. Meno si capisce, invece, perché altri non vogliano cimentarsi in una vera e propria genealogia storica del recente populismo. Prendiamo l’America. Qualsiasi persona ragionevolmente laica (e laicamente ragionevole) fatica a tenere insieme queste due affermazioni: la prima, Barack Obama è stato il più grande presidente americano; la seconda, Donald Trump è il demonio. Una lettura nemmeno troppo approfondita delle dinamiche del consenso elettorale americano, dimostra che negli anni di Obama si è registrato un poderoso arretramento in termini di consenso per i Democratici. In molti stati, alcuni dei quali hanno clamorosamente voltato le spalle ai democratici, le ricette economiche dell’amministrazione Obama sono parse inadeguate. Durante i suoi otto anni alla Casa Bianca, il clima sociale è peggiorato: c’è stata, ad esempio, una paurosa recrudescenza dei crimini razziali. La polarizzazione politica, già cresciuta ai tempi di Bush figlio, è salita alle stelle. Tanto che nella patria della rincorsa al voto centrista, oggi vince le elezioni chi più motiva (e più incattivisce) i suoi elettori tradizionali. Anche per l’occhio più distratto, le connessioni tra ciò che è accaduto negli anni di Obama e ciò che avviene oggi, dovrebbero apparire evidenti. Il che non vuol dire che sia colpa di Obama. Ma che quegli anni di governo vanno studiati criticamente. Nelle vicende umane, d’altronde, è difficile si passi dall’Eldorado all’Inferno in cinque minuti. E dovrebbe apparire utile una revisione critica di ciò ch’è stato, per disinnescare i meccanismi di funzione che hanno prodotto la stagione del populismo. Continuare a rincorrere i presunti colpevoli dei fenomeni, senza applicarsi a capire le cause (ideali, sociali, economiche, politiche) che quei fenomeni hanno prodotto, è l’ennesimo adeguamento al metodo del populismo. Testimonia una drammatica subalternità culturale. E un cedimento a quella emotivizzazione ideologica della politica, entro cui la dinamica populista della ricerca del colpevole è vincente contro ogni sua imitazione. Anche in Europa, nei paesi dove forze populiste hanno mietuto successi, si dovrebbe applicare lo stesso atteggiamento critico e revisionista sugli anni che sono alle nostre spalle. Anche qui, difatti, la teoria del meteorite è molto in voga. E già tanti la utilizzano per vaticinare la vittoria dei partiti populisti alle prossime elezioni europee. Alla critica storica si preferisce, così, un atteggiamento intellettuale di mera denuncia e una reazione moralista di negazione e censura. Il ricorso alla teoria del meteorite, come detto, può assolvere i dinosauri dalla responsabilità della loro estinzione. Tuttavia per chi voglia provare a definire un universo simbolico alternativo al populismo, non c’è che indugiare molto su ciò che non ha funzionato negli anni in cui il populismo era solo una minaccia. Il populismo si nutre delle imperfezioni della democrazia, contesta i difetti della delega democratica ed esaspera ogni mancata corrispondenza tra gli obiettivi dichiarati di chi riceve la delega, nel momento in cui la riceve, e i risultati dell’azione di governo. I risultati possono essere lontani dagli obiettivi dichiarati o perché mal comunicati, o perché realmente lontani. Capire a fondo dove si è sbagliato è la premessa per ogni ribaltamento politico dei rapporti di forza tra populisti e anti-populisti. All’inizio del Novecento negli Stati Uniti il populismo produsse un terzo partito, il Progressive Party di Teddy Roosevelt. che per la prima e unica volta arrivò secondo alle elezioni del 1918. Per la prima e unica volta, il populismo minacciò di far saltare il più solido sistema dei partiti d’Occidente. Di lì a poco, però, il populismo fu asciugato e sparì dai riflettori non già perché un meteorite cadde su Washington. Ma perché i presidenti Wilson (democratico) e Coolidge (repubblicano) compresero le ragioni del populismo e le assorbirono nel loro ingaggio di governo. E dopo che il crollo di Wall Street investì l’America, Franklin Roosevelt fu oggetto di una seconda violenta campagna populista che lo accusava di voler distruggere, con le sue riforme, la democrazia in America. Ma le sue riforme funzionarono e, anche in quel caso, il meteorite si disintegrò al contatto con l’atmosfera del buon governo. Brasile. La giustizia di parte contro la democrazia di Roberto Livi Il Manifesto, 2 settembre 2018 Lula è stato escluso dalle elezioni presidenziali brasiliane del 7 ottobre. La sentenza del Tribunale supremo elettorale - sei membri contro uno - venerdì notte ha confermato quanto si temeva. Luiz Inácio da Silva, il candidato più popolare - circa il 38% delle intenzioni di voto contro il 18% del secondo -, non può partecipare alle presidenziali perché “condannato (a 12 anni) in seconda istanza per corruzione e lavaggio di denaro”. Come i precedenti anche questo è un giudizio nettamente politico. Che nega a Lula il diritto, ribadito due settimane fa dalle Nazioni unite, di poter concorrere alla carica di presidente fino a quando la giustizia si sia espressa con una condanna definitiva. Restano infatti all’ex presidente un appello di fronte al Superior tribunal del Justicia (terzo grado) e due alla Corte suprema (quarto grado). Che i giudici di Lava Jato e i ministri del governo golpista di Temer fossero intenzionati ad uccidere politicamente Lula usando una magistratura assai poco indipendente era chiaro da mesi. Da quando lo scorso aprile l’ex presidente era stato condannato in prima istanza usando alcuni “pentiti” e senza prove concrete. L’ultima sentenza è come una cappa di cemento fatta colare sulla prigione della Polizia federale di Curitiba dove l’ex presidente Lula è incarcerato: non potrà infatti partecipare a dibattiti, né essere protagonista diretto in spot di propaganda elettorale, né si potranno affiggere manifesti elettorali con la sua immagine. L’accelerazione voluta dalla ministra Rosa Weber, presidente del Tribunale supremo elettorale (Tse), mira a impedire che Lula possa fare campagna elettorale fino al 17 settembre, ultima data nella quale il partito dell’ex presidente, Partito dei lavoratori (Pt), possa cambiare candidato. E “trasferire” i voti di Lula al suo numero due, l’ex sindaco di San Paolo Fernando Haddad (il quale dovrebbe concorrere alla presidenza assieme alla candidata del Pc brasiliano, Manuela D’Avila). Guadagnare tempo è essenziale per il Pt: infatti Haddad non riesce a brillare di luce propria e fino ad oggi solo una piccola parte dei potenziali elettori di Lula si è detta disposta a votare per l’ex sindaco una volta che Lula fosse stato estromesso. Il Tse ha dato dieci giorni di tempo al Partito dei lavoratori per cambiare candidato. Il Pt e Lula si trovano dunque di fronte a una scelta drammatica. Ieri la tv pubblica brasiliana - l’unica autorizzata per legge - ha iniziato a mettere in onda pubblicità elettorale gratuita in orari di massimo ascolto. E Lula non potrà utilizzare il tempo che gli spetta come candidato, a meno che non violi il verdetto del Tse in attesa di un pronunciamento del Supremo tribunale de justicia, rischiando così di vedersi annullare spazi ed eventuali voti. La dirigenza del Pt dovrà dunque decidere tra due linee entrambe difficili e deboli: se cambiare subito - già da domani - candidato e gettare tutto il suo peso organizzativo sulla coppia Haddad-D´Avila, indebolendo dunque le possibilità che Lula possa vincere il ricorso al Tribunale superiore di giustizia. O se difendere fino in fondo la possibilità di usare l’immagine di Lula - magari in spot registrati prima della sua condanna - per “tirare la volata” ad Haddad, ma agendo al limite della legalità e dando una chiara dimostrazione di debolezza politica. La drammatica contrapposizione tra stato di diritto - l’applicazione della legge de Ficha limpia (Fedina penale pulita) che impedisce di candidarsi a persone condannate in seconda istanza per una serie di reati, tra i quali corruzione - e democrazia - il popolo ha diritto di scegliere il proprio leader in assenza di condanna definitiva- che la destra e i poteri forti (anche internazionali) usano contro la sinistra brasiliana data da due anni. Il 31 agosto del 2016 infatti fu deciso l’impeachment della presidente (del partito dei lavoratori) Dilma Roussef, un golpe blando politico. L’uso di una giustizia controllata dai poteri forti (sostenuti dalla Casa bianca) non si limita al Brasile. Pochi giorni fa al movimento “Colombia umana” che aveva sostenuto alle presidenziali colombiane il candidato progressista Gustavo Petro (8 milioni di voti) è stato negato dalla magistratura di Bogotà il diritto di costituirsi in partito politico, ovviamente di opposizione al presidente eletto di destra Iván Duque. In Ecuador la battaglia politica tra l’ex presidente Rafael Correa e l’attuale Lenín Moreno (che dopo l’elezione ha cambiato linea politica rispetto al suo predecessore e mentore, tanto da aver deciso l’uscita dell’Ecuador dall’Alleanza bolivariana per i popoli della nostra America) è combattuta con l’uso della magistratura che ha ordinato prima l’arresto preventivo di Correa (corruzione), poi sta entrando nella disputa per la leadership del potenziale partito di opposizione, Movimiento acuerdo nacional.