Approvata definitivamente la riforma, ma le misure alternative sono scomparse di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 29 settembre 2018 Il governo ha privilegiato la vita in cella, escludendo anche giustizia riparativa e malattia psichiatrica. Approvata definitivamente la riforma dell’Ordinamento penitenziario dopo un iter, cominciato dai tavoli degli stati generali per l’esecuzione penale istituiti dall’ex ministro Orlando nel 2015, durato tre anni. Il Consiglio dei ministri, nella tarda serata di giovedì, su proposta del ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, ha approvato, in esame definitivo, il decreto che introduce disposizioni volte a modificare l’ordinamento penitenziario, con particolare riguardo all’assistenza sanitaria, alla semplificazione dei procedimenti per le decisioni di competenza del magistrato e del Tribunale di sorveglianza, nonché alle disposizioni in tema di vita penitenziaria e lavoro. Altro decreto approvato è quello che riguarda l’introduzione dell’ordinamento penitenziario nei confronti dei condannati minorenni. Non parliamo però della riforma originaria licenziata preliminarmente dal governo precedente: non era stata approvata definitivamente, lasciando così la palla alle nuove commissioni giustizia insediate con il nuovo Parlamento, le quali hanno bocciato il testo che riguarda le misure alternative e quello riguardante la giustizia riparativa. Quindi, in sostanza, la riforma appena varata riguarda esclusivamente tutto ciò che contempla il perimetro penitenziario. D’altronde lo dice la relazione del governo Conte stesso, dove si legge che si tratta di “un testo diverso, nelle opzioni di fondo, rispetto al precedente, con conseguente superamento dell’assetto complessivo della riforma reso oggetto dei pareri contrari”, e che si caratterizza per la “scelta di mancata attuazione della delega nella parte complessivamente volta alla facilitazione dell’accesso alle misure alternative e alla eliminazione di automatismi preclusivi”. In realtà, il governo ha deciso di non attuare la delega non solo sulle misure alternative, ma, come aveva riferito a Il Dubbio il garante nazionale delle persone private delle libertà Mauro Palma, anche sulla “valorizzazione del volontariato, il riconoscimento del diritto all’affettività, nonché di revisione delle misure alternative finalizzate alla tutela del rapporto tra detenute e figli minori”. Nel contempo, però, la riforma approvata dà disposizioni che tendono a migliorare la quotidianità detentiva. Vediamo quali. Assistenza sanitaria e vita detentiva - In estrema sintesi, il decreto approvato definitivamente detta disposizioni in tema di assistenza sanitaria in ambito penitenziario (artt. 1 e 2). In particolare, la riforma adegua l’ordinamento penitenziario al riordino della medicina penitenziaria, confermando in particolare l’operatività del servizio sanitario nazionale negli istituti penitenziari. Amplia le garanzie dei reclusi modificando la disciplina della visita medica generale all’ingresso in istituto. il medico deve, in particolare, annotare nella cartella clinica tutte le informazioni riguardo a eventuali maltrattamenti o a violenze subite. Estende la gamma dei trattamenti sanitari che i reclusi possono richiedere in carcere a proprie spese, in particolare includendo gli interventi chirurgici nei reparti clinici interni al carcere, previ accordi con la Asl competente. Prevede controlli sanitari in carcere da parte della Asl anche a seguito delle segnalazioni ricevute e reca disposizioni per la semplificazione dei procedimenti disciplinati tanto dall’ordinamento penitenziario quanto dal codice di procedura penale. Non c’è, però, l’equiparazione tra detenuti affetti da patologie fisiche con quelle psichiatriche, mantenendo così delle preclusioni ai benefici per quest’ultimi. Il provvedimento detta misure volte ad integrare i reclusi stranieri, tra le quali la garanzia ad un’alimentazione rispettosa del loro credo religioso nonché l’inserimento, tra il personale dell’amministrazione degli istituti penitenziari, dei mediatori culturali e degli interpreti. La riforma, inoltre, integra le disposizioni dell’ordinamento penitenziario con la finalità di garantire il rispetto della dignità umana e la conformità della vita penitenziaria a quella esterna. Vanno in questa direzione le previsioni circa l’ampliamento delle ore minime che i detenuti possono trascorrere all’aperto, la richiesta prossimità tra l’istituto penitenziario e la famiglia del recluso, le specifiche tutele per i reclusi esposti a minaccia di soprusi a causa del proprio orientamento sessuale o della propria identità di genere, l’ampliamento dei diritti di informazione e comunicazione. Lavoro penitenziario - Il provvedimento approvato interviene sulla legislazione penitenziaria, attraverso modifiche finalizzate a rafforzare il ruolo del lavoro quale strumento essenziale del trattamento rieducativo dei condannati. Il lavoro non può, comunque, costituire un obbligo, ma è da incentivare ai fini delle prospettive di risocializzazione. Le norme prevedono la disciplina e le modalità per l’avviamento al lavoro, anche mediante rotazione tra i detenuti, se i posti non sono sufficienti per tutti. Si adegua la paga e che sia quindi pari a due terzi del trattamento economico previsto dai contratti collettivi. Si promuove anche l’attività di autoconsumo, che ha una sua rilevanza in relazione agli spazi agricoli a disposizione dell’amministrazione penitenziaria, che possono essere utilizzati per produrre generi alimentari per il consumo o per la vendita, negli spacci aziendali dell’amministrazione penitenziaria. Dà la possibilità all’amministrazione del carcere di stipulare contratti con soggetti pubblici privati e cooperative. Si prevede che l’amministrazione penitenziaria debba rendere disponibile a favore dei detenuti il servizio di assistenza per ottenere prestazioni assistenziali e previdenziali e l’erogazione dei servizi previsti per i lavoratori. Per quanto riguarda i lavori di pubblica utilità, per parere delle commissioni, rispetto al decreto originale, si reintroduce la limitazione dell’accesso per i condannati rientranti nei reati del 4 bis (articolo dell’ordinamento penitenziari che pone dei limiti all’accesso ai benefici penitenziari). Esecuzione penale minorile - L’intervento legislativo approvato mira ad adeguare il quadro normativo alle numerose pronunce della Corte costituzionale e agli impegni assunti dall’Italia con la sottoscrizione di svariati atti internazionali ed europei. In particolare, il provvedimento introduce e disciplina le misure penali di comunità, quali misure alternative alla detenzione qualificate dall’essere destinate ai condannati minorenni e giovani adulti. Si tratta di affidamento in prova al servizio sociale, affidamento in prova con detenzione domiciliare, detenzione domiciliare, semilibertà e affidamento in prova terapeutico. L’ammissione alla misura di comunità, nonché la revoca, sono di competenza del tribunale di sorveglianza per i minorenni, mentre l’applicazione in via provvisoria è demandata al magistrato di sorveglianza. Quanto alla concessione la riforma prevede che il provvedimento possa essere adottato su richiesta dell’interessato, del difensore e dell’esercente la potestà genitoriale se il condannato è minorenne o su proposta del Pm o dell’ufficio di servizio sociale per i minorenni. Il governo non ha accolto il parere della commissioni della Camera che toglie la preclusione alle misure alternative per i ragazzi che hanno commessi reati che rientrano nel 4 bis. In compenso c’è l’applicazione della sorveglianza dinamica, un più ampio accesso alle misure alternative e di comunità (tranne, appunto, per quelli del 4 bis) e una minore possibilità di applicare l’isolamento. Più lavoro retribuito ai detenuti, le misure alternative restano al palo Redattore Sociale, 29 settembre 2018 Approvati dal Consiglio dei ministri di ieri 5 decreti legislativi in attuazione della riforma del Codice penale, di procedura penale e dell’ordinamento penitenziario. Maggiori tutele su salute e diritti dei detenuti, valorizzato il volontariato e il lavoro fuori e dentro gli istituti di pena, ma il governo frena sulle misure alternative. Più lavoro retribuito fuori e dentro il carcere, più attività di volontariato, ma nessun potenziamento delle misure alternative alla detenzione, come aveva auspicato invece la riforma penitenziaria avviata nella scorsa legislatura. Non c’è solo la Nota di aggiornamento al documento di economia e finanza 2018 tra questioni affrontare ieri nel Consiglio dei ministri numero 21 dell’attuale legislatura. Tra i vari provvedimenti ci sono anche quelli che riguardano l’ordinamento penitenziale. Il Consiglio dei ministri, infatti, su proposta del ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, ha approvato, in esame definitivo cinque decreti legislativi che, in attuazione della legge delega per la riforma del Codice penale, del Codice di procedura penale e dell’ordinamento penitenziario (legge 23 giugno 2017, n. 103), introducono nuove disposizioni relative all’ordinamento penitenziario, alla disciplina del casellario giudiziale, a quella delle spese di giustizia funzionali alle operazioni di intercettazione e all’esecuzione delle pene nei confronti dei condannati minorenni. Misure alternative, restano così come sono. Il primo dei cinque decreti, spiega una nota di Palazzo Chigi, “fa seguito ai pareri contrari espressi dalle competenti Commissioni parlamentari circa il precedente assetto complessivo della riforma - specifica la nota del Cdm - ed è contrassegnato, in particolare, dalla scelta di mancata attuazione della delega nella parte volta alla facilitazione dell’accesso alle misure alternative e alla eliminazione di automatismi preclusivi alle misure alternative alla detenzione in carcere”. Il governo, quindi, ha deciso di non favorire le misure alternative come chiesto invece dal percorso di riforma avviato nella passata legislatura. Un segnale forte, quello del governo, in linea con la posizione da sempre dichiarata sul tema carcere e sulla stessa riforma. In tema di assistenza sanitaria in carcere, invece, lo stesso decreto “tiene conto dell’esigenza di risposta alle nuove necessità di tutela della salute e afferma in modo chiaro il diritto di detenuti e internati a prestazioni sanitarie tempestive e appropriate”. Con lo stesso testo, inoltre, “si introducono specifiche norme volte a rafforzare i diritti di detenuti e internati - si legge nella nota -, con particolare riguardo al principio di imparzialità dell’amministrazione carceraria e al contrasto a ogni forma di discriminazione, ivi comprese le discriminazioni dovute al genere o all’orientamento sessuale”. Un secondo decreto legislativo, invece, punta “all’incremento delle opportunità di lavoro retribuito, sia intramurario sia esterno - spiega il testo, nonché di attività di volontariato individuale e di reinserimento sociale dei condannati, anche attraverso il potenziamento del ricorso al lavoro domestico e a quello con committenza esterna, aggiornando quanto il detenuto deve a titolo di mantenimento, nonché alla maggiore valorizzazione del volontariato, sia all’interno del carcere sia in collaborazione con gli uffici di esecuzione penale esterna; al miglioramento della vita carceraria, attraverso la previsione di norme volte al rispetto della dignità umana mediante la responsabilizzazione dei detenuti, la massima conformità della vita penitenziaria a quella esterna”. Tra i cinque decreti che riguardano l’ordinamento penale c’è anche il tema dell’esecuzione delle pene nei confronti dei condannati minorenni. Secondo quanto riportato dalla nota diffusa al termine del Cdm, il decreto “riforma l’ordinamento penitenziario per le parti relative all’esecuzione della pena nei confronti dei condannati minorenni e dei giovani adulti (al di sotto dei 25 anni), con particolare riferimento al peculiare percorso educativo e di reinserimento sociale”. In particolare, aggiunge la nota, il testo “introduce elementi innovativi in merito alle misure penali di comunità e un modello penitenziario che guardi all’individualizzazione del trattamento, con l’obiettivo di delineare un’esecuzione penale che ricorra alla detenzione nei casi in cui non è possibile contemperare le esistenze di sicurezza e sanzionatorie con le istanze pedagogiche”. Approvata la riforma penitenziaria, le grandi aspettative di riforma restano deluse Comunicato Antigone, 29 settembre 2018 Passi in avanti su minori, lotta alla violenza, isolamento. Il Consiglio dei Ministri ha approvato la riforma dell’ordinamento penitenziario. Le leggi approvate contengono alcuni passi in avanti nella nostra legislazione. Finalmente vi sono norme dedicati ai detenuti minorenni con maggiore attenzione ai loro bisogni educativi. Tra quelle che salutiamo volentieri vi sono: l’applicazione della sorveglianza dinamica, un più ampio accesso alle misure alternative e di comunità (anche se restano troppi vincoli, come quelli ingiustificati dell’articolo 4bis), una minore possibilità di applicare l’isolamento. Per quanto riguarda gli adulti, rispetto alla grande elaborazione che c’era stata negli ultimi anni e ai bisogni profondi di riforma del nostro sistema di esecuzione penale, la legge appena approvata non ha tenuto conto dei tanti suggerimenti arrivati dalla comunità degli esperti. Vanno però accolte positivamente alcune norme di principio importanti, come il richiamo in apertura al dovere dell’amministrazione di garantire il rispetto della dignità della persona nonché il rifiuto esplicito di ogni violenza fisica o morale. Così come importante è la previsione di alcuni limiti alla pratica dell’isolamento penitenziario (che non deve impedire la normale vita della persona sanzionata) o la norma che consente al detenuto di essere visitato dal proprio medico di fiducia. Inoltre significativo è il richiamo al principio di non discriminazione nei confronti dei detenuti in ragione del loro sesso, del loro orientamento sessuale o della loro nazionalità. Si ribadisce che il lavoro deve essere remunerato e non afflittivo e si aumenta la liberazione anticipata per chi partecipa gratuitamente a progetti di utilità sociale (un giorno di libertà per cinque di lavoro). Mancano però tutte quelle norme che avrebbero favorito una carcerazione più moderna e aperta. Non c’è ad esempio nulla che favorisca un ampliamento delle misure alternative, nulla sulla affettività dei detenuti, nulla sulla tutela delle persone afflitte da problemi psichici, nulla sulle pene accessorie. Su questo ci impegniamo a ripresentare in parlamento le nostre proposte. Andrea Oleandri Ufficio Stampa Associazione Antigone Ordinamento penitenziario. Per i detenuti più ore all’aperto e carcere “di prossimità” di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 29 settembre 2018 Prende forma con un pacchetto di decreti legislativi, approvati nel Consiglio dei ministri dedicato alla manovra, la riforma dell’ordinamento penitenziario targata Lega - 5 Stelle. Un intervento dal perimetro più ristretto rispetto a quello messo in cantiere ma mai approvato dal precedente ministro della Giustizia Andrea Orlando. È così stata fatta la scelta di non esercitare la delega per tutta quella parte che favoriva l’accesso a misure alternative al carcere. Il principale dei 3 provvedimenti (gli altri sono dedicati a lavoro e carcere e al minorile) interviene innanzitutto sulla medicina penitenziaria, estendendo, tra l’altro, la gamma dei trattamenti sanitari che i detenuti possono richiedere in carcere a proprie spese e prevede controlli sanitari, sempre in carcere, da parte della Asl anche in seguito a segnalazioni ricevute. Distingue poi le competenze dell’autorità giudiziaria a seconda che ci sia o meno una condanna definitiva, amplia casi in cui il tribunale di sorveglianza procede con rito semplificato, introduce una nuova procedura semplificata e a contraddittorio eventuale per la concessione in via provvisoria delle misure alternative richieste, quando la pena da scontare, anche residua, non è superiore a 1 anno e 6 mesi. Spazio poi per l’aumento delle ore minime che i detenuti possono trascorrere all’aperto, per la prossimità tra l’istituto penitenziario e la famiglia del recluso, per specifiche tutele per quanto riguarda i reclusi esposti a minaccia di soprusi a causa del proprio orientamento sessuale o della propria identità di genere, per l’ampliamento dei diritti di informazione e comunicazione. Riforma penitenziaria. Rafforzati i diritti dei detenuti in carcere Italia Oggi, 29 settembre 2018 Il decreto sull’ordinamento penitenziario afferma in modo chiaro il diritto di detenuti e internati a prestazioni sanitarie tempestive e appropriate e al contrasto a ogni forma di discriminazione, ivi comprese le discriminazioni dovute al genere o all’orientamento sessuale. Pacchetto giustizia al via. Il consiglio dei ministri ha approvato giovedì scorso, in esame definitivo, cinque decreti legislativi che, in attuazione della legge delega per la riforma del Codice penale, del Codice di procedura penale e dell’ordinamento penitenziario (legge 23 giugno 2017, n. 103), introducono nuove disposizioni relative all’ordinamento penitenziario, alla disciplina del casellario giudiziale, a quella delle spese di giustizia funzionali alle operazioni di intercettazione e all’esecuzione delle pene nei confronti dei condannati minorenni. In particolare, il decreto sull’ordinamento penitenziario afferma in modo chiaro il diritto di detenuti e internati a prestazioni sanitarie tempestive e appropriate e introduce specifiche norme volte a rafforzare i diritti di detenuti e internati, con particolare riguardo al principio di imparzialità dell’amministrazione carceraria e al contrasto a ogni forma di discriminazione, ivi comprese le discriminazioni dovute al genere o all’orientamento sessuale. Il Dlgs su vita detentiva e lavoro in carcere punta all’incremento delle opportunità di lavoro retribuito, sia intramurario sia esterno, nonché di attività di volontariato individuale e di reinserimento sociale dei condannati, anche attraverso il potenziamento del ricorso al lavoro domestico e a quello con committenza esterna, aggiornando quanto il detenuto deve a titolo di mantenimento, nonché alla maggiore valorizzazione del volontariato, sia all’interno del carcere sia in collaborazione con gli uffici di esecuzione penale esterna. Relativamente al casellario giudiziale, il decreto ne adegua la disciplina alle modifiche in materia di protezione dei dati personali, con l’obiettivo della semplificazione del procedimento e della riduzione degli adempimenti amministrativi, mentre il decreto sulle spese per le operazioni di intercettazione interviene al fine di velocizzare le operazioni di pagamento e in particolare, chiarisce che la competenza di emettere il decreto con il quale vengono liquidate le spese sia del magistrato dell’ufficio del pubblico ministero che ha eseguito o richiesto l’autorizzazione a disporre le intercettazioni. Il Dlgs sulla esecuzione delle pene nei confronti dei condannati minorenni, infine, ha l’obiettivo di delineare un’esecuzione penale che ricorra alla detenzione nei casi in cui non è possibile contemperare le esistenze di sicurezza e sanzionatorie con le istanze pedagogiche. In cella con mamma: i bambini detenuti di Mariaconsiglia Flavia Fedele linkabile.it, 29 settembre 2018 Faith, fede. Si chiamava così la piccola di quasi sette mesi deceduta appena sei giorni fa nel carcere di Rebibbia, Roma. Suo fratello Divine, invece, che di anni non ne aveva nemmeno due, è morto in ospedale qualche ora dopo, la sera di San Gennaro. Solo, come il criminale che non era. Che non era lui e che non era nemmeno sua sorella. Li chiamavano bambini detenuti: l’illegalità, violenta e prepotente, li aveva travolti ancora infanti e inconsapevoli. Dietro le sbarre, infatti, vi erano finiti perché ci avevano messo mamma Alice, una giovane tedesca di origini georgiane arrestata lo scorso agosto per possesso di droga e traffico illecito di sostanze stupefacenti. La stessa che il 18 settembre li ha lanciati dalle scale dell’istituto penitenziario nel quale erano rinchiusi insieme. Voleva liberarli, a chi l’ha interrogata in queste ore ha risposto così: Alice desiderava che i suoi figli fossero liberi. In vita, in fondo, non avevano potuto esserlo, costretti com’erano stati all’ombra ingombrante di un peccato mai commesso. Lacrime e rabbia, una storia tragica la loro, tanto triste quanto cruda, surreale e vera. Una vicenda che, tuttavia, è soltanto l’ultimo racconto di un mondo che ignoriamo ma che vive a pochi, pochissimi passi da noi. Di quel che succede al di là delle mura di cinta delle case circondariali non si interroga mai nessuno, se non una manciata di scrupolosi addetti ai lavori. Eppure, ignorate le manette e oltrepassate le recinzioni, dietro quelle pareti, tra una brandina, un’ora d’aria, qualche divisa e una serie di sbarre a inibire persino l’ossigenazione, ci sono tanti, troppi vissuti personali, un’infinità di sbagli fatti per scelta o per mancanza di alternativa, vite cambiate, esistenze spesso spezzate. Uomini, donne, ragazzi, aguzzini, assassini, disperati, addirittura innocenti. Come i bambini. A tal proposito, i sogni infranti di Faith e Divine ci ricordano che talvolta in carcere ci finiscono persino i più piccoli, figli di detenute costretti a scontare anch’essi la pena delle loro mamme. In Italia, ad esempio, stando ai più recenti dati resi noti dal Ministero della Giustizia (risalenti allo scorso 31 agosto), le madri recluse sono circa 52 - di cui 27 italiane e 25 straniere - per un totale di 62 pargoletti al seguito(rispettivamente 33 le prime e 29 le seconde). Infanti obbligati a crescere in un contesto a loro totalmente inadatto e incurante di quelle tutele fondamentali che sia la Costituzione italiana sia la Convenzione delle Nazioni Unite sui Diritti del Fanciullo definiscono preminenti pur non essendolo concretamente. Dagli anni Settanta a oggi, nello Stivale, sono stati cinque i provvedimenti legislativi che hanno posto l’attenzione su questo dramma assolutamente da non sottovalutare: dalla legge 354 del 1975 alla n.62 del 2011, però, nei fatti, è cambiato davvero ben poco. Promesse, ministri della Giustizia uscenti o freschi di elezione, vecchi e nuovi arresti. Checché se ne dica, i più piccoli restano privi di ogni forma di libertà a favore di una maternità che, tuttavia, si fa malata. Forzati ai ritmi del carcere, infatti, i bambini sviluppano nei confronti della genitrice un sentimento eccezionale, ai limiti del sano, spesso ben oltre questo. La mamma è tutto: casa, famiglia, punto di riferimento, amica, ma più il piccolo cresce, più a mancare, tra le parti, è un vero rapporto - che non sia simbiotico - di condivisione e di esperienza, di conoscenza del mondo reale, lì dove non ci sono chiavistelli, sbarre, divise, ed entrambi sono liberi di tenersi per mano alla luce del sole, magari al parco giochi. Al tempo stesso, anche quello della donna verso il figlio diventa un amore sproporzionato, con l’infante che rappresenta l’unico legame possibile con una vita normale, forse la sola ragione per superare i giorni al fresco o la più grande condanna da attribuire alla propria persona. A risultare ancora una volta schiacciata, quindi, è la dignità che ai grandi come ai piccoli, in cella, è negata ripetutamente, trasformandola in una parola che si svuota ben presto di ogni suo significato, sconosciuta e calpestata nonostante l’interrogarsi del legislatore. Come spesso succede quando si tratta di diritti, infatti, la giurisprudenza ha pensato a una soluzione, la cui applicazione, però, risulta quasi nulla o tardiva. Stando alle normative più recenti, per le donne che hanno dei bambini di cui occuparsi nonostante l’arresto - soprattutto in mancanza di alternative e su base volontaria, dovrebbero essere previste delle misure di detenzione diverse dalle tradizionali e in ambienti con un ruolo di comunità. Ambienti come gli Istituti a Custodia Attenuata per Madri detenute (Icam), che sono concepiti, almeno su carta, per creare un’atmosfera di casa normale, più simili a un asilo che a una prigione, in modo da evitare ai minori i traumi della detenzione. Al loro interno, gli agenti di polizia non indossano divise, non vi sono sbarre visibili, gli educatori affiancano le recluse e portano i bambini fuori dalle strutture almeno una volta alla settimana. Su richiesta, li accompagnano anche all’asilo. Per le mamme, invece, le regole sono le stesse del carcere, sebbene le giornate siano dedicate anche alla cura degli ambienti comuni, alla cucina, magari a corsi di pittura o di sartoria. Attualmente, in Italia, ci sono circa 5 strutture di questo tipo dislocate tra Milano (apripista nel 2007), Torino, Venezia, Lauro (in provincia di Avellino) e Cagliari. Inizialmente, tali istituti erano pensati per far sì che i figli potessero convivere con la genitrice fino ai 3 anni. Dal 2011, però, l’età si è alzata ai 6. Nello stesso periodo, inoltre, è stata prevista l’introduzione delle case famiglia protette, ossia la cosiddetta detenzione domiciliare per le donne condannate a un periodo di reclusione non superiore ai 4 anni (anche se costituente parte residua di maggior pena) con prole al massimo decenne. Tuttavia, a oggi, a disposizione di pochissime mamme, soltanto due di queste case famiglia sono in funzionamento - a Roma e Milano -, soprattutto per motivi economici. La legge, infatti, non prevede copertura finanziaria ma rimanda agli enti locali, il più delle volte senza la disponibilità di un solo centesimo. Ecco che, allora, portate allo stremo, situazioni come quella di Rebibbia si verificano. Nel carcere romano, i bambini e le loro mamme vivono in quella che è la sezione femminile dell’istituto penitenziario che ai più piccoli riserva delle zone di asilo nido, luoghi assolutamente inidonei alla crescita e all’armonioso sviluppo della persona. Due fattori ignorati ma fondamentali, garantiti anche da quella Carta dei figli dei genitori detenuti approvata in Italia nel 2014, primo caso in Europa. Firmato dall’allora Ministro della Giustizia Andrea Orlando, dall’Autorità Garante per l’Infanzia e l’Adolescenza Vincenzo Spadafora e dalla Presidente dell’Associazione Bambinisenzasbarre Onlus Lia Sacerdote, il protocollo di intesa - aggiornato nel 2016 con l’obiettivo di una sua europeizzazione - stabiliva ben 8 articoli, ognuno dei quali dedicato alla salvaguardia del diritto/dovere alla genitorialità e, dunque, del rapporto genitore-figlio che non può assolutamente essere messo in pericolo nemmeno in caso di reclusione. In ogni modo, la prole non deve separarsi da chi l’ha generata poiché a quel legame affettivo va assicurata continuità e priorità: migliorando le strutture ospitanti, garantendo le visite settimanali e la privacy che queste necessitano, trovando il giusto equilibrio tra le esigenze di sicurezza e i buoni contatti familiari, fornendo al personale competenze adeguate, dando priorità, laddove possibile, a misure alternative alla custodia cautelare in carcere. Perché i bambini, soprattutto i più piccoli e soprattutto se non hanno nessuno che si occupi di loro, devono restare con la mamma, non solo se questa non può fare altrimenti e non solo fino ai 3 o ai 6 anni. Una separazione, se forzata, arreca enormi danni e disagi a entrambe le parti in causa. È violenza ingiustificata. I numeri ci dicono che le donne in carcere rappresentano statisticamente una minoranza rispetto agli uomini, sia per ciò che concerne i crimini sia per ciò che concerne la recidiva. Non per questo, però, a esse va dedicata un’attenzione - istituzionale e mediatica - inferiore, talvolta nulla. Non per questo se ne deve parlare solo perché due bambini sono morti, vittime di un’instabilità psicologica evidente. È importante, in cambio, tenere sempre alto l’interesse sulla discrasia tra quanto viene normato e quanto viene effettivamente fatto, e soprattutto su come ciò che viene normato viene concretizzato. Gli istituti penitenziari devono smettere di essere discariche sociali, luoghi dove depositare i nostri fallimenti, i nostri errori, i nostri “scarti”. Un detenuto resta un essere umano, così come una detenuta resta una mamma. E a una mamma, anche se ha sbagliato, va data una pena, va tolta la libertà ma non un figlio. I bambini non sono i genitori, non hanno le loro colpe e non devono pagarle. È tempo che i diritti vengano riconosciuti. Prescrizione, riforma prioritaria. Sospensione della decorrenza dalla sentenza di 1° grado di Michele Damiani Italia Oggi, 29 settembre 2018 Le proposte del governo in materia di giustizia presenti nel piano nazionale delle riforme. Sarà necessario un intervento strutturale per ridurre il numero di procedimenti caduti in prescrizione. Una riforma dell’istituto, quindi, è prioritaria. Questo uno dei punti del piano giustizia dell’esecutivo, così come presentato nel piano nazionale delle riforme. “È necessario incrementare il grado di fiducia dei cittadini nell’istituzione giudiziaria”, si legge nel programma, “ma anche per garantire il rispetto del principio di ragionevole durata del processo. Tra le varie opzioni di intervento vi è la sospensione della decorrenza del termine di prescrizione dopo che sia stata emessa una sentenza di primo grado”. In generale, l’obiettivo è quello di “programmare interventi normativi idonei a garantire una più celere definizione delle controversie e una più significativa riduzione delle pendenze”. Vengono annunciati “molteplici interventi”, sia in campo penale che civile, “accompagnati da investimenti strutturali per far fronte alle carenze di organico per magistrati e personale amministrativo”. Tra le altre proposte interessate figurano: l’eliminazione dell’atto di citazione e la sua sostituzione con il ricorso; una riduzione dei termini di comparizione, attualmente di novanta giorni; l’introduzione di un regime di preclusioni istruttorie già negli atti introduttivi; l’attribuzione al giudice del potere di valutare discrezionalmente l’utilità della concessione dei termini previsti dall’art. 183, sesto comma, c.p.c. (termini perentori); una rimodulazione della fase decisoria, attribuendo al giudice il potere di valutare, volta per volta, l’utilità dl deposito di comparse conclusionali e la durata del termine assegnato per questo fine. Oltre ciò, viene definito “centrale il tema del diritto fallimentare, dove continua ad essere necessaria una riforma organica dell’intera materia dell’insolvenza e delle procedure concorsuali. In ultimo, “si dovrà intervenire anche per migliorare le condizioni e il funzionamento del sistema penitenziario, con l’obiettivo di realizzare un processo di riqualificazione che permetta di superare le carenze strutturali delle carceri. “Riforma della giustizia”. La Lega con Bonafede: nuove regole per il Csm di Emilio Pucci Il Messaggero, 29 settembre 2018 Salvini: “Dopo il caso Ermini, c’è da lavorare per la vera indipendenza”. Anm in trincea: “Parole inopportune, serve rispetto”. Le correnti spaccate. La Lega corre in soccorso del Guardasigilli. E dopo lo scontro sul Csm, che ha provocato anche una grave lacerazione fra le correnti delle toghe, promette il proprio impegno a combattere il “Sistema” (copyright di Di Maio). Salvini vuole stringere i tempi, contando su uno scambio con Bonafede. “Si è accorto - spiega un big del Carroccio - che i magistrati gli hanno voltato le spalle. Speriamo che sia lui stesso ora a voler cambiare le norme del ddl anticorruzione, a partire dalle misure riguardanti l’abuso di ufficio”. “Abbiamo visto ieri che con l’elezione del vicepresidente del Csm c’è da lavorare per una giustizia davvero indipendente”, ha detto ieri Salvini. Parole che confermano la saldatura tra M5s e Carroccio dopo l’asse stretto sulla manovra. Un’alleanza strategica dunque a tutto tondo. Anche con il ministro della Giustizia nel mirino della Lega nelle scorse settimane per gli attacchi legati alla vicenda dei conti del Carroccio. “Prendiamo atto del nuovo atteggiamento di M5s che si era affrettato anche a difendere i magistrati sul caso Diciotti”, dicono dal partito di via Bellerio. Il ministro dell’Interno si dice d’accordo con il responsabile di via Arenula e ha dato mandato ai suoi di studiare un pacchetto di misure contro le toghe che fanno politica. Una legge ordinaria per riformare l’elezione del Csm, magari ricorrendo al metodo del sorteggio dei magistrati e un intervento per cercare di scardinare il potere delle correnti, per tener fuori la politica dalla magistratura. A palazzo dei Marescialli nessun commento, gli attacchi di Salvini sono interpretati come una copertura all’alleato di governo. A reagire con forza è però l’Anm: “Ogni percorso che conduce ad una carica elettiva è frutto di scelte democratiche che, in quanto tali, devono essere rispettate da tutti, specie da chi ricopre incarichi istituzionali”. Per il sindacato delle toghe gli interventi di Salvini e Bonafede “creano confusione e rischiano di incidere negativamente sull’operato e sulla legittimazione dell’organo di autogoverno”. “Ricercare motivazioni politiche nelle scelte democratiche operate o far assumere alle scelte ricadute sull’indipendenza della magistratura, tanto da fare collegamenti con la necessità di riformare la giustizia, appare inopportuno”, afferma il presidente dei magistrati Minisci. Polemica Magistratura Indipendente che denuncia una “mancanza di rispetto istituzionale nei confronti dei consiglieri del Csm”. Sulla stessa lunghezza d’onda Unicost, la corrente di centro. “Porteremo avanti un progetto di riforma della giustizia dialogando con i magistrati”, replica il leghista Morrone, sottosegretario alla Giustizia. “L’elezione di Ermini è un atto che ignora le indicazioni di Mattarella e danneggia la magistratura”, osserva l’altro sottosegretario, il grillino Ferraresi. Non è a rischio il dialogo con l’organo di autogoverno della magistratura ma - ha chiarito Bonafede - “quando ci sono atti politici, che hanno un significato politico, io sento il dovere di denunciarlo pubblicamente”. Nel braccio di ferro tra governo e magistrati non interviene Forza Italia che - spiega il responsabile della Giustizia Costa - “non vuole in ogni caso passare per quella che difende Ermini”. Market abuse. Cancellato il rischio di amnistia sugli illeciti di Giovanni Negri Il Sole 24 ore, 29 settembre 2018 Riforma in vigore da oggi. Sul doppio binario scomputo solo pecuniario. In vigore da oggi la nuova disciplina del market abuse. Con una soluzione sul doppio binario penale- amministrativo meno traumatica di quella che si profilava e che aveva sollevato l’allarme di Consob: in audizione in Parlamento il commissario Giovanni Maria Berruti aveva infatti messo nel mirino quella che si sarebbe configurata come una vera e propria amnistia. La versione finale del testo, confluita nel decreto legislativo n. 107 del 2018, infatti ha cancellato una disposizione cruciale e cioè il riferimento nelle modifiche all’articolo 187 terdecies del Testo unico della finanza all’articolo 135 del Codice penale come norma chiave per effettuare il ragguaglio tra sanzioni pecuniarie e pene detentive. L’articolo 135 fa infatti corrispondere 250 euro a i giorno di pena detentiva. Una possibilità che aveva messo in allarme Consob. Con Berruti che sottolineava come “le ipotesi di “ragguaglio” ovvero di “scomputo” tra sanzioni di natura diversa (misura detentiva / misura pecuniaria) non sempre considerano gli effetti che simili previsioni avrebbero, tra l’altro, sulla trasformazione delle sanzioni amministrative pecuniarie in sanzioni di natura penale”. Di più: per Consob, la disciplina originaria rischiava di travolgere tutti i procedimenti penali pendenti nei confronti di soggetti già sanzionati in via amministrativa dalla Consob per illeciti di abuso di mercato (circa 26). “Ricordo a me stesso, infatti - osservava Berruti - che si corre il rischio di ritrovarsi nell’ambito di applicazione dell’articolo 2 del Codice penale, ove è previsto che “Se la legge del tempo in cui fu commesso il reato e le posteriori sono diverse, si applica quella le cui disposizioni sono più favorevoli al reo, salvo che sia stata pronunciata sentenza irrevocabile”. Nel dettaglio, l’obbligo per il giudice penale di tenere conto della sanzione pecuniaria inflitta da Consob, ragguagliando, a norma di Codice penale, i giorni di detenzione alla condanna della Commissione, avrebbe potuto, nei fatti, dare luogo a una sostanziale depenalizzazione degli abusi di mercato, in primo luogo. E poi a un fenomeno di forum shopping, con le parti indagate che avrebbero potuto giocare sulla convenienza a evitare il più pesante binario penale per traghettare invece sull’amministrativo. Argomentazioni che evidentemente hanno fatto breccia nelle commissioni parlamentari prima e nel Governo dopo. Con le prime che hanno messo nero su bianco la necessità di valutare “la portata del comma 2 del nuovo articolo 187-terdecies, che potrebbe portare, nei casi in cui sia il giudice penale a dover irrogare la sanzione penale nei confronti di soggetti già sanzionati in via amministrativa dalla Consob, l’inapplicabilità della pena detentiva, laddove l’entità di questa - una volta ragguagliata - non superi i limiti della sanzione amministrativa pecuniaria già inflitta, determinando così il sacrificio della sanzione penale più grave, privativa della libertà personale, pur a fronte di fatti giudicati dal legislatore meritevoli di tale pena”. E con il Governo che alla fine ha messo mano al provvedimento cancellando, nel testo approdato in “Gazzetta”, il riferimento al Codice penale, e limitando, in attesa magari di interventi più incisivi sul punto, il ragguaglio al solo caso dell’abbinata tra pena e sanzione amministrativa pecuniaria. Appello per Verdiglione, adesso si svegliano tutti di Dimitri Buffa L’Opinione, 29 settembre 2018 “Non hanno giustificazioni burocratiche e tanto meno di diritto, se Verdiglione muore qualcuno dovrà risponderne penalmente e in maniera molto grave”. Rita Bernardini del Partito radicale transnazionale sta sul piede di guerra sul caso del filosofo e psicanalista Armando Verdiglione per il quale il nostro giornale “L’Opinione delle Libertà” per primo aveva lanciato l’appello per salvargli la vita. Dando poi la sveglia a tutti gli altri quattro gatti garantisti che hanno ripreso la vicenda. “Dicono che non hanno le strutture adatte ad Opera per curarne la disfagia che lo ha portato a pesare 20 chili in meno in tre settimane? - spiega la Bernardini - le trovino altrove, anche agli arresti domiciliari in un ospedale esterno al circuito penitenziario... uno che si costituisce, anzi che viene costretto a farlo e che di buon grado si mette nelle mani dello Stato - e quindi non si può credere che voglia fuggire - deve essere in tutte le maniere agevolato da quello stesso Stato e da quella stessa giustizia cui si è affidato ciecamente”. Ergo? “Noi chiediamo - precisa Rita Bernardini a “L’Opinione” - che il ministro intervenga immediatamente senza se e senza ma”. Come a dire che - Dio non voglia - ci scappasse l’ennesimo morto di carcere, nessuno potrebbe fare lo scaricabarile su qualcun altro. Che poi è la specialità nazionale della politica e anche della burocrazia. Non sfugge il clima forcaiolo e manettaro che pare fatto apposta per agevolare il compiersi delle tragedie in carcere. È solo di pochi giorni prima il dramma della madre detenuta per traffico di droghe leggere, al contrario dei due suoi presunti complici nigeriani rilasciati con obbligo di firma, che impazzita dietro le sbarre a Rebibbia ha ucciso in carcere i due figli piccoli detenuti insieme a lei. Hanno fatto dimettere la direttrice del carcere invece che il magistrato. I carcerati sembrano tutte vittime sacrificali le cui sofferenze inaudite sono da offrire al Moloch dell’opinione pubblica. Che così si consola delle rapine violente nelle case o di altre cose che nella vita purtroppo accadono sempre. Se la Bernardini mette i puntini sulle “i” a proposito di presenti e future responsabilità dei massimi vertici di via Arenula, Vittorio Sgarbi, che oggi ha ripreso su “il Giornale” la battaglia de “L’Opinione”, è entrato pure nel merito delle accuse che hanno portato alle condanne definitive per Verdiglione. “Se uno vuole dare centomila euro a uno psicanalista sta sullo stesso piano di un altro che dà la stessa somma a una fondazione politica o magari ai preti”. Perché, allora, è implicito in questo ragionamento, “solo per Verdiglione coloro che gli hanno in passato erogato finanziamenti sarebbero degli incapaci di intendere e volere di cui lui si sarebbe approfittato”? Lazio: obiettivo migliorare la vita dei detenuti in carcere romadailynews.it, 29 settembre 2018 “Si è svolta ieri, in seduta congiunta delle commissioni regionali sanità e affari istituzionali, l’audizione del garante dei detenuti del Lazio, Stefano Anastasia, sui tragici eventi che hanno avuto quale teatro il carcere di Rebibbia e che hanno portato alla morte di due bimbi. All’incontro ha partecipato anche, Gianni Vicario, in rappresentanza della direzione regionale salute ed integrazione socio sanitaria. In questa occasione è stato possibile affrontare, in modo generale, il tema dell’assistenza sanitaria nelle carceri della nostra regione, di approfondire i limiti di un sistema ancora, e purtroppo, disomogeneo in termini di azioni messe in atto e che soffre di un endemico sottodimensionamento del personale deputato ad assistere le persone più fragili, come psicologici e mediatori culturali. Abbiamo affrontato, tutti, questa tematica spogliandoci di qualsiasi pregiudizio con il solo prioritario obiettivo di comprendere come istituzione cosa possiamo e dobbiamo fare per migliorare la vita dei detenuti nelle carceri del Lazio, per sostenere e assicurare a chi in queste strutture svolge un lavoro delicatissimo ed impegnativo, dalla dirigenza agli agenti della polizia penitenziaria. Nel particolare ci siamo concentrati anche sulle condizioni delle donne, mamme, con i propri bambini. Su come viene affrontata, in termini di organizzazione e sorveglianza, la loro detenzione, quali sono le condizioni in cui vivono e soprattutto sulle alternative esistenti al carcere. I tragici fatti di Rebibbia ci hanno posto di fronte ad un cortocircuito sconcertante, a delle falle del sistema, che devono essere recuperate con la massima responsabilità e rapidità. Non è accettabile che le criticità rilevate dagli psicologici dopo il colloquio con la detenuta, e trasmesse al sistema sanitario regionale, siano rimaste carta straccia. Così come è incomprensibile che siano stati sottostimati i segnali di inquietudine che la donna aveva mostrato sin dall’inizio della detenzione”. Così in un comunicato il presidente della commissione regionale sanità, Giuseppe Simeone. Roma: a Rebibbia dimezzati i bambini detenuti. Il Garante: “le leggi allora ci sono”. Avvenire, 29 settembre 2018 Dopo la tragedia della settimana scorsa i piccoli in cella da 14 sono passati a 6. Stefano Anastasia al Consiglio regionale: “Quella donna non doveva essere lì”. In una settimana i bambini di Rebibbia sono passati da 14 a 6. È quanto rivelato ieri dal Garante per i detenuti del Lazio, Stefano Anastasia, in audizione al Consiglio regionale dopo la tragedia avvenuta nel carcere romano, dove una donna ha ucciso i suoi due figli che vivevano in cella con lei. “Come d’incanto il nido di Rebibbia - ha detto ancora Anastasia - ha cominciato a svuotarsi. Evidentemente le leggici sono e, almeno qui, anche un po’ di accoglienza. Serviva solo più coraggio e determinazione”. Nel caso della giovane donna tedesca che in un istante di follia s’è trasformata in una killer spietata c’è stato - ormai è appurato - anche un gravissimo problema di comunicazione. Alice, questo il nome della mamma, parlava solo tedesco e poco inglese. “E questo apre un dibattito sulla questione della mediazione culturale - ha denunciato ancora il Garante - che è responsabilità dell’amministrazione penitenziaria e su cui purtroppo si è in ritardo da 30 anni”. Recentemente c’è stato un bando di concorso e la Regione Lazio in passato ha stanziato fondi perla mediazione culturale nelle sue carceri: “Per quello che so non sono stati ancora utilizzati perché mancano ancora le linee guida che dovranno poi seguire i Comuni di riferimento delle carceri” ha concluso Anastasia, sottolineando comunque come disporre la custodia cautelare in carcere ad una donna con due bimbi di 6 mesi e 2 anni, prevista solo in casi eccezionali secondo il codice, “sia discutibile”, così carne il fatto che la donna era in carcere “mentre i due coimputati della donna per lo stesso reato no”. I funerali dei due piccoli, morti così tragicamente in carcere, si sono svolti giovedì mattina nella chiesa di Sant’Onofrio di Roma, a fianco all’ospedale Bambino Gesù. Ad officiare il rito funebre è stato il cappellano di Rebibbia, don Sandro Sudano, che nella sua omelia ha invitato tutti ad una “maggiore responsabilità nei confronti dei bambini”. Sulle due minuscole bare bianche c’erano le corone di fiori dell’ospedale e all’interno della chiesa il personale sanitario del Bambino Gesù, oltre che la presidente Mariella Enoc e i rappresentanti del Comune e del ministero della Giustizia. Le salme dei due bimbi saranno portate in Germania, dove a vegliare su di loro penserà d’ora in poi la nonna. Firenze: “il film su Cucchi nelle scuole superiori”, la petizione degli studenti al ministro di Valeria Strambi La Repubblica, 29 settembre 2018 Una raccolta firme su Change.org per chiedere che venga trasmesso il film “Sulla mia pelle”, che tratta la vicenda della morte di Stefano Cucchi. “Abbiamo già il sostegno della sorella Ilaria”. “È doveroso parlarne”. “Tutti devono vederlo, soprattutto i ragazzi”. Il passaparola, lo scambio di commenti sui social e poi una firma dietro l’altra su Change.org. Gli studenti, attraverso una petizione online che fino a oggi ha raccolto quasi 1.400 sottoscrizioni, chiedono che in tutte le scuole superiori d’Italia venga promossa la visione del film “Sulla mia pelle” che tratta la drammatica vicenda della morte di Stefano Cucchi. Un appello lanciato direttamente al ministro dell’Istruzione, Marco Bussetti. “La scuola, luogo di cultura e mediatrice di conoscenza - si legge nel testo della petizione - è il luogo migliore per far conoscere questa storia e creare dibattito attorno ai temi di cui il film, in modo equilibrato, parla”. L’idea è partita da Lorenzo Tinagli, studente fiorentino e coordinatore nazionale della Federazione degli studenti: “Abbiamo allargato la proposta ad altre associazioni (Rete degli Studenti Medi e Unione degli Studenti) che si sono mostrate subito entusiaste - spiega Tinagli. Ho parlato personalmente anche con Ilaria Cucchi, la sorella di Stefano, che ha detto di essere con noi e di appoggiare la nostra richiesta. Il suo coraggio e la sua forza, oltre ad alcuni consigli, sono stati un grande esempio e uno stimolo per andare avanti nell’iniziativa”. Il prossimo passo, ora, sarà portare la proposta al Forum delle Associazioni, momento di incontro tra gli studenti e il ministro Bussetti. “L’ideale sarebbe che tutte le scuole facessero vedere il film lo stesso giorno, ma siamo consapevoli delle difficoltà - aggiunge Tinagli - Chiederemo quindi al ministro che solleciti i vari istituti, anche attraverso una circolare”. Sono in molti i ragazzi che hanno già avuto modo di vedere il film: “Il nostro obiettivo è creare degli spazi di confronto - specifica Tinagli. Non serve a niente limitarsi a guardarlo a casa, da soli, sul proprio divano. La cosa bella è ricreare a scuola quelli che erano i cineforum e dare la possibilità agli studenti di discutere, insieme ai loro insegnanti o anche con esperti esterni, di temi cruciali come la droga, il concetto di giustizia e le difficoltà che esistono in alcuni ambienti sociali chiusi o all’interno delle carceri stesse”. Napoli: a Nisida il premio “Carlo Castelli”, concorso letterario per i detenuti comunicareilsociale.com, 29 settembre 2018 Si terrà venerdì 5 ottobre, presso il centro europeo di studi dell’istituto penale minorile di Nisida, a partire dalle 10, l’edizione numero 11 del premio “Carlo Castelli” per la solidarietà, una iniziativa culturale rivolta ai detenuti degli istituti penitenziari italiani, compresi gli istituti per i minori. Istituito nel 2007, con una sua particolare formula - quella della solidarietà nella condivisione dei premi - ha inteso offrire alle persone detenute spunti di riflessione su temi etici, diversi di anno in anno, ma tutti sempre nell’ottica della presa di coscienza e della scelta di cambiamento. Così dopo il tema 2017, “Esercizi di libertà”, quest’anno ha proposto un altro tema sfidante: “Un’altra strada era possibile, che cosa cambierei nella Società e nella mia vita”. Il premio nazionale, che si distingue dai vari concorsi di scrittura per la sua originale formula, prevede oltre ai premi in denaro riservati ai vincitori, altrettanti premi destinati a progetti di solidarietà, assegna ogni anno un tema diverso. Organizzato dalla Società di San Vincenzo de Paoli, in collaborazione con il ministero della Giustizia (dipartimento per la giustizia minorile e di comunità), con l’istituto penale per minorenni di Nisida e con la Fondazione Fabbrica della Pace, il premio beneficia del patrocinio del Comune di Napoli e del Csv Napoli. Per l’occasione è stata stampata la raccolta delle opere premiate dal titolo: “Alla ricerca della strada perduta”. Alla premiazione seguirà un convegno dal titolo “Strade sbagliate, vie alternative”, con gli interventi di: Luigi Accattoli, giornalista, Presidente della giuria del Premio Castelli; Maria Rita Parsi, psicopedagogista e saggista; Laura Nota, psicologa, Docente Università di Padova; Ettore Cannavera, sacerdote psicologo, Comunità La Collina di Serdiana (Ca); Gianluca Guida, Direttore Istituto penale per minorenni di Nisida; Vincenzo Spadafora, ex Garante per l’infanzia e l’adolescenza, Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio dei Ministri con delega alle Pari Opportunità. La conduzione del dibattito è affidata ad Alessandra Ferrario, giornalista Rai. Pontremoli (Ms): teatro-carcere “Perduti padri. Smarrite figlie”, prevendita dello spettacolo Ristretti Orizzonti, 29 settembre 2018 Il nuovo lavoro realizzato dalle ragazze dell’Istituto Penale Minorile di Pontremoli, con la regia di Paolo Billi e Elvio Pereira Assunçao. Inizia la prevendita del nuovo spettacolo teatrale dal titolo “Perduti padri. Smarrite figlie. Una giostra shakespeariana”, per la regia di Paolo Billi (che da quasi vent’anni anni lavora all’interno del’IPM di Bologna) e Elvio Pereira Assunçao che andrà in scena l’11, 12 e 13 ottobre alle ore 21 al Teatro della Rosa di Pontremoli e che vedrà per protagonisti le ragazze dell’Istituto Penale Minorile di Pontremoli e un gruppo di allievi attori locali. Si tratta ormai della quinta tappa del percorso artistico-formativo del Teatro del Pratello cominciato nel 2013 a Pontremoli. “Perduti padri. Smarrite figlie”, che si avvale della collaborazione di Maddalena Pasini per l’aiuto regia e di Irene Ferrari per le scenografie, affronta lo smarrimento delle figlie di fronte a padri che, oggi, si sono perduti. Sono i sorrisi, le urla, i sussulti, i consigli di giovani figlie rivolti a figure paterne, ormai afasiche, perse dietro a se stesse: non si accorgono, né si rendono conto di essere padri. Sono padri irrimediabilmente perduti di fronte a figlie che affermano la vita, che confidano di costruirsi un cammino. La drammaturgia dello spettacolo a cura di Paolo Billi è costruita, come suggerisce il sottotitolo, nell’alternarsi di scene corali a brevi siparietti shakespeariani, in cui sono protagoniste alcune famose figure di figlie: Cordelia, Regana, Rosalinda, Celia, Ofelia. Lo spazio scenico è costituito da un piano inclinato con un ballatoio, segnato e delimitato da alti pali, dove prendono corpo le coreografie, che scandiscono lo spettacolo. Lo spettacolo è la tappa conclusiva di quattro diversi laboratori che hanno coinvolto le ragazze dell’IPM, studenti dell’Istituto di Istruzione Superiore Belmesseri di Pontremoli e un gruppo di appassionati di teatro, che da tre anni partecipa al progetto all’interno dell’Ipm. Il laboratorio di scrittura, a cura di Filippo Milani, ha prodotto testi che sono confluiti nel copione dello spettacolo; il laboratorio di sartoria, a cura di Paola Lorenzi, ha realizzato i costumi; il laboratorio di decorazione scenografica, a cura di Irene Ferrari con le ragazze dell’Ipm, ha creato l’impianto scenico e con il laboratorio di teatro, a cura di Paolo Billi, Elvio Pereira Assunçao e Maddalena Pasini ha preso vita lo spettacolo finale. Attraverso la ormai collaudata e proficua sinergia di diversi soggetti il progetto è promosso e sostenuto dal Centro per la Giustizia Minorile del Piemonte, Liguria e Valle D’Aosta in collaborazione con Comune di Pontremoli. Il progetto è realizzato dal Teatro del Pratello di Bologna e dal Centro Giovanile Mons. G. Sismondo. Per prenotazioni: cell. 3478222191, mail cg.pontremoli@gmail.com Il costo del biglietto è di euro 10 (bambini sotto i 12 anni euro 5). I biglietti possono essere ritirati presso il Centro Giovanile Mons. G. Sismondo in via Reisoli 11 a Pontremoli, dal lunedì al venerdì dalle 14 alle 19. Gli incassi saranno devoluti a sostegno delle ragazze dell’Ipm e delle attività a loro dedicate. Viterbo: parte la raccolta differenziata al carcere di Mammagialla lafune.eu, 29 settembre 2018 Parte la raccolta differenziata anche all’interno del carcere di Mammagialla di Viterbo. La Direzione del carcere viterbese ha iniziato questo percorso come passo di rieducazione civica per i detenuti e per il riciclo di materiale utile. Dal 26 settembre è attivo lo smaltimento di rifiuti solidi urbani in forma differenziata, anche all’interno della casa circondariale di Viterbo. La direzione in collaborazione con Econet ha portato avanti un’attenta opera di sensibilizzazione all’interno dell’istituto e la popolazione ristretta ha aderito con entusiasmo e maturità. Carta e cartone, plastica e alluminio, trucioli della falegnameria, vetro, indifferenziata, ferro, apparecchiature elettriche ed elettroniche, olii alimentari, pile esauste, toner esausti e neon, tutto verrà raccolto e differenziato. Tutti hanno compreso che riciclare i rifiuti significa “valorizzare” i i rifiuti, recuperando materie prime, anziché smaltirli in discarica ed inceneritori. Questa attività è indispensabile per aiutare anche il nostro pianeta, in quanto riduce il consumo di materie prime, l’utilizzo di energia e l’emissione dei gas serra associati. Bologna: rugby vero dietro le sbarre, in palio trofeo Illumia dire.it, 29 settembre 2018 Una partita simbolica per dimostrare la bontà di un progetto e giocarsi una seconda possibilità grazie alla palla ovale. Per questo domani scenderanno in campo, tra le mura della Casa circondariale della Dozza, gli atleti-detenuti del Giallo Dozza, la squadra di rugby composta solo da persone dietro le sbarre. Domani pomeriggio infatti alle 14.30 si sfideranno, nella terza edizione del Trofeo di rugby Illumia, con la compagine toscana Valdisieve Rugby. Una partita secca “che vinceremo sicuramente”, pronostica Stefano Cavallini, presidente dell’associazione Giallo Dozza Bologna rugby, tra il serio e il faceto, perché comunque la competizione c’è: quella di domani, rimarca, sarà “una partita di rugby vera. L’aspetto competitivo nella rieducazione dei detenuti è assolutamente importante perché gli consente di cementare i rapporti al loro interno e fa sì che individui che stanno scontando la propria pena diventino un gruppo e una squadra. Se noi riusciamo a convincere loro che possono migliorare, ma anche la società che queste non sono persone da isolare, mettere in un angolo e dimenticarsene bensì risorse che possono essere recuperate alla vita sociale, credo che abbiamo raggiunto il nostro obiettivo”. Il rugby come occasione di riscatto è un progetto nato ormai quattro anni fa, quello del Giallo Dozza, una squadra che per forza di cose può giocare solo dietro le sbarre e ospitare gli avversari. Il rugby come forma di riscatto: una soluzione che pare funzionare, dato che da quando si è formata la squadra il tasso di recidiva di chi ne ha fatto parte ed esce dal carcere è pari a zero. “Sbagliare non è l’ultimo giudizio su di te, meglio non farlo, ma dal momento in cui succede potrebbe essere un punto di partenza per imparare”, aggiunge Marco Bernardi, presidente di Illumia, che rivendica l’origine sociale, prima che sportiva, del progetto. Un progetto fin dall’inizio proposto e sostenuto anche da Illumia, la società fornitrice di gas ed energia, che ha ospitato la conferenza stampa di presentazione dell’evento, che Matteo Carassiti, socio dell’azienda bolognese, non esita a definire “di grande interesse” e “molto coraggioso e complesso. Il fatto di essere associati a questa iniziativa ci rende molto orgogliosi”. Progetto che, tra l’altro, sta facendo scuola, perché come afferma lo stesso Carassiti è in corso d’opera una convenzione con la Federazione italiana rugby per estenderlo sul territorio nazionale. La prova che “il modello si sta rivelando vincente, tale da essere replicato in tutta Italia”. Al momento la squadra conta 30 atleti, di cui tre italiani, mentre gli altri provengono “dal Maghreb, dall’Albania, dall’Est Europa”. Inoltre, a seguito dell’iniziativa di domani alla Dozza, sempre nella sede di Illumia l’11 ottobre verrà proiettato il docu-film di Enza Negroni “La prima meta” incentrato proprio sulla vicenda del Giallo Dozza, a cui potrebbero assistere, previa disponibilità del carcere, “anche un paio di detenuti”. Asti: dalle porte del carcere alle porte di calcio, un progetto di Effatà e Asc atnews.it, 29 settembre 2018 Da luglio a settembre nella Casa di Reclusione di Quarto si è svolto il torneo di calcio a otto tra le sei sezioni dei detenuti. Il progetto coordinato dall’associazione di volontariato Effatà è stato possibile grazie agli arbitri della sezione provinciale dell’Ente di Promozione Sportiva A.S.C. (Attività Sportive Confederate) che ha dato la propria disponibilità per dirigere le partite nel campo presente all’interno della struttura. Sono stati oltre i 25 confronti tra le sezioni hanno visto gli arbitri Berlinghieri, Zanforlin, Ocello, Mazzeo, Bergamo, Vaporetti alternarsi al mattino nell’offrire la loro disponibilità per dare maggior autorevolezza allo svolgersi delle partite stesse. “Quest’esperienza si inquadra in un progetto più ampio che prevede la partecipazione della comunità esterna, individuando la possibilità di uno scambio tra popolazione detenuta e popolazione libera, finalizzato alla rieducazione e al reinserimento, dove e quando sarà possibile, dei detenuti nella società” spiegano gli educatori che operano all’interno della Casa d Reclusione. In precedenza, a giugno, un’altra partita, arbitrata dall’arbitro Trevisani, sempre dell’A.S.C. aveva visto confrontarsi una rappresentativa dei detenuti con una squadra in rappresentanza degli studenti dell’Istituto Giobert. Caritas-Migrantes: “serve un nuovo linguaggio per parlare dei migranti” di Patrizia Caiffa agensir.it, 29 settembre 2018 Presentata ieri a Roma da Caritas italiana e Fondazione Migrantes la XXVII edizione del Rapporto Immigrazione, con cifre e considerazioni sulla narrazione del fenomeno migratorio in Italia, “sempre più correlata agli eventi di natura politica che coinvolgono il Paese”. In Italia spicca la necessità di “un nuovo linguaggio per le migrazioni”, a causa di meccanismi di disinformazione che non offrono una narrazione corretta del fenomeno. Per fronteggiare quella che chiamano una “emergenza culturale”, Caritas italiana e Fondazione Migrantes diffondono oggi la XXVII edizione del Rapporto Immigrazione, con cifre e considerazioni. Se ne parla di più ma male. Il monitoraggio delle notizie riguardanti l’immigrazione apparse nei telegiornali di prima serata delle reti Rai, Mediaset e La7 rivela che in dodici anni i riferimenti all’immigrazione sono aumentati di oltre dieci volte, passando dalle 380 notizie del 2005 alle 4.268 del 2017. C’è una correlazione fra l’aumento di interesse mediatico verso i flussi migratori diretti verso l’Italia e gli eventi di natura politica che coinvolgono il Paese. “Colpisce constatare che la sensazione di minaccia alla sicurezza e all’ordine pubblico ricondotta all’immigrazione sperimenta dal 2013 una crescita costante”: nel corso del 2017 i telegiornali di prima serata si soffermano per lo più sui flussi migratori (40%), riservando quasi la metà delle notizie ai numeri e alla gestione degli sbarchi sulle coste italiane. Il 34% dei servizi tele-giornalistici è dedicato a questioni che mettono in relazione immigrazione, criminalità e sicurezza. Al terzo posto c’è il racconto dell’accoglienza, al quale nel 2017 è riservato l’11% delle notizie. In Italia -80% sbarchi nel 2018. L’Italia, con 5.144.440 immigrati regolarmente residenti sul proprio territorio (8,5% della popolazione totale residente in Italia) si colloca al 5° posto in Europa e all’11° nel mondo. Secondo l’Unchr tra il 1° gennaio e il 31 agosto 2018 è sbarcato in Italia l’80% di migranti in meno rispetto allo stesso periodo del 2017. Le comunità straniere più consistenti sono quella romena (1.190.091 persone, pari al 23,1% degli immigrati totali), quella albanese (440.465, 8,6%) e quella marocchina (416.531, 8,1%). Il maggior numero di cittadini stranieri è in Lombardia (1.153.835, pari all’11,5% della popolazione totale), il Lazio (679.474, 11,5%), l’Emilia-Romagna (535.974, 12%), il Veneto (487.893, 10%) e il Piemonte (423.506, 9,7%). Le province con più stranieri sono Roma (556.794, 12,8%), Milano (459.109, 14,2%), Torino (220.403, 9,7%), Brescia (156.068, 12,4%) e Napoli (131.757, 4,3%). Lavoro, scuola, famiglia. In Italia gli occupati stranieri sono 2.430.000, di cui il 67,3% extra-Ue. Gli stranieri in cerca di occupazione sono 415.229, gli inattivi stranieri 1.255.187. Nell’anno scolastico 2016-2017 gli alunni stranieri nelle scuole italiane sono 826.091 (di cui 502.963 nati in Italia, pari al 60,9%), in aumento rispetto all’anno scolastico 2015-2016 di 11.240 unità (+1,4%). Nell’anno scolastico 2016-2017, la scuola primaria accoglie la maggiore quota di alunni stranieri: 302.122, il 36,6% del totale. La maggiore incidenza è nelle regioni del nord. Quelli che vivono in Italia da più tempo mettono su famiglia: nel corso del 2016 sono stati celebrati 25.611 matrimoni con almeno uno dei coniugi straniero (12,6% del totale dei matrimoni), in leggero aumento rispetto al 2015 (+0,2%). Nel 56,4% dei casi si tratta dell’unione fra uno sposo italiano e una sposa straniera. A fine 2017 i bambini nati da genitori entrambi stranieri risultano 67.933 (14,8% del totale delle nascite). I dati Istat relativi al bilancio demografico nazionale confermano l’aumento dei nuovi cittadini italiani già rilevato negli anni precedenti e che ha condotto l’Italia nel 2015 e nel 2016 ad essere al primo posto tra i Paesi UE per numero di acquisizioni di cittadinanza. Al 31 dicembre 2017, su un totale di 146.605 acquisizioni di cittadinanza di stranieri residenti, il 50,9% riguarda donne. Tali acquisizioni, rispetto alla stessa data del 2016, sono diminuite (-27,3%). Povertà e salute. L’incremento della povertà rispetto alla base di riferimento (il 2010) ha riguardato i cittadini stranieri appartenenti a Paesi dell’Unione europea: dal 35,4% al 48,5% (+13,1% in 7 anni). Seguono i cittadini originari di Paesi non-Ue, presso i quali l’incidenza del rischio di povertà è passata dal 43,5% al 54% (+10,5%). Tra gli italiani l’aumento del rischio di povertà è stato meno rilevante, passando dal 20,8% del 2010 al 26,1% del 2016 (+5,3%). Nel corso del 2016 le persone accolte ed accompagnate presso i Centri di ascolto della Caritas sono state 205.090, compresi i quasi 16 mila profughi ascoltati dalla sola diocesi di Ventimiglia-Sanremo. Tra gli stranieri prevalgono marocchini (19,2%) e romeni (13,6%). Dal punto di vista sanitario, la salute dei migranti si va sempre più caratterizzando “per condizioni di sofferenza dovute ad accoglienza inadeguata, fragilità sociale e scarsa accessibilità ai servizi”. I dati al 2016, anno record di sbarchi, non modificano il trend degli ultimi anni, e cioè una diminuzione dei casi di malattie infettive, come Tbc e Aids. Devianza. Al 31 dicembre 2017 la popolazione carceraria conta 19.745 detenuti stranieri tra imputati, condannati e internati. Rispetto allo stesso periodo del 2016, quando gli immigrati erano 18.621, si registra un incremento del +6%. Rimane inalterata, tuttavia, l’incidenza della componente estera sul dato complessivo della popolazione carceraria, ancora ferma al 34%. Prevale la componente africana, che da sola rappresenta la metà dei detenuti stranieri, con 9.979 persone (il 50,5%). Preoccupa l’aumento di bambini al seguito delle detenute: 56 accanto a 51 donne, di cui 30 bambini stranieri. Dei 20.313 minori e giovani adulti presi in carico nel 2017 dagli Uffici di servizio sociale per i minorenni, gli stranieri sono 5.302 (26%). Nella tipologia dei delitti commessi dagli stranieri prevalgono i reati contro il patrimonio (9.222), seguiti dai reati in materia di stupefacenti (7.430), contro la persona (7.151), contro la pubblica amministrazione (3.061). I dati mostrano come, “a parità di reato, gli italiani entrano meno facilmente in carcere rispetto agli stranieri, i quali beneficiano in maniera difforme delle misure alternative per l’espiazione della pena”. Religione. Secondo la Fondazione Ismu su un totale di 5.144.440 stranieri residenti in Italia al 1° gennaio 2018, i musulmani sono poco meno di 1 milione e mezzo, pari al 28,2% del totale degli stranieri. I cristiani complessivamente sono il doppio, quasi 3 milioni, in aumento di circa 50 mila unità negli ultimi due anni. Ne consegue che, nel complesso, il 57,7% dei cittadini stranieri residente in Italia è cristiano. Nell’Ue 38,6 milioni di cittadini stranieri, 12 milioni in Germania. Nel 2017 sono 38,6 milioni i cittadini stranieri residenti nell’Unione europea (30,2% del totale dei migranti a livello globale). Il Paese europeo che nel 2017 ospita il maggior numero di migranti è la Germania (oltre 12 milioni), seguita da Regno Unito, Francia e Spagna. Secondo i dati Eurostat nel 2016 gli stranieri residenti che hanno acquisito la cittadinanza nell’area dei Paesi Ue-28 sono 994.800, con un aumento, rispetto al 2015, del 18,3%. Nel mondo 257,7 milioni di persone non vivono nel Paese di origine. Dal 2000 al 2017 il numero delle persone che hanno lasciato il proprio Paese di origine è aumentato del 49%. Nel 2017 i migranti rappresentano il 3,4% dell’intera popolazione mondiale, rispetto al 2,9% del 1990. Nel 2017 l’Asia ospita il 30,9% dei migranti mondiali, seguita da Europa (30,2%), America del Nord (22,4%), Africa (9,6%), America Latina (3,7%) e Oceania (3,3%). Secondo le stime dell’Organizzazione internazionale delle migrazioni nel 2015 la quota dei migranti irregolari sul totale dei flussi internazionali ammonta al 10-15%. Il caos immigrazione rovina anche chi ci lavora di Nina Valoti Il Manifesto, 29 settembre 2018 Ricerca Fp Cgil-Fondazione Di Vittorio. In Italia sono ben 65mila gli operatori dei servizi pubblici legati al settore. Pagano un sistema emergenziale con precarietà, organizzazione zero ed esaurimento. Sono quelli che lavorano in prima linea, che conoscono meglio la realtà e i problemi dell’immigrazione. Ma non vengono mai ascoltati e non hanno voce. Sono i 65mila operatori impegnati nel segmento di soccorso, accoglienza e integrazione: dai centri di identificazione, alle Ong, dai medici a chi lavora negli Sprar. Tante mansioni diverse - solo le forze dell’ordine non sono comprese - che quotidianamente vivono l’”emergenza”. La Fp Cgil ha per la prima volta voluto dare voce a queste persone con una ricerca svolta assieme alla Fondazione Di Vittorio, dal titolo “La condizione delle lavoratrici e dei lavoratori dei servizi pubblici per l’immigrazione”. Un lavoro presentato nella tre giorni di Palermo per l’iniziativa continentale “UeCare - L’Europa Solidale” in cui sono stati riuniti tutti i sindacati europei che rappresentano i lavoratori dei servizi pubblici per l’immigrazione. Dalla diretta testimonianza dei lavoratori emerge come, spiega la ricerca, “l’Italia sia ormai stabilmente un Paese di migrazioni ma che non ha mai abbandonato la logica dell’emergenza”. Non sembra, infatti, “che il sistema dei servizi per l’immigrazione si sia adattato a questo scenario inedito per rispondere ai nuovi bisogni dell’integrazione, ad esempio rafforzando sia i servizi di accoglienza (per la quota di nuovi ingressi di persone richiedenti o beneficiarie di protezione internazionale) sia rispetto all’inclusione sociale e all’integrazione della componente di immigrati legalmente residenti da tempo, i quali per gran parte risultano “lungo soggiornanti” se non in procinto di ottenere la cittadinanza italiana”. Il sistema italiano dei servizi per l’immigrazione, si rileva nel report Fp Cgil e Fdv, “è il risultato di una incessante opera di collage e stratificazione di interventi, anche eterogenei tra di loro. Il mancato superamento della logica dell’emergenza ha reso particolarmente fragile la ricerca di una connessione coerente tra i vari livelli di intervento, a scapito dell’efficienza complessiva del sistema, nonché dei diritti di lavoratori e dei destinatari dei servizi”. Le attività di accoglienza e integrazione si occupano di persone spesso provate da viaggi drammatici e in fuga da esperienze di violazione dei diritti umani. In un contesto di criticità e lacune dei servizi per l’immigrazione, gli utenti rischiano di vedere vanificati gli sforzi degli operatori a causa di un sistema che può produrre una spirale di esclusione: “marginalità, disagio sociale, irregolarità, e di conseguenza “paura” e rancore nella popolazione”. Sono quindi vittime di uno stigma sociale anti immigrati che ne complica le prestazioni e sono inseriti in un sistema di servizi che fatica a fare rete, schiacciato dalla perdurante logica dell’emergenza. Le conseguenze sono presto dette: “precarietà, elevata età media, fenomeni di burn-out (esaurimento da lavoro, ndr) e scarsa organizzazione”. La tre giorni di Palermo di discussione fra i rappresentanti dei sindacati dei servizi pubblici per l’immigrazione ha portato alla sottoscrizione della “Dichiarazione di Palermo” il cui obiettivo è spingere l’Europa ad adottare una politica unica sulla migrazione che metta al centro la solidarietà e i lavoratori stessi. Libia. Liberati prigionieri da un carcere, si presume vi fossero violati i diritti dell’uomo L’Osservatore Romano, 29 settembre 2018 Le autorità libiche hanno annunciato ieri aver liberato 83 prigionieri che erano detenuti in una prigione controllata da una milizia salafita vicino a Tripoli, dove si presume venissero esercitate violazioni dei diritti dell’uomo. Secondo il portavoce del governo di unione nazionale, Mohamad al-Sallak, “83 prigionieri sono stati liberati dalla prigione di Mitiga in coordinamento con la procura della Repubblica e il ministero della giustizia”. In tutto, si tratta di 120 persone, detenute nei centri ispezionati, dalle autorità, che “sono state rilasciate il 26 e 27 settembre, alcune avevano scontato la loro pena e altre avevano superato i tempi di detenzione previsti per i reati per cui erano stati condannate”, lo precisa un comunicato del procuratore generale. Secondo le autorità giudiziarie, i detenuti implicati in attività di terrorismo, omicidi, banditismo e traffico di droga non fanno parte dei prigionieri rilasciati. Il centro di detenzione di Mitiga, dove sono ammassate migliaia di persone, è controllato dalla Forza di dissuasione, una milizia salafita ultraconservatrice che funge da forza di polizia a Tripoli arrestando jihadisti e delinquenti. Una milizia criticata per i suoi metodi repressivi e ritenuta dalle Ong e dalla comunità internazionale colpevole di violazioni dei diritti dell’uomo. Già nello scorso aprile, l’Onu indicava in un documento di aver rilevato “detenzioni arbitrarie, casi di tortura e isolamento prolungato, esecuzioni sommarie”. Situato su una base aerea militare in disuso, in cui si trova anche l’unico aeroporto operativo di Tripoli, il centro di detenzione è regolarmente attaccato da gruppi armati rivali, provocando a ogni scontro la chiusura del traffico aereo. La pressione esercitata sul governo per ridurre l’influenza di questi gruppi armati rivali si è accentuata dopo i recenti scontri tra milizie nei dintorni di Tripoli. Queste liberazioni intervengono nella serie di provvedimenti lanciati dal governo in risposta alle accuse di essere ostaggio delle milizie che dettano legge nella capitale. Il rilascio dei prigionieri è stato accolto con soddisfazione dalla missione dell’Onu in Libia che invita il governo libico a vagliare un’altra serie di liberazioni di persone detenute arbitrariamente o che hanno già scontato la loro pena. Albania. “Ashraf 3”, la cittadella degli oppositori iraniani che fa paura al regime di Elisabetta Zamparutti Il Dubbio, 29 settembre 2018 L’Albania apre le porte ai mujaheddin del popolo, in lotta da 40 anni con Teheran. L’abbiamo chiamata “Ashraf 3”, la cittadella che i 3.000 mujaheddin del popolo iraniano hanno costruito in poco più di otto mesi nei pressi di Tirana in Albania. Sono le donne e gli uomini che hanno combattuto per la libertà in Iran dalla presa del potere da parte dei Mullah nel 1979 fino ad oggi. Le loro sono storie dure, difficili perfino da raccontare. Spina nel fianco di Teheran, si erano rifugiati in circa 6.000 in Iraq a campo Ashraf prima e poi a campo Liberty. In questi campi hanno vissuto costantemente sotto assedio, dopo la caduta di Saddam Hussein, da parte degli sciiti iracheni alleati dell’Iran nonostante le promesse delle Nazioni Unite e degli Stati Uniti di garantirne protezione e sicurezza. Finché l’Albania, con un ruolo importante del Ministro Pandeli Majko, ha offerto loro quella soluzione che la comunità internazionale da anni andava cercando, accogliendo tutti i 3000 sopravvissuti che godono dello status di rifugiato politico. Nessuno tocchi Caino ed il Partito Radicale hanno seguito passo passo le vicissitudini degli appartenenti a questa organizzazione, nutrendo speranza quando tutto sembrava crollare loro addosso, essendo stati addirittura inseriti nella lista delle organizzazioni terroristiche da cui poi sono usciti grazie ad una rigorosa battaglia giudiziaria e politica. Eravamo quindi emozionati, Sergio d’Elia ed io, da molto tempo al fianco della Resistenza iraniana, con Rita Bernardini, Maria Antonietta Farina Coscioni, Mattia Moro, Cristiana Pugliese e Tiziano Giardiello, quando abbiamo varcato il cancello d’ingresso di Asharf 3 “custodito” ai due lati da una statua raffigurante un leone, simbolo classico, insieme alla spada, dell’Iran. Su un vasto terreno che i mujaheddin del popolo iraniano hanno messo assieme negoziando l’acquisto di ogni singolo appezzamento con i vari proprietari, c’è tutto, o quasi. Ci sono gli edifici ad un piano per i residenti: blocchi rettangolari bianchi con gli infissi dipinti di rosso, sparsi lungo tutta la collina; ci sono le strade di collegamento in corso di ultimazione perché devono ancora essere asfaltate; le ampie cucine dove vengono preparati pranzo e cena; il panificio con macchinari che portano i segni di una storia pluridecennale e poi c’è la redazione televisiva e dei social media. Se l’età media dei residenti che finora abbiamo incontrato si aggira sui 60 anni, ad accoglierci in questo studio c’è invece un gruppo di ragazzi sui trent’anni. Parlano inglese, molti di loro hanno studiato in America. Ci spiegano come raccolgono il materiale video delle manifestazioni anti regime in Iran, i rischi che si corrono nel fare le riprese o nel partecipare alle manifestazioni stesse, quanto sia estesa la rivolta che ormai vede coinvolto tutto il Paese e ci mostrano anche le immagini dei manifesti raffiguranti Maryam Rajavi, leader della resistenza iraniana, che qualcuno riesce ad appendere sui cavalcavia o sui muri in Iran. Sono due i ragazzi che ci danno queste informazioni ed entrambi hanno perso i genitori: il primo, ha perso il padre sotto i bombardamenti americani e l’altro è l’unico sopravvissuto, insieme alla sorella, allo sterminio della sua famiglia da parte del regime, alcuni morti nel massacro di 30mila prigionieri politici compiuto dagli Ayatollah nel 1988 e altri freddati per strada. E le storie che ascoltiamo quando passiamo a visitare il centro clinico non sono diverse. Il medico che ci accompagna nel reparto dentistico ci racconta di quanto difficile fosse la vita a Teheran, di come la misoginia arrivasse a vietare perfino le feste tra bambini e bambine e questo nonostante lui appartenesse ad una famiglia agiata con i fratelli a Los Angeles che gli dicevano di raggiungerli negli Stati Uniti e di lasciare il Paese. Questo medico dentista il Paese poi lo ha effettivamente lasciato, ma per unirsi alla resistenza iraniana. E quando terminiamo la visita al centro clinico ci riuniamo con una cinquantina di loro in una sala luminosa e ripercorriamo le tappe della nostra lunga amicizia durante la quale non è potuto mancare il ricordo di Marco Pannella. Ali, uno dei sanitari, racconta di quando negli anni 70 raccoglieva a Roma le firme su una petizione a Piazza Montecitorio e descrive Marco che usciva di corsa dalla Camera dei Deputati per andare ad un appuntamento a cui era in ritardo, scusandosi con lui per non avere il tempo di ascoltarlo salvo poi bloccarsi poco più avanti e tornare in dietro per chiedere su cosa stesse raccogliendo le firme e decidere, ovviamente, di sottoscrivere l’appello. Come formiche operose questa gente continua a lavorare tra gru e scavatrici, continua a costruire o ultimare le varie opere ancora incompiute, come le infrastrutture o il centro congressi, in attesa di piantare degli alberi. È gente che dà l’idea di quanto e di quello che potrà fare una volta ritornata in un Iran liberato dagli oppressori, i mullah che opprimono dentro e fuori dal Paese. Perché l’Iran non perseguita solo il proprio popolo, negando loro i più basilari diritti umani e continuando a primeggiare per numero di esecuzioni capitali in rapporto alla popo- lazione anche sotto la presidenza del “moderato” Rouhani. Come ci spiegano alcuni residenti appena entriamo ad Ashraf 3, l’Iran ha inviato presso la propria ambasciata in Albania uomini di punta dei propri servizi di intelligence, ad esempio Mostafa Roodaki primo segretario d’ambasciata e veterano del Ministero dell’Intelligence al pari di Gholam Hossein Mohammadnai designato ambasciatore nel 2016 durante le operazioni di accoglienza in Albania dei mujaheddin del popolo iraniano o Mullah Ahmad Hosseini Alast addetto culturale dell’ambasciata iraniana in Albania, direttamente legato all’ufficio di Khamenei ed implicato in atti di cospirazione in Albania e nei Balcani. D’altro canto che ci fossero problemi di sicurezza ne avevamo avuto sentore durante le operazioni di ingresso al Ministero dove, il giorno prima, abbiamo incontrato Pandeli Majko che ormai, insieme alla sua famiglia, vive sotto scorta per le minacce ricevuta dal regime iraniano. Per noi questa non è una novità, avendo scampato lo scorso 30 giugno a Parigi l’attentato terroristico che aveva di mira la Convention della resistenza iraniana a cui eravamo presenti tra le decine di migliaia di sostenitori e figure politiche di primissimo piano tanto americane che europee, attentato sventato e conclusosi con l’arresto di un funzionario iraniano di stanza presso l’Ambasciata a Vienna, quella stessa ambasciata dove lavorava fino a qualche anno fa l’agente Mostafa Roodaki oggi assegnato a Tirana. Non c’è da aspettarsi sviluppo e prosperità, almeno per come lo intendiamo noi, da parte di chi finanzia Hezbollah in Libano con 700 milioni di dollari l’anno; i gruppi affiliati in Siria, Yemen e Iraq, con 16 miliardi; i gruppi palestinesi, come Hamas e la Jihad Islamica Palestinese con 100 milioni di dollari annui per non parlare degli almeno 4,6 miliardi di dollari di linee di credito alla Siria. Dunque l’Iran è una minaccia per tutti, iraniani e non. Nessun Governo può oggi evitare di confrontarsi con la questione iraniana e scegliere da che parte stare. L’Italia e l’Unione europea hanno scelto la via dell’accondiscendenza con il regime e oggi assistono inerti ad una rivolta massiccia del popolo iraniano contro quel regime che si è andato ulteriormente incancrenendo con un’aggressività che non conosce confini e non risparmia nessuno. L’Albania ha scelto di accogliere i mujaheddin del popolo iraniano, ha scelto cioè un’alternativa democratica possibile all’attuale stato di cose. Filippine. Il presidente Duterte reo confesso per le esecuzioni extragiudiziali di Riccardo Noury Corriere della Sera, 29 settembre 2018 “Ang kasalanan ko lang, yung mga extrajudicial killing”. Traduzione: “Il mio unico peccato sono le esecuzioni extragiudiziali”. Questa ammissione di responsabilità il presidente filippino Rodrigo Duterte (nella foto) l’ha fatta il 27 settembre intervenendo a una riunione del governo. Ha anche minacciato di “dare una botta in testa” a Fatou Bensouda, procuratrice generale del Tribunale penale internazionale. Il portavoce di Duterte, Harry Roque, ha tentato di mettere una pezza alla vicenda, spiegando che il presidente “stava scherzando” e che il vero senso delle sue parole era che le esecuzioni extragiudiziali erano l’unico addebito che viene fatto alla sua amministrazione. Dal 1° luglio 2016 al 31 agosto 2018, secondo dati ufficiali, la “guerra alla droga” promessa da Duterte in campagna elettorale e puntualmente avviata una volta salito alla presidenza, ha fatto 4854 morti. Secondo i gruppi filippini per i diritti umani, il numero effettivo potrebbe essere tre volte più alto. Più che una guerra alla droga, è a tutti gli effetti una “guerra ai poveri”. Si tratta di esecuzioni vere e proprie, pianificate e organizzate ai più alti livelli dello stato: il Tribunale penale internazionale se ne sta interessando in quanto possibili crimini contro l’umanità. La “confessione” di Duterte non farà altro che accrescere questo interesse. Iran. Condannati perché cristiani: 45 anni di prigione per quattro iraniani di Sara Ficocelli La Repubblica, 29 settembre 2018 Il Tribunale rivoluzionario di Teheran ha condannato Victor Bet-Tamraz, Amin Afshar-Naderi, Shamiram Issavi e Hadi Asgari a 10 anni di carcere con l’accusa di “formare un gruppo composto da più di due persone allo scopo di interrompere la sicurezza nazionale”. L’appello di Amnesty International. Presi di mira per l’esercizio pacifico dei loro diritti alla libertà di religione e credo, espressione e associazione; condannati perché cristiani e praticanti: è questa la colpa di Victor Bet-Tamraz, Amin Afshar-Naderi, Shamiram Issavi e Hadi Asgari, arrestati a Teheran dopo che forze di sicurezza in borghese hanno fatto irruzione nelle loro abitazioni durante un raduno natalizio privato. I quattro sono stati condannati nel mese di luglio 2017 con l’accusa di “formare un gruppo composto da più di due persone allo scopo di interrompere la sicurezza nazionale”. Chiesti complessivamente 45 anni di carcere. Per loro - accusati di aver organizzato e condotto messe in casa e di aver viaggiato fuori dall’Iran per partecipare a seminari cristiani, prove che hanno fatto scattare il reato di “minaccia alla sicurezza nazionale” - sono stati chiesti complessivamente 45 anni di carcere. Al momento Yousef Nadarkhani è in carcere, mentre gli altri tre sono liberi su cauzione. Tutti sono in attesa del verdetto del tribunale d’appello. Amin Afshar-Naderi è stato condannato a ulteriori cinque anni di prigione per “aver offeso le santità islamiche” con un post satirico su Facebook condiviso dall’account di qualcun altro. L’appello di Amnesty International. “Nel post - scrivono gli operatori di Amnesty International, che hanno lanciato un appello per annullare la condanna - si adottava uno stile di scrittura coranica per commentare il forte aumento del prezzo del pollo in Iran”. Il ministro ordinato Victor Bet-Tamraz e la sua famiglia sono stati perseguitati dalle autorità iraniane per anni per aver praticato la loro fede. Nel marzo 2009, la chiesa pentecostale assira di Teheran, che Victor Bet-Tamraz stava conducendo, è stata forzatamente chiusa dal Ministero degli interni perché svolgeva funzioni in lingua persiana. Anche il figlio di Victor Bet-Tamraz, Ramiel Bet-Tamraz, è stato preso di mira: è stato arrestato durante un picnic il 26 agosto 2016 nella città di Firuzkuh, insieme ad altri quattro cristiani, da funzionari del ministero dell’Intelligence. La condizione dei cristiani in Iran. L’Iran è sede di diverse confessioni cristiane, tra cui cristiani cattolici, protestanti, ortodossi armeni e assiri (caldei). I cristiani sono una delle poche minoranze religiose ufficialmente riconosciute nella costituzione del Paese. Tuttavia, la costituzione prevede solo protezioni limitate per loro, mentre ai convertiti cristiani non viene fornita alcuna tutela in base alla legge: questo implica che i cristiani in Iran siano spesso bersaglio di molestie, arresti e detenzioni arbitrarie, processi iniqui e reclusione per accuse relative alla sicurezza nazionale, unicamente a causa della loro fede. Solo nell’ultimo anno sono stati presi di mira dozzine di persone, per la maggior parte cristiani convertiti.