Approvato in via definitiva il Decreto di riforma dell’Ordinamento penitenziario di Antonio Ciccia Messina Italia Oggi, 28 settembre 2018 Per i carcerati minimo 4 ore d’aria. Garantita più libertà per i colloqui con il proprio legale. Il Consiglio dei ministri ha approvato in via definitiva il Decreto Legislativo di riforma dell’ordinamento penitenziario. Libertà di colloquio con il proprio avvocato fin dall’inizio della esecuzione della misura e della pena e minimo di quattro ore all’aperto. Sono due aspetti del cambiamento della vita in carcere per detenuti e internati. È quanto prevede il Dlgs sull’ordinamento penitenziario, approvato definitivamente ieri dal consiglio dei ministri. Il provvedimento attua la legge 103/2017 e si occupa delle modalità dei trattamenti restrittivi. In primo piano viene posta l’esigenza di formare al lavoro le persone ospiti degli istituti. L’idea è che le basi del futuro reinserimento si costruiscono con l’agevolazione di percorsi di istruzione e di formazione professionale. Assistenza sanitaria. Estesi i casi in cui i detenuti possono chiedere visite, interventi e terapie a loro spese Pene accessorie. In caso di applicazione di una misura alternativa alla detenzione sono messe in esecuzione anche le pene accessorie, che attualmente sono rinviate alla conclusione della misura alternativa. Questo, salvo diversa decisione del giudice, che può sospendere l’esecuzione delle pene accessorie. Valutazione del detenuto. Prevista la valutazione della personalità del detenuto prima di concedergli l’affidamento in prova: la valutazione deve basarsi sull’osservazione della personalità per almeno un mese. Il decreto, inoltre, affida alla polizia penitenziaria i controlli sul rispetto delle prescrizioni impartite con la misura alternative alla detenzione. Tanti gli interventi in materia di vita penitenziaria. Per la permanenza all’aperto si passa a un minimo di quattro, salvo riduzioni per giustificati motivi. Formazione professionale. Le nuove norme enfatizzano l’importanza di imparare un mestiere al fine del reinserimento sociale. Viene incentivata anche la partecipazione a progetti di pubblica utilità, che insieme alla formazione diventano elementi costitutivi del trattamento penitenziario. Si introduce la possibilità di effettuare colloqui con l’avvocato senza limiti fin dall’inizio dell’esecuzione della pena. Lo stesso per i colloqui con il Garante dei detenuti. Quanto agli incontri con i familiari, si dice che deve essere favorita una dimensione riservata, con particolare attenzione se avvengono con minori di 14 anni. Previsto convenzioni con scuole superiori ed università per favorire il compimento di studi. Il criterio prioritario è l’assegnazione dei detenuti alle sedi carcerarie più vicine alla residenza della famiglia o alla sede dei suoi interessi. Il detenuto, privo di residenza, è iscritto nei registri del comune dove è situato il carcere. Stop ai servizi igienici in vista Locali carcerari adeguati a standard igienico-sanitari: riscaldamento e acqua calda nelle docce e stop a servizi igienici a vista. È quanto prevede il Dlgs su vita detentiva e lavoro in carcere, approvato definitivamente ieri dal Consiglio dei ministri. Il provvedimento attua la legge 103/2017 e si occupa dei locali e delle modalità di adibizione ad attività lavorative e lavori di pubblica utilità. Deve comprendere locali per lo svolgimento di attività lavorative, formative e se possibile anche cultural, sportive e religiose. I locali dove i detenuti pernottano possono essere anche di più posti; in quest’ultimo caso bisogna usare particolare cura nella collocazione delle persone. Ciascun detenuto, comunque, deve avere un corredo adeguato per il proprio letto. I locali devono rispondere a requisiti igienico-sanitari e quindi illuminati con luce naturale e artificiale, riscaldati in relazione alle necessità climatiche e tenuti in buono stato di conservazione e pulizia. Si prevede l’eliminazione dei servizi igienici a vista. Inoltre si aggiunge che almeno le docce siano sempre dotate di acqua calda. Si scrive, però, una norma transitoria, al fine di consentire dare tempo per interventi di edilizia penitenziaria: la norma è efficace dal 31 dicembre 2021. Si specifica che l’amministrazione penitenziaria può organizzare e gestire attività di produzione di beni e servizi sia all’interno sia all’esterno del carcere. Si aggiunge la possibilità di vendere i prodotti delle lavorazioni penitenziarie. Nella relazione illustrativa si fa riferimento, a titolo esemplificativo, alla manutenzione del verde comunale o alla sistemazione degli archivi giudiziari. Il lavoro non può, comunque, costituire un obbligo, ma è da incentivare ai fini delle prospettive di risocializzazione. Le norme prevedono la disciplina e le modalità per l’avviamento al lavoro, anche mediante rotazione tra i detenuti, se i posti non sono sufficienti per tutti. Si promuove anche l’attività di “autoconsumo”, che ha una sua rilevanza in relazione agli spazi agricoli a disposizione dell’amministrazione penitenziaria, che possono essere utilizzati per produrre generi alimentari per il consumo o per la vendita, negli spacci aziendali dell’amministrazione penitenziaria. In ogni caso il lavoro penitenziario non deve carattere afflittivo ed è remunerato. Quanto alla remunerazione si prevede che sia pari a due terzi del trattamento economico previsto dai contratti collettivi. Per favorire il lavoro le carceri possono sottoscrivere convenzioni con soggetti pubblici privati e cooperative. Per ragioni di trasparenza si prevede che le proposte di convenzione devono essere pubblicate sul sito istituzionale dell’amministrazione penitenziaria. Si prevede, infine, che l’amministrazione penitenziaria debba rendere disponibile a favore dei detenuti il servizio di assistenza per ottenere prestazioni assistenziali e previdenziali e l’erogazione dei servizi previsti per i lavoratori. I detenuti ed internati possono essere adibiti, su loro richiesta, a lavori di pubblica utilità. I lavori possono essere svolti anche all’esterno, tranne che per i condannati per mafia. La casa degli innocenti non deve avere sbarre di Rossana Linguini Gente, 28 settembre 2018 Bambini in carcere. Intervista al ministro della Giustizia Alfonso Bonafede. Alice, detenuta-mamma rinchiusa in carcere assieme ai due figlioletti, aveva straziato i suoi piccoli da meno di tre ore quando il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede ha lasciato il suo ufficio di via Arenula per precipitarsi a Rebibbia. “Appena ho saputo che erano coinvolti bambini piccolissimi ho avuto due pensieri”, ci spiega il Guardasigilli. “Il primo era di dispiacere immenso per la tragedia in sé, il secondo di incredulità: ma come è potuto accadere? Perché purtroppo non è raro che la cronaca ci metta davanti a drammi della follia o della disperazione dei genitori nei confronti dei loro figli, ma in questo caso si trattava di bambini che si trovavano in una struttura dello Stato. È diverso”. Che cosa è successo lì dentro? “Non posso scendere nei dettagli perché c’è un’indagine della magistratura in corso, ma se il giorno dopo i fatti dal ministero della Giustizia sono partiti provvedimenti di sospensione per i vertici della sezione femminile è evidente che io ho constatato che qualcosa non è andata come doveva andare”. Si riferisce a quel che ha denunciato il capo dell’Amministrazione penitenziaria Francesco Basentini, parlando di ripetute segnalazioni di sintomi di disagio da parte della detenuta e di richieste di accertamenti anche di tipo psichiatrico, rimaste senza risposta? “Ripeto: al di là dell’atto che è imputabile alla madre, bisogna capire quanti e quali segnali avesse dato prima la detenuta. Quel che mi preme che i cittadini capiscano è che quella sezione di Rebibbia è una struttura assolutamente all’avanguardia in Italia: il luogo in cui è avvenuta questa tragedia è un asilo nido a tutti gli effetti, in cui i bambini stanno con le mamme, a contatto con personale sanitario ed educativo, oltre che con gli agenti di Polizia penitenziaria. Guardi, la deve immaginare così”. Non ho bisogno di immaginarla, ministro, ci sono stata: nel 2011 Gente ha pubblicato un reportage su quella struttura. E sarà anche di eccellenza, ma è dietro le sbarre. E i bambini dietro le sbarre non ci dovrebbero stare: è d’accordo? ù “A me va bene affrontare il dibattito, però vorrei che fosse ben chiaro che non ha a che fare con questo specifico caso. Ho anche scritto un post molto duro su Facebook rivolto a politici, magistrati e sindacati che hanno parlato tanto della vicenda senza sapere cosa sia successo davvero. Detto questo, il problema delle mamme detenute con figli piccoli è molto delicato e noi ce ne stiamo occupando”. In che modo? “Intanto, mantenendo e cercando di migliorare la parte relativa alle mamme detenute che era contenuta nella riforma dell’ordinamento penitenziario fatta dal mio predecessore”. Nel testo dell’ex ministro Andrea Orlando si ampliavano le possibilità di ricorso alla detenzione domiciliare per le mamme-detenute: è così? “Certo, e noi vogliamo muoverci su questa linea: garantire un maggiore accesso alla detenzione domiciliare e avere più attenzione rispetto alla condizione tragica quale è quella in cui un bambino si ritrova a nascere da una mamma che si trova in carcere. Sempre salvaguardando l’aspetto della sicurezza dei cittadini, perché deve essere un giudice di sorveglianza a valutare quanto quella persona rappresenti una minaccia se sta fuori dal carcere, in un contesto di detenzione domiciliare. E a noi spetta far sì che, se il magistrato ritenga la detenzione necessaria a tutti gli effetti, ci siano tutte le garanzie perché il figlio della detenuta, che ha il diritto di stare vicino alla mamma, si trovi in una situazione più vicina possibile a una situazione normale”. Per questo la legge prevede gli Icam, istituti a custodia attenuata in cui i bambini dovrebbero patire meno lo stato di detenzione, o le case famiglia protette, in cui le detenute con figli fino a dieci anni e condanna non superiore a quattro possono scontare la propria pena senza sbarre... “Sì, premettendo che sono ministro soltanto da tre mesi, posso dire di aver constatato che si tratta di condizioni intermedie che rappresentano un sano bilanciamento di tutti i diritti in gioco, considerando prioritario quello dei bambini”. Però in Italia abbiamo solo cinque Icam e una, una sola casa famiglia a Roma. Ma come è possibile? “Il problema è che fondamentalmente in Italia tutta la parte post condanna è stata ignorata dallo Stato e gli unici interventi sulle carceri sono stati quelli fatti per sottrarsi alle sanzioni europee sul sovraffollamento carcerario. Quello che voglio fare io è investire su percorsi rieducativi del lavoro, per quanto riguarda gli adulti, e negli istituti di rieducazione, per quanto attiene ai minori. Bisognerà anche analizzare le problematiche che hanno impedito la realizzazione delle case famiglia e capire se si può investire in questo senso. E, come ho già detto, anche nel prendere in mano la riforma del mio predecessore voglio salvaguardare tutti gli aspetti che effettivamente guardano alla rieducazione e alla qualità della detenzione, con un’attenzione particolare alla condizione delle mamme detenute”. Ministro, lei su Facebook se l’è presa con chi ha parlato troppo di Rebibbia senza conoscere i fatti, ma invece il silenzio del premier Giuseppe Conte e dei suoi vicepremier Matteo Salvini e Luigi Di Maio su questa straziante vicenda non le è sembrato assordante? “No, ritengo che il governo si debba esprimere attraverso il ministro competente: immagino abbiano avuto rispetto nei confronti della situazione delicata che si è venuta a creare a Rebibbia. E abbiano voluto delegare al ministro della Giustizia, cioè a me, parole e fatti”. Quella madre e i suoi figli non dovevano essere in carcere di Irene Testa* Left, 28 settembre 2018 La Convenzione Onu sui diritti dell’infanzia è disattesa. Doveva dimettersi il ministro. Ci risiamo. Non vi è notizia se non si compie la tragedia. E c’è ora perlomeno da sperare che l’eco e lo sgomento della notizia durino a lungo e suscitino con lo sdegno quegli interventi normativi che nessuno finora ha avuto il coraggio di compiere. I bambini in carcere, i piccoli forse destinati dal sistema ad essere futuri delinquenti, sono poi quelli di cui lo Stato non tiene più conto, a dispetto delle convenzioni internazionali, prima fra tutte la grande conquista di civiltà di una dichiarazione universale Onu del 1989 sui diritti dell’infanzia che sancisce il primato del superiore interesse del minore (art. 3) dinanzi a ogni provvedimento di legge degli Stati aderenti. Al posto dell’attuale titolare del dicastero della Giustizia, mi sarei chiesta se magari gli estensori di un provvedimento quale quello che destinava alla custodia cautelare in carcere una madre con due figli, avessero a mente non solo le norme della procedura penale, ma anche appunto quanto ratificato nella convenzione Onu dall’Italia. Mentre i due uomini fermati con la donna a seguito del rinvenimento di 10 kg di marijuana sulla macchina dove viaggiavano, sarebbero stati invece denunciati a piede libero. La stessa domanda andrebbe rivolta anche ad altri magistrati, ma anche e soprattutto ai legislatori che negli anni hanno provato - almeno questo va loro riconosciuto - a intervenire sul destino di questi bambini. E a tutti i passati ministri della Giustizia che all’occasione hanno proclamato il loro “mai più bambini in carcere!”. I bambini continuano invece a essere ospiti delle nostre galere, e da circa vent’anni il loro numero dietro le sbarre è sempre di poco più di 60. Pochi ma costanti, a turno, testimoni loro malgrado dell’inerzia e infine del disinteresse delle istituzioni, o di un malinteso zelo a senso unico. Nessuno di loro è colpevole se non per essere figlio di una mamma che ha sbagliato, ma passano i primi anni della loro vita dentro la cella. I più fortunati nel fine settimana riescono a vedere oltre le sbarre solo grazie al volontariato e alla buona volontà dei dirigenti dell’istituto. L’associazione “A Roma insieme” opera nel nido di Rebibbia dove è avvenuta la tragedia. Questa associazione e la sua fondatrice, la compianta Leda Colombini, erano davanti a manifestare perché la legge sulle detenute madri non dovesse sottostare a una discrezionalità dei giudici, ma destinasse automaticamente le detenute con i loro figli entro i sei anni d’età agli Istituti a custodia attenuata per le madri (Icam). Non si conoscono i dettagli dell’indagine ministeriale avviata dal ministro Bonafede, né se si chieda conto al magistrato se davvero non vi fossero i presupposti per gestire diversamente una mamma con due minori così piccoli, se davvero non potesse essere ospitata in una casa protetta. E occorre anche verificare se sullo stato di salute mentale di un nucleo detenuto così particolare avrebbe dovuto vigilare e attivarsi la sanità pubblica. Insomma, tante direzioni avrebbero dovuto prendere le risposte politiche. Però, a differenza di un ministro novello, chi conosce le carceri sa che tutto il sistema si riesce a reggere grazie a quei pochi operatori che con umanità non ricompensata compiono il loro lavoro in condizioni disastrose. Occorrerebbe tenere in alto conto la buona volontà di una comunità penitenziaria che si è attrezzata alla sopravvivenza. Invece gli interventi immediati, in 24 ore, sono stati quelli di sospendere la direttrice del carcere di Rebibbia, la vicedirettrice e il comandante della Polizia penitenziaria. E se come risposta tutto il mondo dell’associazionismo, del volontariato, dei sindacati di polizia penitenziaria, si è stretto attorno alla direttrice del carcere, in via Arenula dovrebbero domandarsi il perché. E domandarsi se invece non sospendersi da sé, per coerenza in primo luogo il ministro stesso, quale malcapitato ultimo rappresentante dell’amministrazione della giustizia italiana. *Presidente Associazione “Il detenuto ignoto” Csm, ribaltone delle toghe. Eletto Ermini, M5S furioso di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 28 settembre 2018 L’ex deputato Pd supera Benedetti con i voti dei magistrati di “Mi” e Unicost. Non c’era stata alcuna indicazione ufficiale da parte delle forze di maggioranza. Sulla vicepresidenza del Csm, la componente togata si era trovata per la prima volta nella storia a dover operare una scelta senza poterne condividere la responsabilità con la politica. Così dal primo plenum del nuovo Consiglio superiore ieri è arrivata l’elezione di David Ermini al vertice di Palazzo dei Marescialli. Decisivi appunto i voti della maggioranza dei magistrati: i 5 di Magistratura indipendente, i 5 di Unicost, i due capi della Cassazione, Mammone e Fuzio, che si sono sommati al voto dello stesso ex deputato pd. In tutto 13 preferenze contro le 11 raccolte da un altro laico, Alberto Maria Benedetti, al quale sono andati i voti delle altre due correnti, vale a dire i 4 dei progressisti di Area e i quelli dei 2 rappresentanti di Autonomia & indipendenza, Davigo e Ardita, oltre ai voti dei 3 laici in quota M5s e dei 2 indicati dalla Lega, con i 2 consiglieri indicati da Forza Italia che hanno optato per la scheda bianca. Un esito considerato positivo dal Cnf, ma che ha provocato la dura reazione dei Cinque Stelle, in particolare di Di Maio e Bonafede. “Dedico questa elezione a mio padre che ha fatto per tutta la vita l’avvocato e che se fosse qui oggi sarebbe molto più contento di me”. Sono state queste le prime parole rivolte al plenum da parte di un visibilmente emozionato David Ermini, da ieri mattina nuovo vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura. Dopo tre votazioni al cardiopalma, l’ex responsabile Giustizia del Pd si è imposto sul filo di lana nei confronti di Alberto Maria Benedetti, professore di Diritto privato a Genova, indicato dal M5s: 13 consensi a 11. Con Ermini le toghe moderate di Magistratura indipendente e i centristi di Unicost, 5 voti ciascuno, e i due capi della Cassazione, il primo presidente Giovanni Mammone (di “Mi”) e il pg Riccardo Fuzio (di Unicost). A favore del professore ligure i 4 togati di Area, il cartello delle toghe progressiste, i 2 di Autonomia & Indipendenza, i consiglieri leghisti Stefano Cavanna ed Emanuele Basile e quelli pentastellati Filippo Donati e Stefano Gigliotti. Scheda bianca invece per i due consiglieri di Forza Italia, gli avvocati Alessio Lanzi e Michele Cerabona. Ermini fino all’ultimo non era sicuro di farcela. Accusato di non essere la persona giusta per quel ruolo di garanzia a causa dei suoi trascorsi politici e della vicinanza a Renzi, ha voluto subito rassicurare che il suo operato sarà improntato al rispetto della Costituzione: “Ho dismesso la casacca, chi ha sottolineato che appartengo ad un partito sappia che ne ho già chiesto la sospensione”. Ma più che del Pd, la vittoria è della magistratura moderata, rappresentata dalle correnti di “Mi” e Unicost. Un asse togato che ha voluto scongiurare il pericolo di un “grillino” a Palazzo dei Marescialli anche in virtù del seguente ragionamento proposto da alcuni magistrati in plenum: “Il Csm non è ancora il Parlamento, dove un Rocco Casalino può dare disposizioni via whatsapp ai consiglieri”. Ermini rappresenta dunque per la maggioranza dei magistrati una “garanzia”. Più di un professore dal pur ottimo curriculum come Benedetti, scelto per questo ruolo tramite la piattaforma Rousseau. “Benedetti - come ricordato dal togato Giuseppe Cascini, uno dei 4 di Area che ha votato il professore - non lo conoscevamo: abbiamo dato a lui la nostra preferenza in quanto non era un politico e ci pareva più adatto”. Concetto poi ribadito dal segretario di Area Cristina Ornano: “Eravamo perplessi su Ermini per il suo passato politico, ma siamo sicuri che saprà essere un vicepresidente di garanzia”. Di qui in avanti, il patto fra “Mi” e Unicost, 12 voti complessivi in plenum, a cui verosimilmente si aggiungeranno quelli dei due laici di Forza Italia, rischia di rendere poco determinanti quelli dei togati di Area e di “A& I”: 6 voti a cui potranno aggiungersi solo quelli dei consiglieri in quota Lega e M5s. Proprio il gruppo di Davigo e Ardita, che aveva appoggiato fin da subito uno qualsiasi fra i candidati 5s, parla di “Csm spaccato”, attaccando, senza mai pronunciarne il nome, Cosimo Ferri, ex segretario di “Mi” e attuale deputato dem: “I gruppi maggioritari della magistratura hanno votato un vicepresidente espresso dello stesso partito di un magistrato in aspettativa”. Soddisfazione, naturalmente, da parte dei togati di Magistratura indipendente e di Unicost. All’affermazione del guardasigilli Alfonso Bonafede secondo cui i magistrati “hanno deciso di fare politica”, replica il segretario di “Mi” Antonello Racanelli: “Non condivido quanto detto dal ministro: mi limito solo a sottolineare che questo grave passaggio denota forse una mancanza di rispetto istituzionale nei confronti dei consiglieri del Csm che oggi si sono liberamente espressi”. Concetto ribadito dalla stessa Ornano che parla di “interventi inappropriati da parte di Bonafede”. Mentre il presidente dell’Anm Francesco Minisci augura “buon lavoro” a Ermini e a tutti i neoconsiglieri “per l’importante compito che li attende”. Ma è il presidente della Repubblica Sergio Mattarella a rimettere le istituzioni al di sopra delle polemiche: “Inizia la nuova pagina del Csm che è un organo collegiale e che porta insieme la responsabilità dei compiti assegnati dalla Costituzione”. Il resto sono repliche severe dallo stesso Pd, con gli sfottò di Renzi (“Di Maio non è lucido, anche lui in Palamento ha votato per eleggere Ermini al Csm”) e la preoccupazione di Andrea Orlando (“si apre un conflitto istituzionale che ha pochi precedenti”). Non interviene il presidente della Camera Roberto Fico. Fa invece gli auguri a Ermini la seconda carica dello Stato, Maria Elisabetta Alberti Casellati, e si dice certa che il vicepresidente “con competenza e autorevolezza, saprà offrire un contributo importante alle attività che la Costituzione assegna all’organo di autogoverno, garantendone l’indipendenza e difendendo lo Stato di diritto”. Richiamo non casuale a una giurisdizione che preservi sempre le garanzie. Certo, il Movimento che tutti davano per avanguardia delle toghe si trova ora a iscrivere proprio i magistrati nell’elenco dei contropoteri avversi. Il nuovo vertice dei magistrati, perché ha vinto l’opposizione di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 28 settembre 2018 David Ermini, ex responsabile Giustizia del Pd, è stato eletto vicepresidente del Csm (Consiglio superiore della magistratura). Due voti in più del candidato in quota Cinque Stelle, Alberto Maria Benedetti. L’elezione di Ermini è stata salutata da un applauso in Aula dei deputati di Pd e Forza Italia, ma ha scatenato l’ira dei pentastellati. Il vicepremier Di Maio ha accusato “il sistema”, mentre il ministro della giustizia Bonafede ha detto: parte delle toghe fa politica. Ha vinto l’ex deputato del Partito democratico grazie ai voti dei giudici di centro e di destra, che hanno avuto la meglio su quelli contrari delle cosiddette “toghe rosse”, schieratesi a favore del candidato portato dal Movimento Cinque Stelle sostenuto anche dai “laici” leghisti e dal gruppo di Piercamillo Davigo. Nel primo Consiglio superiore della magistratura dell’era politica giallo-verde la partita tra le correnti giudiziarie rovescia i vecchi schemi e determina un risultato in apparenza- e non solo in apparenza -paradossale: alla guida dell’organo di autogoverno dei giudici sale un esponente dell’opposizione rispetto alla maggioranza di governo (ma questa non è una novità, accadde già nel 2002 con l’ex ministro della Giustizia Virginio Rognoni), e la sua elezione è frutto di una spaccatura fra i togati che si dividono a parti invertite; il centro e la destra con il candidato di sinistra e la sinistra con quello “governativo”. Parliamo di immagine e ruoli simbolici, non di figure individuali, giacché su David Ermini e sul suo antagonista Alberto Maria Benedetti non c’erano preclusioni personali. Solo che uno viene direttamente dalla Camera dei deputati, eletto nelle file del Pd di cui è stato a lungo responsabile per le questioni della giustizia; l’altro dalla piattaforma Rousseau, lo strumento telematico di consultazione dell’elettorato grillino. Due derivazioni piuttosto nette (più la prima che la seconda, in verità) che hanno contraddistinto le divisioni e le trattative proseguite fino a ieri mattina, fino all’ultimo minuto utile prima dello scrutinio decisivo. La posizione iniziale di Magistratura indipendente - la corrente tradizionalmente definita di destra, vincitrice alle ultime elezioni per il Csm - proponeva un’alternativa: o Ermini o il “laico” di Forza Italia Alessio Lanzi. Ma su Lanzi è arrivato il no di Unicost, il gruppo centrista, per alcune sue antiche posizioni favorevoli alla separazione delle carriere tra giudici e pm. Dunque restava Ermini, che Mi sponsorizzava anche in virtù del fatto che il suo ex leader Cosimo Ferri è diventato deputato del Pd. Collega di partito di Ermini. Sull’altro fronte, Autonomia e indipendenza ha indicato subito Benedetti come suo candidato (avrebbero votato anche uno degli altri due “laici”, ma quello era il preferito), determinando l’immediata chiusura di Mi e Unicost su quel nome; l’ex pm di Mani Pulite ha avuto negli ultimi anni posizioni e comportamenti mal digeriti dalle correnti tradizionali (di cui faceva parte essendo uno scissionista di Mi) e ciò ha provocato una sorta di veto verso “il candidato di Davigo”. Mentre nel gruppo di Area-non soddisfatta da Ermini per la sua esplicita militanza “renziana”, quindi per la fin troppo chiara connotazione partitica di quella candidatura-è cominciato un lungo travaglio. Risoltosi con il voto in favore di Benedetti, “professore di diritto distante dalle tante polemiche che caratterizzano il dibattito sulla giustizia - hanno spiegato i consiglieri -, più consapevole dei reali problemi e bisogni del sistema giudiziario, non immediatamente riconducibile ad uno schieramento politico”. Dunque a decidere sono state le due correnti maggioritarie: 10 voti che sono diventati 13 grazie allo stesso Ermini e altri due consiglieri: potrebbero essere i componenti di diritto del Csm (presidente e procuratore generale della Cassazione, Giovanni Mammone Riccardo Fuzio, che appartengono rispettivamente a Mi e Unicost); a meno che le due schede bianche fossero le loro, ma ciò significherebbe che per Ermini avrebbero votato i due “laici” di Forza Italia, ipotesi molto meno probabile. Davigo e il suo collega di corrente Sebastiano Ardita hanno stigmatizzato una nomina raggiunta “a maggioranza risicata, che dà l’immagine di una magistratura spaccata e di un Csm contrappeso del governo”, ma a fare rumore è la scandalizzata reazione di Luigi Di Maio e Alfonso Bonafede, vice-premier e ministro della Giustizia grillini. Contro i quali Area ha subito alzato una barriera: “Interventi inappropriati che esprimono grave mancanza di rispetto e di senso istituzionale, rischiando di delegittimare la vicepresidenza e il Csm quale organo di garanzia dell’indipendenza e autonomia della magistratura”. Risultato: i giudici di sinistra che hanno votato per il candidato Cinquestelle protestano contro i politici dei Cinque Stelle che strumentalizzano la vittoria del candidato del Pd, denunciando un gioco politico sul Csm da parte di chi accusa il Csm di fare giochi politici. Un altro segnale della difficile, nuova stagione politico-giudiziaria che s’è aperta ieri. Un buon colpo alla deriva manettara di Claudio Cerasa Il Foglio, 28 settembre 2018 Il voto del Csm è una vittoria dei magistrati contrari a interferire nella politica. L’elezione di David Ermini a vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura è la prima sconfitta subita dalla maggioranza di governo, che sui temi della giustizia esibisce un truce aspetto manettaro. Ermini colui che ha presentato la proposta di legge per la regolamentazione delle intercettazioni, il che fa ragionevolmente ritenere che si ispiri a una concezione garantista, attenta ai diritti dei cittadini e anche degli indagati. Anche per questo la sconfitta dei manettari appare più lampante. Si tratta di una scelta importante non solo sul piano politico generale, perché ha spezzato l’antica collusione tra i settori conservatori e corporativi dell’ordine giudiziario e quelli giustizialisti. Paradossalmente sono stati i magistrati “di destra” a sostenere il vicepresidente che fino all’elezione militava nel Pd, mentre quelli “di sinistra” hanno preferito sostenere il candidato dei 5 stelle. Alla fine è stato decisivo il voto dei membri di diritto del Csm, il presidente e il procuratore generale della Corte di cassazione, e anche questo è assai significativo. Questo non significa che la lunga ubriacatura giustizialista della magistratura italiana sia stata definitivamente smaltita, ma segna senza dubbio una svolta rilevante. Questa scelta dà respiro e fiducia alla maggioranza dei magistrati che non si sono fatti invischiare nella propagazione dell’idea sbagliata che spetti alla magistratura una funzione di supplenza e ingerenza nelle scelte politiche. Un Csm in linea con l’orientamento illiberale espresso in più occasioni dall’attuale maggioranza di governo sarebbe stato un fattore assai preoccupante. Per una volta si può dire che il pericolo è stato scampato. Giustizia, l’invasione di campo di Stefano Cappellini La Repubblica, 28 settembre 2018 Dice il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede che la nomina dell’ex deputato Pd David Ermini a vicepresidente del Csm, del quale è membro laico, è uno scandalo. “Il Csm ha deciso di fare politica”, è il poco ortodosso commento del Guardasigilli, supportato dal leader Luigi Di Maio che nell’elezione di Ermini vede un’altra mossa del Sistema (la maiuscola è dimaiana, naturalmente) per difendersi dalla rivoluzione M5S. Il torto del Csm è, agli occhi dei vertici grillini, aver bocciato il professore Alberto Maria Benedetti, laico in quota Cinquestelle, a vantaggio del “renzianissimo” Ermini. Se il ministro Danilo Toninelli pensava di restare isolato nella sua guerra alla logica prima ancora che alla politica, da oggi può sentirsi ben spalleggiato, se non sopravanzato. Bonafede, in tutta evidenza, non è in grado di scorgere il paradosso di un ministro della Giustizia che stronca la libera scelta dell’organo di autogoverno della magistratura con la motivazione che la politica deve restare fuori da Palazzo dei Marescialli. Nel mondo alla rovescia dei 5S funziona così: la politica stia fuori, Bonafede invece entri pure, ci mancherebbe. Il ministro, evidentemente, non si ritiene un politico, fedele in questo alla memorabile lezione di Paola Taverna che nella scorsa legislatura, contestata da un gruppo di cittadini romani, scolpì un’autodifesa più granitica di un plebiscito su Rousseau: “Io non sò un politico”. La pretesa degli esponenti M5S di considerarsi fuori dal Palazzo, che appariva già bizzarra quando frequentavano il Parlamento da deputati e senatori dell’opposizione, oggi è fraudolenta se usata alla maniera di Di Maio e Bonafede. Non si può governare il Paese e al tempo stesso intervenire sulla cosa pubblica con l’irresponsabilità di un blogger. Chissà se il Guardasigilli riesce almeno a rendersi conto di aver fornito lui, con il suo sguaiato tentativo di ingerenza, la migliore legittimazione a posteriori del voto espresso dal Csm. Se gli elettori di Ermini temevano lo scenario di una giustizia sotto ipoteca grillina - con la contemporanea guida diretta del ministero e indiretta del Csm - Bonafede li ha rassicurati sulla opportunità della loro scelta. Magari Benedetti sarebbe stato vicepresidente irreprensibile, e il curriculum potrebbe suggerirlo, ma certo non basta l’accento posto da Di Maio sul suo profilo di tecnico indipendente a chiudere la questione. Non dopo che a Palazzo Chigi è approdato un altro tecnico sul cui grado di indipendenza e autorevolezza è preferibile non spendere parole. I fatti parlano a sufficienza. L’intreccio malsano tra politica e giustizia, le reciproche invasioni di campo, sono state uno dei vizi strutturali della Seconda Repubblica. Ma la soluzione non può essere la cancellazione del confine e il commissariamento grillino delle istituzioni, secondo il Principio per il quale una poltrona è bene occupata se a sedervi è un adepto del salvifico culto casaleggiano ed è invece lottizzata in caso contrario. Questo maoismo rancido del M5S, che bombarda il Palazzo del quale occupa ormai il piano nobile e chiede solo gogna e sottomissione per il nemico, non ha nemmeno bisogno di conoscere il modello storico originale perché poggia sulla pulsione basilare delle autocrazie populiste: il rifiuto della democrazia della delega e della separazione dei poteri, peraltro l’unica democrazia fin qui sperimentata. Nell’Europa dei lumi quel modello era l’unico faro. In quella di Orbàn e dei suoi aspiranti emuli italiani, meno. Ma ai numerosi seguaci del culto grillino si potrà sempre spiegare che il problema è il renzismo di Ermini. L’esperienza insegna che ci crederanno. Whistleblowing, promosse le segnalazioni informatiche di Pietro Alessio Palumbo Italia Oggi, 28 settembre 2018 Con il comunicato del presidente del 5 settembre 2018, depositato presso la segreteria del consiglio il 12 settembre 2018, l’Anac ha inteso porre alcune indicazioni operative in tema di whistleblowing (segnalazione di illeciti ai sensi dell’art. 54-bis, dlgs 165/2001). L’Authority evidenzia l’efficacia in termini di garanzia di riservatezza, del nuovo strumento di segnalazione, operante a mezzo della piattaforma informatica. Per quanto concerne le segnalazioni cartacee, inviate a mezzo posta o consegnate a mano all’ufficio protocollo dell’Autorità, è raccomandata l’indicazione sul plico, della chiara locuzione “Riservato - Whistleblowing” o analoghe brevi espressioni. Incartamenti privi di tale o analoga frase identificativa, potrebbero non essere protocollati nell’apposito registro riservato dell’Autorità, con il risultato dell’impossibilità di avviare correttamente le procedure. In ogni caso, l’Anac sollecita il costante aggiornamento delle segnalazioni già inoltrate, per la possibile evoluzione delle circostanze in cui sono state generate. In particolare, ciò va fatto qualora la segnalazione non abbia più i caratteri di stringente attualità (come ad es. annullamento degli atti illegittimi, revisione delle disposizioni discriminatorie). Al fine di garantire l’attualità della segnalazione, assai importante è la necessità di ripresentare la segnalazione nel caso in cui sia stata inoltrata prima del 29 dicembre 2017, cioè anteriormente alla data di entrata in vigore della legge n. 179 del 2017. Ugualmente, le segnalazioni di misure ritenute “ritorsive”, pervenute all’Anac prima del 29 dicembre 2017, saranno trattate soltanto se siano state reiterate all’Authority successivamente alla data di entrata in vigore del citato nuovo quadro normativo. Il comunicato mette in speciale evidenza che l’Anac non ha competenza in ordine agli atti ritorsivi adottati prima della modifica normativa dell’istituto del whistleblowing e che a far data dalla pubblicazione dello stesso sul sito web istituzionale dell’Autorità nazionale anticorruzione (12 settembre 2018), ha già avviato l’archiviazione delle segnalazioni pregresse o che comunque abbiano perso il connotato dell’attualità, qualora non siano state reiterate nelle modalità sopra descritte. Traffico di influenze, quelle intercettazioni annunciate e poi sparite di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 28 settembre 2018 Non c’è più discussione pubblica possibile su pregi o difetti di una decisione del governo se i ministri dicono le bugie. Già era stata sbalorditiva la relazione in Senato il 12 settembre del premier Conte sulla nave Diciotti, perché, attestando che la Guardia Costiera subito il 15 agosto avesse informato il Viminale del trasbordo dei migranti (contrariamente a quanto lamentato il 16 agosto da Salvini), faceva trasparire il falso presupposto del braccio di ferro del ministro leghista dell’Interno. Ora un caso spunta nel disegno di legge che il ministro grillino della Giustizia Alfonso Bonafede chiama “spazza-corrotti”. E tra i cui punti qualificanti il 6 settembre, giorno dell’approvazione in Consiglio dei ministri, rivendica la riformulazione del “traffico di influenze illecite” rispetto all’anemica legge Severino del 2012, con l’assorbimento del “millantato credito” e la pena massima alzata a 5 anni (invece di 3), così da consentire ai magistrati le intercettazioni possibili per reati contro la PA con pene massime non inferiori a 5 anni. Tanto che, il giorno dopo, il ministro leghista della Funzione Pubblica, Giulia Bongiorno, in interviste chiede di definire bene le attività di lobby “proprio perché sono state alzate le pene con tutte le conseguenze che riguardano l’invasività delle indagini, comprese le intercettazioni”. Ma nel testo “vero”, ora sul sito della Camera, si scopre (articolo 1, comma 1, lettera p) che in realtà la legge prevede non 5 ma, guarda caso, 4 anni e mezzo, comicamente un filo appena sotto il tetto per le intercettazioni. E non si sa cosa in teoria pensare sia peggio: che i ministri non sappiano cosa approvano, oppure che dicano le bugie su cosa approvano. Caso Stefano Cucchi. “Non stava in piedi, evidenti i segni su viso e corpo” di Eleonora Martini Il Manifesto, 28 settembre 2018 Le deposizioni degli agenti penitenziari, del medico del tribunale e dell’infermiere del 118. L’11 ottobre, la prossima udienza del processo bis, con altri testimoni dell’accusa. “Il viso era parecchio segnato, attorno agli occhi e nella parte destra della mandibola, in particolare. E camminava male. Ho disposto che non fosse ammanettato come gli altri detenuti perché non si reggeva in piedi. Secondo la mia esperienza aveva preso qualche schiaffo, qualche pugno, sì. Era evidente che era stato pestato. Quando gli ho chiesto cosa fosse successo mi ha risposto che era scivolato dalle scale”. Malgrado i nove anni trascorsi e a differenza di altri testimoni, non fa fatica a ricordare i particolari importanti, l’ispettore superiore di polizia penitenziaria Antonio La Rosa che ieri ha testimoniato nel processo bis per la morte di Stefano Cucchi a carico di cinque carabinieri, tre dei quali accusati di omicidio preterintenzionale (mentre fuori centinaia di persone partecipavano ad un sit-in per chiedere verità e giustizia sotto lo striscione “Sappiamo chi è Stato”). In quel 16 ottobre 2009 La Rosa era a capo della scorta che trasferì il ragazzo romano, arrestato dai militari la sera prima per spaccio, dal tribunale dove si tenne l’udienza di convalida dell’arresto fino al carcere di Regina Coeli. L’ispettore fu il primo a raccontare certi particolari anche davanti le telecamere di Matrix, camuffato perché non lo riconoscessero, appena un mese dopo gli avvenimenti. Poi, continua La Rosa davanti alla Corte d’Assise di Roma, “mentre camminavamo sulla rampa per uscire dal tribunale, Cucchi mi chiese se a Regina Coeli ci fosse una palestra perché lui faceva il pugile, teneva incontri di pugilato. E in uno scambio di battute con gli altri detenuti ha aggiunto: ne ho fatto uno anche stanotte. E qualcuno gli ha ribattuto: ma tu hai fatto la parte del sacco”. Dall’udienza di ieri appare chiaro quel che durante tutto il primo processo era stato negato: che Stefano Cucchi era stato picchiato durante la notte passata in stato di arresto, e che i segni delle percosse erano evidenti, anche perché il giovane era palesemente sofferente e si muoveva male. Ma aveva paura di raccontare la verità. Se ne era accorto anche un altro agente penitenziario, il secondo dei tre che costituivano la scorta: “Durante le ispezioni di solito facciamo spogliare i detenuti e imponiamo una flessione per controllare che non abbiano oggetti nell’ano. Ma con lui non è stato possibile - ricorda l’assistente Luciano Capo - si alzò soltanto la maglietta, e quando vidi che aveva tutti segni rossi sul corpo non ritenni opportuno che la togliesse. I pantaloni invece non riuscì proprio a toglierli, li abbassò solo, era troppo dolorante. E non riuscì neppure a fare la flessione. Chiesi se era stato arrestato per rissa, visti quei segni particolarmente evidenti sulla parte sinistra in basso della schiena”. “Lei cosa pensò che gli fosse successo?”, chiede il pm Giovanni Musarò. “Io non ho pensato nulla”, risponde l’agente. Che allora però si informò subito della presenza di un certificato che attestasse le lesioni, perché “avrebbero potuto pensare che gli fossero state procurate durante il tragitto dal tribunale al carcere”. “Per cautelarci”, spiega meglio il suo collega Salvatore Mandaio, il terzo della scorta, che ricorda: “Quando doveva salire le scale di Regina Coeli, Cucchi mi ha detto: “Non ce la faccio, mi fanno male le gambe”. Se ne sono accorti tutti, che qualcosa non andava, perfino l’infermiere Francesco Ponzo che intervenne con l’ambulanza del 118 chiamata alle 5 del mattino del 16 ottobre dagli stessi carabinieri della caserma di Tor Sapienza e che ha modo di guardarlo in volto solo per qualche secondo, in una stanzetta buia (ma non chiede di accendere la luce). Ponzo parla con Cucchi per circa dieci minuti (arrivano alle 5,17 e vanno via alle 5,35, secondo i verbali) alla presenza di tre militari che assistono “in silenzio” al colloquio. Ma il giovane, che è disteso sul lato sinistro, con la faccia rivolta verso il muro e si nasconde sotto una coperta, nega di avere bisogno di aiuto e rifiuta di andare al pronto soccorso (ma non sa, perché nessuno glielo dice, che avrebbe potuto rimanere solo con il personale medico). Se ne accorgono tutti, anche il medico del tribunale, Giovanni Battista Ferri, che lo visitò nella camera di sicurezza, chiamato dalla polizia penitenziaria “solitamente per cautelarsi, soprattutto quando gli imputati presentano segni sul corpo non refertati”. “Riferiva dolori alla regione sacrale e agli arti inferiori ma rifiutò la visita. Ho potuto vedere solo il viso e constatare ecchimosi color porpora presumibilmente dovuti ad effetti traumatici che, a giudicare dal colore, erano avvenuti non oltre le 24 ore”. Il medico ammette che sì, in effetti non lo aveva convinto la storia delle scale: “Strane queste scale che non lasciano segni sul naso”, gli aveva detto, e Cucchi aveva risposto: “E saranno state scale strane…”. Ferri però ritenne che le condizioni di salute di Stefano erano compatibili con il carcere anche se, spiega, “ho pensato che a Regina Coeli comunque c’era un reparto radiologico”. Incalzato dall’avvocato della famiglia Cucchi, Fabio Anselmo, ammette: “Se fosse stato un paziente del mio studio privato? Se avessi potuto parlargli e avessi notato segni traumatici, avrei sicuramente raccomandato una lastra”. Ma per Stefano Cucchi no, nessuna radiografia da prescrivere. Rieti: detenuto ritrovato morto in cella di isolamento, disposta l’autopsia Ansa, 28 settembre 2018 Questa mattina un detenuto è stato trovato morto dagli agenti all’interno del carcere reatino. Si tratterebbe di un cinquantenne italiano, in isolamento psichiatrico, detenuto per reati di droga. La procura di Rieti, informata dall’autorità carceraria, ha disposto l’autopsia. Milano: morì impiccato a San Vittore, per i periti della famiglia non fu suicidio di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 28 settembre 2018 Per la Procura di Milano, che ha chiesto l’archiviazione del caso. Alessandro Gallelli è morto a 21 anni perché si è impiccato nel carcere di San Vittore e “non vi sono elementi per ipotizzare responsabilità penali a carico di alcuno”. Ma ora una consulenza di parte, nella quale si sostiene l’ipotesi dell’omicidio mediante strozzamento”, potrebbe riaprire la vicenda. Il decesso risale al 18 febbraio del 2012 quando il ragazzo, detenuto da 4 mesi nel reparto di osservazione neuropsichiatrica della casa circondariale milanese, fu trovato dal personale delle polizia penitenziaria “appeso alla grata della finestra della propria cella, con un cappio al collo ricavato da una felpa di cui aveva annodato le maniche”. “Le conclusioni del collegio di consulenti - si legge nella richiesta di archiviazione a cui si sono opposti i familiari di Alessandro - individuavano la causa di morte in asfissia meccanica da impiccamento e non riscontravano nel corpo del Gallelli alcuna sostanza di interesse tossicologico”. Nella consulenza incaricata dal legale della famiglia del ragazzo a 4 esperti del Centro Investigazioni Scientifiche, si sostiene tutt’altra versione sulle cause della morte. Roma: lasciano il carcere le sei detenute con figli che erano insieme alla madre assassina di Enrico Bellavia La Repubblica, 28 settembre 2018 Le bare bianche scivolano leggere sui carri funebri che partono con destinazione Germania, unica salda certezza per due bambini che non ne hanno mai avuta una. A occuparsi della sepoltura di Fatih e Divine, 6 mesi e 18, uccisi dalla madre nel carcere in cui scontavano una pena che non era la loro, sarà la nonna materna. La burocrazia sa essere sorprendentemente celere nelle tragedie. E ce ne è voluta una così per far correre veloci timbri e scartoffie. L’autorizzazione all’espatrio delle salme arriva in contemporanea con i funerali di cui si è occupato il Bambino Gesù. Con il Campidoglio che era pronto a farsi carico delle spese e che ieri ha listato a nero la bandiera e proclamato il lutto cittadino. L’ospedale ha provveduto in proprio ad allestire un rito di umana pietà intorno a una storia che di umano ha assai poco. In prima fila con la presidente Mariella Enoc e il direttore dell’ospedale Ruggero Parrotto, ci sono Maria Monteleone, il procuratore aggiunto cui è affidato il caso, l’assessore Laura Baldassarre con la fascia tricolore, il garante capitolino dei detenuti, Gabriella Stramaccioni. Fiori con il blu per Divine, rosa per Fatih. Il padre, nigeriano, è rimasto nella sua cella in Germania, la madre assassina, tedesca di origine georgiana finita dentro il 28 agosto per aver partecipato al trasporto di 15 chili di droga con dei connazionali del marito, ha chiesto di assistere ma non le è stato concesso. È al Pedini ma per poco. Il trattamento sanitario obbligatorio le è stato negato. Significa che è lucida nella sua follia e per lei il destino è una cella, singola, in attesa di un altro trasferimento, con una sorveglianza massima che scongiuri il suicidio. Da Rebibbia alla chiesa del Bambino Gesù, con un rappresentante del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria sono arrivate 4 puericultrici. Lavorano nel nido del carcere. Lì dove i bambini non vedono altro che donne e finestre con le grate e quando iniziano a parlare dicono “apri”. Un luogo che si sforza di non essere carcere ma lo è. Con i blindati che si chiudono alla sera dietro madri che cullano i piccoli e li mettono a letto nei cameroni chiusi a doppia mandata. Sandro Spriano, il cappellano dell’istituto che celebra le esequie, rilancia un appello rimbalzato finora sui muri di gomma delle urgenze che cambiano con il cambiare del colore dei governi e che i conti con il carcere finiscono per rimandarli: “Mai più bambini in cella”. Appello destinato a cadere nel vuoto probabilmente anche adesso visto il no del governo giallo-verde al decreto legislativo sulla riforma dell’ordinamento penitenziario a proposito di madri detenute, in esame alla commissione giustizia del Senato. Tanto più che a tracciare una linea dalla quale è difficile tornare indietro, non bastassero le ideologie, ci sono anche i soldi spesi per costruire gli Icam, gli istituti di custodia attenuata per le madri: quello di Rebibbia con 14 posti deve ancora aprire. Eppure la detenzione inflitta ai piccoli dovrebbe essere riservata ai casi limite. Tra avvocati che dimenticano, giudici distratti o oberati, non è un caso che la stragrande maggioranza delle detenute con figli al seguito sia fatto da rom e africane. Sull’onda dell’emozione suscitata dalla fine di Fatih e Divine, in 48 ore sei di loro hanno lasciato il carcere. Quattro erano con pene residue inferiori a due anni. Tre di loro hanno trovato alloggio da parenti, una nigeriana nella casa di Leda, struttura di accoglienza in una villa confiscata. A decidere il magistrato di sorveglianza Marco Paternello. Per altre due donne in attesa di giudizio, si sono espressi i giudici di merito. Delle dodici madri del nido di Rebibbia restano 6 donne, tre condannate e tre in attesa di giudizio il cui destino sarà valutato nei prossimi giorni. C’è da provare ad azzerare quell’elenco fatto da donne e bambini che hanno assistito impotenti alla tragedia di un istante che nella mente di Alice Sebesta, sconvolta dalla paura della vendetta minacciata dai suoi complici nigeriani covava forse da giorni. Troppa tensione lì dentro. Troppo dolore negli occhi di chi è rimasto e nelle domande innocenti dei bambini che hanno visto gli altri rotolare giù dalle scale e la madre infierire fino ad ucciderli. Tra le donne che hanno potuto lasciare il carcere c’è una giovane rom madre di tre figli. Era venuta giù da Milano per portare i piccoli in visita al padre detenuto. Alla soglia del carcere l’hanno identificata e fermata. Doveva scontare poco più di un anno per un cumulo di pene per furti inflittegli quando era minorenne. All’ingresso in carcere le è toccato separarsi dai figli. Uno solo dentro con lei, gli altri in affido temporaneo. “Mamma torna presto”. Li ha rivisti ieri dopo sei mesi. Sassari: malattie infettive, percorsi di prevenzione in carcere La Nuova Sardegna, 28 settembre 2018 Istituito tavolo interdisciplinare nel penitenziario di Bancali. All’incontro Assl e Aou: più informazione e prevenzione. Le malattie infettive in carcere rappresentano la seconda emergenza più sentita, dopo quelle psichiatriche. Una indagine statistica realizzata nel 2015 nei 195 istituti penitenziari italiani aveva consentito di registrare il transito di quasi 100mila detenuti. E sulla base di diversi studi nazionali, è stato stimato che 5mila detenuti fossero positivi al virus Hiv, 6500 portatori attivi del virus dell’epatite B e 25mila coloro che erano già venuti a contatto con l’agente che provoca l’epatite C. Anche in Sardegna e - in modo particolare a Sassari - ci si pone il problema della sanità penitenziaria, della prevenzione e di come affrontare le eventuali emergenze. La casa circondariale di Bancali ha ospitato il tavolo interdisciplinare istituito per prevenire e contrastare la diffusione delle malattie infettive. All’incontro hanno partecipato il direttore del carcere, il magistrato del Tribunale di Sorveglianza, il Garante dei detenuti, il direttore del distretto della Assl Sassari, il direttore del reparto di Malattie infettive dell’Azienda Ospedaliero Universitaria di Sassari e il personale che quotidianamente è impegnato nell’assistenza. Durante la riunione sono state gettate le basi per la condivisione di due percorsi paralleli, uno informativo e formativo dedicato alla prevenzione delle malattie infettive che hanno maggiore diffusione nelle strutture penitenziarie e uno clinico basato, invece, sullo screening e sulla profilassi della malattia. “L’assistenza sanitaria non deve essere intesa esclusivamente come momento di cura - ha sottolineato il direttore del Distretto dell’Assl Sassari, Nicolò Licheri - ma deve essere occasione di promozione della prevenzione, un fattore determinante per il benessere della popolazione carceraria. Il tavolo interdisciplinare nasce con l’obiettivo di coinvolgere in questo percorso tutti gli attori istituzionali che operano nella casa circondariale di Sassari”. Il primo incontro che è coinciso con l’istituzione del tavolo interdisciplinare si inserisce all’interno del percorso intrapreso in stretta collaborazione con la direzione del carcere di Bancali, per il potenziamento del servizio sanitario offerto all’interno delle case circondariali di Sassari e Alghero. L’impegno sarà quello di fare in modo che vengano seguiti i consigli degli infettivologi che - da anni - sostengono la necessità di imprimere una svolta decisiva nelle azioni per la tutela della salute nelle carceri. Milano: il professor Verdiglione in cella a 74 anni, in meno di un mese ha perso 20 chili di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 28 settembre 2018 È detenuto a Opera e deve scontare un residuo di pena di 5 anni e 8 mesi per reati fiscali. Ha 74 e si trova in condizioni gravissime di salute al carcere milanese di Opera. Parliamo del professore Armando Verdiglione, filosofo, psicanalista ed editore, che dal 5 settembre si è costituito in carcere per scontare un residuo di pena di 5 anni e otto mesi per reati fiscali. È una personalità complessa l’intellettuale, tanto da subire varie vicissitudini giudiziarie, critico al sistema e tanti sono i suoi libri - in uno coniò il termine “cifermatica” (nuova disciplina dedicata a studiare la logica e la struttura della parola) - che toccano diversi ambiti, passando da Leonardo da Vinci alla psicoanalisi come dissidenza al capitalismo intellettuale. Una figura complessa quanto il meccanismo giudiziario dove ci finì stritolato e venne difeso, a suo tempo, da vari artisti e intellettuali, passando da Vladimir Bukovskij (dissidente durante l’Unione sovietica) ad Alberto Moravia, fino ad arrivare a Marco Pannella e il Partito Radicale. Ora per l’ennesima volta è in carcere, ma rischia la vita. A mettere in luce l’ennesimo caso sanitario in carcere, è Rita Bernardini del Partito Radicale. “Nessuno deve morire in carcere” è il suo accorato appello riferendosi anche ai diversi casi di persone che muoiono nelle patrie galere senza essere curate adeguatamente presso strutture idonee. Mercoledì mattina, Roberto Giacchetti, deputato del Partito democratico e già vicepresidente della Camera, nonché membro del Partito Radicale, è entrato nel carcere di Opera per una ispezione durata 3 ore. Durante la visita il deputato ha visitato i padiglioni, parlato coi funzionari e con il personale di custodia. Cogliendo l’occasione dell’ingresso organizzato, anche su richiesta di Rita Bernardini, ha verificato le condizioni fisiche del filosofo Verdiglione. Raggiunto telefonicamente da Il Dubbio, Giachetti ha spiegato di aver visto varie situazioni. Poi si è recato al centro clinico, dove si trova Verdiglione con altri detenuti ricoverati. Il deputato definisce la situazione sanitaria del filosofo “la più allarmante di tutte”. Giachetti spiega che Verdiglione si trova in una stanza con altri tre detenuti e parla con una voce talmente debole che non si sente. “Lo stesso medico - racconta il deputato a Il Dubbio - confer- ma che ha perso circa 20 chili da quando è entrato in carcere, perché non riesce ad alimentarsi e contemporaneamente rifiuta l’alimentazione e l’idratazione alternativa con la flebo”. erdiglione ha riferito a Giachetti - cosa già detta anche ai sanitari che gli sembra sia ritornata l’anoressia, come quando negli anni 90 fu arrestato e divenne, appunto, anoressico in carcere. Del resto anche il medico che lo ha in cura non l’ha escluso. “A questo proposito - sottolinea Giachetti - c’è da tenere a mente un dato essenziale. L’otorino che ha appena visitato Verdiglione gli ha riscontrato problemi organici, che definiva probabilmente la causa dell’impossibilità a deglutire: per questo proprio l’otorino ha riferito la necessità del ricovero in ospedale e il medico del Centro - prosegue con il racconto il deputato - ha confermato di averne fatto richiesta al San Paolo”. Emerge, secondo quanto ha detto il medico a Giachetti, che il problema al trasferimento risiede sulla carenza di posti nel reparto detentivo dell’ospedale, anche se gli viene riferito che di solito in 2 o 3 giorni la problematica potrebbe essere risolta. “La mia opinione è che nel giro di poche ore dalla mia visita possa essere già in fase di ricovero”, afferma il deputato a Il Dubbio. E se poi non accade? “Sono disponibile a muovermi con un’interrogazione”, conferma Giachetti. Il deputato aggiunge anche un piccolo episodio. “Alla presenza della polizia penitenziaria che mi ha accompagnato - racconta sempre Giachetti - e dopo che si è presentato, uno psicologo che ha in cura il filosofo mi ha detto: “Per me Verdiglione non ha nulla, vuole uscire come aveva fatto l’altra volta. È evidente dal suo rifiuto di nutrirsi via endovenosa!”. Sono rimasto perplesso visto che uno psicologo non può avere la competenza nel valutare lo stato fisico di una persona, soprattutto dopo che l’otorino ha riscontrato un evidente problema fisico”. Abbiamo chiesto a Roberto Giachetti una riflessione generale sul diritto alla salute visto che, anche in quanto iscritto al Partito Radicale, di battaglie sul carcere ne ha fatte tante. “Anche parlando di un carcere - spiega il deputato - dove c’è una delle situazioni migliori tra tutte quelle che ho visto, con un centro clinico seguito con specialisti e laboratori, è del tutto evidente che su 1350 persone detenute possono esserci casi seri di malattia che avrebbero bisogno di una struttura diversa dall’ambiente carcerario. Per esempio - continua Giachetti, al padiglione S3 ho incontrato un detenuto che era stato operato al tumore alla prostata e da 7 mesi sta aspettando di fare una tac di controllo per l’avanzamento della malattia. Ci sono condizioni che non sarebbero immaginabili sul piano umano e civile in qualunque altra situazione. Ovviamente questo prescinde dalla buona volontà degli agenti di custodia e del direttore”. Giacchetti infatti, in perfetto stile radicale, considera il carcere un sistema complesso dove lo sguardo alle criticità viene dedicato sia ai detenuti che agli operatori penitenziari. Sempre parlando di salute, specifica Giacchetti: “Non c’è dubbio che ci siano persone che non debbano stare in carcere, a cominciare dai tossicodipendenti, così come i malati psichiatrici, che dopo la chiusura degli Opg inevitabilmente restano in cella”. A proposito dei detenuti con patologie psichiatriche, Giachetti aggiunte che si tratta di un problema di civiltà perché questi ultimi dovrebbero essere seguiti solo da un medico specializzato, mentre, volendo spezzare una lancia a favore del personale penitenziario, “per i più gravi c’è spesso il personale di custodia a surrogare le mancanze del sistema sanitario”. Ferrara: servizio di ascolto psicologico per agenti penitenziari, una misura da esportare estense.com, 28 settembre 2018 Marighelli è intervenuto in Commissione Sanità a Bologna: “A Ferrara attivato il Progetto Benessere per la Polizia penitenziaria, che si è rivelato molto efficace”. “Un ambiente di lavoro sereno ne migliora la qualità. Questo è vero anche per il carcere: se chi ci lavora riesce a creare un clima disponibile all’ascolto e aperto alla relazione ne beneficia tutta l’istituzione penitenziaria”. Così è intervenuto in mattinata Marcello Marighelli, Garante delle persone private della libertà personale all’udienza conoscitiva in Commissione Sanità, politiche sociali, sport, politiche abitative del Comune di Bologna. All’ordine del giorno la sindrome da burn-out nella Polizia Penitenziaria, un fenomeno che coinvolge chi, come gli agenti in servizio in carcere, ha a che fare tutti i giorni con conflittualità, sofferenza e tensione. “È una situazione che si può quasi definire fisiologica - ha continuato poi il Garante - e il disagio, il bisogno di ascolto del personale tutto (agenti di Polizia penitenziaria, funzionari dell’Area giuridico-pedagogica, medici e infermieri) è percepito distintamente anche da chi, come me, frequenta il carcere da esterno”. Il miglioramento dell’ambiente dell’istituzione carcere anche per chi ci lavora è una sfida che altri hanno già raccolto, tra questi il Garante delle persone private della libertà personale del Comune di Ferrara, Stefania Carnevale, che a febbraio di quest’anno ha sostenuto, assieme al Garante regionale, il progetto Benessere sul luogo di lavoro per il personale operante nella Casa circondariale di Ferrara. Il percorso, la cui prima fase si è recentemente conclusa, prevedeva una serie di incontri tematici e uno spazio di ascolto psicologico, rivolti a tutto il personale del carcere. “Il primo report - ha riferito Marighelli - evidenzia l’efficacia del progetto che, nel rispetto delle specificità di ciascun istituto, può diventare un modello da esportare in tutte le carceri della nostra regione”. Presenti in commissione, tra gli altri, i direttori della casa circondariale Dozza e dell’Istituto Penale Minorile, le organizzazioni sindacali, il Garante comunale e la responsabile del personale del Provveditorato dell’Amministrazione Penitenziaria che hanno accolto con favore la proposta del Garante, che ha concluso: “Tutto questo potrà essere realizzato soltanto grazie a una stretta collaborazione tra il Prap e la Regione Emilia-Romagna”. Como: Casa Famiglia Vincenziana, un approdo per donne in uscita dal carcere settimanalediocesidicomo.it, 28 settembre 2018 Giovedì 27 settembre, festa di S. Vincenzo De Paoli, alle 17.30 nella Chiesa del Gesù di Como il vicario foraneo cittadino don Gianluigi Bollini celebrerà la S. Messa. Durante la cerimonia ci sarà anche l’atto di impegno di due nuovi volontari. La Famiglia Vincenziana è una realtà da decenni viva e presente nel cuore del capoluogo comasco. Tra le sue molteplici iniziative di carità ce n’è una poco conosciuta che presentiamo sul numero in uscita del nostro Settimanale. È la Casa Famiglia Vincenziana, un luogo che, all’interno della Casa della Missione gestita dai Padri della Missione, dal 2005 accoglie donne in uscita dal carcere, a fine pena o in misura alternativa alla detenzione. Un appartamento di circa 200 mq, composto da 4 camere, ciascuna con propri servizi, e dagli ambienti comuni (una sala soggiorno, una sala da pranzo, la cucina, una piccola lavanderia e un terrazzo esterno). In 13 anni vi sono state accolte 70 persone (60 donne in fine pena, misura alternativa alla detenzione o permesso premio e 10 bambini da 0 a 6 anni). Tre le donne accolte da inizio 2018 ad oggi. A spiegare al Settimanale come nacque questo nuovo seme di carità in città sono padre Francesco Gonella, superiore della Casa della Missione e Francesca Torchio, coordinatrice della Casa Famiglia Vincenziana. “Era il 1999 quando Ministero di Grazia e Giustizia e Regione Lombardia sottoscrivevano un protocollo d’intesa in materia di edilizia penitenziaria. Protocollo che auspicava, tra l’altro, la nascita e il potenziamento di micro-strutture residenziali destinate ad accogliere detenuti in misura alternativa alla detenzione. In virtù di ciò la Casa della Missione di Como decise di proporsi come partner del Comune di Como per l’attivazione di un progetto di housing sociale. Progetto che ha portato, nel 2005, alla ristrutturazione dell’appartamento dove oggi sorge la Casa Famiglia Vincenziana e alla sua inaugurazione, il 18 novembre dello stesso anno. Da allora la struttura ha funzionato quasi ininterrottamente, ad eccezione di un temporaneo periodo di blackout a seguito dell’indulto del 2006”. Perché la decisione di aprire questo spazio? “Per chi ha vissuto un’esperienza di detenzione la scarcerazione rappresenta una fase molto difficile e traumatica. In Italia mancano percorsi riabilitativi che permettano a chi ha sbagliato di riprogettarsi e reinserirsi nella società. Per molte donne il carcere ha cancellato contatti, relazioni, opportunità. E una volta uscite si trovano spesso abbandonate a se stesse, prive di appoggi, disorientate rispetto al futuro che le attende. La Casa Famiglia Vincenziana si prefigge lo scopo di accoglierle in un contesto di vita comune, accompagnandole all’autonomia attraverso una graduale rilettura della propria esperienza di vita e riscoperta del proprio ruolo nella società. In questo senso ci proponiamo come una sorta di “porto sicuro”, cercando di prevenire la recidività ed il ritorno in carcere”. Venezia: incontro dei Cappellani “comunicare il carcere e sensibilizzare le comunità” La Difesa del Popolo, 28 settembre 2018 A Zelarino l’incontro dei Cappellani del Triveneto. I presenti si sono interrogati, su come sia possibile evitare i pregiudizi delle persone nei confronti dei detenuti - ma anche luoghi comuni o puri slogan - e come aiutare, su questo punto, le comunità ecclesiali. “Comunicare il carcere”, ovvero come sensibilizzare la comunità alle problematiche delle persone detenute, è stato il tema affrontato lo scorso 17 settembre a Zelarino (Venezia) nel corso dell’incontro periodico - che avviene, all’incirca, ogni due mesi - tra i cappellani delle carceri del Triveneto e le religiose impegnate in queste realtà. Ha introdotto e lanciato la discussione il giornalista Mauro Ungaro - direttore del settimanale “Voce Isontina” di Gorizia e segretario esecutivo della Fisc (Federazione italiana settimanali cattolici) - che ha sottolineato come il settimanale diocesano sia strumento non soltanto di informazione ma soprattutto di lettura, con gli occhi della fede, del proprio territorio inteso come “luogo teologico”, invitando perciò in modo particolare i cappellani - definiti evangelizzatori a larghissimo raggio e sempre in dialogo con tanti, credenti e non, cristiani e non - a bussare maggiormente alle porte e alle pagine dei settimanali diocesani affinché la loro esperienza non vada perduta ma sia valorizzata, aiutando così ad informare e a creare opinione, senza limitarsi alle notizie dal carcere in occasione della visita natalizia o pasquale del vescovo. I cappellani si sono, quindi, interrogati, su come sia possibile evitare i pregiudizi delle persone nei confronti dei detenuti - ma anche luoghi comuni o puri slogan - e come aiutare, su questo punto, le comunità ecclesiali. Cappellani, religiose e volontari, in effetti, hanno la grande opportunità di raccontare storie autentiche ed esperienze di riscatto, di rinascita, cadute e riprese di speranza che possono toccare e riguardare molti. Il pianeta carcere, infatti, riguarda non solo chi è recluso ma tutti, ad iniziare da quanti hanno a che fare con un familiare, un parente o un conoscente momentaneamente in carcere. Si tratta - è stato osservato - “di coinvolgere e sensibilizzare la nostra gente alla fraternità, a superare il giustizialismo, ad aprire cammini di riscatto. E per farlo non servono discorsi astratti, ma racconti di storie avvenute, interviste ai protagonisti”. La sensibilizzazione e l’esigenza di maggiore comunicazione non può, però, fermarsi a quest’ambito ma deve toccare anche altre questioni e altri contesti: ad esempio le specifiche attenzioni da avere nei riguardi dei malati psichici in carcere, l’educare i giovani ad un approccio meno “selettivo” e rigido verso chi ha sbagliato, la sensibilizzazione dei sacerdoti affinché si mobilitino maggiormente qualora un loro parrocchiano diventasse recluso e sostenendo anche il più possibile (insieme all’intera comunità parrocchiale) le famiglie dei detenuti. Si può, insomma, avviare un dialogo proficuo tra chi opera nelle carceri e la comunità ecclesiale, per avviare e favorire percorsi di rinascita. Lecce: spettacolo teatrale in carcere, undici detenuti portano in scena “La strada” di Serena Pacella Coluccia leccenews24.it, 28 settembre 2018 L’appuntamento è per venerdì 28 settembre, ore 15.00, presso la Casa Circondariale “Borgo San Nicola”. La direzione artistica e la regia saranno a cura di Giorgia Maddamma e l’organizzazione di Sara Bizzoca. L’Istituto Penitenziario “Borgo San Nicola” è pronto a ospitare quanti vorranno assistere ad uno spettacolo teatrale a cura di Koreoproject con la direzione artistica e la regia di Giorgia Maddamma e l’organizzazione di Sara Bizzoca. Venerdì 28 settembre, ore 15.00, saranno sul palco undici detenuti e con loro anche il contrabbassista Marco Bardoscia, i danzatori Charlotte Virgile, Simone Wolant e Giorgio Mogavero. Un momento importante, frutto di un lavoro in cui si è cercato di dar loro un nuovo vocabolario per descrivere il proprio universo interiore. “La strada e i percorsi che si presentano dinanzi a noi sono costruiti sulla base delle scelte che compiamo e, a seconda dei momenti e dei luoghi in cui siamo vissuti, viviamo e vivremo”, sottolinea Giorgia Maddamma. “Durante le prove abbiamo avuto modo di parlare a lungo con i detenuti e abbiamo ricercato e scoperto un bisogno di raccontare se stessi e le proprie esperienze. In questa nuova proposta di laboratorio-spettacolo vogliamo continuare e approfondire la ricerca del sé, provocando, scavando, solleticando la memoria, scorticando le cortecce e smantellando le difese esteriori per raggiungere la verità di ciò che loro vorranno esprimere nel contenitore magico della scatola teatrale”. Il teatro in carcere si è sviluppato negli ultimi trent’anni, in Italia, diventando una delle metodologie formative presenti negli istituti penitenziari e proprio la formazione, dunque, ha l’obiettivo non solo di offrire ai detenuti le possibilità mancate che li avrebbero condotti a compiere altre scelte di vita, ma di facilitare interventi di progettazione educativa passando dalla funzione compensatoria della detenzione, alla visione del carcere come ambiente di apprendimento ai fini del reinserimento sociale. Il teatro insegna che la realtà è una dimensione interpretata e interpretabile, che tanti possono essere i punti di vista, così come i modi di costruirla, nell’arte e nella vita. Agisce sull’individuo insegnandogli a prendere coscienza di sé in relazione agli altri e ai contesti, fa apprendere come controllare e canalizzare le emozioni, e come provare a fluttuare fra le varie percezioni di se stesso. Sono queste le iniziative che devono permanere nonostante le tante e gravi difficoltà che il sistema carcerario attraversa e che rappresenta per i detenuti una opportunità di crescita culturale e per i cittadini un’occasione per conoscere da più vicino la realtà della reclusione. Monza: “Voci Spiegate”, Kiave racconta il rap nelle carceri eroicafenice.com, 28 settembre 2018 Il progetto Voci Spiegate nasce e si sviluppa nel 2014 presso il carcere di Monza. Qui Mirko Filice, in arte Kiave (M.C. cosentino tra i più influenti nella Scena Underground italiana degli ultimi decenni), attraverso lezioni e laboratori musicali, porta il rap e la cultura Hip Hop nelle celle con l’intento di offrire ai detenuti tutte le conoscenze e gli strumenti per trovare nella musica la redenzione. Un sogno, quello di Mirko, che finalmente si realizza e che ha successo. Tanto è vero che il progetto verrà accolto per altri due anni presso il carcere di Monza e successivamente presso il carcere minorile Beccaria di Milano (2016) e allo Sprar di Rho (2017). Quest’anno, i protagonisti sono stati i detenuti della Casa circondariale di Varese per la sesta edizione del progetto culminata il 21 aprile in un live di conclusione. Sul palco, affiancati da Kiave, ci sono Pach, Tony, Domino e Labi: la complicità che c’è tra il rapper e i ragazzi detenuti, la cura e l’impegno che ne traspare insieme a fierezza, sincerità ed entusiasmo sono emozionanti. (Guarda qui il video del live ed ascolta il loro album su Soundcloud). Voci Spiegate è entrato a far parte del circuito della Street Arts Academy, un’associazione che promuove una serie di attività educative condotte attraverso le discipline classiche e gli elementi della cultura Hip Hop, in perfetta coerenza con i principi che sono alla base dei laboratori tenuti da Kiave. La Street Arts Academy ha messo a disposizione un sito dedicato unicamente al lavoro dei partecipanti dove è possibile ascoltare tutti e sei gli album risultato del lavoro delle sei edizioni di Voci Spiegate. “L’intento è quello di offrire ai loro concetti, alle loro idee e alle loro emozioni un passaggio verso l’esterno: parole che vanno oltre le mura del carcere e che vogliono esprimere qualcosa.” Noi abbiamo intervistato Kiave che ci ha svelato molto di più. Voci spiegate, l’intervista a Kiave Kiave, sappiamo che il progetto Voci Spiegate nasce da una tua idea. Ci chiediamo però come e perché? Io ho collaborato con un’associazione che si chiamava “Razzismo brutta storia” che faceva riferimento al Gruppo Feltrinelli per dei laboratori di rap nelle scuole chiamati “Potere alle parole”. La persona che era assegnata a me si chiamava Agnese Radaelli. Un giorno ho espresso a lei questo mio desiderio, le ho detto : “Che figata il rap nelle scuole, è una cosa bella, però sinceramente il mio sogno è proprio portarlo nelle carceri perché secondo me il rap nelle carceri può fornire ai detenuti i mezzi per liberare tutta la negatività che assorbono là dentro con qualcosa di costruttivo e di creativo come il rap”. Il carcere è il luogo in cui c’è davvero gente di strada e il rap è di strada, non come ce lo vogliono propinare ultimamente più nelle sfilate di moda che per strada. Agnese dopo una settimana mi chiamò e mi disse:”Se vuoi andiamo al carcere di Monza a fare laboratori”. Così portammo il rap nelle carceri. Lei è una persona estremamente in gamba, però ha cambiato mestiere e abbiamo smesso di collaborare. L’idea nasce quindi da questo: è un’idea mia perché sono fermamente convinto che l’Hip hop nelle carceri possa attecchire meglio e il tempo sta confermando questa mia idea e me lo sta dimostrando. Le cose stanno andando nel verso giusto. È stato difficile portare il progetto nelle carceri e far sì che si realizzasse? Tutto sta ad avere finanziamenti. Il progetto ha un costo, così come lo ha entrare in carcere. Siamo sempre alla ricerca di qualche “benefattore” che finanzi il progetto e di carceri disposti ad accoglierlo. Però non è così difficile come può sembrare. Da una parte io ho la fortuna di ricoprire tutti i ruoli perché posso fare il rapper, fare lezione, laboratorio, registrare e mixare i pezzi, preparare i ragazzi al live ed esibirmi con loro. Ci vuole uno che abbia più competenze oltre a quelle del rap per fare una cosa del genere e io, che sono anche tecnico del suono, unisco tutte le mie. In più bisogna avere la voglia di cambiare le cose, entrare in un carcere e farsi perquisire ogni volta… Devi avere passione per farlo. Il rap si presta a temi forti e può essere anche autobiografico. Qual è stata la reazione dei detenuti di fronte all’opportunità di usare la musica come riscatto? Ognuno ha reagito a suo modo. All’inizio tutti sono molto affascinati dalla cultura Hip hop ed è la cosa che mi piace di più. Lì non hanno internet e non hanno molte cose per passare il tempo e chi viene travolto dal progetto inizia a scrivere, di solito sono almeno 4 o 5 per ogni corso. Iniziano a scrivere davvero tantissima roba, infatti poi è un po’ difficile collocare sulle giuste strumentali e apparecchiare bene i pezzi … Tuttavia iniziano a scrivere ed è questa la cosa più importante. Già questo a me soddisfa. Kiave, durante i laboratori la tua esperienza personale ha in parte influito su ciò che trasmettevi. Ma cosa è diventato il rap per i ragazzi delle carceri, che considerazione hanno avuto loro del rap e in generale dell’Hip hop? La maggior parte si innamora di questa cultura. Da una parte il rap è un’occasione per poter dire quello che si pensa, dall’altra per la maggior parte di loro è un’occasione per comunicare con le donne che hanno lasciato fuori. Alla fine i detenuti diventano tutti dei teneroni e sono io a doverli limitare sui pezzi d’amore -perché io non sono uno che va sul pezzo d’amore -. Sono tutti innamoratissimi, tirano tutti il loro lato romanticissimo: comunicano alle proprie donne che sono ancora innamorati e lo fanno in modo poetico. È una cosa molto bella che ti fa pensare tanto: in un’era in cui il rap parla solo di droga o soldi loro, invece, che sono davvero di strada e davvero hanno vissuto certe situazioni, colgono l’occasione per poter parlare di introspezione, redenzione, amore e romanticismo. Il progetto permette ai detenuti di attraversare un processo di crescita. In cosa Voci Spiegate li aiuta a migliorare? Io non ho la presunzione di far crescere delle persone o di migliorarle. Io offro solo dei mezzi. Vado lì ed offro degli strumenti che sono prima di tutto la parte tecnica, poi la storia dell’Hip hop, infine registrazione e mixaggio. Ogni artista, ogni scrittore, ogni rapper affronta la crescita che ritiene opportuna e di cui ha bisogno in quel momento quindi non ho la presunzione di dire che grazie a me crescono e migliorano. Chi partecipa al progetto e come avviene la realizzazione di una traccia? All’inizio si tiene un incontro in cui si illustra a tutti i detenuti in cosa consiste il progetto. Dopodiché alcuni detenuti si iscrivono e decidono di partecipare in base anche ai permessi e a quello che è loro concesso di fare nel carcere. Non siamo noi a scegliere. I meccanismi del carcere sono tanti e complessi, c’è tanta burocrazia. La registrazione della traccia è semplice: scegliamo insieme le basi, io porto dentro il mio studio mobile - scheda audio, computer, microfono- e registriamo come fossimo in uno studio vero e proprio. Attrezziamo un piccolo studio di volta in volta in qualche aula dove di solito facciamo anche gli incontri e i laboratori. Non pensi che, in alcuni casi, la funzione di denuncia del rap nei confronti delle ingiustizie (che vengono poi punite nelle carceri stesse) possa scontrarsi con quell’ambiente? Il rap è una forma artistica e l’arte deve avere il presupposto di essere libera. Io non censuro niente di ciò che loro vogliono dire. Sicuramente li spingo ad avere un linguaggio poetico e non un linguaggio semplicistico o riduzionista. La prima cosa che ho chiesto è che non mi venissero censurati i testi dei ragazzi e non è mai successo. Se dovesse succedere prendo tutto e me ne vado perché la censura nel rap è l’ultima cosa che deve succedere, non è nemmeno contemplata. Quindi se vogliono dimenticare qualche ingiustizia ben venga, l’importante è che lo facciano in un modo stilisticamente e metricamente corretto, con una cifra poetica importante e interessante. Possono dire quello che vogliono assolutamente. Quindi ci tieni particolarmente anche alla parte tecnica, le rime… Assolutamente sì, questo lo puoi anche scrivere: io sono un pignolo, un rompiscatole con la tecnica e la metrica, per me sono importantissime. Il successo del progetto è evidente e rincuorante. Kiave, secondo te, abbiamo la speranza di vederlo sviluppare anche negli anni futuri e, perché no, anche al Sud? Io non vedo l’ora di fare laboratorio nelle carceri del Sud. Le carceri del Sud sono un po’ più restie ad accettare il rap. So che il percorso è lento, ma il mio motto è “La rivoluzione è lenta e silenziosa”. Piano piano ci riusciremo senza fare troppo rumore, senza trasformalo in un fenomeno mediatico o in un baraccone che va in giro. Persisterò nell’idea di portare Voci Spiegate in più carceri possibili e spero che molte carceri del Sud richiedano il progetto. Perché no, proprio Cosenza, la tua terra… Sì, vorrei tantissimo portarlo a Cosenza. Incontro sempre un po’ di difficoltà. Piano piano ce la faremo. Mi viene in mente un rapper con cui hai collaborato, Johnny Marsiglia, palermitano legato con particolare sensibilità alla sua terra. Non hai mai pensato di coinvolgerlo e portare il progetto anche in Sicilia? In Sicilia sicuramente lo coinvolgo perché Johnny oltre ad essere, al momento, il mio rapper preferito è anche una persona che stimo tantissimo, mio grande amico. Comunque, prima di coinvolgere gli altri, dobbiamo entrare in carcere e coinvolgere i ragazzi. Man mano che avremo più attenzione e più mezzi allora coinvolgerò tanti miei colleghi. In tanti, Johnny per primo, mi hanno mostrato interesse e hanno offerto la loro disponibilità. Nel momento in cui il progetto crescerà, sicuramente Johnny sarà tra i primi che chiamerò anche perché ha un valore stilistico e artistico incommensurabile, della sua generazione è il rapper più forte. Poi io voglio bene anche a Big Joe. Lui e Johnny sono una coppia imbattibile. So che hai sfidato, conosciuto nonché sei cresciuto tra le figure più importanti della Golden Age - Esa, Tormento, Dj Lugi, per citarne alcuni, tanto è vero che ti sei avvicinato al rap con i SxM. Sei nostalgico? Che futuro pensi abbia il rap italiano che muta in tempi brevissimi? Io sono nostalgico perché la fine degli anni 90 fino al 2theBeat sono stati anni incredibili: non c’era internet quindi il rap si muoveva prevalentemente per strada. Credo nell’evoluzione del rap, non mi danno fastidio tanti fenomeni che sono usciti adesso, però spero che il rap non dimentichi da dove viene. Io quando faccio i laboratori parto sempre dalla storia dell’Hip hop, per me è molto importante che il rap non dimentichi i concetti da cui è partito, non dimentichi i valori che lo hanno reso tale che poi sono quelli legati alla cultura Hip hop. Quindi spero che i miei colleghi non dimentichino cosa stanno rappresentando e cosa stanno tramandando. Kiave, da luglio sei con Voci Spiegate alla Repubblica dei Ragazzi, a Roma. Ultima tappa del progetto, almeno per ora… Sì, il progetto presso la Repubblica dei ragazzi sta continuando. Quello però non è un carcere, sono cinque case famiglia ed è un posto che fa davvero del bene ai ragazzi, pieno di belle persone e noi stiamo cercando di portare il rap anche lì. I ragazzi sono più piccoli, è un po’ diverso l’approccio che hai quando sei libero e quando sei in una cella, ma sono convinto che l’Hip hop debba andare nei luoghi in cui i ragazzi sono davvero cresciuti per strada: Voci Spiegate nasce anche per questo, non solo per i carceri. Sono molto - concedimi il termine - affezionato a Voci spiegate nei carceri, ma andremo dove c’è bisogno. Confesso che ho odiato. Edoardo Albinati e il caso Aquarius di Luigi Manconi Corriere della Sera, 28 settembre 2018 In “Cronistoria di un pensiero infame” (Baldini e Castoldi) la genesi di una vicenda controversa. Il 28 settembre (ore 18) lo scrittore partecipa a un incontro al “Corriere”. Una meditazione sull’odio: così potrebbe definirsi quella sviluppata da Edoardo Albinati nella sua Cronistoria di un pensiero infame (Baldini e Castoldi). Una “confessione” - parole dello stesso autore - talmente spietata e priva di consolazione che, per un verso, esclude qualsiasi forma di compiacimento narcisistico e qualunque futilità scandalistica e, per l’altro, talmente autentica e ridotta all’essenziale da non comportare, come si vedrà, la perdita dell’innocenza. In quanto dettata da una assoluta e ineludibile necessità. Tutto nasce a ridosso della vicenda della nave Aquarius, che lo scorso giugno non trovò approdo in alcun porto italiano e stette alla deriva nel Mediterraneo, col suo carico umano, per 10 giorni. Davanti al piccolo pubblico di una libreria milanese, Albinati si trovò a dire: “Ho desiderato che su quella nave morisse qualcuno, morisse un bambino”, così che la responsabilità cadesse sul governo italiano che aveva disposto la chiusura dei porti. La polemica ebbe dimensioni vaste e le reazioni furono aggressive. La risposta di Albinati, che allora decise di non replicare, arriva con questo libretto di 106 pagine. Dicevo, il sentimento di odio che Albinati qui esprime è innocente, in quanto non è strumentale ad alcunché. Non è cioè il mezzo per uno scopo ulteriore, e tantomeno l’arma per un obiettivo generale, come è proprio del ricorso alle emozioni nell’arena politica. La sua è una pulsione primaria, che tale resta. È la risposta che si fa e che si sa ingiusta, e che appare come l’unica possibile all’ingiustizia patita, per conto proprio o per conto di altri. Nel pensare quella enormità - augurarsi la morte di un innocente - per colpire con un’infamia l’infamia, Albinati restituisce all’odio tutta la sua potenza distruttiva e lo sottrae alla mondanità dell’attuale discorso pubblico, separandolo radicalmente dal suo uso politico congiunturale. Infatti, come la gran parte dei vizi e delle virtù, anche questo sentimento oggi si è banalizzato, diventando consumo di massa. Siamo ormai lontani dallo scenario della politica classica, quando l’odio era componente costitutiva del conflitto per il potere e l’assassinio e la guerra ne rappresentavano le manifestazioni primarie. I processi di civilizzazione hanno mediato, senza annullarlo, quell’elemento di violenza che pure - quando si manifestava come antagonismo etnico o di classe - era più agevolmente riconoscibile da parte degli schieramenti avversi. La politica via via ha ridotto la propria dimensione bellica e cruenta rendendola metaforica, e ha neutralizzato e controllato quell’elemento di violenza, assumendo i nemici come avversari e ricorrendo a un repertorio di lotta in prevalenza pacifico. Ma l’odio ha continuato a covare nei sotterranei della politica e nel corpo sociale. Oggi per decifrarlo occorre avere coraggio e stomaco per guardare all’esibizione svergognata delle purulenze che il discorso pubblico sulla Rete - o comunque dalla Rete eccitato - autorizza a ostentare. Un flusso incontinente e sordido indirizzato contro chiunque, il primo che passa, il bersaglio mobile. L’odio in Rete come logorrea nevrotica e lutulenta, sopraffattrice e nichilista. Il linguaggio della politica (non tutta, va da sé) ne è una copia. Sia gli odiatori della Rete che quelli della politica politicante sono consapevoli di quale sia la sostanza che si agita nel fondo e la materia pericolosa che sollecitano. Albinati è incondizionatamente fuori da tutto questo, le sue sono le “considerazioni di un impolitico” che si ispirano alla concezione tragica di un pensiero forte. A quella psicopatologia della parola propria del web selvatico e della Politica dell’Ira, l’autore contrappone i corpi veri, gli organismi che vivono e che soffrono. La vita umana. O, con Primo Levi, la “materia umana”. Se la politica scherza (meglio: crede di scherzare) col fuoco e con l’odio, tanto - si sa - è politica, ovvero messa in scena, allora tocca all’impolitico dire: l’odio è cosa troppo seria per lasciarla maneggiare ai politicanti. Se si vuole davvero indagare nel profondo, dove nascono le emozioni primarie, bisogna “rimestare nel torbido”. In quello degli altri e di sé stessi. Bisogna andare “alla pancia dell’intellettuale”, al suo lato oscuro. A scoprire che “al punto in cui siamo” anch’egli prende le sembianze di una bestia. Che si lancia in un feroce corpo a corpo: cinismo contro cinismo. Sullo stesso campo si affrontano due forze uguali e opposte, eppure così sbilanciate. Da una parte il cinismo di governo, che dispone della vita e della morte dei naufraghi. Dall’altra quello immateriale di Albinati: il suo cinismo è un pensiero che assume necessariamente la forma astratta della proiezione di quei corpi veri e sofferenti in un bambino “ipotetico” del quale non sappiamo nulla (quanti anni ha? come si chiama? ha la maglietta rossa?), se non il destino di morte. Un piccolo grumo di ingiusta sofferenza e salsedine. Attenzione: l’immaterialità del cinismo di Albinati e la sproporzione della lotta contro il cinismo di governo non è richiamata nemmeno dallo stesso come un’attenuante o una giustificazione. È, al contrario, la rivendicazione di una sorta di diritto di rappresaglia, con l’unica arma di cui si dispone: la parola. Ovvero la parola come tentativo estremo di avvicinarsi a sfiorare la verità. Che poi vuol dire trovare un senso. La parola scorticata che si batte e che può resistere solo se il luogo dello scontro resta irrimediabilmente altro rispetto a quello della politica. Il campo di Albinati è quello dei principi fondamentali. Ed egli non può fare altro che metterlo crudelmente sotto i nostri occhi: “Ci viene di soccorrere l’altro perché intuiamo in modo assolutamente pre-logico che la prossima volta potrebbe toccare a noi di aver bisogno di chiedere aiuto”. È così: la società organizzata nasce proprio per rispondere in maniera efficace, attraverso un’attività di reciproca tutela, alla rivelazione della vulnerabilità di chi si trovi solo e in stato di pericolo. È il mutuo soccorso. Per questa ragione negare o indebolire il diritto/dovere al salvataggio corrisponde a erodere la stessa identità umana che risiede in quel passaggio essenziale da individuo isolato a comunità associata. A venire insidiata è un’obbligazione morale che precede ogni ordinamento e ogni norma. Il super-computer contro il crimine di Federico Berni Corriere della Sera, 28 settembre 2018 Incrocia filmati e volti dei sospettati: primo arresto con il “Sari”. L’uomo, 39 anni, aveva svaligiato tre negozi. È stato individuato con il sistema di riconoscimento automatico delle immagini individuando un profilo compatibile con l’autore dei colpi. Sul monitor degli agenti della polizia scientifica viaggiano in parallelo il fotogramma di un video che inquadra il volto di un uomo e una serie di immagini segnaletiche a fianco. Ci è voluto un tempo di risposta variabile tra i dieci e i venti secondi, per far apparire sullo schermo una lista di sospettati. Il resto, per arrivare alla cattura del malvivente, lo fanno le attività investigative classiche. Ma gli investigatori, pur non potendo certo prescindere dal fiuto e dalla professionalità, hanno un’arma in più: il Sari, acronimo che sta per “Sistema automatico riconoscimento immagini”. Uno strumento all’avanguardia, introdotto a luglio di quest’anno, che permette, attraverso l’inquadratura del volto, di risalire al possibile autore di un crimine, e che ha colpito per la prima volta in città nei giorni scorsi, con l’esecuzione di una misura cautelare in carcere nei confronti di M.D., rapinatore seriale di farmacie, presunto responsabile di tre colpi avvenuti a breve distanza in zona Villa San Giovanni. L’uomo, 39 anni, pregiudicato, entrava in azione a volto scoperto, seguendo il copione classico delle rapine “mordi e fuggi”, commesse prevalentemente ai danni di farmacie e piccoli supermarket. Prima l’ingresso nel negozio, poi la richiesta minacciosa al farmacista dietro al bancone di consegnare i contanti, con la mano in tasca a fingere (forse) di avere un’arma. Azione ripetuta, secondo le accuse, il 2, il 3 e il 19 settembre, nelle farmacie di via Toselli, Atene e Palmanova. Gli agenti della sesta sezione della Squadra Mobile, diretti da Massimiliano Mazzali, hanno raccolto i filmati dell’impianto di videosorveglianza, cercando di isolare al meglio l’immagine del viso del malvivente. A questo punto è entrato in gioco il Sari, e il lavoro della polizia scientifica. Il sistema si basa, infatti, su un software capace di elaborare le riprese catturate dalle telecamere di sicurezza, e di confrontarle con i volti dei soggetti schedati dalle forze dell’ordine (un elenco di circa 16 milioni di cosiddetti “cartellini” inseriti in un’apposita banca dati). Concluso il procedimento, il Sari restituisce un elenco di fotografie, ordinate secondo la percentuale di somiglianza e corredate dalle informazioni personali (nomi, indirizzi conosciuti, trascorsi penali), tra le quali potrebbe esserci quella del soggetto ricercato. È in questo modo che il Sari, con il trentanovenne M.D., vecchia conoscenza delle forze dell’ordine, ha fatto centro. Nella sua abitazione di Pioltello, sono stati trovati i pantaloni grigi e le scarpe sportive utilizzate durante le rapine. Un’operazione definita dalla responsabile della polizia scientifica Angela Lauretta come “un mix tra innovazione e attività investigativa tradizionale”. Il Sari va ad aggiungersi ad un altro strumento tecnologico ormai consolidato, il software “Key crime”, che però lavora solo sugli elementi di serialità dei comportamenti criminali. “La qualità delle immagini aiuta - ha aggiunto Lauretta - ma anche in caso di bassa definizione delle stesse non è esclusa la possibilità di provare con successo il riconoscimento facciale”. Nel caso non venga individuata alcuna corrispondenza, invece, l’immagine inserita nel Sari resta comunque memorizzata per individuare, eventualmente, delle corrispondenze. Grazie all’applicazione di questa nuovo tecnologia, agli inizi di settembre, i poliziotti della questura di Brescia sono arrivati alla cattura di due ladri georgiani, indagati di furto in appartamento: il primo successo in Italia messo a segno dal Sari. Politici che odiano le donne, i bambini e i migranti di Simona Maggiorelli Left, 28 settembre 2018 Fa carta straccia del permesso di soggiorno per la protezione umanitaria, nega il diritto d’asilo (previsto dalla Costituzione), raddoppia da tre a sei mesi la permanenza (una vera e propria reclusione) nei centri per il rimpatrio. Scendendo più in dettaglio: cancella il diritto al pubblico patrocinio per i richiedenti asilo, impone più daspo urbano e restrizioni della libertà in base a soli sospetti, revoca lo status di rifugiato ai profughi condannati in primo grado. Il decreto sicurezza-migranti che ha passato il vaglio del Consiglio dei ministri è lesivo dei trattati internazionali, incostituzionale (l’ordinamento prevede la presunzione di innocenza fino al terzo grado di giudizio), disumano. Ancora una volta Salvini alza il tiro nella lotta contro i migranti sebbene l’immigrazione sia ai minimi storici degli ultimi anni. Fin dal titolo il decreto Salvini criminalizza l’immigrazione annunciandone una gestione securitaria. E un provvedimento manifesto, crudele e vigliacco nel prendersela con i più vulnerabili. Tanto feroce quanto avulso dalla realtà, dai problemi dell’Italia, dove l’emergenza riguarda la sicurezza delle infrastrutture e del territorio, dove l’emergenza è la disoccupazione, la dispersione scolastica, la sanità depotenziata e privatizzata. Invece di affrontare tutto questo, mentre ritarda la presentazione del Def, il governo giallonero per voce del vice premier Di Maio propone di emulare la Francia nello sforamento del tetto (come se avessimo la stessa solidità economica e lo stesso debito pubblico dei francesi) annuncia condoni e prebende. Si rischia di rimanere increduli e imbambolati di fronte a misure come questo decreto sicurezza dettato da pensieri deliranti, fantasticherie di complotti per la sostituzione etnica degli italiani. Ma la paranoia che alimenta politiche di chiusura dei porti (chiusi alle persone migranti non alle merci) produce ricadute molto concrete, pesantissime, su chi scappa dalla guerra, dalla tortura, dalla miseria, dalla mancanza di futuro. “Forte con i deboli” avevamo scritto in copertina del numero in cui abbiamo anticipato i contenuti di fondo del decreto Salvini, lanciando l’allarme. Gli annunci choc di provvedimenti così agghiaccianti da superare ogni realtà producono l’effetto di tramortire l’opinione pubblica, che, irretita, rimane inerte, incapace di reagire e di proferire parola mentre il ministro dell’Interno minaccia di procedere con le ruspe contro i Rom. Come l’inaccettabile stretta sulla protezione umanitaria che ricaccia i profughi in una situazione di irregolarità, senza tutele, senza garanzie, anche le annunciate misure contro la minoranza rom è indotta dal pensiero delirante e violentissimo che chi ha un colore diverso di pelle o esprime un’altra cultura o stile di vita non abbia la stessa umanità e diritti. La paura dell’altro, del diverso da sé ossessiona il governo giallonero che fa di tutto per restaurare un ordine patriarcale, da Stato teocratico e suprematista. Folgorato sulla via di Damasco da Steve Bannon, Salvini con Fontana e Pillon vuole cancellare i diritti conquistati dalle donne, rimandandole dietro i fornelli, a casa a fare figli per la patria. Sotto attacco sono la 194, le unioni civili, la legge sui consultori, ma anche la pur moderata legge sul fine vita, come raccontiamo in questa storia di copertina in cui a parlare sono sociologi come Chiara Saraceno giuristi, psicoterapeuti, ginecologi di chiara fama come Carlo Flamigni, attivisti, ma soprattutto sono le donne a prendere la parola in prima persona. Conte bacia i santini di padre Pio, Di Maio l’ampolla di San Gennaro e non è solo folclore, perché si traduce in disegni di legge, concepiti su dogmi, come l’idea scientificamente falsa che la vita umana cominci al concepimento. In nome della fede, i cattolici sono sordi anche alle sentenze della Corte europea dei diritti dell’Uomo che ha condannato la Legge 40 perché confonde feto e bambino e fanno orecchie da mercante quando, come è avvenuto la settimana scorsa, la Corte di Strasburgo afferma che è giusto censurare chi dice che l’aborto è un omicidio. (Come sostiene papa Francesco). In Parlamento, un intergruppo di crociati - che va dalla sempiterna Binetti, numeraria dell’Opus dei ed ex senatrice Pd, a Gasparri a Quagliarello - è pronto ad alzare gli scudi per imporre a tutti valori non negoziabili, per ridurre le donne al silenzio come voleva Paolo di Tarso, per riportare indietro le lancette della storia a quando i bambini erano considerati una mera tavoletta di cera. Questo è il pensiero agghiacciante che traspare dietro il ddl Pillon, che opera una controriforma degli affidi, negando ai bambini il diritto di rifiutare il genitore maltrattante (anche durante un eventuale processo) e rende alle donne più difficile denunciare. Lasciandovi all’approfondimento che offrono gli articoli di questa storia di copertina, vorrei concludere ricordando al collega Damilano, a Genna e ai colleghi dell’Espresso che i Pillon o i Fontana non sono espressione di una Chiesa “cattiva” che combatterebbe la Chiesa “buona” di Bergoglio. Non c’è una Chiesa cattiva e una buona. Il pensiero di negazione e di annullamento dell’identità delle donne è il medesimo. Medesima è la scandalosa copertura dei preti pedofili che violentano i bambini. Medesima è la dottrina spacciata per antropologia. Migranti. Decreto sicurezza, la Cei attacca: “incostituzionale” di Adriana Pollice Il Manifesto, 28 settembre 2018 Il cardinale Bassetti: “Intervenga il presidente Mattarella”. Il ministro leghista replica: “Il mio stipendio lo pagano gli italiani”. La Cei boccia il decreto legge Salvini su migranti e sicurezza. A mettere in fila i punti critici, sottolineati anche da molti giuristi, è il suo presidente, il cardinale Gualtiero Bassetti: “Mi preoccupa l’abrogazione dei permessi di soggiorno per motivi umanitari e anche la riduzione di questi permessi perché in questo modo si rischia di esporre tante persone a un futuro incerto”, ha spiegato ieri al termine del Consiglio permanente dei vescovi. Il dl dovrà passare il vaglio del parlamento, ma secondo la Cei ci sono “perplessità sulla forma decreto rispetto al carattere di emergenza”, la speranza è che il testo venga migliorato nei successivi passaggi: “Deve intervenire anche il presidente della Repubblica - ha osservato Bassetti. Questa è ancora una bozza, non una legge, le osservazioni della Chiesa possono essere utili”. Le osservazioni contestano l’impianto stesso del dl: “In genere un decreto dovrebbe fronteggiare un’emergenza - è il ragionamento, questo decreto invece tende ad abolire la concessione di un permesso di soggiorno per motivi umanitari e non solo di emergenza. Finora questa valutazione era dei prefetti e dei questori, in questo decreto si toglierebbe ai prefetti e ai giudici la discrezionalità che hanno esercitato nel riconoscere la protezione umanitaria”. E ancora: “Sono ampliati i reati per il diniego della protezione, non mi sembra che ci si debba fermare a una condanna di primo grado. La stessa cittadinanza verrebbe revocata anche per reati non necessariamente gravi. L’espulsione legata al primo grado di condanna, che non tiene conto dei tre gradi di giustizia, non rispetta la Costituzione”. La Cei è preoccupata anche per il ridimensionamento del modello Sprar, che finora è servito a far inserire i migranti nella società italiana. Bassetti utilizza toni diplomatici: “Viviamo in uno stato giuridico che ha le proprie regole che noi rispettiamo. Il Papa, nei paesi che ha visitato, ha detto: l’accoglienza è un conto, l’integrazione anche è molto importante perché se tu accogli e non integri, non fai partecipare l’altro dei tuoi valori, è un’accoglienza monca. In Europa ogni stato decida quanti ne può accogliere ma senza mancare di rispetto nei loro confronti”. Il ministro dell’Interno, Matteo Salvini, ha replicato dalla Tunisia: “Mi fa piacere che ci sia tanta gente in Vaticano e no che si occupa di chi sbarca in Italia, ma il mio stipendio è pagato da 60 milioni di italiani che vogliono vivere tranquilli. Meno immigrazione clandestina significa più sicurezza per gli italiani. Vogliamo garantire un futuro sereno a chi scappa davvero dalla guerra e sono una minoranza di quelli che arrivano”. Toni accesi dal vicepresidente leghista del Senato, Roberto Calderoli: “Ma perché la Cei deve continuare a fare politica? Perché il cardinale Bassetti deve criticare la politica del governo? La smettano i vescovi di mettere il becco nella politica e pensino all’erba del loro orto che, purtroppo, in questi ultimi anni non mi sembra tanto verde, tra scandali pedofilia a ogni latitudine e corruzione morale”. Non sono stati però questi i toni quando ad agosto la Cei ha salvato la faccia di Salvini con i migranti bloccati sulla Diciotti: il ministro si era infilato in una strada senza sbocco, con le procure in fila per avviare procedimenti penali. La soluzione arrivò grazie ai vescovi che si fecero carico dell’accoglienza di cento migranti bloccati dal Viminale. Allora la Lega non trovò l’intervento della Chiesa un’indebita ingerenza nella politica del governo. In aumento i migranti poveri. In carcere 1 su 3 è straniero Redattore Sociale, 28 settembre 2018 I dati del Rapporto Caritas Migrantes 2017-2018. Dal punto di vista sanitario, il profilo di salute dei migranti si caratterizza per condizioni di sofferenza dovute ad accoglienza inadeguata, fragilità sociale e scarsa accessibilità ai servizi. Ancora numeri e considerazioni dall’annuale Rapporto Immigrazione di Caritas e Fondazione Migrantes, presentato questa mattina a Roma. Un rapporto che da oltre 25 anni analizza il fenomeno migratorio nelle sue molteplici dimensioni. In aumento i cittadini stranieri poveri, in particolare quelli extra Ue. Per quanto riguarda l’incremento della povertà rispetto alla base di riferimento (il 2010), l’incremento maggiore di povertà ha riguardato i cittadini stranieri appartenenti a Paesi dell’Unione Europa: dal 35,4% al 48,5% (+13,1% in 7 anni). Seguono i cittadini originari di Paesi non-UE, presso i quali l’incidenza del rischio di povertà è passata dal 43,5% al 54% (+10,5%). Tra gli italiani l’aumento del rischio di povertà è stato meno rilevante, passando dal 20,8% del 2010 al 26,1% del 2016 (+5,3%). Nel corso del 2016 le persone accolte ed accompagnate presso i Centri di ascolto della Caritas sono state 205.090, un dato che comprende anche i quasi 16 mila profughi ascoltati dalla sola diocesi di Ventimiglia-Sanremo. Come in passato, anche nel 2016 nel Nord e nel Centro Italia il profilo sociale delle persone aiutate coincide per lo più con quello degli immigrati (rispettivamente il 62,6% e il 62,1% del totale); nel Mezzogiorno, invece, chiedono aiuto soprattutto le famiglie di italiani (68,1%). In questi anni di crisi economica, tuttavia, anche le regioni del Nord e del Centro hanno rilevato un incremento evidente del peso degli italiani. Tra gli stranieri sono due le nazionalità prevalenti, in linea con gli anni passati: quella marocchina (19,2%) e quella romena (13,6%). Non portano le malattie, ma si ammalano per le condizioni di accoglienza. Nel rapporto si evidenzia come, dal punto di vista sanitario, il profilo di salute dei migranti si caratterizzi per condizioni di sofferenza dovute ad accoglienza inadeguata, fragilità sociale e scarsa accessibilità ai servizi. I migranti non sono, dunque, portatori di malattie ma a loro salute, così come alla sua mancanza, concorrono le condizioni di vita nel Paese di provenienza (condizioni pre-migratorie), il percorso migratorio e i livelli di accoglienza e inclusione nel Paese di arrivo (condizioni post-migratorie): i migranti si ammalano anche di esclusione sociale, di fallimento o minaccia di fallimento del proprio progetto migratorio, a volte di povertà e spesso di difficoltà di accesso ai servizi socio-sanitari. I dati al 2016, anno record di sbarchi, non modificano il trend degli ultimi anni, e cioè una diminuzione dei casi di malattie infettive, come TBC e AIDS. “Sono dati oggettivi che ridimensionano i timori soggettivi e che, da una parte, devono rassicurare l’intera popolazione, ma dall’altra devono stimolare interventi di integrazione sociale e di garanzia dell’accessibilità ai servizi sanitari - si legge nel dossier -. Realizzare buone pratiche di accoglienza diventa il primo e imprescindibile passo per difendere e promuovere la salute di ogni migrante”. In carcere 1 su 3 è straniero. Al 31 dicembre 2017 la popolazione carceraria conta 19.745 detenuti stranieri tra imputati, condannati e internati. Rispetto allo stesso periodo del 2016, quando gli immigrati erano 18.621, si registra un incremento del +6%. Rimane inalterata, tuttavia, l’incidenza della componente estera sul dato complessivo della popolazione carceraria, a distanza di dodici mesi ancora ferma al 34%. Il dettaglio delle nazioni vede il Marocco confermarsi come il Paese maggiormente presente, con 3.703 detenuti (il 18,7%), seguito dall’Albania (2.598 persone, pari al 13,1%) e, di poco distanziata, dalla Romania (2.588 persone, pari al 13,1%). La componente immigrata è nettamente più giovane rispetto a quella italiana. Il detenuto straniero tipo è un uomo, è sposato e ha meno di 40 anni. La stragrande maggioranza della popolazione carceraria straniera è composta da detenuti di sesso maschile (18.844, pari al 95,5%), a fronte di 901 detenute (appena il 4,5%). Per le detenute occorre segnalare il preoccupante aumento di bambini al seguito. In termini generali, sono 56 i bambini presenti accanto a 51 donne detenute. Di questi, i bambini stranieri in carcere sono 30 (pari al 58%) al seguito di 33 detenute straniere. Il 60 per cento degli stranieri sono cristiani. Per quanto riguarda la religione, secondo le più recenti stime della Fondazione Ismu, su un totale di 5.144.440 stranieri residenti in Italia al 1° gennaio 2018, i musulmani sono poco meno di 1 milione e mezzo, pari al 28,2% del totale degli stranieri. I cristiani complessivamente sono il doppio, quasi 3 milioni, in aumento di circa 50 mila unità negli ultimi due anni. Ne consegue che, nel complesso, il 57,7% dei cittadini stranieri residente in Italia è cristiano. Si tratta in maggioranza di ortodossi (1,6 milioni, dei quali quasi 1 milione romeni) e 1,1 milioni di cattolici (tra coloro che migrano dall’Est Europa soprattutto albanesi, una minoranza di romeni e polacchi, filippini tra coloro che migrano dall’Asia, ecuadoriani e peruviani fra i latinoamericani). Migranti. Appello di Aquarius: “la gente muore in mare, dateci una bandiera per lavorare” di Alessandra Ziniti La Stampa, 28 settembre 2018 Appello di Msf e Sos Mediterranee all’Europa: “Basta criminalizzare le Ong”. E accusano l’Italia di aver minacciato Panama di chiudere i porti alle loro navi se non avesse ritirato l’iscrizione al registro navale. “Ci venga data una bandiera: nel Mediterraneo Centrale si continua a morire. Noi vogliamo continuare a lavorare in mare in accordo con le leggi internazionali come abbiamo sempre fatto”. La nave Aquarius con i 58 migranti a bordo soccorsi qualche giorno fa è ferma ancora in acque internazionali nei pressi di Malta in attesa che le condizioni meteo consentano il trasbordo sulla motovedetta maltese che li porterà a La Valletta da dove verranno subito redistribuiti tra i quattro paesi che ne hanno dato disponibilità: Francia, Spagna, Portogallo e Germania. Ma intanto a Roma, i rappresentanti di Msf e Sos Mediterranee lanciano un appello perché l’Europa risolva il problema della bandiera che, dopo Gibilterra, è stata revocata alla nave Aquarius anche da Panama su presunte pressioni del governo italiano, smentite da Salvini. “Il Mediterraneo è diventato il mare più pericoloso al mondo e noi vogliamo continuare ad esserci. Facciamo appello a tutti i governi che hanno a cuore la vita delle persone a darci una bandiera”, la richiesta della presidente di Medici Senza Frontiere, Claudia Lodesani. Frederic Penard, direttore di Sos Mediterranee, ha precisato che “non abbiamo fatto una richiesta specifica a nessun Paese”, “tecnicamente” sarebbe possibile anche una bandiera del Vaticano che ha un proprio registro. La Aquarius, appena sbarcati i migranti, farà rotta verso Marsiglia diventata la sua base operativa dove dovrà rimanere ferma fino a quando un altro Stato non concederà l’iscrizione ad un registro navale. “Abbiamo ricevuto l’informazione che Panama stava ritirando la bandiera dall’Aquarius il pomeriggio di venerdì scorso. Questo è stato un grande shock, una misura non legittimata - ha detto Frederick Penard. L’autorità marittima panamense scrive che purtroppo l’Aquarius 2 deve essere esclusa dal registro perché la sua permanenza implica un problema politico per il governo e per la flotta panamense che approda nei porti europei. L’autorità marittima scrive inoltre di aver ricevuto informazioni da parte delle autorità italiane tramite l’ambasciata a Roma e che il ministero degli Affari Esteri di Panama ha ritenuto questo fatto importante richiedendo un intervento in proposito e quindi l’autorità marittima panamense preferisce di conseguenza non mantenere una situazione che considera problematica e di voler procedere alla cancellazione dell’Aquarius 2 dal proprio registro”. “È in atto una campagna di diffamazione delle organizzazioni umanitarie che si basa su menzogne, intimidazioni a Paesi terzi, su un tentativo di criminalizzare la solidarietà. Siamo stanchi. È arrivato il momento di dire come stanno le cose - ha aggiunto Claudia Lodesani - Siamo accusati di essere vice-scafisti, ma in realtà forse sono le politiche europee, che non pensano a ripristinare canali legali, ad alimentare il problema”. Lodesani ha riferito che tra i 58 migranti a bordo dell’imbarcazione umanitaria e in attesa di sbarco sono rappresentate 37 famiglie libiche e 18 bambini. “Vediamo sempre più libici partire - ha spiegato - perché in Libia c’è una guerra, ricominciata qualche settimana fa. Lo scenario sta cambiando, perché i libici iniziano a scappare e ovviamente non possiamo più respingere persone che scappano dalla guerra e rimandarle nel loro Paese, sarebbe contro ogni norma di diritto internazionale”.