“Vi racconto le carceri italiane”. Intervista a Francesco Basentini, Capo del Dap di Luca La Mantia interris.it, 27 settembre 2018 Dalla tragedia di Rebibbia al sistema di detenzione, Francesco Basentini (Dap): “Migliorare è possibile”. Dal sovraffollamento al disagio, umano e sociale. Esiste un mondo dentro il carcere che troppo spesso trascuriamo, lavandoci la coscienza con la più classica delle frasi fatte: “Se lo sono meritato”. Ce ne ricordiamo solo quando la tragedia bussa alle nostre porte: un suicidio, una madre (come a Rebibbia) che uccide i suoi figli lanciandoli nel vuoto. Eppure molto si potrebbe fare per migliorare le condizioni di vita di chi popola i penitenziari italiani. Ne abbiamo parlato con Francesco Basentini, capo del Dipartimento di amministrazione penitenziaria (Dap). Umanamente e professionalmente che sensazioni lasciano tragedie come quella di Rebibbia? “Terribili, umanamente devastanti. Si tratta di un evento unico nella storia penitenziaria italiana”. Si poteva evitare? “Impedire che si verifichino fatti così assurdi e drammatici è difficile. Va detto, però, che probabilmente la macchina organizzativa non ha funzionato come avrebbe dovuto. Dalla lettura di alcuni atti emerge, in particolare, che c’era la possibilità di effettuare alcuni interventi, di carattere tecnico e medico. E, per quanto sia sin troppo facile giudicare col senno di poi, è altamente probabile che l’esecuzione di questi interventi avrebbe potuto evitare questa tragedia”. Qual è oggi la situazione dei minori al seguito delle mamme detenute? Come vivono? “La legge consente la convivenza tra le mamme detenute e i loro sino ai dieci anni di questi ultimi. La coabitazione avviene all’interno degli Istituti di custodia attenuata per madri detenute, i cosiddetti Icam. Si tratta di strutture pensate per non essere un vero e proprio carcere, sono appartamenti nei quali è consentita una certa libertà di movimento. La custodia è affidata a personale non in divisa della polizia penitenziaria, mentre l’attività di supporto è svolta dai servizi sociali e dagli educatori. Si crea una vera e propria comunità posta al di fuori del carcere”. Subito dopo i fatti di Rebibbia, il presidente dell’Associazione Giovanni XXIII, Giovanni Paolo Ramonda, ha fatto un appello affinché le madri detenute e i loro bambini possano essere accolti all’interno di case famiglia per consentire ai minori di vivere in una dimensione diversa da quella del carcere. Come vede questa possibilità? “Va preso in considerazione tutto quello che comporta un miglioramento delle condizioni di vita dei bambini di madri detenute. Non vanno però sovrapposte questioni diverse...” In che senso? “L’incidente di Rebibbia è un fatto molto particolare, parliamo di una donna che molto probabilmente versava in condizioni psichiatriche non compatibili con la presenza di bambini, qualunque fosse il luogo di esecuzione della pena o della misura cautelare. La stessa cosa sarebbe potuta avvenire anche se la madre non fosse stata una detenuta. Per cui non trovo molto sensato partire da questo episodio per intavolare una discussione sugli Icam, sui nidi o sull’organizzazione delle carceri”. Sovraffollamento, frequenti suicidi. Cosa non funziona oggi nel sistema penitenziario italiano? “Uno dei problemi scatenanti di certi fenomeni, in particolare dei suicidi, dipende dall’elevata percentuale di popolazione carceraria con problemi psicologici o psichiatrici. Si tratta di persone che dovrebbero essere sottoposte a cure e terapie affidate al servizio sanitario competente per territorio. In sostanza: oggi nei penitenziari comuni vengono destinati individui che un tempo sarebbero stati affidati agli istituti psichiatrici giudiziari, ormai aboliti. Bisognerebbe dunque chiedersi se questo sia opportuno o non sia meglio trovare soluzioni alternative”. Come gestite questa situazione? “Esistono sezioni specifiche dove vengono rinchiusi i detenuti con questa tipologia di problemi per essere sottoposti a cure. Parlo delle Rems, le quali tuttavia hanno posti limitati e non sono quindi in grado di coprire tutta la domanda. Di conseguenza quando la struttura è piena la persona che dovrebbe esservi destinata viene inserita all’interno del carcere. Il problema è che una cosa non può sostituirsi all’altra. Il fenomeno dei suicidi va quindi analizzato anche tenendo conto di queste variabili. E aggiungo una cosa...”. Dica... “La prassi vorrebbe che quando un detenuto varca la soglia del carcere si effettuasse una sorta di filtro, volto a verificare se, ad esempio, ci si trovi in presenza di un determinato quadro clinico. In alcune strutture viene svolta anche una visita psichiatrica. Sulla base dei risultati si fa una classificazione degli internati, al fine di allocarli in un settore piuttosto che in un altro. Se hanno problemi di natura psichiatrica saranno destinati alle Rems, dove verranno loro assicurate le cure da parte delle Asl”. Dove si verifica il cortocircuito che fa compiere errori di valutazione? “Può avvenire in qualunque passaggio di questa procedura. Dipende dall’errore umano”. La recidiva dopo il carcere, secondo gli ultimi dati, è al 68%. Significa che la funzione rieducativa, che ha sostituito quella punitiva, non produce i risultati sperati? “La recidiva non sempre dipende dal carcere. La mission dei penitenziari è quella di rieducare i detenuti, di formarli per una nuova vita sociale. Ma deve fare i conti con le strutture e le risorse che il sistema mette a disposizione. Il carcere ideale è quello in cui è possibile svolgere attività lavorativa, impiegare il tempo libero in modo costruttivo, nel quale ci sono strutture sanitarie adeguate, un numero sufficiente di personale penitenziario e così via. Ecco, un carcere ideale di questo tipo in Italia non esiste. Dobbiamo fare i conti con quelle che sono le nostre possibilità”. Lei ha parlato a più riprese della necessità di migliorare la condizione di vita dei carcerati... “È un elemento imprescindibile, perché consente di alleggerire il clima all’interno dei penitenziari, di rendere il contesto meno stressante. Compatibilmente con le risorse a disposizione dobbiamo, innanzitutto, trovare delle soluzioni lavorative per i detenuti, magari cercando un’interlocuzione con gli enti locali e il mondo imprenditoriale. Stiamo siglando diversi protocolli che prevedono la divisione in gruppi dei detenuti meritevoli per portarli fuori dalla struttura penitenziaria a lavorare. Come Dap, su input del ministro della Giustizia, stiamo lavorando anche sull’aspetto dell’affettività. In questo ci tornerà utile la tecnologia, che ci consentirà, con i video-colloqui, di aumentare le occasioni di incontro e dialogo tra i reclusi e i loro familiari”. Ci sono realtà associative, come la “Giovanni XXIII”, che accolgono i detenuti in strutture alternative per una rieducazione integrale della persona. Come giudica queste esperienze? “Tutto ciò che può agevolare il percorso formativo al di fuori del carcere è benvenuto. Il Dap non è chiuso nelle sue scelte ma aperto a qualsiasi confronto. Interloquiamo con tutte le realtà possibili per trovare soluzioni”. Le carceri diventano spesso i luoghi nei quali inizia quel percorso di radicalizzazione che foraggia il terrorismo internazionale. Quali sono le contromisure? “È vero. I penitenziari, oltre a essere strutture destinate all’esecuzione di una condanna, diventano spesso luogo di sviluppo programmatico di attività criminali. Basti pensare a cosa avviene, talvolta, nei centri di elevata sicurezza, dove vengono magari a contatto appartenenti a mafia siciliana, ‘ndrangheta e camorra, stringendo nuove alleanze. La stessa cosa avviene con il terrorismo. Il Nic e il Gom della Polizia penitenziaria servono proprio a svolgere attività investigativa all’interno dei penitenziari, di concerto con l’autorità giudiziaria”. Madri in carcere, il nuovo testo non valorizza le misure alternative di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 27 settembre 2018 Il ministro promette: ci saranno nuove Icam. Approvato dalle Commissioni il Decreto principale della riforma. La norma precedente avrebbe modificato l’articolo sulla detenzione domiciliare, rendendo più fruibile l’accesso alla detenzione in una casa famiglia protetta o negli istituti a custodia attenuata. “Farò ampliare numero delle strutture a custodia attenuata per le madri, i cosiddetti “Icam”, prevedendone almeno una per regione”, così spiega il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede in risposta a Luciana Littizzetto dopo il suo appello domenica scorsa, durante la trasmissione “Che tempo che fa”, dopo la tragedia di Rebibbia. Lo stesso guardasigilli, però, spiega, che è consapevole del fatto che il problema non sono i posti disponibili visto che “attualmente - sottolinea il ministro siamo circa a meta della capienza potenziale di queste strutture”. Diverse certamente sono le problematiche da individuare, però è la mancata riforma che va ad implementare le misure alternative. La parte della riforma riguardante le mamme detenute, in realtà, era già stata scartata dal governo e sostituita con l’organizzazione della vita detentiva interna al carcere. L’altro ieri la commissione giustizia del Senato ha approvato, con pareri, lo schema di decreto principale riguardante la riforma dell’ordinamento penitenziario. Come già riferito da Il Dubbio, l’esame si era già concluso nella commissione della Camera e all’appello mancava quella dell’altro ramo del parlamento. Detto, fatto. Ora lo schema principale, assieme a quello riguardante l’ordinamento penitenziario minorile e giustizia riparativa (quest’ultima bocciata dalle commissioni), saranno sul tavolo del Consiglio dei ministri per l’approvazione definitiva. Ma le detenute con prole? Non c’è traccia nel testo, perché il governo stesso - esattamente il 3 agosto scorso - ha approvato in via preliminare il comma 85, lettere a), d), i), l), m), o), r), t) e u), modificandolo sostanzialmente rispetto a quello licenziato lo scorso 16 marzo dal governo precedente. In sostanza il Consiglio dei ministri ha cancellato tutti quei passaggi relativi alle misure alternative e al loro possibile accesso. Ed è lì che, in origine, era anche contemplato l’accesso alle misure alternative per quanto riguarda le detenute con prole. In commissione, quindi, non è vero che la maggioranza ha votato contro: ma al contrario, c’è stato il parere favorevole al decreto completamente riscritto. Semplicemente quella parte che valorizzava l’alternativa al carcere per le detenute con bambini non c’è più. A meno che, visto che siamo ormai oltre la delega, il governo decida di esercitarne una nuova con tutto l’iter previsto. Il testo licenziato dal governo Gentiloni conteneva, appunto, vari passaggi dedicati alla modifica in tema di detenzione domiciliare e gran parte erano dedicati alle detenute con figli. Andiamo direttamente all’articolo 15 del decreto relativo alla modifica in tema di detenzione domiciliare e specificatamente al passaggio riguardante le mamme. Prendeva in esame l’articolo 47- quinquies che corrisponde, appunto, alla detenzione domiciliare. La modifica interveniva sia su questo articolo che sull’istituto della detenzione domiciliare speciale, appositamente per rispondere al criterio di “assicurare la tutela del rapporto tra detenute e figli minori”. In tal senso, con le modifiche, si è estesa la previsione di applicazione della detenzione domiciliare alle detenute che abbiano figli in situazione di grave disabilità e non possono essere ammesse al regime della detenzione domiciliare generale per carenza dei requisiti soggettivi e/ o oggettivi di applicazione delia citata misura. Poi, con un’altra modifica, si ridisegnava la misura della detenzione domiciliare speciale con la possibilità per le detenute madri di prole di età inferiore a sei anni, di scontare la pena presso gli Istituti a Custodia Attenuata per Detenute Madri (Icam), salvo che sussistano particolari esigenze di sicurezza. Oltre a ciò, si rendeva più fruibile l’accesso alla detenzione domiciliare attraverso le case famiglia protette. Altra modifica sostanziale era il 4bis per quanto la detenzione domiciliare per chi ha figli minori di 10 anni. Punto che fu molto contestato dall’attuale procuratore antimafia Federico Cafiero de Raho. Per il procuratore “non sono madri normali ma mafiose o terroriste, ovvero soggetti pericolosi”. C’è da precisare che il 4bis non comprende solo reati legati alla mafia, ma con il tempo ha incluso diversi reati. Anche per questo la riforma prevedeva una modifica sostanziale del 4bis per farla ritornare nella sua forma originale. Tutto questo nel testo riscritto dall’attuale governo non c’è. Anzi, tranne il differimento di esecuzione per donne incinta o con bimbi sotto un anno, l’articolo del decreto originario viene sostituito con la vita detentiva: le mamme devono stare in carcere con i figli, ma dignitosamente. Quindi le commissioni parlamentare, ribadiamo, hanno approvato - con pareri - l’intero decreto completamente svuotato del corpo principale dedicato alle pene alternative. Detenute madri incluse. Bimbi e carcere, ogni scelta è a rischio di Adriano Sansa Famiglia Cristiana, 27 settembre 2018 I bambini non devono stare in carcere ma devono stare con i genitori, anche se questi sono privati della libertà. Come conciliare queste incontestabili necessità? La realtà mette di fronte a situazioni drammatiche. Non sono consentite pretese di soluzioni prive di rischi. Tuttavia gli ordinamenti più civili, come nelle sue norme è il nostro, prevedono ragionevoli compromessi tra le esigenze in gioco. Vi sono le sezioni nido del carcere per i casi eccezionali in cui sia indispensabile la detenzione dell’adulto in quell’ambiente. Ma la via principale da percorrere in presenza di bambini in tenera età è quella degli istituti a custodia attenuata, dove la rigidità del regime detentivo e i suoi stessi segni e simboli sono affievoliti; e quella delle case famiglia protette, la cui natura è ben descritta dal nome. Dei primi ne esistono cinque; una sola, con sei posti, è la casa famiglia disponibile. Ecco una prima osservazione dopo la tragedia dei due bambini uccisi dalla madre a Rebibbia: chi amministra e governa deve curare l’adempimento delle leggi perché non siano vane. Ma è anche vero che in casi estremi di pericolosità sociale e criminale o di patologia dell’adulto il bambino deve esserne allontanato e messo in salvo con l’affidamento ad altri. Scelte difficili, impegnative, da compiere con estrema cura per la sofferenza che possono alleviare o provocare. Rischiose, come imprudente è la pretesa di giudicare sbrigativamente gli eventi. Tragedia di Rebibbia, madre-figli in carcere e i limiti della legge di Giuseppe Mosconi mattinopadova.it, 27 settembre 2018 La tragedia del duplice infanticidio di Rebibbia catalizza atteggiamenti di fondo sulla questione carceraria: Per chi vede la pena detentiva come necessaria e inevitabile, si tratta di separare, fin da subito, i bambini dalle madri detenute, tanto più se connotate da stereotipi negativi (drogate o psicolabili). Per chi è disponibile verso possibili alternative, il rapporto mamma/bambino va preservato e attuato in strutture adeguate, che riproducano quanto più possibile i caratteri di una situazione normale. Ma di fronte al dramma non ha senso contrapporre opzioni di principio, se non si cerca di entrare a fondo nella situazione che viene a crearsi quando una madre è detenuta con i suoi piccoli. Partiamo da un evidente paradosso cui da luogo la legge. Si intende preservare il naturale rapporto madre/bimbo nei primi anni di vita, ma si tratta di una naturalezza limitata e coartata in un contesto rigido e alterato in termini di spazi, opportunità e qualità di relazioni, che di naturale non ha quasi nulla. Ma più gravi sono gli effetti che tale contesto produce sulla qualità del rapporto madre/bambino. La reclusa infatti proietterà in modo estremizzato sul piccolo tutte le sue aspettative affettive, il suo bisogno di identificazione rispetto ad un ambiente ostile, le sue ansie, non solo per le condizioni del bambino, ma per la sua stessa situazione e per il suo futuro, il suo bisogno di protezione. Sono elementi che possono portare ad attaccamenti parossistici. In particolare in due situazioni. Nella prima fase detentiva, dove la rottura con la vita libera è particolarmente violenta e carica di disorientanti, imprevisti e incertezze; nella fase precedente la separazione del piccolo dalla madre, per raggiunti limiti di età (3 o 6 anni), dove l’attaccamento rischia di diventare morboso, sfiorando il panico, in vista di una imminente situazione futura del tutto fuori controllo. È noto come, in campo affettivo, sia l’impossibilità di coltivare un legame particolarmente intenso, con un forte coinvolgimento, a scatenare paradossalmente reazioni violente. È quanto può essere accaduto in questo caso. La madre che non regge la tensione di gestire i figli in un contesto alieno e minaccioso, li “protegge” sopprimendoli. La sua frase “adesso sono liberi” si commenta da sola. È da chiedersi, a fronte di un legame mamma/bambino, fisiologico e determinate per la crescita adeguata del piccolo, quale sia il bene fondamentale che la legge è chiamata a tutelare. Quello di principio del divieto di vendita di stupefacenti (come nel caso), materia peraltro controversa nel contrasto di scelte tra illegalità e legalizzazione; quello concreto della necessaria tutela di una madre con due bambini piccolissimi, costretta invece a svolgere il proprio ruolo genitoriale in un ambiente restrittivo e inadeguato, con un carico che nessun palliativo, al di là di ogni buona intenzione, può consentire di sostenere. Questo tragico gesto fa emergere in modo emblematico ed estremo, quella strutturale frattura tra astrattezza della norma e concretezza della situazione di vita dei soggetti, intrinseca all’afflittività penale, con tutte le distorsioni e gli effetti negativi, individuali e sociali, conseguenti. Nella fattispecie il legislatore, consapevole di ciò, ha introdotto varie possibilità di sottrarre al carcere madri con prole, o di assegnarle a strutture più adeguate. Ma il fatto che ci siano a tutt’oggi 62 bambini, ovviamente del tutto innocenti, detenuti, dato costante nel tempo, nonostante le riforme normative, sta a denunciare l’inefficacia della legge, sia per pregiudiziali formali (rischio di recidiva, assenza di domicilio), sia per condizioni di fatto (assenza di strutture, cultura restrittiva del giudici, lentezza delle procedure). Su questi aspetti quest’ultimo dramma deve portare a riflettere, in vista di soluzioni normative, culturali, materiali che preservino la sostanza irrinunciabile del rapporto genitoriale madre/bambino. Bambini e carcere. Comunicato del Tavolo 3 (Donne e carcere) degli Stati Generali Ristretti Orizzonti, 27 settembre 2018 Come componenti del Tavolo 3 (Donne e carcere) degli Stati Generali dell’esecuzione penale abbiamo avuto modo di conoscere dall’interno il carcere femminile di Rebibbia, ed abbiamo lavorato fianco a fianco con coloro che lo dirigono e vi operano, e che con la loro professionalità, abnegazione e passione umana e civile lo hanno reso un esempio virtuoso nel panorama detentivo italiano, aperto alla società e pilota nel reinserimento delle donne detenute. Nel massimo rispetto per le indagini in corso, sentiamo l’obbligo di richiamare l’importanza che gli accertamenti si svolgano in modo approfondito al fine di dare una risposta effettiva e non sommaria agli interrogativi posti dalla tragedia che vi è avvenuta. Ricordiamo inoltre una delle raccomandazioni finali contenuta nel nostro rapporto: “La non esistenza di un domicilio ritenuto ‘sicuro’ non deve impedire la detenzione domiciliare. È obbligo dell’istituzione pubblica reperirlo, soprattutto nel caso delle detenute madri. Si possono prevedere per esempio collocamenti in comunità che già ospitano madri con bambini. Sottoscrivono: Gianluigi Bezzi, Laura Cesaris, Marina Graziosi, Elisabetta Pierazzi, Tamar Pitch, Donatella Stasio, Sergio Steffenoni. Lavori di pubblica utilità per i detenuti in Croce Rossa emergency-live.com, 27 settembre 2018 Firmato l’accordo con il Ministero della Giustizia. 354 postazioni per i condannati con pene sotto i 4 anni, Croce Rossa apre le sue porte a chi vuole rifarsi una vita dopo il carcere e cerca di estinguere il proprio debito con la società facendo buone azioni. Il capo del Dipartimento per la giustizia minorile e di comunità Gemma Tuccillo e il Segretario Generale Flavio Ronzi hanno sottoscritto oggi una convenzione della durata di cinque anni, in base alla quale 354 imputati potranno fare richiesta di svolgere lavori di pubblica utilità, ai fini della “messa alla prova”, in più di 100 Comitati CRI in tutta Italia. La messa alla prova è un procedimento speciale, introdotto anche per gli adulti nel 2014, al quale l’imputato può accedere, una sola volta e per reati puniti con pena non superiore a quattro anni, per ottenere l’estinzione del reato, dopo avere svolto gratuitamente lavori di pubblica utilità a favore della collettività, che viene così risarcita del danno causato. Una opportunità, insomma, che da oggi, grazie al protocollo siglato, potrà essere garantita a un numero maggiore di soggetti ancora in attesa. Gli imputati ammessi potranno svolgere, fra l’altro, lavori socio-sanitari in favore di persone con problemi di alcolismo o tossicodipendenza, diversamente abili, malati, anziani, minori e stranieri e attività di protezione civile, anche mediante soccorso alla popolazione in caso di calamità naturali, e di manutenzione di beni pubblici. Gli imputati che scelgono questa strada alternativa al processo sono in costante crescita: le misure eseguite sono passate dalle 9.690 del 2015 alle 23.492 del 2017, con un incremento del 142%. Nello stesso periodo, sono aumentate del 57% le istanze pervenute, passate da 9.185 a 14.385. “La convenzione firmata oggi” ha commentato il Ministro della Giustizia Alfonso Bonafede “rappresenta un’iniziativa di grande importanza che lo Stato mette in campo per garantire una seconda opportunità ai cittadini che hanno commesso errori ma che intendono intraprendere un percorso di riabilitazione e responsabilizzazione. La possibilità di svolgere attività lavorative gratuite a beneficio della collettività consente, infatti, all’imputato di rimediare al danno causato, restituendo qualcosa di quello che, con i comportamenti devianti, è stato sottratto alla comunità d’appartenenza. Prendersi cura degli altri, aiutare una persona bisognosa, occuparsi della tutela di un bene pubblico o prestare soccorso ad una popolazione in difficoltà: sono tutti impegni ad elevato valore sociale che permettono all’imputato di riscattarsi, e di “mettere alla prova” la propria intenzione di cambiamento e crescita personale.” “Ringrazio la Croce Rossa Italiana per l’attenzione e la sensibilità dimostrate rispetto a questi temi e auspico” ha concluso il Guardasigilli “che questa collaborazione possa proseguire per intensificare ulteriormente l’avvio di progetti simili”. “Questa firma rientra in un quadro di collaborazione tra lo Stato e la società civile, al quale la Croce Rossa Italiana intende dare un contributo in termini di progettualità, strutture e risorse”, ha detto il segretario generale Flavio Ronzi. “Crediamo fortemente che quello della messa alla prova rappresenti prima di tutto un momento di riflessione e responsabilizzazione per quelle persone che, pur avendo sbagliato, restituiscono alla società qualcosa con lavori di pubblica utilità. Inoltre - ha concluso Ronzi - questa convenzione con il Ministero è anche un modo per far conoscere ai cittadini un istituto ancora poco diffuso”. I predicatori della Costituzione in viaggio nelle carceri italiane di Eleonora Martini Il Manifesto, 27 settembre 2018 Parte da Rebibbia, il tour di lezioni ai detenuti dei giudici della Corte costituzionale. Un “frammento di Costituzione” da spiegare in ogni carcere. Con questo obiettivo, e in occasione delle celebrazioni del settantennale della Carta Costituzionale (entrata in vigore il 1 gennaio 1948), i giudici della Corte escono nuovamente dallo splendido Palazzo della Consulta e tornano a cercare il contatto con la società italiana. Dopo il viaggio nelle scuole cominciato lo scorso anno, è ora la volta delle carceri. Perché, come ha spiegato ieri il presidente della Corte Giorgio Lattanzi, “la Costituzione è uno scudo, che protegge soprattutto chi non ha potere”. E “i carcerati non hanno potere ma hanno una loro dignità di cittadini che va riconosciuta, pur nella ristrettezza della libertà personale: non esistono barriere ideali ma solo fisiche tra chi è dentro e chi è fuori dal carcere”. Così, a cominciare da Rebibbia, a Roma, il 4 ottobre prossimo, i giudici costituzionalisti terranno ai detenuti lezioni sulla Costituzione e sul ruolo della Consulta (conosciuta solo dal 15% degli italiani, secondo un sondaggio citato dal presidente Lattanzi, ma probabilmente da molti di più all’interno delle carceri); risponderanno alle loro domande e con l’occasione si faranno accompagnare all’interno degli istituti e a visitare qualche cella. Nel teatro del Nuovo complesso dell’istituto romano - che è ancora sotto shock per la recente tragedia avvenuta al “nido” della sezione femminile - lo stesso presidente Lattanzi terrà, insieme ad altri giudici, una lezione ad una platea di 250 detenuti, tra i quali una ventina di donne. Poi il “Viaggio nelle carceri” proseguirà a Milano San Vittore (il 15 ottobre con la giudice Cartabia), Nisida minorile (Amato, il 19 ottobre), Terni (il 29, Coraggio), Genova Marassi (9 novembre, Viganò), Lecce femminile (16 novembre, De Petris), e in altri istituti nel 2019. “Pieno sviluppo della persona umana; Pari dignità sociale; Rimuovere gli ostacoli; Tendere alla rieducazione; Senza distinzione; Sia come singolo sia nelle formazioni sociali; Effettiva partecipazione; Solidarietà politica, economica e sociale; Fondata sul lavoro; Concorrere al progresso materiale o spirituale della società; Manifestare liberamente il proprio pensiero”. Frammenti, appunto, di Costituzione. Tutte le lezioni verranno trasmesse in diretta streaming anche in altri 145 carceri italiani e sul sito della Corte costituzionale. E a Fabio Cavallari, che diresse i detenuti/attori di Cesare deve morire, il film dei fratelli Taviani girato nel carcere di Rebibbia, Rai Cinema ha affidato la regia del docu-film che verrà realizzato al seguito dei costituzionalisti. “Un documentario - ha spiegato Nicola Claudio, della Rai - che recupera in parte l’idea di fondo del reportage Viaggio in Italia realizzato da Guido Piovene per la Rai negli anni Cinquanta con il fine di raccontare il Paese che stava nascendo”. E raccontare le carceri, “considerate sempre, e a torto - ha affermato Lattanzi - un altrove rispetto alla società”, in questo momento storico è ancora più importante. Perché “in Europa e non solo c’è un clima politico e culturale che è cambiato - ragiona il presidente della Corte - Ci sono orientamenti politici che, senza entrare nel merito, mi pare contrastino con il significato della Costituzione. Alcune idee, orientamenti, non so quanto consistenti, che un tempo si vergognavano di comparire e rimanevano nascosti, oggi invece circolano in Europa”. E perciò, “non suoni strano andare a “predicare” la Costituzione, la nostra legge suprema, da persone che con la legge hanno avuto un rapporto perlomeno antagonista, contrastato, difficile - conclude il giudice Lattanzi - La legge, che stabilisce i doveri, è anche una garanzia, pure per chi è recluso, e la Costituzione garantisce tutti rispetto alle mutevoli maggioranze e a un potere che, altrimenti, potrebbe anche essere incontrollabile e sopraffattore”. Stop alla legittima difesa: salta la corsia preferenziale di Wanda Marra Il Fatto Quotidiano, 27 settembre 2018 La legittima difesa non sarà legge così presto come avrebbe voluto la Lega, che l’ha incardinata in Senato come provvedimento bandiera da approvare il prima possibile. L’obiettivo iniziale era arrivare al voto entro fine settembre, grazie anche al nuovo regolamento di Palazzo Madama. La riforma (si parte da 8 disegni di legge, ma il presidente della Commissione Giustizia, il leghista Andrea Ostellari, lavorerà a un testo unificato) era in sede redigente: ovvero all’aula sarebbe toccata solo la votazione finale. È stato Pietro Grasso (LeU) a richiedere che il provvedimento passasse in sede referente, cioè con la solita procedura che prevede esame e votazione degli emendamenti sia in commissione che in aula. Il Regolamento lo rende possibile su esplicita richiesta. In questo caso, è stata di un quinto dei componenti della Commissione (a firmare la richiesta di Grasso sono stati anche alcuni senatori Pd). Ora, con l’ingorgo della sessione di bilancio, il provvedimento rischia di slittare all’inizio del 2019. Sui tempi, dunque, la Lega subisce uno stop. Ma pure sulla forza del messaggio. “Un’indagine sarà sempre necessaria, è ovvio”. Tocca all’ex pm, Carlo Nordio, già presidente della Commissione per la riforma penale, il più vicino alle posizioni della Lega, dire la verità, durante le audizioni in Commissione. Che un’indagine, in caso di un morto in seguito a presunta legittima difesa, è inevitabile è un’ovvietà giuridica. E un procedimento non aggirabile. Eppure la Lega sta lavorando il più possibile sui “confini” legali. Come? Punta a far archiviare i procedimenti in base a un meccanismo che si vuole automatico, visto che la presunzione di legittima difesa, nella proposta del Carroccio, diventa assoluta. Ma l’automatismo è impossibile. Si gioca però sulle parole, cercando di far passare un messaggio più radicale di quanto potrà esserlo la legge. È stato ancora una volta Grasso a porre la domanda decisiva, martedì: “È possibile sottrarsi all’inizio del procedimento penale, all’inizio dell’indagine? Ci sono stati degli interventi in cui è stato detto che se c’è una presunzione assoluta non deve iniziare il procedimento”. Dopo un certo imbarazzo tra i presenti, è Nordio che spiega: “Lasciamo stare quello che dicono le vittime. Ognuno vede la realtà attraverso la lente deformata dei suoi pregiudizi. Ovviamente la risposta mia è assolutamente negativa. Un’indagine sarà sempre necessaria è ovvio”. Perché poi non si può mica escludere che la legittima difesa sia stata preordinata dal difeso, che chiama in casa di notte l’amante della moglie, fa finta che sia un ladro e lo uccide”. Ma poi ci tiene a dire: “Sono favorevolissimo all’idea che si risarciscano le spese legali”, visto che è lo Stato “che non è riuscito a garantire un diritto”. Lo stesso Nordio nel 2015 in un’intervista al Corriere diceva: “Perché se lei spara a un bandito che la minaccia deve automaticamente trovarsi indagato per omicidio?”. Di fronte al diritto, gli tocca capitolare. Accelera la class action. Boccia: legge contro le imprese di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 27 settembre 2018 Game over. Almeno alla Camera in commissione Giustizia. Ieri sera si è concluso l’esame degli emendamenti sul testo di riforma della Class action, che approderà in Aula a partire dalla prossima settimana. Le correzioni approvate dalla maggioranza intervengono su elementi marginali del provvedimento, confermandone quindi i cardini, sui quali ieri il presidente di Confindustria Vincenzo Boccia, in un’intervista a Panorama, ha espresso una fortissima preoccupazione: “Non siamo contrari per principio nè al provvedimento nè allo strumento, ma alcune scelte ci sembrano ispirate a quella cultura anti-industriale che purtroppo sempre più spesso siamo costretti a denunciare”. “Pongo tre semplici domande - osserva Boccia: è una scelta equa quella di prevedere che i singoli possano aderire all’azione di classe dopo la sentenza di condanna o favorisce, al contrario, comportamenti opportunistici da parte di chi può stare a guardare e poi “salire sul carro” a seconda dell’esito?”. E poi: “Che senso ha prevedere dei compensi premiali per gli avvocati a carico delle imprese, compensi ulteriori rispetto alle normali spese di lite e che sanno tanto di scelta punitiva nei confronti delle imprese stesse?”. Infine: “È così strano da parte nostra chiedere che regole così incisive si applichino solo per il futuro e non anche per il passato, cioè che si preveda esplicitamente la loro non retroattività? Abbiamo posto queste domande a Parlamento e Governo, ma per ora alle parole di condivisione non sono seguiti i fatti”. In commissione Giustizia ieri da parte della maggioranza è stata confermata una netta chiusura a modifiche di sostanza, respingendo gli emendamenti presentati soprattutto dal gruppo di Forza Italia e anche dal Pd. “Una scelta incomprensibile soprattutto per quanto riguarda la Lega, che non è praticamente mai intervenuta nel dibattito e dovrebbe essere più attenta al mondo delle imprese”, commenta Giusi Bartolozzi di Forza Italia, che mette nel mirino, nel merito, anche l’allargamento indiscriminato dei possibili promotori dell’azione di classe non solo alle associazioni dei consumatori, ma anche ai comitati e alle semplici “organizzazioni”. E un altro componente della commissione Giustizia, l’ex sottosegretario alla Giustizia Cosimo Ferri (Pd), contesta “i molti difetti tecnici e contraddizioni logiche” del provvedimento. E se soprattutto il Movimento 5 Stelle scommette forte sul provvedimento, che peraltro ricalca quasi integralmente quello approvato solo alla Camera nella passata legislatura, sullo sfondo resta tutto da decifrare l’atteggiamento del Governo. Che potrebbe presentare anche in Aula aggiustamenti di rotta, almeno sui temi più caldi. Tra i quali senza dubbio spicca quello della retroattività, che potrebbe esporre le aziende a possibili azioni di classe per un passato compreso, a seconda della natura della contestazione, tra 5 e 10 anni, rafforzando in questo modo l’incertezza. Decreto sicurezza. Raddoppia la pena per le occupazioni abusive di Giulio Benedetti Il Sole 24 Ore, 27 settembre 2018 Il decreto sicurezza approvato il 24 settembre dal Consiglio dei ministri si occupa del fenomeno dell’occupazione abusiva degli immobili e prevede un raddoppio della pena nei confronti dei promotori e degli organizzatori dell’”invasione” o di chi l’ha compiuta a mano armata: la reclusione passa da 2 a 4 anni, la multa da 103/1.032 euro a 206/2.064 euro. L’articolo 633 del codice penale sanziona l’invasione di terreni o di edifici al fine di occuparli o di trarne altrimenti profitto. Il reato è punibile a seguito di presentazione di querela da parte della persona offesa e le pene ivi previste sono applicate congiuntamente e si procede di ufficio se il fatto è commesso da più di cinque persone, di cui una palesemente armata o da 10 persone, anche senza armi oppure se l’edificio occupato è pubblico o ad uso pubblico. Per detto reato è consentito il ricorso alle intercettazioni telefoniche e per i promotori o gli organizzatori delle occupazioni abusive o di chi le ha commesse a mano armata è consentita l’adozione delle misure di prevenzione personali applicate dall’autorità giudiziaria. Il ministro dell’Interno adotta con un decreto il piano operativo nazionale per prevenire e contrastare le occupazioni abusive e, con cadenza almeno semestrale, monitora il fenomeno. In conformità al piano il prefetto elabora il programma provinciale per l’esecuzione degli interventi di sgombero degli immobili occupati. Per definire il programma il prefetto acquisisce il parere del comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza pubblica a cui partecipa anche l’ufficio del Pm che procede per detto reato e gli enti territoriali incaricati di assicurare le misure assistenziali per le categoria deboli occupanti l’immobile. Con cadenza semestrale il prefetto comunica il piano provinciale al ministero dell’interno che cura l’aggiornamento di quello operativo nazionale. Si noti che la Cassazione (sentenza 41015/2018) ha assunto una linea rigorosa sulla ricorrenza della prescrizione per i reati di occupazione abusiva aggravata (articoli 633 e 639 bis del codice penale) escludendola qualora l’occupazione sia perdurante nel tempo e continui anche alla data di redazione della sentenza di primo grado. Infatti la Corte afferma che il delitto ha natura permanente in quanto l’offesa al patrimonio pubblico perdura sino a che cessa l’occupazione arbitraria dell’immobile. Mafie. La democrazia battuta e mortificata per 289 volte di Claudio Cavaliere La Repubblica, 27 settembre 2018 Ci sono voluti quarantacinque anni di storia repubblicana per dotarsi di uno strumento di difesa contro l’invadenza della criminalità organizzata nella democrazia locale. Quasi mezzo secolo di sdegnoso disinteresse ha prodotto quella storia mancata che costringe oggi a sciogliere per mafia pezzi dello Stato, il cuore politico del rapporto istituzioni-cittadini: i Comuni appunto. Una statuaria indifferenza crollata di colpo. Di colpo, nel 1991 nasce il fenomeno, quasi si fosse stati colti alla sprovvista. Come se prima la mafia, nelle sue varie declinazioni regionali, non avesse già gestito direttamente istituzioni, risorse, enti pubblici e quant’altro. Questione di priorità, se è vero che la Repubblica dei primi decenni si pensò di difenderla rimuovendo Sindaci e inibendoli dall’elettorato passivo per anni con l’accusa di avere firmato appelli contro la bomba atomica, promosso dibattiti e manifestazioni di protesta contro i governi in carica o di avere solo espresso valutazioni ritenute non conformi. Massimo Severo Giannini scrisse di quei decreti come “offese all’intelligenza” e “buoni per la storia dell’umorismo prefettizio” e il sindaco di Bologna Dozza coniò nel 1951 l’espressione “il reato di essere sindaco”, per denunciare le condizioni in cui erano costretti ad operare i sindaci di sinistra. Certo il “puzzo acre di guerra civile” denunciato da De Gasperi fece orientare l’attenzione occhiuta e assillante dei prefetti esclusivamente verso le amministrazioni locali di sinistra considerate sediziose e pregiudizievoli per l’ordine pubblico mentre i Comuni siciliani sparirono dai radar dell’attenzione del ministero dell’interno protetti dal velo dell’autonomismo. Eppure già dopo le prime elezioni comunali del 1946 i casi di municipi in cui è evidente la gestione diretta della criminalità organizzata sono innumerevoli, ma solo per un paio di eclatanti episodi c’è traccia dell’intervento del ministero senza mai pronunciare la parola mafia che allora formalmente non esisteva. Quando nel 2016 viene sciolto per infiltrazioni il comune di Corleone i cognomi richiamati nella relazione del decreto sono quelli degli anni ‘50 citati dalle prime commissioni parlamentari antimafia, a conferma che l’infeudamento mafioso nei municipi non è una invenzione sociologica ma una condizione stabile che si misura nel tempo nella capacità di competere e di autorappresentarsi all’interno dei meccanismi codificati della democrazia locale. Sarà la mattanza degli anni ottanta e la circostanza che decine di consigli comunali sono zeppi di diffidati di P.S. a mettere fine a quella finzione. Ancora una volta sarà il sangue a dettare il tempo della reazione, con la politica costretta ad inseguire gli avvenimenti, a tenere il conto di oltre sessanta amministratori locali uccisi i cui nomi si fa fatica ancora oggi a ricordare. La legge del 1991, che prevede lo scioglimento dei consigli comunali per infiltrazioni mafiose, non riscosse l’interesse del Parlamento. Più volte, durante le votazioni sui singoli articoli, mancherà il numero legale e alla votazione finale parteciperanno giusto i deputati necessari per farla approvare. Una delle poche verità di questa legge è la rimozione di una finzione, quella della rappresentanza politica derivante dalle elezioni come indicatore sufficiente di democraticità. In sostanza si riconosce che un organo elettivo può non essere democratico. Ma lo fa utilizzando due concetti autoassolutori, quello di “infiltrazione” e “condizionamento”, incapaci di leggere e di vedere la criminalità organizzata impadronirsi dei meccanismi della democrazia e di conseguenza legittimarsi con il consenso come forza di governo. Le organizzazioni criminali non hanno bisogno di creare istituzioni parallele, l’esistente serve benissimo allo scopo. Si può vivere ed operare all’interno delle funzioni dello Stato senza dover rinunciare alla propria storia criminale. Si tratta di una vera e propria “ibridazione” delle istituzioni che avviene con regole e leggi che rimangono apparentemente il principio organizzatore della vita delle comunità. Da allora oltre un quarto di secolo non è bastato per impedire, o semplicemente per porre un argine all’occupazione mafiosa dei Comuni. In quel lontano 1991 c’era consapevolezza nel relatore della legge che in aula affermava: “[…] stiamo raschiando il barile […] perché le altre strade per risolvere il problema richiedono un qualcosa che a me sembra più difficile, e cioè un’autoriforma del potere politico. […] Di conseguenza, si è costretti ad usare strumenti legislativi, laddove sarebbero molto più incisivi e più correttamente applicabili in una dialettica democratica gli strumenti della politica.” Continuando a negare che il problema sta dentro il funzionamento della democrazia, nella raccolta del consenso, significa non trovare le vere contromisure se non i reiterati scioglimenti accompagnati da un dibattito stantio, buono a riconoscere il radicamento della mafia ma senza essere conseguenti per procedere alla sua rimozione nelle strutture politiche, sociali e civili. Il colore politico delle amministrazioni disciolte per mafia non è mai stato una discriminante. Il 29% erano di centro-destra, il 21% di centro-sinistra, il 40% liste civiche, il resto in prevalenza monocolori di centro (9%). Neanche la demografia è una discriminante: il 32% sono piccoli comuni, dato che smentisce la tesi per cui il taglio demografico non renderebbe credibile l’interesse della mafia per comuni con bilanci minuscoli. Una teoria ingenua, che trascura l’omogeneità di funzioni tra piccoli e grandi e che ampi settori della vita locale dipendono dalla regolazione pubblica: appalti, urbanistica, licenze, usi civici, boschi, pascoli, e quant’altro sono settori a completo controllo locale. Dei 289 comuni sciolti per infiltrazioni mafiose (al netto degli annullati) 53 hanno bissato o triplicato lo scioglimento a dimostrazione che la legge, che cerca di offrire una risposta attraverso la ripetizione delle elezioni come generatrice di una dinamica di responsabilizzazione, non funziona. Come un fastidioso moscone che sbatte contro i vetri della finestra senza trovare la via d’uscita, i ripetuti scioglimenti confermano che il problema non risiede nelle norme quanto nel sistema politico in cui hanno un peso rilevante la mancanza di partecipazione partitica (specie nei piccoli comuni) e l’irrisolto problema della scelta e selezione dei candidati, in una parola la cultura politica locale, ossia il sistema di relazioni che agisce nel contesto storico-territoriale su cui non c’è ormai più alcun intervento della politica. Anche sulla burocrazia il dibattito è datato. Venticinque anni fa la legge elettorale sull’elezione diretta del sindaco fu fatta anche per questo, per battere l’irresponsabilità diffusa. Anche se vinci per un voto ti do una maggioranza netta; di più, ti do la possibilità di sceglierti la squadra di governo; di nominare i dirigenti nei settori; di scegliere il segretario comunale; di modificare a piacimento la struttura organizzativa del comune; di nominare i rappresentanti delle società partecipate; di assumere dirigenti a tempo determinato. Solo che il prezzo da pagare è uno solo, semplice, solare: la responsabilità politica ed amministrativa non il balletto irricevibile dei “non sapevo.” C’è poi il tema della risposta dello Stato, non sempre all’altezza. Il tempo medio di scioglimento di un comune infiltrato è poco più di tre anni dal momento delle elezioni. Una consiliatura ne dura cinque, con buona pace di chi definisce questa legge come preventiva. Dopo ventotto anni non esiste un ruolo ad hoc per funzionari e prefetti chiamati a guidare i comuni disciolti per infiltrazioni, come se venire da una prefettura significa “comprendere” di amministrazione locale. L’esperienza insegna che non è così. Le gestioni commissariali sono spesso deficitarie perché affidate a figure che non hanno mai avuto a che fare con i municipi, con i loro problemi, con le loro norme. Oggi sul tema dei problemi della democrazia si è finalmente aperto un largo dibattito che non ignora l’illusorietà di pensare che “elezioni regolari implichino di per sé una democrazia regolare”, cosicché gli scioglimenti dei Comuni per mafia ci invitano a ragionare in maniera meno ortodossa intorno a un fenomeno sul quale siamo lontani da una soluzione. Il ruolo del Csm, le nomine e i veri mali della Giustizia di Giovanni Verde Il Mattino, 27 settembre 2018 Ogni quattro anni si rinnova l’interesse per il Csm di quella parte della pubblica opinione che ha a cuore il nostro sistema di giustizia e, con esso, la stessa nostra democrazia. Nuovi consiglieri e nuovo vicepresidente. Si riaccendono speranze e tornano alla ribalta le polemiche. Il nocciolo della questione può essere così riassunto: i cittadini, chi per un verso chi per un altro, non sono soddisfatti per come vanno le cose e la giustizia nel nostro Paese non gode di buona salute (anche se, purtroppo, è in buona compagnia). Se ciò accade, le responsabilità sono anche o soprattutto del Csm e, per riflesso, dei consiglieri eletti che non sono adeguati al compito. Di qui il passo è breve per affermare che la colpa ultima della disfunzione è nel sistema di nomina e, per quanto riguarda i magistrati, nella cosiddetta lottizzazione torrentizia. Credo di avere i titoli sufficienti per affermare, senza essere tacciato di presunzione, che il problema della nomina dei consiglieri togati al Csm nulla ha a che vedere con l’attuale situazione della nostra giustizia; che si tratta di un problema di organizzazione dei magistrati, che questi ultimi trasformano in problema di interesse generale, in quanto oramai sono al centro della complessiva organizzazione dello Stato (non parlo dei membri laici, la cui funzione al Csm è alquanto esornativa). Spiego la mia affermazione. Secondo la comune vulgata il problema delle nomine dei componenti togati del Csm si sposa con quello delle correnti della magistratura. Ma, a ben riflettere, quest’ultimo esplode quando il Csm deve procedere alle nomine o deve operare qualche trasferimento o deve deliberare su denunce per scarsa professionalità del singolo magistrato o deve decidere un caso di violazione disciplinare (là dove, quando si tratta di assumere decisioni organizzative o a difesa del corpo dei magistrati, le divisioni correntizie spariscono o si attenuano in misura considerevole). E, infatti, diffuso il sospetto che i provvedimenti riguardanti i magistrati seguano logiche correntizie e che, perfino, quelli su rilievi professionali o disciplinari siano frutto di non commendevoli compromessi. Tuttavia, non c’è ragione per la quale il cittadino se ne preoccupi, trattandosi di questioni tutte interne al corpo dei magistrati ed il cui rilievo esterno è soltanto mediato ed indiretto. Tanto più perché, come spiegherò subito, quasi sempre si tratta di questioni non risolubili alla stregua di parametri oggettivi e che, pertanto, si prestano comunque alla manipolazione, oggi di tipo correntizio e domani, se ad esempio si adottasse il sistema della nomina per sorteggio, di tipo amicale (e non sarebbe un bel passo in avanti: il modo con cui i 5 Stelle procedono attualmente alle nomine dovrebbe insegnarci qualcosa). Il fatto è che il nostro ordinamento giudiziario, che è stato costruito sulla base delle richieste della magistratura associata, accoglie il principio dell’uno vale uno. I magistrati hanno una progressione stipendiale a cadenze temporali assicurata a tutti, salvo i casi di acclarato demerito (che sono assai rari). C’è nella Costituzione una disposizione che parla di “promozioni”, ma la stessa è stata sostituita dal sistema delle valutazioni quadriennali di professionalità. Poiché la valutazione positiva dei magistrati sfiora il 100%, sarà a tutti chiaro che si tratta di un meccanismo burocratico, farraginoso ed inutile, con costi rilevanti (perché si tratta di procedure laboriose che impegnano magistrati e personale ausiliario e non poco lo stesso Csm) e che non esiste una carriera fondata sul merito, quale sarebbe assicurata da un qualsiasi sistema di promozioni. Quando me ne sono dovuto occupare, ho tentato di comprendere dai “curricula” dei magistrati concorrenti chi avesse maggiori titoli. Non conoscendoli di persona, quasi mai sono riuscito a farmi un’opinione. E quando chiedevo ai consiglieri togati su quale base giudicassero, la risposta era quasi sempre: “Ma noi li conosciamo”. Per superare un estremo soggettivismo nelle scelte, il Csm ha elaborato griglie e parametri (discutibili come tutti i criteri di valutazione precostituiti) e i magistrati che aspirano a nomine sono attenti a rispettarli (il che non vuol dire che alla perfetta aderenza ai parametri e ai criteri corrisponda un effettivo valore dei magistrati, così che non è raro il caso che il Csm faccia manovre sofisticate per giustificare scelte non in linea con i parametri; e non sempre ciò avviene per logiche correntizie, perché talvolta le forzature si rendono necessarie in quanto le evidenze delle “carte” non corrispondono alla qualità effettiva delle persone). Un tempo, vi era la possibilità di progressione in carriera anticipata con il meccanismo dei concorsi. E di regola i vincitori dei concorsi erano anche i magistrati tecnicamente più attrezzati. All’inizio del 2000 il piccolo serbatoio di “promossi” si esaurì (gli ultimi vincitori di concorso che occuparono cariche di vertice furono Sgroi, Zucconi Galli Fonseca, La Torre, Vela). Da quel momento, anche le nomine dei vertici giudiziari furono attratte nel turbine delle trattative, che oggi sono di tipo correntizio e che domani potrebbero essere di tipo diverso. Si tratterebbe, tuttavia, sempre di trattative su basi opinabili, mancando la possibilità di utilizzare criteri obiettivi (anche se si sottolinea che per i posti direttivi oggi non conta la cultura giuridica e la capacità di trasfonderla nell’agire quotidiano, essendo i capi degli uffici giudiziari diventati degli amministratori, a cui si richiedono capacità manageriali, che non sempre vanno d’accordo con la sapienza giuridica). In disparte quest’ultima considerazione, la mia osservazione serve soltanto per chiarire che - nel mondo dell’uno vale uno- il soggettivismo nelle scelte e nelle valutazioni è la regola, così che l’attuale sistema correntizio, che comporta pur sempre un bilanciamento, è addirittura preferibile ad altri sistemi che darebbero vita a veri e propri salti nel buio. Concludo. Le disfunzioni della giustizia non dipendono o dipendono assai poco dalle correnti della magistratura. Maggiore rilievo ha, ad esempio, l’evoluzione del Csm che nacque come organismo assai esile (doveva occuparsi della vita dei magistrati) e nel tempo è diventato un pachiderma che gestisce totalmente il servizio giustizia, esautorando quasi del tutto il Ministro. E di sicuro all’attuale situazione ha contribuito l’impostazione che la Costituzione diede alla Magistratura. Infatti, non c’è alcuno che non veda che la nomina di un capo di ufficio giudicante ha un rilievo esclusivamente tecnico, là dove la nomina di un capo di ufficio di procura ha un ben diverso valore (e i lettori ricorderanno come questo giornale abbia denunciato in maniera martellante il ritardo nella nomina del Procuratore napoletano). Ma l’uno e l’altro sono problemi che esistono a prescindere dalla divisione in correnti della magistratura. Se qualcuno, a cui le correnti della magistratura sono indigeste, ritiene opportuno sostituire alle nomine elettive il sorteggio, dovrebbe non imporre la soluzione, ma lasciarla decidere ai magistrati. Gli attuali problemi della giustizia hanno cause che vanno ricercate altrove. Riconosciuto a detenuti in regime di 41bis il diritto a due “ore d’aria” al giorno Cagliaripad.it, 27 settembre 2018 “La Magistratura di Sorveglianza, in particolare quella di Sassari, si conferma autentica garante dei diritti dei detenuti, anche di quelli che, pur in regime di massima sicurezza, non possono rinunciare a un’ora d’aria destinata al benessere psicofisico per interpretazioni restrittive delle norme. Si è chiusa dunque positivamente una querelle durata un anno”. Lo afferma Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione “Socialismo Diritti Riforme”, con riferimento alla sentenza della Prima Sezione Penale della Corte Suprema di Cassazione che, respingendo i ricorsi del Ministro della Giustizia, del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria e della Casa Circondariale di Sassari, ha confermato le ordinanze emesse dal Tribunale di Sorveglianza di Sassari. “La decisione della Corte Suprema di Cassazione - sottolinea Caligaris - ha diversi risvolti positivi non solo perché si chiarisce che il tempo trascorso all’aria non è accorpabile con quello dedicato alla socialità in quanto ogni fattispecie risponde a differenti finalità nella detenzione, ma conferma che anche il regime speciale del 41bis non può essere reso più afflittivo irragionevolmente. Insomma le eventuali limitazioni devono essere sempre motivate da situazioni eccezionali altrimenti la salute psicofisica del detenuto può essere compromessa senza ragione”. “Non si tratta insomma di fare concessioni a chi sta scontando una pena in un regime di massima sicurezza ma di salvaguardare i principi di uno Stato che ha stabilito regole a cui - conclude la presidente di Sdr - non intende derogare”. Tenuità del fatto: condotte plurime non escludono automaticamente il beneficio Il Sole 24 Ore, 27 settembre 2018 Corte di Cassazione - Sezione II - Sentenza 26 settembre 2018 n. 41774. La pluralità di condotte non esclude automaticamente l’applicabilità della non punibilità per particolare tenuità del fatto. Lo ha precisato seconda sezione penale della Cassazione con la sentenza 27 settembre 2018 n. 41774. Il caso riguardava l’appropriazione indebita un telefonino. L’applicabilità dell’articolo 131-bis del codice penale era stata esclusa perché la condotta era stata ritenuta abituale “essendo emersa dalle risultanze dibattimentali la reiterazione di identiche condotte da parte dell’imputato in danno di altri clienti che gli avevano consegnato apparecchi telefonici perché provvedesse alla loro riparazione”. I giudici di legittimità ricordano i tre casi, esplicitati nella norma, in base ai quali bisogna considerare abituale il comportamento criminoso che sono i seguenti: “a) dell’autore che sia stato dichiarato delinquente abituale, professionale o per tendenza; b) quello dell’autore che abbia commesso più reati della stessa indole, anche se ciascun fatto, isolatamente considerato, sia di particolare tenuità; c) del trattarsi di reati che abbiano ad oggetto condotte plurime, abituali e reiterate”. Quindi il concetto di “non abituale” non può essere assimilato a quello di “occasionalità”. Di qui le conclusioni. “La sola evidenziazione - si legge nella sentenza - dell’esistenza di identiche condotte (oggetto di denuncia?) di cui si sconosce quali esiti processuali abbiano determinato non può, di per sé, ritenersi preclusiva al riconoscimento della particolare tenuità del fatto ex art. 131-bis cod. pen.”. Sardegna: lavoro contro recidiva detenuti, progetto in colonie penali agricole sardiniapost.it, 27 settembre 2018 Combattere la recidiva dei detenuti attraverso il lavoro, per evitare che il carcere sia luogo di mera segregazione anziché di rieducazione. È l’obiettivo del progetto “Modello sperimentale di intervento per il lavoro e l’inclusione attiva delle persone in esecuzione penale”, inserito nel Piano Operativo Nazionale Inclusione e attuato dalla Direzione Generale per il coordinamento delle politiche di coesione del Ministero della Giustizia. Al modello d’intervento innovativo, mai realizzato nel nostro Paese, e sperimentato su ispirazione all’esperienza spagnola di Cire (Centre d’Iniciatives para la Reinserciò), partecipa anche la Regione Sardegna, con le Regioni Abruzzo, Toscana e Puglia. Ieri sera l’assessora del Lavoro, Virginia Mura, ha incontrato il direttore generale per il coordinamento delle politiche di coesione sociale del Ministero della Giustizia, Francesco Cottone e la consulente Paola Gannarelli, per un confronto sul progetto - del costo totale di 7milioni 280mila euro, di cui 1milione 922,300 mila euro per Regioni Sardegna e Abruzzo - che valorizza il lavoro nel corso dell’esecuzione della pena come l’elemento fondamentale per un efficace reinserimento dei detenuti. Nell’Isola il modello sarà applicato nelle colonie penali agricole di Is Arenas, Isili e Mamone, a cura della Regione - Programmazione unitaria, Assessorato del Lavoro, Assessorato dell’Agricoltura e Agenzia Laore - in stretta collaborazione con il Dipartimento Amministrazione Penitenziaria. “La Regione Sardegna ha già avviato una proficua collaborazione con il Ministero della Giustizia per realizzare interventi di politica attiva del lavoro nelle colonie agricole penali”, ha spiegato la titolare del Lavoro, Virginia Mura. “Ci siamo dedicati a progetti dal forte impatto sociale, come i corsi di formazione del progetto “Liberamente”: iniziative, nell’ambito del programma Green & Blue economy finanziato dal Fondo sociale Europeo, con finalità educative, di promozione dell’inclusione socio-lavorativa e di valorizzazione dei territori in cui insistono gli istituti detentivi. In particolare, abbiamo svolto azioni in sinergia con il Centro di Giustizia minorile e previsto l’adozione dei tirocini atipici”. “Inoltre - ha sottolineato Mura - l’Agenzia sarda per le Politiche Attive del Lavoro - Aspal ha in programma di aprire degli sportelli Info-Lavoro all’interno di tutti gli istituti penitenziari sardi, negli uffici locali per l’Esecuzione Penale e negli uffici di Servizio Sociale per Minorenni. Le sperimentazioni già attive sono nel carcere di Uta e nella casa di reclusione di Isili”. Calabria: l’arma vincente contro la ‘ndrangheta? Si chiama Goel e fattura 7 milioni di Carlo Macrì Corriere della Sera, 27 settembre 2018 Significa “riscattatore” ed è una comunità calabrese. Il presidente Vincenzo Linarello: “Con noi può stare solo chi ha respinto le richieste di pizzo”. Quasi tutti hanno subìto attentati. Si chiama Goel ed è il termine ebraico che significa “Riscattatore”. Colui che vendica i più deboli. Un nome scelto non a caso dal consorzio di imprese nato nella Locride per rilanciare l’immagine della Calabria, tutt’oggi assoggettata alla ‘ndrangheta. Il progetto, sorto alla metà degli anni ‘90, ha tra gli obiettivi principali proprio quello di delegittimare la criminalità organizzata attraverso un percorso sostenibile che coinvolge l’imprenditoria territoriale. Cambiare per crescere e sperare. Vincenzo Linarello, presidente di questa comunità tutta calabrese con un fatturato annuo di circa sette milioni di euro, composta da imprese, fondazioni, aziende agricole, cooperative sociali e di volontariato, che dà lavoro a duecento anime mentre altrettante sono le partite Iva e collaboratori, ammette candidamente: “Siamo a buon punto sul cambiamento. C’è una certa mentalità nuova in Calabria”. Il cammino è stato complesso. Goel è frutto di una idea strategica sostenuta all’epoca anche dal vescovo di Locri monsignor Giancarlo Bregantini, oggi a Campobasso. C’era da combattere una guerra impari contro la ‘ndrangheta, padrona assoluta del territorio. Nonostante le decine di attentati subiti nel corso degli anni, le attività del consorzio sono sempre ripartite. L’etica e la denuncia sono stati il cavallo di battaglia della comunità di Goel, che oggi si muove su più fronti esaltando il principio di legalità e trasparenza nel variegato mondo del lavoro, non solo in Calabria. La sede di Goel non a caso è a Gioiosa Jonica, nella Locride, un territorio che vanta il primato della disoccupazione, circa il 70%, terra difficile, martoriata e usurpata da antichi fenomeni criminali che l’hanno soggiogata e impoverita. Il consorzio ha voluto scommettere partendo e lanciando proprio da questo territorio l’idea di una Calabria che può essere “diversa” e “operosa”. “Volevamo combattere la precarietà, strumento di dipendenza che finisce con infoltire le cosche di ‘ndrangheta”, dice Linarello. E spiega: “Le imprese, soprattutto, morivano se non si prestavano a questo tipo di assoggettamento. Molte aziende calabresi sono gestite dalla ‘ndrangheta e dalla massoneria. Goel è riuscito a spezzare questi legami, ha dato lavoro, creato imprese, riuscendo a gestire il patrimonio reinvestendolo sul territorio. Questa è stata l’arma vincente. Il consorzio ha identificato negli Enti locali i luoghi della “resistenza” e dell’”asservimento”. Ha affrontato il tema e convinto con i fatti le imprese a fidarsi del progetto di rinascita. “In noi dovevano trovare un’alternativa concreta. In Calabria - chiarisce Linarello - la fonte di reddito principale è la ‘ndrangheta che succhia, incassa e porta la ricchezza altrove, lasciando su questa terra solo le briciole”. Goel invece è riuscito a fermare questa “emigrazione di denaro”, con l’arma della convinzione. “Volevamo essere l’anti-ndrangheta, ma per fare questo dovevamo spingere la gente verso di noi. Dovevamo far capire alle persone che la ‘ndrangheta è un Grande Imbroglio”. Oggi Goel è un patrimonio di idee, cultura, attività sociali e agricole. Una delle realtà più attive in Italia nella lotta alla ‘ndrangheta con attività che si dispiegano anche a livello nazionale “grazie all’Alleanza con la Calabria”, una rete informale nata nel 2008 e oggi composta da oltre 760 enti di vario genere e oltre 3600 persone che aderiscono a titolo individuale. Il patrimonio di Goel è nei numeri: dodici cooperative, due associazioni di volontariato, una Fondazione, ventotto aziende agricole. Le cooperative sociali si distinguono nell’accoglienza per adolescenti con situazioni di devianza e nella riabilitazione psichiatrica, con 2 residenze per malati mentali. C’è poi il settore turistico con i “Viaggi di Goel”, uno dei pochi tour operator specializzati in turismo responsabile in Italia che dà voce ad attività ambientali, gastronomiche, ed ecologiche. Un dinamismo propulsivo che affonda le radici in quei settori dove si concentrano gli interessi mafiosi. Goel è stata sin dall’inizio una forma di tutela per chiunque fosse vessato o intimidito. “Con noi - continua Linarello - lavorano solo le imprese che hanno respinto le richieste di pizzo”. Il consorzio utilizza le strutture confiscate ai mafiosi, come l’ostello di Locri, per iniziative sociali. L’impegno più tosto, però, è quello di salvaguardare le attività dei produttori agricoli che hanno aderito al progetto di Goel con il marchio Bio. Nel corso degli anni anche queste aziende hanno subito attentati e danneggiamenti. Il brand raggruppa aziende olivicole e agrumarie. La prima cooperativa in assoluto che concentra aziende vittime di estorsioni, ideata come marchio degli agricoltori resistenti. “Siamo stati capaci di ricostruire la filiera per la vendita degli agrumi” continua ancora Linarello. “Prima agli agricoltori davano cinque centesimi per ogni chilogrammo di arance, adesso riusciamo a farglieli pagare 40 centesimi. È bastato eliminare la catena intermedia: oggi si passa dal produttore direttamente a chi vende al consumatore”. E per venire incontro alle esigenze del mercato Goel si è inventato inoltre il progetto “Aiuta mundi”, come dire “aiutiamoci”, una risposta alle difficoltà economiche del territorio e all’alta disoccupazione le quali hanno spinto il consorzio a escogitare un circuito economico che fa a meno del denaro: famiglie e imprese possono comprare servizi e prodotti dando a loro volta altri servizi e prodotti. E ancora. Goel ha costruito un suo successo anche internazionale nel campo dell’alta moda con il marchio Cangiari, nel lessico calabrese “cambiare”. La griffe con sede a Milano ha affidato la creazione dei suoi modelli a Paulo Melim Andersson, lo stilista del team di Martin Margiela e Chloé nonché design director di Marni. Da Milano a New York passando per Parigi le creazioni artigianali di Goel hanno sedotto le passerelle di tutto il mondo. “Siamo andati in giro alla ricerca di donne che ancora lavoravano la seta al telaio. E a dire il vero ne abbiamo trovate poche. Ma sufficienti a insegnare l’arte a giovani tessitrici che hanno deciso di memorizzare le tecniche del mestiere impedendo così che si disperdessero le antiche tradizioni”, spiega il presidente del consorzio. Aggiungendo: “Volevamo dare loro un mercato nazionale. Gli alti costi del processo di trasformazione artigianale all’inizio ci hanno bloccati. Così ci siamo inventati l’Alta moda etica”: capi calabresi, rigorosamente fatti a mano, che possono sostenere la qualità e un ciclo di produzione. In giro per il mondo oggi i calabresi dicono grazie a Goel: “Ci ha reso fieri delle nostre tradizioni”. Napoli: tragedia in ospedale, detenuto si uccide lanciandosi giù dalle scale di Giuseppe Crimaldi Il Mattino, 27 settembre 2018 Si è alzato dal letto, ha chiesto agli agenti della Polizia penitenziaria che lo piantonavano di poter uscire per fumare una sigaretta ed è volato giù nel vuoto. La tragedia si consuma in una manciata di secondi, ieri pomeriggio. Il destino di Giovanni Guglielmo, 32enne residente a Pozzuoli, finito in carcere dopo aver ucciso la madre a coltellate nel giugno scorso, si consuma al tramonto. A ricostruire le fasi del suicidio sono stati gli stessi uomini in divisa che avevano in carico la sicurezza dell’uomo. Guglielmo - figlio di uno stimato magistrato in servizio presso il Tribunale di Napoli - si era costituito il 28 giugno dopo aver assassinato, in preda ad un raptus di follia - la mamma utilizzando un coltello e un piede di porco. Da quel giorno Giovanni si era rinchiuso in un ermetico mutismo. Le sue condizioni psichiche erano state giudicate serie, al punto da rendere necessario un ricovero in una struttura adeguata. In attesa di una definitiva sistemazione Guglielmo era stato trasferito in un reparto specializzato dell’Ospedale del Mare, a Ponticelli. Occupava una camera al primo piano rialzato, ed era guardato a vista da due agenti della Polizia penitenziaria. Intorno alle 18 l’uomo, che appariva tranquillo, ha espresso il desiderio di uscire sul ballatoio esterno per fumare una sigaretta. E così è stato. Ma - da quanto emerge nella ricostruzione fatta dalla stessa Penitenziaria - stavolta qualcosa non è andato per il verso giusto. E, pur rimanendo sotto lo sguardo dei suoi “custodi”, l’uomo ha imboccato velocemente la scalinata esterna della struttura, quella percorsa dalle scale anti-incendio, fino a raggiungere il terzo piano. Inutilmente i due agenti di scorta hanno provato a rincorrerlo, ma il vantaggio iniziale acquisito dal 32enne ha impedito di evitare la tragedia. Ci sarebbe stato anche un estremo tentativo da parte degli agenti di trattenerlo (i poliziotti si sono fatti anche refertare per leggere escoriazioni): ma tutto è risultato inutile. Guglielmo è volato giù nel vuoto, battendo violentemente la testa sul selciato. Morto sul colpo. Immediatamente sul posto è giunta anche la Polizia di Stato. E stata informata la Procura, ed è toccato al procuratore aggiunto e vicario, Nunzio Fragliasso, il doloroso compito di informare il padre della vittima, il giudice Gianpaolo Guglielmo. Per lui una tragedia nella tragedia: dopo la perdita della moglie, ora arriva anche quella del figlio. L’inchiesta che comunque dovrà approfondire alcuni elementi dell’episodio sono stati affidati alla stessa Polizia penitenziaria. La salma del 32enne è stata sequestrata dal pm di turno, che ha disposto il trasferimento presso le sale dell’Istituto di medicina legale del Secondo Policlinico, dove nelle prossime ore verrà effettuata l’autopsia. A breve dovrebbero essere ascoltati anche i due agenti in servizio al momento della tragedia. Giovanni Guglielmo, si scoprirà nelle ore successive alla tragedia, nel periodo antecedente al ricovero all’Ospedale del mare - dove veniva assistito da una equipe di specialisti - era stato detenuto per brevi periodi anche a Secondigliano e Poggioreale, dove pure avrebbe manifestato segni evidenti di un profondo disturbo mentale. E avrebbe anche tentato di lanciarsi nel vuoto in almeno un’altra occasione. Ieri ha messo in atto il suo proposito. “Mentre saliva le scale sembrava una lepre - racconta un testimone - e stargli dietro era davvero impossibile”. Belluno: agenti continuano protesta contro la sezione per detenuti psichiatrici Il Gazzettino, 27 settembre 2018 Sono ormai 17 giorni che gli agenti di Polizia penitenziaria del carcere di Baldenich si astengono dalla mensa obbligatoria di servizio, portandosi il cibo da casa. L’agitazione è scattata il 10 settembre scorso contro la mancata soluzione della questione dell’Articolazione di tutela di salute mentale, che è all’interno del carcere. Lì ci sono 6 detenuti con gravi problemi psichici, che devono scontare lunghe condanne per reati gravissimi, come l’omicidio. Secondo i sindacati (la protesta è portata avanti dalle sigle sindacali unite, Cisl Fns, Cgil Fp, Uspp, Sappe, Osapp, Fsa Cnpp) vi sarebbe una inadeguatezza della struttura e della gestione traballante dei pazienti-detenuti. Tutto ciò creerebbe un grave disagio lavorativo dei poliziotti bellunesi. Hanno spiegato che “lo psichiatra c’è solo per alcune ore settimanali, il medico di guardia solo dalle 8 alle 20 e spesso i detenuti pazienti devono essere gestiti dalla polizia penitenziari”. Ebbene la soluzione non sembra arrivare a breve e gli agenti sono pronti a scendere in piazza per sensibilizzare la popolazione. Ne parleranno domani in una riunione tra le rappresentanze sindacali. Intanto l’ennesimo sgarro c’è stato 20 settembre, quando il provveditore delle Carceri del Triveneto, Enrico Sbriglia, è arrivato in visita a Baldenich. Ma i sindacati sarebbero stati avvertiti all’ultimo momento. “Impossibile per noi partecipare - spiega il segretario provinciale del Sappe, Luigi Pantusa - visto che siamo stati avvertiti solo qualche ora prima della sua visita. Io ad esempio ero in viaggio verso la Calabria, altri miei colleghi in servizio. Ha partecipato solo un ex collega in pensione, della Cisl”. “Ci chiediamo come mai questo avvertimento tardivo - prosegue Pantusa - visto che stranamente nella struttura sono stati fatti dei lavori in vista della visita, giorni prima, come la potatura degli alberi o pulizie straordinarie”. Sbriglia ha spiegato agli agenti che quello che era di sua competenza era stato fatto: ha trovato una soluzione per il trasferimento della sezione a Padova, ma sarebbe stata bocciata. Milano: il ministro Bonafede firma protocollo per l’inclusione sociale dei detenuti di Valentina Stella Il Dubbio, 27 settembre 2018 L’incontro a San Vittore, il progetto interesserà 50 reclusi negli istituti milanesi. Firmato ieri presso la Casa Circondariale di San Vittore a Milano il protocollo d’intesa “Programma 2121”. L’accordo, promosso dal ministero della Giustizia con il gruppo multinazionale di sviluppo immobiliare Lendlease, è finalizzato a valorizzare l’inclusione sociale dei detenuti presenti negli istituti penitenziari della Lombardia attraverso la promozione di inserimenti lavorativi. In particolare circa 50 detenuti presenti sul territorio milanese che possono essere ammessi al lavoro all’esterno, alla semilibertà, all’affidamento in prova al servizio sociale, alla detenzione domiciliare potranno essere collocati in aziende del settore edile ed immobiliare per percorsi formativi e lavorativi. Lo scopo è quello di fornire ai detenuti e alle detenute strumenti spendibili una volta scontata la pena, per facilitare il reinserimento sociale e scongiurare la recidiva. Il ministro Bonafede presente all’evento ha dichiarato: “Voglio focalizzare l’attenzione del ministero sul lavoro come unica forma, insieme alla cultura, di rieducazione del detenuto. Da sempre il lavoro rappresenta un percorso di miglioramento dell’uomo. Come diceva Massimo d’Azeglio “il lavoro è uno dei migliori ausiliari dell’educazione”, in questo caso della rieducazione. Le istituzioni “collaborano e lo fanno a prescindere da qualsiasi colore politico. Ma qui ci sono i privati insieme alle istituzioni”, ha proseguito Bonafede, plaudendo all’iniziativa per cui i detenuti che risponderanno al bando, secondo il programma “Mi riscatto per Milano”, potranno fare gli operai in alcuni cantieri, o guideranno navette transfer nell’ex Area Expo e nei cantieri Santa Giulia e Rogoredo. Il ministro si è pronunciato anche sul grave problema del sovraffollamento: sua intenzione è affrontare “in modo strutturale” il problema, mentre gli altri governi ci pensavano con provvedimenti “svuota carceri” “perché serviva a sottrarsi alle sanzioni dell’Europa”. Per il capo del Dap, Francesco Basentini, il protocollo rappresenta “la perfetta combinazione migliorativa della condizione di vita del detenuto, che può migliorare progressivamente con i nostri interventi, e della condizione di lavoro della Polizia penitenziaria”. Sempre ieri il Capo del Dipartimento per la giustizia minorile e di comunità Gemma Tuccillo e il segretario generale della Croce Rossa italiana Flavio Ronzi hanno sottoscritto una convenzione della durata di cinque anni, in base alla quale 354 imputati potranno fare richiesta di svolgere lavori di pubblica utilità, ai fini della “messa alla prova”, in più di 100 Comitati Cri in tutta Italia. “La convenzione - ha commentato il ministro Alfonso Bonafede - rappresenta un’iniziativa di grande importanza che lo Stato mette in campo per garantire una seconda opportunità ai cittadini che hanno commesso errori ma che intendono intraprendere un percorso di riabilitazione e responsabilizzazione”. Intanto il Garante regionale dei detenuti della Lombardia, Carlo Lio, ha annunciato che ogni mese si recherà in visita negli istituti di pena e ha già stabilito un calendario. Questa iniziativa segue a quella di aprire gli “Sportelli del garante” dentro i principali istituti penitenziari lombardi, per accogliere e ascoltare istanze e bisogni dei reclusi. A giugno era stato inaugurato il primo nel carcere di Opera e poi durante l’estate a Bollate e Monza, mentre è prevista per il 4 ottobre l’inaugurazione di quello a Pavia. Proprio qualche giorno fa il garante Lio aveva incontrato l’esponente radicale Rita Bernardini che così ha commentato: “Quella del Garante è iniziativa fondamentale, che apprezzo molto. La popolazione detenuta è perennemente frustrata sia dalle mancate risposte da parte dell’Amministrazione sia perché la condizione di privazione della libertà non consente di affrontare quelle incombenze che solo da liberi (e sempre armandosi di molta pazienza) è possibile risolvere: il rinnovo della patente, la visita per l’invalidità o il semplice rinnovo dei documenti scaduti, solo per fare qualche esempio. Quanto alla firma dei protocolli, preferisco sempre attendere i risultati che siano conseguenza degli annunci. Aggiungo che su 60.000 detenuti, non arrivano a duemila coloro che fanno un lavoro spendibile all’esterno, una volta finita la pena”. Crotone: attività del Garante comunale dei diritti dei detenuti oggisud.it, 27 settembre 2018 Nei giorni scorsi il Garante comunale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale, l’avv. Federico Ferraro, ha avviato una serie incontri conoscitivi con le Autorità istituzionali e di pubblica sicurezza, per realizzare quella sinergia prevista dalla normativa tra il ruolo stesso di garante e le istituzioni locali. Il Garante ha incontrato nel corso della settimana tutti i comandanti delle locali Forze dell’Ordine : il Comandante Provinciale dei Carabinieri di Crotone Alessandro Colella, il Comandante della Capitaneria di Porto Giovanni Greco, nonché il Comandante della Guardia di Finanza Emilio Fiora. L’avv. Ferraro è stato, inoltre, ricevuto dal Prefetto dott.ssa Cosima Di Stani, dal Presidente del Tribunale d.ssa Maria Vittoria Marchianò, dal Presidente della Sezione Penale dott.ssa Abigail Mellace, dal Questore dott. Massimo Gambino e da ultimo dal Procuratore della Repubblica dott. Giuseppe Capoccia. Nello svolgimento di questo necessario e delicato ruolo di garanzia per i detenuti che l’amministrazione Pugliese ha recentemente istituito attraverso un provvedimento adottato dal Consiglio Comunale, sono emersi importanti spunti per realizzare un sistema ottimale che abbia al centro la tutela piena ed effettiva del detenuto e dei suoi diritti fondamentali, come previsto non solo dalle norme nazionali ma anche dalle convenzioni internazionali. Il Garante ha avuto modo di incontrare anche il Cappellano del casa circondariale Don Stefano Cava, con cui si è pensato di condividere alcune iniziative concrete. Significativo e volto alla piena cooperazione è stato anche l’incontro avuto dal Garante con la Direzione generale dell’ASP di Crotone e con la Direzione sanitaria del presidio ospedaliero. Importante è stata anche l’ interlocuzione che si è venuta a creare con la direzione della casa circondariale, nella persona della D.ssa Emilia Boccagna e di tutto il personale della Polizia penitenziaria e della struttura. La nostra Città dal punto di vista della tutela dei detenuti e delle persone che si trovino in casi di privazione della libertà personale può dirsi certamente tra le poche calabresi pronte a presentare un piano di reinserimento sociale dei soggetti interessati, a realizzare diverse iniziative progettuali che mirino ad attuare una piena funzione rieducativa della pena. Lo scorso 21 settembre, inoltre il Garante ha effettuato una dettagliata visita della struttura carceraria, nonché degli spazi ove si svolge la vita delle persone detenute e successivamente, insieme al presidente del Consiglio Comunale Serafino Mauro ha partecipato ad un emozionante spettacolo musicale ove gli stessi detenuti si sono esibiti; segno questo che il luogo di detenzione rappresenta in primis un luogo di aggregazione sociale, di accoglienza e di rinascita all’insegna dei valori del rispetto e dell’amicizia. Il Garante ha infine riscontrato un’ampia disponibilità da parte delle istituzioni preposte a realizzare iniziative di sensibilizzazione rivolte ai giovani, il futuro della nostra società. Il primato italiano? Ancora quello della paura di Gian Antonio Stella Corriere della Sera, 27 settembre 2018 Come funziona il meccanismo mentale e collettivo della percezione? “Te lo spiego io”, risponderebbe Antonio Albanese ricordando il suo “Ministro della Paura” che col “Sottosegretario all’angoscia” gonfia le paure della gente scegliendo volta per volta fra tre pulsanti: “Pulsante giallo, pulsante arancione, pulsante rosso. Poca paura, abbastanza paura, paurissima”. È un’arte, a modo suo, l’orrenda capacità di manipolare i sentimenti delle persone. Fino a plasmare le loro reazioni. Eppure, talvolta, c’è qualcosa che sfugge anche agli osservatori più attenti. Prendiamo la sicurezza: spiega l’indagine dell’Ipsos sulle percezioni dei cittadini di 38 Paesi, indagine curata per l’Italia da Nando Pagnoncelli, che il nostro Paese - che nel precedente monitoraggio risultava il “meno informato” del pianeta o meglio il più esposto alle suggestioni - ha mantenuto il primato, stavolta europeo, nel 2017, grazie ancora alle paure sul fronte della sicurezza. “Su 100 persone in Italia quante pensa siano musulmane?” Meno del 4%, sarebbe la risposta corretta al momento del sondaggio. Macché: “Il 20%”. “Su 100 persone in carcere in Italia quante pensa siano straniere?”. Risposta corretta: “34,4%” Risposta di pancia: “48%”. Ancora più illuminanti sono le domande e le risposte al seguente quesito: “Pensa che il tasso di omicidi nel suo Paese sia più alto, uguale, o più basso rispetto al 2000?”. Centinaia di articoli di giornale e servizi televisivi ma più ancora lo studio “L’inarrestabile declino degli omicidi”, condotto da Marzio Barbagli e Alessandra Minello, non lasciano il minimo dubbio: la “decrescita felice” dei delitti è stata straordinaria e prosegue dal lontano 1991. C’erano allora 3,4 assassinii ogni 100mila abitanti, scesi nel 2016 allo 0,65. Cinque volte, abbondanti, di meno. Un dato estremamente positivo. Eppure solo 1’8% degli italiani mostra di saperlo. Un altro 8% non sa, il 35% non ha notato differenze e addirittura il 49% è convinto che negli ultimi anni gli omicidi siano aumentati. Va da sé che chi raccoglie voti eccitando paure assurde come in questo caso, ha davanti pianure sconfinate. E cosa ti salta fuori invece, sorprendentemente, da un monitoraggio condotto a Mantova da Libra Onlus per un progetto contro la criminalità organizzata? Che il 38% degli abitanti è convinto che la mafia, la `ndrangheta e la camorra siano presenti “solo in qualche zona” ma con “un ruolo nel complesso marginale” o addirittura siano “quasi del tutto o totalmente assenti”. Peggio: alla domanda “lei denuncerebbe un altro imprenditore che collabora con le organizzazioni criminali?”, quasi il 47% ha risposto “non so” o addirittura “no”. Anticamera dell’omertà. Come mai questa mancanza di consapevolezza a pochi mesi dalle condanne a 109 anni complessivi degli ‘ndranghetisti legati al clan di Nicolino Grande Aracri (il bubbone scoppiò nel 2015 con 117 arresti) e processati per estorsione, detenzione d’armi, associazione a delinquere di stampo mafioso? Mah... Eppure, spiega il rapporto “Ndrangheta e impresa mafiosa a Mantova” del ricercatore Patrizio Lodetti della Statale di Milano: “Nel territorio mantovano l’arrivo delle prime famiglie di ‘ndrangheta è da far risalire agli inizi degli Anni Ottanta”, e il business del cemento è stato tale da delineare un quadro “di imprenditori corregionali che sono sì vittime di taglieggiamenti, ma spesso anche compartecipi delle pratiche illecite degli estorsori”. Alcune tabelle sulle “imprese calabresi registrate nel 2017 con sede d’impresa nel comune considerato” dicono tutto: 24 a Curtatone, 41 a Mantova, 43 a Gonzaga, 82 a Suzzara, 158 a Viadana. Perché in Italia propaganda e verità si mescolano in maniera pericolosa di Gian Maria Fara* Il Dubbio, 27 settembre 2018 Quello della menzogna nel rapporto tra politica e opinione pubblica è un problema annoso e di non facile soluzione poiché ha profonde radici nella cultura del potere, del nostro Paese in particolare. Anzi, ne rappresenta un vero e proprio carattere distintivo e deriva dallo spirito feudale tipico della nostra classe dirigente che continua a considerare come sudditi i cittadini, ai quali vanno trasferiti ordini e disposizioni piuttosto che spiegazioni. D’altra parte, come la storia ci ricorda, mentre Churchill prometteva realisticamente agli inglesi “sangue, sudore e lacrime”, il nostro Mussolini rassicurava gli italiani col suo “vinceremo”. Questa mentalità è il prodotto della convinzione della superiorità delle élite e della immaturità del popolo che “non sa”, e quindi non sarebbe in grado di valutare correttamente la complessità dei fenomeni e al quale va somministrato un distillato controllato di informazioni, o meglio, di propaganda. Ma se almeno la propaganda riguardasse azioni, misure, iniziative portate a compimento vi sarebbe poco da ridire. Il problema è che si imbastiscono pervasive campagne di comunicazione su semplici annunci di ipotesi che fanno sembrare reali e realizzate iniziative che appartengono ancora al mondo delle idee, spesso nei fatti impraticabili, disorientando l’opinione pubblica. Naturalmente tutto ciò con la complicità dei mezzi di comunicazione di massa, pronti a cogliere ogni sospiro, ogni più lieve sussurro proveniente dai palazzi del potere, ad amplificarli a dismisura. Basti osservare i titoli dei telegiornali e dei grandi quotidiani per capire quanto larga sia la distanza tra ciò che viene raccontato e la realtà dei fatti. Titoli e articoli che si rincorrono e si sostituiscono un giorno dopo l’altro: pagheremo meno tasse. Il Governo ha deciso, “contrordine compagni”, non ha deciso. Assistiamo ad una continua sovra-rappresentazione del gossip o di fatti minimali e ad una mancanza di approfondimento dei temi di maggiore rilevanza. Il prodotto finale è una straordinaria confusione, il disorientamento totale di un cittadino al quale la vita viene resa ogni giorno più difficile e complicata. Altra non irrilevante questione è quella della nuova semantica della politica, proiettata verso il superamento della lingua madre, spesso bistrattata dal politichese e dal burocratese, e rimpiazzata da un inglese che dà un fine tocco di internazionalità e che risulta essere particolarmente apprezzato dai pastori sardi, dai contadini molisani, dai vignaiuoli delle Langhe e dagli allevatori della Bassa Padana. Finché si trattava del weekend, passi. Ma quando la riduzione delle spese improduttive diventa la spending review, il Ministero del Lavoro si trasforma in quello del Welfare, il Piano per il lavoro si traduce in Jobs act, la scuola e l’Università diventano l’Education, il fallimento lascia il posto al default e via a seguire, con outsourcing, governance, election day, fiscal compact, flat tax, rating, credit crunch, low cost, social card, blind trust, la vicenda comincia ad assumere connotazioni inquietanti. L’inglese ha ormai invaso la nostra vita quotidiana, e il suo utilizzo segna la separazione tra le diverse Italie. Ciascuno di noi, in base alla propria esperienza, vocazione, professione e proiezione, è libero di farne l’uso che vuole, anche di accettare e praticare la progressiva sostituzione con la lingua madre. Tuttavia, le Istituzioni hanno il dovere di rendersi comprensibili e chiare a tutti i cittadini, soprattutto in un Paese come il nostro che non è mai riuscito a superare i mille dialetti e ad affermare il primato dell’italiano e combatte ancora con sacche vastissime di analfabetismo e analfabetismo di ritorno, come ci ricordava spesso Tullio De Mauro. Si tratta allora di stabilire se l’idea è quella di gettare alle ortiche la nostra lingua, considerata quantomeno superata, o di rendere ancora più incomprensibile ai più, con neologismi e paroloni, ciò che è meglio che non si capisca. Sembra proprio che avesse ragione Paul Valéry quando diceva che la politica è l’arte di impedire alla gente di occuparsi di ciò che la riguarda. Altra caratteristica della prassi politica recente è quella della abolizione della coniugazione dei verbi al passato e al presente, e l’esaltazione di quelli al futuro: dovremo, faremo, costruiremo, risaneremo e via dicendo. La soluzione dei problemi, per quanto gravi e urgenti, viene sempre rinviata al futuro, mai una decisione o una norma che intervengano puntualmente sul presente. I debiti della Pubblica amministrazione saranno liquidati, le tasse saranno ridotte, la giustizia sarà riformata; nel frattempo, gli italiani sono costretti a condurre la loro difficile lotta quotidiana per la sopravvivenza, e si sentono doppiamente colpiti dalla realtà, che sembra immodificabile e dalle promesse che, si sa, non saranno mantenute. Tzu-Kung chiese chi fosse un vero gentiluomo. Il Maestro rispose: “Colui che non predica quello che fa finché non ha fatto quello che predica”. È evidente, se si vuol dar credito all’insegnamento di Confucio, che nel nostro Paese i gentiluomini, se ci sono, sono davvero pochi. *Presidente Eurispes L’allarme della Consulta: “In Ue tendenze politiche contro la Costituzione” La Repubblica, 27 settembre 2018 Il presidente della Corte Costituzionale Giorgio Lattanzi avverte: “Alcune idee che prima si vergognavano di comparire, oggi invece circolano in Europa”. “In Europa e non solo c’è un clima politico e culturale che è cambiato. Ci sono orientamenti politici che, senza entrare nel merito, mi pare contrastino con il significato della Costituzione”. È l’allarme lanciato dal presidente della Corte Costituzionale Giorgio Lattanzi durante la conferenza di presentazione a palazzo della Consulta dell’iniziativa “Viaggio in Italia, la Corte Costituzionale nelle carceri” che prenderà il via il 4 ottobre nel carcere romano di Rebibbia. “Alcune idee, orientamenti, non so quanto consistenti, che un tempo si vergognavano di comparire e rimanevano nascosti, oggi invece circolano in Europa” ha detto Lattanzi che, pur non citandoli, sembra riferirsi ai movimenti di estrema destra e a certe istanze sovraniste sempre più forti in Europa. Già la settimana scorsa, nel presentare il progetto sulle carceri al presidente della Repubblica Sergio Mattarella, Lattanzi aveva sottolineato la convinzione che “sono le Carte e le Corti costituzionali, insieme con i giudici comuni, che ci difendono dai vecchi fantasmi che hanno ripreso ad agitarsi in Europa e a mettere in discussione le regole della democrazia, della libertà e dell’eguaglianza, e i diritti fondamentali che le accompagnano”. Migranti. Accusati e poi assolti, ora verrebbero espulsi di Nello Scavo Avvenire, 27 settembre 2018 Dal caso Meredith agli sbagli nelle inchieste per terrorismo. E da Via Arenula perplessità sulla costituzionalità di norme a rischio discriminazione. Se Patrick Lumumba fosse stato un richiedente asilo e avesse affrontato la sua disavventura giudiziaria nella piena vigenza del decreto sicurezza, oggi diremmo di lui che un innocente, ingiustamente accusato nel 2007 per l’omicidio di Meredith Kercher, era stato espulso, rispedito nell’ex Zaire, impedendogli di difendersi davanti alla corte. E che ne sarebbe stato di Khaled Belowa, ventisettenne siriano, tenuto in carcere a Lecce con l’accusa di essere uno scafista? Dopo un anno di detenzione è stato rimesso in libertà: i giudici hanno accertato che Khaled era solo un profugo di guerra. Per non dire di Mourad El Ghazzaoui, erroneamente imputato a Catania per reati di terrorismo internazionale: assolto. Davanti alle incertezze i giuristi della Roma Antica sapevano come comportarsi: “In dubio pro reo”. Un comandamento di civiltà insegnato al mondo: “Nel dubbio, giudica in favore dell’imputato”. Un principio tramandato almeno fino a Voltaire, secondo cui “meglio correre il rischio di salvare un colpevole, che condannare un innocente”, ma che ora rischia di infrangersi davanti alla dottrina Salvini. Già nel comunicato di presentazione del decreto sicurezza veniva annunciata “in caso di condanna in primo grado, la sospensione del procedimento per la concessione della protezione e l’espulsione del cittadino straniero. Identica procedura è prevista nel caso in cui il soggetto imputato per tali reati, benché non ancora condannato, sia ritenuto di particolare pericolosità sociale”. Dall’errore nell’indagine per la morte della studentessa americana a Perugia, fino ai casi recenti degli scafisti che in verità erano solo dei disgraziati messi al timone dei gommoni, tutte queste fattispecie rientrano nei casi previsti per l’espulsione immediata, così come vorrebbe il decreto sicurezza. Il pacchetto normativo è stato approvato all’unanimità ma, come ha riportato ieri il Fatto Quotidiano, senza riceverne smentita, l’entourage del ministro della Giustizia ha invece espresso un certo disagio, perché se si procedesse all’espulsione con la sola iscrizione nel registro degli indagati, la norma “sarebbe molto a rischio a livello di costituzionalità”, oltre a stabilire che, al contrario di quanto si legge nelle aule di giustizia, la legge non è uguale per tutti. Anche nella relazione illustrativa annessa al decreto, si legge che l’articolo 10 “prevede la sospensione del procedimento di esame della domanda di protezione internazionale dei richiedenti che hanno in corso un procedimento penale per l’accertamento di gravi reati e l’allontanamento immediato del richiedente dal territori o nazionale”. I tempi della giustizia nostrana non sono apprezzati per la celerità. Anche il maghrebino Bardid Ahdellatif passerebbe anni d’inferno se l’odissea con la legge gli ricapitasse adesso. Il Tribunale di Siracusa lo ha assolto “per non aver commesso il fatto”. Nell’aprile del 2010 era stato acciuffato nella stazione ferroviaria della città siciliana. Un connazionale lo aveva indicato come autore di un furto da 500 euro. Tra i due, si disse, non correva buon sangue. La denuncia, forse, era una ritorsione. Per arrivare all’assoluzione piena ci sono voluti sei anni. Migranti. Human Right Watch: “l’approccio del governo italiano è disumano”. La Repubblica, 27 settembre 2018 Salvini: “Sono disumani gli scafisti”. Le critiche dell’organizzazione non governativa che si occupa di diritti umani. E il ministro dell’Interno respinge anche le critiche di Macron che dà all’Italia la colpa della crisi. Un approccio disumano al problema dell’immigrazione. Così la direttrice per l’Europa e l’Asia Centrale di Human Right Watch, Judith Sunderland, ha definito le politiche del governo italiano sui migranti. “L’Italia - risponde Salvini - ha accolto negli ultimi anni 700mila immigrati da tutto il mondo, eppure continuiamo a subire lezioncine non richieste sull’accoglienza”: “A essere disumani sono gli scafisti”. E Salvini ha replicato in mattinata anche al presidente francese: “Non accettiamo lezioni di diritto o di umanità da parte del signor Macron: negli ultimi mesi ha blindato le frontiere con l’Italia e ha respinto più di 50mila immigrati, soprattutto donne e bambini”. Il ministro dell’Interno Matteo Salvini risponde all’attacco del presidente francese. Che ieri sera ha dato la colpa all’Italia della crisi sui migranti, dopo l’ennesimo caso Aquarius. Salvini poi aggiunge, caldeggiando il suo decreto sicurezza: “Arrestati dai carabinieri di Alassio (Savona) 6 bengalesi, responsabili di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, estorsione e altro. Per 6.000 euro a testa facevano arrivare in Italia propri connazionali e, dopo aver procurato i permessi di soggiorno per motivi umanitari, li costringevano a vivere in case sovraffollate e ad avviare piccole attività commerciali, obbligandoli a rifornirsi della merce da uno degli indagati. Capito perché occorre regolamentare, controllare e limitare la concessione di protezioni umanitarie, come previsto nel decreto sicurezza? Alla faccia delle critiche dei soliti buonisti abituati a chiacchierare dal loro salotto, io vado avanti! #DecretoSalvini”. Cina. Un milione di musulmani nei “campi di rieducazione” dello Xinjiang di Riccardo Noury Corriere della Sera, 27 settembre 2018 Mostrare, anche in luoghi privati, affiliazioni culturali o religiose come portare barbe “abnormemente” lunghe, indossare il velo, pregare regolarmente, digiunare, evitare di assumere alcoolici o possedere libri o articoli sull’Islam o la cultura uigura. Per questi motivi, minuziosamente descritti nel “Regolamento sulla deradicalizzazione” adottato dalle autorità cinesi nel marzo 2017, almeno un milione di musulmani - per lo più uiguri della Regione autonoma dello Xinjiang - sono arbitrariamente detenuti in quelli che eufemisticamente vengono chiamati definiscono centri per “la trasformazione attraverso l’educazione”. La detenzione in questi centri, che somigliano ai classici “campi di rieducazione”, non prevede un processo, l’accesso all’assistenza legale né la possibilità di ricorso. Vi si può rimanere per mesi, poiché sono le autorità a decidere quando il detenuto sia stato “trasformato”. Chiunque - uomo, donna, giovane, anziano, residente in città o in campagna - rischia di essere arrestato. Secondo recenti ricerche di Amnesty International, nell’ultimo anno le autorità di Pechino hanno intensificato la campagna di internamenti di massa, sorveglianza abusiva, indottrinamento politico e assimilazione culturale forzata nei confronti degli uiguri, dei kazachi e di altri gruppi etnici a maggioranza musulmana dello Xinjiang. Gli onnipresenti controlli di sicurezza fanno ormai parte della vita quotidiana e prevedono la possibilità di setacciare telefoni cellulari alla ricerca di contenuti sospetti o di verificare l’identità delle persone usando software di riconoscimento facciale. Vengono inoltre regolarmente monitorati messaggi inviati tramite applicazioni come WeChat, che non usa sistemi di crittografia. A sua volta, l’uso di applicazioni che prevedono la crittografia può essere motivo di sospetto. Kairat Samarkan è stato posto in un campo di detenzione nell’ottobre 2017, al rientro da un breve viaggio nel vicino Kazakhistan. La polizia gli ha detto che era accusato di avere doppia cittadinanza e di aver tradito il suo paese. È stato rilasciato nel febbraio 2018. L’uomo ha raccontato ad Amnesty International che subito dopo l’arresto è stato bendato, ammanettato braccia e gambe e costretto a rimanere fermo in piedi per 12 ore. Nel suo campo c’erano 6000 persone, costrette a cantare canzoni politiche e a studiare i discorsi del Partito comunista cinese. Non potevano parlare tra loro e, prima di ogni pasto, dovevano gridare “Lunga vita a Xi Jinping”, il presidente cinese. A causa del trattamento subito, poco dopo la scarcerazione, ha tentato il suicidio. Coloro che resistono alla “trasformazione” o mostrano scarsi progressi vanno incontro a punizioni quali gli insulti, la privazione del cibo, l’isolamento, i pestaggi e l’obbligo di rimanere ammanettati in posizioni dolorose. Amnesty International ha ricevuto segnalazioni di decessi all’interno dei centri, compresi i suicidi di chi non è riuscito a sopportare questi trattamenti. Per mesi, i parenti delle persone con cui hanno perso i contatti trattengono la loro angoscia. Sperano che si tratti di una situazione transitoria e temono che se chiedessero aiuto le cose potrebbero persino peggiorare. Ma attualmente, in assenza di alcun segnale che il loro tormento avrà fine, il numero di coloro che vogliono denunciare è in aumento. Molti parenti e amici che vivono all’estero hanno raccontato di sentirsi in colpa perché sono proprio queste relazioni con chi vive fuori dalla Cina a far diventare sospetti i loro cari nella Regione autonoma, accusati dal governo cinese di avere legami con gruppi all’estero per promuovere idee religiose “estremiste” e complottare “attività terroristiche”. Per evitare di far sorgere sospetti gli uiguri, i kazaki e gli appartenenti ad altri gruppi etnici della Regione autonoma hanno chiuso ogni rapporto con familiari e amici che vivono fuori dalla Cina. Li pregano di non chiamarli e cancellano i loro nomi dalle rubriche telefoniche. Non più in grado di ricevere informazioni da casa, chi vive fuori inevitabilmente teme che ai suoi parenti e amici sia successo il peggio. Alle pressioni che subiscono coloro che vivono all’estero, si aggiungono infine anche gli ostinati tentativi delle autorità cinesi di reclutare spie all’interno delle loro comunità con la minaccia che, se rifiuteranno, i loro familiari nella Regione autonoma verranno imprigionati. Se collaborano, invece, i loro cari in patria saranno trattati bene. Non sapere chi, all’interno delle comunità espatriate, faccia la spia per il governo cinese crea sospetto e sfiducia che alimentano la sensazione di isolamento e di paura.