Il decreto sicurezza abbassa la soglia dei “giovani adulti” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 26 settembre 2018 Si passa dai 21 anni ai 18: età in cui il giudice può decidere di privare il detenuto della libertà, applicando la legge ordinaria, escludendo le misure rieducative della giustizia minorile. la modifica va nella direzione opposta rispetto all’orientamento della corte costituzionale. Il decreto sicurezza approvato all’unanimità dal Consiglio dei ministri va ad incidere anche sull’esecuzione penale e in questo caso riguarda quella minorile. La norma è stata inserita senza essere nenanche indicata nel sommario del decreto. Si tratta di alcune limitazioni, qualcuna anche del tutto nuova, che riguardano niente di meno che le misure limitative della libertà personale dei minori. Una modifica che va nell’esatta direzione opposta allo spirito della riforma dell’ordinamento penitenziario e l’orientamento della Corte Costituzionale, la quale si è già espressa sul principio rieducativo, primario, del percorso minorile. Cosa va a cambiare il decreto Salvini? Due aspetti. Finora, chi commette un reato da minorenne, sino al compimento dei 25 anni, può eseguire la pena, e in genere le misure privative della libertà personale, secondo la legge che regola la giustizia minorile. Solo alla soglia dei 21 anni il magistrato competente può decidere se applicare la legge ordinaria (quindi l’esecuzione penale per adulti) nei casi di “particolari ragioni di sicurezza e considerando le finalità rieducative”. Con il decreto sicurezza il limite dei 21 anni passa ai 18: età in cui il giudice può decidere di privare un “giovane adulto”, come era stato definito secondo lo spirito di quella che doveva essere la riforma dell’ordinamento penitenziario, della libertà, applicando la legge ordinaria e con essa dunque escludendo dal novero le misure più prettamente rieducative, che caratterizzano la giustizia minorile in favore di quelle certamente più repressive della legge ordinaria. Eppure, la giustizia minorile e l’esecuzione penale annessa, è considerata un esempio virtuoso. Rappresenta una forma di intervento particolarmente selettivo perché presenta due situazioni: il carcere veramente come estrema ratio, il passaggio nella struttura penitenziaria ridotto il più possibile e dunque la esplicazione di una serie di sistemi (tipo le comunità) per rendere la pena effettiva, ma nello stesso tempo rieducativa. Il secondo aspetto introdotto dal decreto riguarda l’introduzione di una norma non scritta che non di rado viene applicata. Se un giovane che sta scontando una pena per un reato commesso da minorenne dovesse essere raggiunto da una ordinanza per un reato commesso da maggiorenne, il magistrato può sospendergli il percorso rieducativo per minori e fargli scontare la pena nel carcere per adulti. Ma, ribadiamo, tutto ciò non è normato. Il risultato è l’interruzione del percorso che ha intrapreso. Il decreto sicurezza, ora, lo mette nero su bianco. Quindi con una previsione del tutto nuova, si impone che il maggiorenne infra venticinquenne, detenuto per reati commessi da minore e che riceve un ordine di esecuzione per reato commesso da maggiorenne, può essere rinviato alla giustizia ordinaria dietro valutazione della gravità dei fatti da parte del magistrato di sorveglianza, il quale però non si dovrà fare alcuno scrupolo sul percorso rieducativo, trasmettendo gli atti al Pm, se l’ordine di esecuzione per il reato commesso da maggiorenne non viene sospeso. In sostanza il decreto valorizza questa sospensione. Entrambi le modifiche, però, non tengono quindi conto della direzione che stava prendendo anche la Consulta, con la pronuncia dello scorso anno (n. 90/ 2017), che dichiarava illegittimo il divieto automatico di sospensione dell’ordine di esecuzione per i minori proprio in favore della tutela del principio di rieducazione della pena. Per la Corte Costituzionale si poneva in contrasto con la Carta, laddove dimenticava “la protezione della gioventù con un regime, che collide con la funzione rieducativa della pena irrogata al minore” e introduceva “un automatismo incompatibile con la necessità di valutazioni flessibili e individualizzate, dirette a perseguire, con il recupero del minore, la finalità rieducativa della pena”. Ricordiamo anche la riforma dell’ordinamento penitenziario che contempla il decreto che ha elaborato l’ordinamento minorile (presto sul tavolo del consiglio dei ministri), dove si valorizza il trattamento rieducativo, eliminando anche gli ostacoli ai benefici per chi ha commesso reati rientranti nel 4bis. Bimbi in carcere, il governo vota contro le misure alternative per le madri detenute di Monica Rubino La Repubblica, 26 settembre 2018 Lega e Cinque Stelle in commissione Giustizia al Senato votano contro l’ipotesi di introdurre nella riforma dell’ordinamento penitenziario soluzioni diverse alla detenzione per le donne con figli al seguito. Il Pd accusa: “Maggioranza sorda”. La maggioranza giallo-verde, impegnata nell’esame dello schema di decreto legislativo di riforma dell’ordinamento penitenziario, ha bocciato l’ipotesi di introdurre misure alternative al carcere per le detenute madri con figli al seguito. Una scelta duramente criticata dal Pd, che accusa il governo di essere “sordo” nei confronti di questa particolare categoria di detenute, anche alla luce di recenti fatti di cronaca (come il caso della donna del carcere romano di Rebibbia che ha ucciso i suoi bambini). “Avevamo dei principi cardine nella legge delega, che attuava il decreto legislativo predisposto dal governo Gentiloni, principi che sostenevano una riforma del sistema penitenziario più giusta e mirata”, spiega la senatrice Valeria Valente, vicepresidente del gruppo Pd. “Quello schema prevedeva, ad esempio, per le madri detenute misure alternative al carcere fino al compimento di un anno del bambino, al fine di assicurare una maggiore tutela del rapporto con i figli piccoli. Ci è stato risposto dal governo che leggi per tutelare le madri detenute già esistono. Questo è vero, ma il punto era come potenziare quella impostazione, perché le strutture di accoglienza alternative alla prigione, come le case famiglia protette e gli Icam (istituti di custodia attenuata per detenute madri, ndr.) sono poche e non sufficienti”. “Quanto è avvenuto stamattina in commissione è grave e preoccupante - conclude Valente - il voto di oggi testimonia una grave involuzione di cultura giuridica che, dimenticando ogni umanità e allontanandosi dalla funzione rieducativa della pena, vede M5S seguire la Lega su una strada che nulla ha a che vedere con il miglioramento nel nostro sistema penitenziario e giudiziario”. In tutta Italia i bambini che vivono reclusi in vari istituti di pena sono 62: poco meno della metà sono figli di straniere. Si trovano in cella perché non esistono alternative familiari. Donne in carcere, come mettere le relazioni al centro di Grazia Zuffa Il Manifesto, 26 settembre 2018 La tragedia di Rebibbia evidenzia quanto sia carente una cultura delle relazioni. In Italia, in carcere non esistono luoghi per favorire l’affettività e per incontri riservati con il compagno/la compagna. Domina invece la retorica della maternità. Sulla tragedia di Rebibbia, della detenuta che ha ucciso i figli, anche troppo si è detto. E troppo si è fatto (da parte del ministro) alla facile ricerca di colpevoli: la sospensione di alcune dirigenti, a parte i dubbi di merito esposti nella lettera appello di tante associazioni, rischia di allontanare una seria riflessione sul problema dei bambini delle donne detenute. Su questo vorrei prendere parola. Cominciando ad affrontare la questione dal verso giusto: che non è quello della “detenuta madre” come caso speciale. E neppure è quello dei “diritti dei bambini”, per quanto fondamentali siano. Poiché i bambini avrebbero diritto sia a stare fuori dal carcere sia a vivere con la madre. Gli sforzi normativi si sono finora mossi proprio nell’ambito dei due diritti dei bambini che la detenzione pone in conflitto (cercando di rendere più accettabile una vita “dentro” e/o più accessibile una vita “fuori” dal carcere). Ma i limiti di tale approccio sono evidenti più che mai, se non si affronta il nodo della detenzione femminile (prima che della maternità in carcere); della pena carceraria come risposta pervasiva a pressoché tutti i tipi di reati (che nei fatti vanifica le norme “speciali” a favore delle madri detenute); dell’inflazione del penale (con previsione di pene molto alte anche per reati non violenti, come quelli di droga). E, in ultimo, ma assai importante, se non si fa di più perché le detenute (ma anche i detenuti) possano mantenere le loro relazioni affettive e svolgere per quanto possibile le loro funzioni genitoriali quando i bambini vivono lontani. In una ricerca di qualche anno fa fra le detenute in Toscana (consultabile nel volume Recluse, Ediesse, 2014), se la separazione dai cari emergeva come il fattore di sofferenza più importante, dolorosa era anche la percezione che i rapporti coi figli fossero gestiti in una logica di concessione “premiale” più che di diritto, in ogni caso “non incentivati come dovrebbero essere”, per dirla con una delle donne intervistate. Sembra cioè carente una cultura delle relazioni, prova ne è che in Italia non siamo ancora riusciti a avere in carcere luoghi per favorire l’affettività e per incontri riservati con il compagno/la compagna. Al suo posto domina una retorica della maternità. Che non può non giocare contro la donna autrice di reato, di per sé sospetta di essere “cattiva madre”. Può perciò capitare che alcune richieste di detenute per avere contatti coi figli siano respinte per presunto “uso strumentale” delle norme a favore della maternità. Così il vaglio dei giudici si muta in una sorta di Tribunale Morale, che nei fatti vanifica le disposizioni speciali. Di recente, una giurista attiva nel sostegno legale alle detenute mi riferiva un caso esemplare di tali contraddizioni: una donna condannata a una pena molto severa aveva tenuto il bambino con sé in carcere per molti anni, ma poi la lunghezza della pena li aveva separati, con molto dolore per entrambi, e il bambino era stato dato in affidamento. Non solo non le era stata concessa alcuna alternativa per evitare la separazione, ma aveva aspettato due anni prima di avere un permesso per vedere il figlio. Il Tavolo sulla detenzione femminile degli Stati Generali, nel 2016, ha offerto indicazioni preziose, da quelle più generali “di una consistente de-carcerizzazione… e una forte depenalizzazione”, unita a un allargamento delle alternative al carcere e a un uso maggiore di quelle esistenti; fino a suggerimenti puntuali, quali la “previsione di luoghi adatti all’esercizio dell’affettività e della sessualità”, l’ampliamento dell’Ordinamento Penitenziario perché le donne possano partecipare a momenti fondamentali della vita dei figli. Il ministro e il Parlamento possono prenderle finalmente in considerazione? Bambini in carcere. L’Icam di Cagliari non funziona e a Firenze non è mai partito di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 26 settembre 2018 Il nido in carcere per i bambini fino a 3 anni, gli Icam per donne con bambini fino ai 6 anni e le case famiglia protette per le donne in misura cautelare, soprattutto se non possiedono un proprio domicilio, con bimbi fino a 10 anni. Questo è quello dove si ricava una sorta di “circuito” dall’ultima legge numero 61 del 2011 per le detenute con figli. La legge prevede l’innalzamento del limite di età dei bambini che possono vivere in carcere con le loro madri da tre a sei anni. La norma contempla la custodia in istituti a Custodia Attenuata per detenute Madri (Icam) in sede esterna agli istituti penitenziari, con lo scopo di evitare a questi bambini un’infanzia dietro le sbarre. Ad oggi ce ne sono 5: Torino Lorusso e Cutugno, Milano San Vittore, Venezia Giudecca, Cagliari e Lauro (in Campania). Ne funzionano 4, perché l’Icam di Cagliari è tuttora priva di ospiti. Come mai? Lo spiega a Il Dubbio Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione “Socialismo Diritti Riforme”. “L’Icam è stato inaugurato nel 2014 - spiega Caligaris - e da allora non è stato mai aperto”. La presidente, sempre in prima fila per quanto riguarda i dritti dei detenuti nelle carceri sarde, sottolinea che l’amministrazione penitenziaria spese 400mila euro per adeguare l’appartamento lasciato gratuitamente in comodato d’uso dal comune di Senorbì (piccolo paesino in provincia di Cagliari), che ora lo vorrebbe anche riprendere visto che è inutilizzato. “Una struttura - aggiunge Caligaris - che è distante 40 km da Cagliari ed è privo di servizi vicini, utili per i bambini”. A questo si aggiunge il fatto che ci vogliono agenti, educatori, assistenti sociali. Tutte figure importanti che sono poche per garantire la funzionalità dell’Icam. Una risorsa, indispensabile, ma sprecata. In realtà non è l’unico caso di struttura inutilizzata. C’è il caso di Firenze, dove l’amministrazione penitenziaria non ha proprio avviato l’apertura, nonostante fosse stata individuata la struttura già nel lontano 2010 e con tanto di 400mila euro stanziati dalla regione toscana. A riferirlo è l’esponente del Partito Radicale Massimo Lensi, fondatore dell’Associazione Progetto Firenze. “C’è solo l’immobile della Madonnina del Grappa - spiega Lensi - in uno stato fatiscente, mai utilizzato”. L’esponente radicale racconta che fu tutto bloccato in uno stato avanzato della procedura amministrativa per la mancanza di un documento dell’antisismica. “In verità - sottolinea Lensi - abbiamo saputo che al Dap non andava a genio spendere tutti quei soldi per l’Icam a Firenze. Troppo pochi bambini. La politica locale non fece altro che dar seguito a questa richiesta e ha impantanato tutto”. Ora don Vincenzo Russo, che è amministratore dell’opera ecclesiastica Madonnnina del Grappa, sta pensando di avviare le pratiche legali per i danni subiti dall’Opera. Ad oggi, le madri detenute a Firenze hanno come unica possibilità il nido interno al carcere di Sollicciano. Gli Icam sono strutturati in modo tale da non ricordare il carcere, ma l’ambiente familiare: il personale di sorveglianza lavora senza divisa, vi è la presenza costante di alcuni educatori specializzati che assicurano un’opportunità di formazione alle madri e un sostegno nel rapporto affettivo con i figli. La strutturazione degli spazi risponde a precisi criteri pedagogici in modo tale che i bambini possano formulare una propria idea di casa, proprio per evitare che soffrano l’esperienza della carcerazione forzata. Le principali finalità che hanno condotto alla realizzazione dell’Icam riguardano la volontà di supportare le madri nel seguire percorsi di crescita e di reinserimento nel tessuto sociale, valorizzando il rapporto madre-bambino in modo da costruire una relazione quanto più sana possibile e restituendo autorevolezza alla figura materna. I bambini possono trascorrere del tempo fuori dall’istituto in compagnia di familiari o di volontari. Il personale di Polizia penitenziaria è composto da agenti di sesso femminile, mentre gli educatori presenti sono di entrambi i sessi, così da permettere ai minori di relazionarsi anche con figure maschili in maniera costante. Ma, come detto, la legge prevede le case famiglia protette. Ne parleremo nella terza parte della nostra inchiesta. Intesa su incontri scuole-carceri minorili. Firmato da Fico, Bonafede e Bussetti Ansa, 26 settembre 2018 Un protocollo di intesa per diffondere i valori e i principi della democrazia rappresentativa e della Costituzione attraverso la realizzazione di un piano di incontri delle scuole negli istituti penitenziari minorili: lo hanno firmato a Montecitorio il presidente della Camera Roberto Fico ed i ministri della Giustizia e dell’Istruzione, Alfonso Bonafede e Marco Bussetti. “Noi dobbiamo riuscire a creare del collegamenti all’interno della società, essere portatori di valori in luoghi nei quali è difficile che certi valori abbiano accesso, luoghi dove è difficile parlare o discutere. Questa collaborazione - spiega Fico - non rimarrà sulla carta ma vuole agire nel profondo, incidere nelle difficoltà della società. L’incontro, il dialogo è uno dei fondamenti della nostra società”. “Stiamo compiendo - prosegue il presidente della Camera - un primo passo attraverso il quale le istituzioni possono rimettere al centro il concetto di diritti dei minori, che frequentino essi le scuole o siano essi detenuti negli istituti di correzione. Vogliamo favorire gli incontri che possano facilitare la conoscenza reciproca tra i ragazzi delle scuole o rinchiusi in un carcere minorile, in un percorso totalmente nuovo e originale di collaborazione”. “Sulle nuove generazioni - sostiene il ministro Bonafede - si può giocare la sfida più importante in termini di educazione e prevenzione. Vivere cultura e giustizia, come due comportamenti stagni è sbagliato”. E aggiunge: “Noi non ci rendiamo conto di quanto sia fondamentale trasmettere un’esperienza, il fatto di uno Stato che si fa carico del trasmettere la storia civica alle nuove generazione, i valori della democrazia e della legalità ai giovani. Vogliamo dire ai ragazzi che lo Stato c’è, e non ci si dimentica dei ragazzi o di chi vive in condizioni difficili”. Soddisfatto anche il ministro Bussetti, secondo cui “finalmente la scuola è chiamata in causa come istituzione che mira anche ad una azione ancora più attenta nei confronti dei bisogni dei nostri ragazzi. Non si tratta solo di fare una formazione ma arrivare a far comprendere a questi ragazzi che esiste un futuro, la possibilità di un riscatto vero”, conclude. Il programma firmato mira “ad avviare progetti comuni di educazione alla legalità e di conoscenza della Costituzione attraverso un percorso di informazione che diffonda i valori e i principi della democrazia rappresentativa presso gli Istituti penali minorili e nelle scuole al fine di consolidare il senso di cittadinanza attiva negli studenti. Alle attività legate al presente Protocollo potranno prendere parte tutti i ragazzi presenti negli Istituti penali minorili, anche se non direttamente inseriti nei percorsi scolastici”. Il tutto con iniziative nella quale saranno coinvolti il presidente della Camera o un suo delegato In particolare, la Camera impegna a partecipare con il presidente o un vicepresidente o un presidente di Commissione alle giornate per l’educazione alla legalità, che saranno organizzate presso le carceri minorili dal ministero della Giustizia e dal ministero dell’Istruzione. Mattarella contro la giustizia spettacolo di Giacomo Losi Il Dubbio, 26 settembre 2018 Indipendenza e distanza dal circo mediatico. È l’appello che il presidente della Repubblica ha rivolto ai nuovi componenti del Csm in occasione del commiato dei consiglieri uscenti. “La magistratura - ha infatti dichiarato il capo dello Stato non deve rispondere alle opinioni correnti perché è soggetta soltanto alla legge”. E ancora: “L’attenzione e la sensibilità agli effetti della comunicazione non significa come tante volte è stato ricordato, orientare le decisioni giudiziarie secondo le pressioni mediatiche né, tantomeno, pensare di dover difendere pubblicamente le decisioni assunte”. Non è la prima volta che il capo dello Stato raccomanda ai magistrati indipendenza e, soprattutto, distanza da tv e giornali. Lo scorso luglio, nel pieno dello scontro tra la procura di Agrigento e il ministro Salvini (indagato da quella stessa procura per il sequestro della nave Diciotti), il capo dello Stato aveva chiesto ai giovani magistrati accolti al Quirinale il massimo sforzo di credibilità: “La credibilità del vostro operato necessita che le decisioni assunte siano autorevoli e comprensibili. Ciò vuol dire, da un lato, non piegarsi né alle pressioni del processo mediatico né a quelle - a volte più insidiose - provenienti dagli orientamenti dalle comunità locali, non sempre consapevoli del quadro normativo generale di volta in volta in rilievo, di tutti i valori in questione e dei principi in bilanciamento. Dall’altro, vuol dire dar conto delle determinazioni prese soltanto attraverso la motivazione dei provvedimenti, in ossequio alla previsione costituzionale dell’art. 111”. Certo Mattarella, qualche settimana dopo, aveva anche ricordato alla politica (e in molti avevano pensato a un messaggio indirizzato soprattutto a un Salvini furiosi con i pm) che nessuno è al di sopra della legge: “Non esistono aree di privilegio per nessuno, neppure se ricopre una funzione pubblica, neppure per i politici, perché nessun cittadino è al di sopra della legge. Il rispetto delle regole è essenziale”. Per tornare a ieri, il capo dello Stato ha voluto anche avvertire che “il ruolo che si assume quali componenti del Csm non rappresenta un privilegio ma una funzione di garanzia e al contempo di grande responsabilità per le sorti dell’equilibrio fra i poteri costituzionali”. Mattarella ha voluto anche chiarire i contorni del ruolo sia dei componenti togati che di quelli laici i quali “si distinguono soltanto per la loro provenienza perché condividono le medesime responsabilità nella gestione della complessa attività loro affidata”. In particolare “i componenti laici secondo quanto prevede lo stesso articolo 104 della costituzione sono eletti non perché rappresentanti di singoli gruppi politici di maggioranza e di opposizione bensì perché, dotati di specifiche particolari professionalità, il Parlamento ha affidato loro il compito di conferire al collegio un contributo che ne integri la sensibilità”. “Al contempo i togati non possono e non devono assumere le decisioni secondo logiche di pura appartenenza”. Insomma, “ciò che deve guidare i componenti tutti e il senso del servizio all’istituzione così come la prospettiva del servizio al paese. Dal Csm la Repubblica si attende che questo sia l’unico criterio di comportamento”. Csm. Mattarella: “Laici eletti per competenza e non per appartenenza politica” di Peter Gomez Il Fatto Quotidiano, 26 settembre 2018 Il presidente ha anche aggiunto che i consiglieri “togati non possono e non devono assumere le decisioni secondo logiche di pura appartenenza”. Indicazioni di carattere generale che arrivano alla vigilia di quello che è un voto fondamentale: il voto sul successore di Legnini. Le frasi del capo dello Stato, quindi, possono essere interpretate come un rimprovero alle correnti che in queste settimane hanno cercato di accordarsi per eleggere un vicepresidente dal peso politico. I laici sono eletti per competenza e non in quanto esponenti dei partiti. I togati, invece, non devono seguire i diktat delle correnti alle quali appartengono. Sergio Mattarella riceve i nuovi componenti del Consiglio superiore della magistratura nella consueta cerimonia d’insediamento del plenum dopo le elezioni che hanno rinnovato Palazzo dei Marescialli. E spiega in che modo i consiglieri dovranno svolgere il proprio mandato, a cominciare dall’elezione del vicepresidente, il 27 settembre. “I componenti laici, secondo quanto prevede lo stesso art. 104 della Costituzione, sono eletti non perché rappresentanti di singoli gruppi politici (di maggioranza o di opposizione) bensì perché, dotati di specifiche particolari professionalità, il Parlamento ha affidato loro il compito di conferire al collegio un contributo che ne integri la sensibilità”, ha ricordato il presidente della Repubblica. “Al contempo - ha subito aggiunto - i togati non possono e non devono assumere le decisioni secondo logiche di pura appartenenza. Ciò che deve guidare i componenti - tutti - è il senso del servizio all’istituzione così come la prospettiva del servizio al Paese. Dal Consiglio Superiore della Magistratura la Repubblica si attende che questo sia l’unico criterio di comportamento”. Indicazioni di carattere generale come anche quelle dedicate all’attenzione e la sensibilità “agli effetti della comunicazione” che non devono “orientare le decisioni giudiziarie secondo le pressioni mediatiche né, tanto meno, pensare di dover difendere pubblicamente le decisioni assunte. La magistratura, infatti, non deve rispondere alle opinioni correnti perché è soggetta soltanto alla legge”. Ma che arrivano alla vigilia di quello che è un voto fondamentale: il voto del successore di Giovanni Legnini. Le frasi del capo dello Stato, quindi, possono essere interpretate come un rimprovero alle correnti che in queste settimane hanno cercato di accordarsi per eleggere un vicepresidente dal peso politico. Mai come in questa occasione il nome del nuovo numero due di Palazzo dei Marescialli ha rappresentato un vero e proprio rebus. il Movimento 5 stelle non ha volutamente fatto filtrare alcun input che indirizzasse politicamente la scelta del nuovo numero due di Palazzo dei Marescialli. I tre consiglieri eletti dal M5s, dunque, sono per il momento tutti in corsa. Si tratta di tre docenti universitari: Alberto Maria Benedetti, professore di diritto privato a Genova, Fulvio Gigliotti, ordinario a Catanzaro e storico simpatizzante del M5s, e Filippo Donati, che insegna costituzionale a Firenze. Proprio per questo motivo, negli ultimi giorni, si è assistito a una serie di manovre tra correnti di togati - guidate da Magistratura Indipendente e Unicost, titolari di dieci seggi - per trovare un accordo sul nuovo vicepresidente. Dopo l’iniziale autocandidatura di Alessio Lanzi, professore di penale tributario a Milano eletto da Forza Italia ed ex avvocato di David Mills (prescritto per avere incassato denaro in nero da Silvio Berlusconi) e Fedele Confalonieri, il nome più accreditato come successore di Legnini è diventato quello di David Ermini, renzianissimo ex deputato e responsabile Giustizia del Pd. Sul quale avrebbero trovato la convergenza i togati di Mi, corrente conservatrice di centrodestra ma guidata da Cosimo Ferri, l’ex sottosegretario alla giustizia poi eletto dal Pd. Ermini partirebbe con undici voti certi: pochini per la prime due votazioni, quando serve una maggioranza dei due terzi. Dal quarto scrutinio, però, bastano 14 voti: in questa chiave diventano fondamentali i voti dei vertici della Cassazione, e cioè il presidente Giovanni Mammone, di Mi, e il procuratore generale Riccardo Fuzio di Unicost. Adesso, però, le parole di Mattarella sembrano indicare al plenum un’indicazione precisa: eleggere un tecnico e non un politico. E dunque uno dei docenti eletti dal M5s. D’altra parte il vicepresidente di Palazzo dei Marescialli è sempre stato un consigliere eletto dal partito di maggioranza in parlamento. Legnini: “Tra partiti e giudici non tornino le tifoserie. Nella maggioranza contraddizioni” di Dino Martirano Corriere della Sera, 26 settembre 2018 Il vice presidente del Csm Giovanni Legnini termina il suo mandato: “Per evitare un nuovo scontro tra politica e magistratura occorre avere cura del rispetto dell’equilibrio e della separazione dei poteri”. “Adesso bisogna fare grande attenzione al ritorno delle tifoserie nello scontro, talvolta fisiologico, tra politica e magistratura. Occorre invece avere cura del rispetto dell’equilibrio e della separazione tra i poteri, il conflitto fa male alla democrazia e ai cittadini”. A Palazzo dei Marescialli, nello studio del vice presidente del Consiglio superiore della magistratura che ha occupato per 4 anni, l’avvocato Giovanni Legnini sta riempiendo gli scatoloni dopo il passaggio di consegne al Quirinale durante il quale ha illustrato al capo dello Stato, che è anche presidente del Csm, il bilancio della consiliatura: “L’apertura al dialogo con le altre istituzioni e con la società è stato il tratto distintivo del nostro mandato sottolineato anche dal presidente Mattarella, al quale esprimo gratitudine per il riconoscimento del lavoro compiuto in questi 4 anni e perché egli è il garante sensibile ed autorevole del buon funzionamento del Csm”. Dopo gli attacchi del vicepremier Salvini ai magistrati sul caso Diciotti e sui fondi della Lega, c’è il rischio di un conflitto permanente tra politica e magistratura? “Anche negli ultimi 4 anni ci sono stati momenti di tensione tra magistratura e politica. Non vorrei citare nessuna vicenda in particolare”. Consip, le banche, le inchieste che hanno innescato le dimissioni dei ministri non indagati Lupi e Guidi. “Un tasso di conflittualità tra politica e magistratura è persino fisiologico. In questi anni penso si sia consolidato un maggiore rispetto reciproco tra i poteri. Vedo passi in avanti negli orientamenti dei rappresentanti delle istituzioni e un cambiamento culturale nella società, oltre al peso maggiore esercitato dalle istituzioni di garanzia tra le quali il Csm. Abbiamo vigilato nelle fasi in cui vi era il rischio di un conflitto, come è accaduto con gli ultimi noti episodi, per tutelare l’indipendenza della magistratura”. Ora al governo convivono il M5S, che tradizionalmente plaudivano alle iniziative della magistratura, e la Lega che talvolta usa il “manganello mediatico” contro i giudici. “Questa contraddizione si è già manifestata. E noi abbiamo preso una posizione forte al solo scopo di formulare un invito al doveroso rispetto dell’indipendenza dei giudici e Pm e per evitare una nuova stagione di conflitti, di cui non si sente il bisogno”. Ci sarà un cambio di passo con il nuovo Csm? “Non mi permetto di dare consigli al nuovo Csm perché non ne ha bisogno. Mi preme solo augurare che questo cambiamento culturale possa proseguire e consolidarsi. Se ne gioverebbe la democrazia e i cittadini che hanno bisogno di un ordine giudiziario indipendente e di un potere politico libero di esercitare le sue scelte nel rispetto della Costituzione e della legge”. Con i governi Berlusconi il conflitto con la magistratura era quotidiano. Si stanno riaccendendo le tifoserie? “In alcune fasi della nostra storia una parte dell’opinione pubblica tifava per gli uni o per gli altri. Questo clima mi sembra cambiato innanzitutto tra i cittadini che non mostrano di condividere gli attacchi frontali dei politici contro i magistrati né le invasioni di campo di segno opposto. Il consenso dei cittadini nei confronti dei magistrati deve essere sempre più legato all’efficiente amministrazione della giustizia anche penale”. La maggioranza, ignorando una prassi consolidata, non ha espresso un’indicazione sul nome del nuovo vice presidente del Csm. “Non voglio dire se questo metodo è migliore o peggiore rispetto a quello consolidato ma, di sicuro, ora si conferisce alle componenti, e quindi alle correnti, della magistratura, una maggiore responsabilità e peso nella scelta”. Lei è stato anche al governo per il Pd: cosa risponde a chi vorrebbe al Csm solo laici lontani dalla politica? “Non posso condividere questa opinione, non tanto in relazione alla mia vicepresidenza, che ognuno potrà valutare come ritiene, quanto per il fatto che l’esperienza istituzionale, insieme alla competenza giuridica, è tra le qualità essenziali per poter determinare il buon funzionamento di un organo delicato come il Csm”. Decreto sicurezza. Impugnazioni, stretta sui compensi di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 26 settembre 2018 Un taglio al gratuito patrocinio. Nel testo del decreto sicurezza si annida una disposizione che, nel processo civile, cancella la liquidazione del compenso all’avvocato quando l’impugnazione anche se proposta in via incidentale è stata giudicata inammissibile. La misura, analoga a quanto già oggi previsto nel settore penale, spiega la relazione al decreto “responsabilizza il difensore della parte ammessa al patrocinio a spese dello Stato, escludendo che questi abbia diritto all’anticipazione prevista dall’articolo 131, comma 4, lettera a), del citato testo unico nei casi in cui l’impugnazione, proposta o coltivata, sia dichiarata inammissibile”. Una maniera per scoraggiare le impugnazioni evidentemente infondate. In questi casi, infatti, la valutazione fatta dal legislatore è di ritenere ingiustificato un costo a carico della collettività, perché una valutazione attenta delle ragioni dell’impugnazione o una maggiore attenzione nella redazione del reclamo, dell’appello o del ricorso per cassazione, avrebbero dovuto sconsigliare la proposizione del gravame. La previsione completa, sottolinea la relazione, sia la disciplina già prevista dall’articolo 120 del Testo unico delle spese di giustizia che, secondo l’interpretazione più attenta alla salvaguardia del diritto di difesa, impone, per i giudizi impugnatori, di rinnovare il provvedimento di ammissione al beneficio in deroga all’articolo 75 del medesimo Testo unico, sia la disciplina della revoca prevista dal successivo articolo 136 per i casi in cui l’ammissione è stata pronunciata in difetto dei suoi presupposti o in presenza di mala fede o colpa grave della parte. Sul fronte penale la misura ha ricevuto a inizio anno il via libera da parte della Corte costituzionale che, con la sentenza n. 16, ha giudicato infondate le questioni di legittimità sollevate dalla Corte d’appello di Salerno. La Consulta ha spiegato che la stretta sui compensi punta a bilanciare due distinti interessi: da un lato, garantire a tutti i soggetti non abbienti il diritto di difesa, e dall’altro, la necessità di contenimento della spesa pubblica evitando che siano liquidati compensi professionali per attività superflue ed inutili quando l’inammissibilità sia largamente prevedibile se non addirittura prevista già al momento del deposito dell’impugnazione. Inoltre, per la Consulta non è problematica l’esclusione di una valutazione di merito sul peso diverso che possono avere le diverse cause di inammissibilità. A ogni inammissibilità cioè deve corrispondere la mancata liquidazione. Il decreto, a chiudere poi il cerchio, esclude che possano essere liquidate le spese sostenute per le consulenze tecniche di parte che, al momento in cui l’incarico è stato attribuito, apparivano già irrilevanti o superflue per la determinazione della prova. Decreto sicurezza. Carcere fino a 5 anni per i subappalti non autorizzati di Giuseppe Latour Il Sole 24 Ore, 26 settembre 2018 Ampliamento dei casi nei quali non sarà consentito il rilascio della documentazione antimafia, essenziale per partecipare alle gare. Comunicazioni sulla sicurezza nei cantieri da inviare anche al prefetto. E, soprattutto, inasprimento delle sanzioni per le imprese che fanno ricorso, senza autorizzazione, ai subappalti. Sono gli ingredienti più rilevanti dell’ampio capitolo del decreto sicurezza dedicato ai contratti pubblici. Sarà punito in maniera molto dura chiunque, nell’ambito di un appalto, conceda - spiega la relazione illustrativa - “anche di fatto, in subappalto o a cottimo, in tutto o in parte, le opere stesse, senza l’autorizzazione dell’autorità competente”: reclusione da uno a cinque anni, contro l’arresto da sei mesi a un anno previsto nella vecchia norma. Pene più dure anche per il subappaltatore o per l’affidatario del cottimo non autorizzato:?anche in questo caso si arriverà fino a un massimo di cinque anni di reclusione. La semplice contravvenzione diventa, così, un delitto. In questo modo, sarà colpito chi consente a imprese non autorizzate l’ingresso in cantiere per l’esecuzione di opere pubbliche. Punta a un monitoraggio più stringente di quanto avviene in cantiere anche la disposizione che cerca di garantire “una maggiore circolarità delle informazioni” in materia. Viene, così, ampliata la platea dei destinatari della segnalazione di inizio attività dei cantieri: viene incluso il prefetto, “quale autorità di Governo che presiede il gruppo di accesso nei cantieri stessi”. Viene, infine, allargato il ventaglio delle ipotesi che impediscono il rilascio della documentazione antimafia, essenziale per partecipare agli appalti pubblici: l’obiettivo è colpire attività delittuose molto frequenti per ottenere il controllo illecito degli appalti. Saranno messe sotto la lente, allora, le persone condannate con sentenza definitiva o, anche se non definitiva, confermata in grado di appello, per i reati di truffa ai danni dello Stato o altro ente pubblico (articolo 640, comma 2, punto 1 del Codice penale) e per quello di truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche (articolo 640-bis Codice penale). In questi casi, allora, sarà impedito il rilascio della documentazione antimafia, delle comunicazioni antimafia e delle verifiche antimafia. Impossibile, in sostanza, accedere a una gara pubblica. Decreto sicurezza. Autonoleggi, clienti “schedati” per sventare attentati terroristici di Maurizio Caprino Il Sole 24 Ore, 26 settembre 2018 I clienti degli autonoleggi saranno schedati “preventivamente”, per evitare il più possibile attentati terroristici come quello del 14 luglio 2016 a Nizza, compiuto con un camion preso proprio a noleggio. Di misure preventive di atti del genere si parla proprio da allora. La loro concretizzazione è contenuta nel decreto sicurezza varato l’altro ieri dal Consiglio dei ministri. Teoricamente, per i clienti non dovrebbe cambiare molto. Le imprese di autonoleggio dovranno invece perfezionare le loro attuali procedure, ma non dovrebbero esserci troppi problemi a farlo. L’articolo 19 dello schema di decreto legge prevede che “contestualmente alla stipula del contratto di noleggio” gli operatori comunichino “i dati identificativi riportati nel documento d’identità esibito dal soggetto che richiede il noleggio”. La comunicazione va effettuata allo Sdi, la banca dati dei corpi nazionali di polizia, con la quale i noleggiatori dovranno essere collegati telematicamente con modalità da fissare entro sei mesi in un decreto di natura non regolamentare del ministero dell’Interno. Lo Sdi raffronterà automaticamente i dati del cliente con quelli presenti al suo interno. Cioè verificherà in automatico se a carico dell’interessato ci sono condanne, provvedimenti dell’autorità di pubblica sicurezza (come diffide o divieti di recarsi in certi luoghi) o comunque segnalazioni antiterrorismo. Se il riscontro è positivo, parte una segnalazione di allerta per gli uffici di polizia competenti, che dovranno attivarsi per fare controlli. Potranno anche sottoporre l’interessato a rilievi segnaletici, se non son in grado o rifiutano di provare la loro identità. Dunque, non ci sarà alcun blocco preventivo dei contratti di noleggio in attesa di un “assenso” da parte delle forze dell’ordine. Nella maggior parte dei casi, non ci sarà nemmeno una perdita di tempo agli sportelli dei noleggiatori: circa i tre quarti dei contratti di noleggio ormai si fa online e quindi è lo stesso cliente a fornire i suoi dati. Un po’ più complessa la situazione per chi si presenta allo sportello senza prenotazione: bisognerà fornire tutti i dati, che andranno trasmessi allo Sdi contestualmente, prima di consegnare il veicolo. L’obbligo di comunicazione allo Sdi varrà per qualsiasi tipo di noleggio di veicolo. Quindi la schedatura riguarderà non solo auto ma anche mezzi pesanti, moto eccetera e si applicherà anche al noleggio a lungo termine e al car sharing, dove però impatterà meno perché gli operatori hanno già una banca dati dei clienti. In caso di auto aziendali in noleggio a lungo termine, l’obbligo appare ridondante: bisognerà comunicare non il nome dell’effettivo utilizzatore, ma quello dell’azienda, già noto alla Motorizzazione (articolo 94, comma 4-bis, del Codice della strada). Il reato di tortura e l’accerchiamento delle forze dell’ordine di Bruno Ferraro* Libero, 26 settembre 2018 Che le forze dell’ordine, di norma, non riscuotano il generale consenso quando operano a tutela della sicurezza collettiva intensificando l’attività repressiva, è un dato di fatto che non sorprende più di tanto. Che però ad esse si faccia mancare l’indispensabile fiducia, mettendo in dubbio l’equilibrio e la serenità nel modus operandi, rappresenta un aspetto preoccupante, in quanto ne risulta incrinato il rapporto tra i consociati e gli agenti (in primis carabinieri, guardia di finanza e polizia di Stato) preposti alla tutela dell’ordine costituito. Ricordo un titolo tra i tanti tratto da Libero dell’I ottobre 2015 - “Agenti accusati ingiustamente? Troppi, ma nessuno si indigna” - ove una consistente casistica di poliziotti sottoposti a procedimenti penali e scagionati a distanza di anni perché il fatto non sussiste. Con legge 14 luglio 2017 n. 110 è stato addirittura introdotto l’art. 613 bis codice penale che, ancorché riferibile a qualunque soggetto, sanziona tuttavia con pene severissime (reclusione da 5 a 12 anni) i reati di tortura ascrivibili ad un pubblico ufficiale o ad un incaricato di pubblico servizio che se ne rendano colpevoli agendo con abuso dei poteri o violazione dei doveri inerenti alla funzione o al servizio. Perché si è arrivati a tanto è presto detto. Il Parlamento italiano è stato costretto a farlo per adeguare il nostro ordinamento a quello sancito dalla Convenzione delle Nazioni Unite e per rispondere alle preoccupazioni di Amnesty International. Sta di fatto che le forze di polizia, anche attraverso una presa di posizione del loro sindacato Sap, hanno avvertito una sorta di accerchiamento e un concreto rischio di inoperatività alla luce del pericolo di essere chiamate a rispondere penalmente per il proprio operato subendo l’onta di indagini pesanti ed il discredito a livello di opinione pubblica. Si è parlato di regalo ai delinquenti, di follia totale, di eccessiva penalizzazione, di incitamento a non operare, di legge manifesto ispirata da un evidente pregiudizio ideologico, di norma troppa generica rimessa per l’applicazione alla decisione discrezionale dei magistrati, del rischio di denunzie strumentali, di accanimento delle forze di sinistra nei confronti delle forze dell’ordine (visto che la legge unificò 6 disegni di legge per la maggior parte provenienti da Parlamentari di sinistra fra cui 2 ex magistrati), e addirittura di “castrazione” delle Forze di polizia costrette a difendersi dalle accuse di delinquenti e balordi senza scrupoli. È presto per un bilancio. La norma, non essendo stato possibile evitarla, sollecita la magistratura al massimo della prudenza e dell’equilibrio, anche perché nella legge sono presenti i necessari paletti che dovrebbero impedire interventi eccessivi. E infatti occorrono violenze o minacce gravi e comportamenti crudeli. Sono richieste, per la consumazione del reato, acute sofferenze fisiche o un “verificabile” trauma psichico, anche disgiunto tuttavia dalla reiterazione delle condotte. Il reato è escluso quando le sofferenze sono la conseguenza dell’esecuzione di legittime misure privative o limitative di diritti. L’uso dei vari aggettivi lascia spazio alla discrezionalità dei pm. La previsione di pene severissime in caso di lesioni personali o di morte (30 anni o ergastolo) va di pari passo con l’obbligatoria estradizione dei colpevoli in applicazione delle normative internazionali. È dunque auspicabile da parte dei magistrati il massimo della ponderazione nella disamina del materiale probatorio a loro disposizione. *Presidente Aggiunto Onorario Corte di Cassazione Appello per Verdiglione: non fatelo morire in carcere di Dimitri Buffa L’Opinione, 26 settembre 2018 Il filosofo ed editore che rischia di morire in galera dopo una lunga ed estenuante battaglia condotta dal sistema giudiziario italiano contro di lui fin dalla prima metà degli anni Ottanta dello scorso secolo. Una battaglia invero degna di miglior causa, visto che poi alla fine le accuse contro l’allievo prediletto del filosofo e psicanalista Jacques Lacan non hanno mai travalicato la circonvenzione d’incapace o l’evasione fiscale. Piuttosto che la truffa allo Stato e la bancarotta, peraltro indotta dalle tante inchieste che hanno fatto fallire tutte le sue attività culturali. Reati buoni per chi, come alcuni partiti dell’attuale governo (i grillini) si dichiarano assetati di manette e di giustizialismo da Termidoro. Ma tant’è. Il filosofo che deve alla propria genialità, e all’invidia sociale da essa generata, gran parte delle accuse che lo stanno portando alla tomba, dal 5 settembre si è costituito in carcere a Opera, in provincia di Milano, per scontare un residuo di pena di 5 anni e otto mesi. Era il risultato di condanne vecchie e nuove al netto dei periodi già scontati in carcere nel 1986 e negli anni Novanta. Accuse in realtà assai discutibili - e in certi casi risibili come la circonvenzione di incapace - ma che in un Paese che vive di burocrazia giudiziaria come l’Italia sono bastate a produrre condanne definitive. Ora, lo stesso filosofo, per il quale firmarono negli anni Ottanta le migliori menti della intellighenzia europea (da Alberto Moravia a intellettuali stranieri come Eugène Ionesco, Emmanuel Lévinas, Fernando Arrabal, Vladimir Bukowski, Bernard-Henri Lévy, Marek Halter) e per il quale si mossero anche i Radicali di Marco Pannella, da tempo aveva rinunciato a lottare contro i mulini vento della giustizia all’italiana. Rassegnandosi a scontare pene da lui, e da molti altri, ritenute ingiuste se non assurde, pur di chiudere i conti con il sistema che gli aveva rovinato la seconda parte della sua brillante esistenza. A 74 anni suonati si era illuso di potere almeno scontare ai domiciliari il residuo pena. E invero, nell’ultimo processo per evasione fiscale e truffa allo Stato (e per avere determinato ingiuste sofferenze bancarie per 18,3 milioni di euro a Intesa e 24 milioni di euro niente meno che a Banca Etruria), persino la pubblica accusa durante il processo in Cassazione si era convinta della sua innocenza e ne aveva chiesto l’annullamento delle precedenti condanne. Niente da fare. Condanna confermata e soprattutto “in galera”. I pm e il magistrato di sorveglianza non hanno ritenuto di applicare “in automatico” il beneficio dei domiciliari ma hanno insistito per la sua costituzione e per un’istanza in tal senso che partisse da dentro il carcere. Come vuole il pensiero unico corrente secondo cui la certezza del diritto e quella della pena si dovrebbero identificare con la certezza della carcerazione. Anche per un anziano gentiluomo intellettuale di 74 anni. Ancora una volta Verdiglione ha scelto la linea del attenersi alle regole, pur forcaiole, dello stato di diritto all’italiana. Si è costituito lo scorso 5 settembre a Opera. Solo che non aveva fatto i conti con il proprio fisico e con la propria mente, debilitati entrambi da questo quarto di secolo passato a difendersi da accuse da lui ritenute intimamente ingiuste. Risultato: nel centro clinico di Opera in cui è attualmente ricoverato non riesce a mangiare dallo scorso 5 settembre. Tutto ciò che ingerisce lo rigetta immediatamente. È apparso debilitato ai limiti della sopravvivenza al medico che lo ha visitato come perito di parte lo scorso 20 settembre. Ha perso diciotto chili in pochi giorni, da 84 chili, peso con cui era entrato in carcere, ai 66 attuali. Non riesce nemmeno a leggere per più di dieci minuti, lui che ai bei tempi divorava quattro libri al giorno. Nell’ottica del “chi ha dato ha dato e chi ha avuto ha avuto” - che può riguardare il fatto che Verdiglione sia stato obbligato a piegarsi alle sentenze di un Paese che lo ha trattato come lo ha trattato determinando con le proprie inchieste anche il fallimento di tutte le sue attività culturali ed editoriali non di secondo piano, ad esempio la casa editrice “Spirali” - adesso cosa vogliamo fare con il filosofo Armando Verdiglione detenuto nel centro clinico di Opera? Lo vogliamo far morire così per fare contenti gli “united grillins of Italy”? Oppure vogliamo concedergli una vecchiaia relativamente serena nella prigione domiciliare di casa sua? È così socialmente pericoloso quello che con sprezzo del ridicolo alcuni inquirenti hanno definito un “guru”? Come se questa parola fosse un insulto? Non c’è falso in atto pubblico nell’alterazione del cartellino delle presenze nella Pa di Paolo Rossi Il Sole 24 Ore, 26 settembre 2018 Corte di Cassazione - Sezione V - Sentenza 25 settembre 2018 n. 41426. Il “cartellino” delle presenze negli uffici della pubblica amministrazione non è un atto pubblico. Così la Corte di cassazione, con la sentenza n. 41426 depositata ieri, ha annullato a due dipendenti comunali ‘infedeli’ la condanna per il reato di falso ideologico commesso da privato in atto pubblico (articolo 483 del Codice penale). I dipendenti timbravano il cartellino, con modalità tali da attestare falsamente la loro presenza negli uffici comunali. Ma se è vero che così commettevano il reato di truffa aggravata ai danni dell’ente locale non è vero che realizzassero un falso in atto pubblico. Cartellini o badge rilevano, infatti solo nel rapporto con il datore di lavoro, rapporto che nella Pa è ormai di diritto privato. Cioè sono privi di rilevanza esterna non essendo manifestazione dichiarativa o di volontà attribuibile alla pubblica amministrazione. La Corte di cassazione, confermando che l’alterazione delle presenze è un raggiro o un artifizio in grado di trarre in inganno il datore di lavoro, ha riconosciuto la legittimità della condanna per truffa aggravata, peraltro non impugnata dai ricorrenti in Cassazione. Ma ha escluso - smentendo il giudice di merito e un minoritario orientamento in Cassazione - che sia ravvisabile qualsiasi ipotesi di falso in atto pubblico compresa quella aggravata prevista dall’articolo 479 del Codice penalequando l’autore è un pubblico ufficiale. Infatti, è la stessa natura privatistica del cartellino ‘marcatempo’ a rendere ininfluente la verifica se il dipendente rivesta o meno il ruolo di pubblico ufficiale. Mentre nella truffa commessa dai ricorrenti contro il datore di lavoro rileva sicuramente la natura pubblica di quest’ultimo e delle risorse con cui paga i dipendenti, facendo scattare l’aggravante prevista dall’articolo 640, comma 2, del Codice penale. Per i lavori in casa la messa in sicurezza pesa sul committente di Luigi Caiazza Il Sole 24 Ore, 26 settembre 2018 Corte di cassazione - Sentenza 40922/2018. Nell’appalto dei lavori edili, anche di modesta entità, è sempre più frequente l’individuazione della responsabilità penale del committente in caso di infortunio sul lavoro. In tal senso si sta orientando la giurisprudenza, per cui un committente che si definisca “non professionale”, come quello che appalta lavori di tipo domestico, quali ristrutturazioni, pitturazione, in assenza della redazione di un documento di valutazione dei rischi o della nomina di un responsabile dei lavori, cui sia conferito anche il compito di realizzare la sicurezza prima della realizzazione delle opere, ha l’onere generalissimo di mettere l’appaltatore nella condizione di operare in sicurezza. In tal senso, si ora è espressa anche la Corte di cassazione, Quarta Sezione Penale, con la sentenza n. 40922/18 depositata il 25 settembre scorso, nel decidere il ricorso presentato da una committente avverso le sentenze dei giudici di primo e secondo grado. Nel caso esaminato dalla Corte era risultato che la ricorrente aveva commissionato ad una impresa edile i lavori di pitturazione delle pareti esterne di un villino di sua proprietà. L’appaltatore il giorno dell’infortunio, mentre eseguiva i lavori precipitava da un’apertura posta sulla pavimentazione esterna che costituiva la luce di uno scantinato, originariamente coperta da tavole, nel frattempo rimosse da altro operaio, per cui l’apertura stessa veniva riparata solo da un pannello in polistirolo, il quale, non reggendo al peso, si rompeva facendo precipitare l’appaltatore, che si feriva mortalmente. Come anticipato, i giudici di legittimità, nello stabilire che sul committente gravava il dovere di sicurezza in relazione all’esecuzione del contratto di appalto, nel caso di specie hanno individuato: la mancata predisposizione dei un piano di valutazione dei rischi; il mantenimento dell’apertura sul piano di calpestio del camminamento intorno al villino, senza efficace protezione dal rischio di caduta; la mancata vigilanza dello stato di fatto esistente in cantiere; la mancata informazione delle maestranze presenti sui luoghi. Si tratta di obblighi, in qualche caso di esclusiva competenza del datore di lavoro, non ottemperati dal committente, che non può dirsi esente per il fatto che il lavoro commissionato attenesse ad una realtà lavorativa di natura “domestica”, essendo titolare ex lege di una posizione di garanzia, ed essendosi il sinistro prodotto in assenza della designazione di un responsabile dei lavori. Da qui l’affermazione secondo cui sul committente incombe l’obbligo non solo di segnalare i pericoli, ma anche quello di provvedere alla loro eliminazione prima dell’inizio dell’attività, così da consentire a colui al quale siano affidati i lavori di assumere, quale datore di lavoro, i rischi propri delle lavorazioni e non anche quelli derivanti dalla conformazione dei luoghi. Ne deriva anche che solo nell’ipotesi in cui l’oggetto dell’incarico includa la messa in sicurezza dei luoghi sui quali insisterà il cantiere, è possibile per il committente essere esente da responsabilità. Pertanto, quest’ultima resta in capo al committente quando l’incarico sia conferito per la sola esecuzione delle opere, non estendendosi espressamente ai rischi preesistenti. Abruzzo: Garante dei detenuti, tre anni di imbarazzante silenzio ilcapoluogo.it, 26 settembre 2018 Oltre tre anni di schermaglie politiche, candidature non condivise, accordi mai raggiunti e un sostanziale nulla di fatto: l’Abruzzo è l’unica regione italiana a non avere un Garante dei Detenuti. Oltre tre anni di schermaglie politiche, candidature non condivise, accordi mai raggiunti e un sostanziale nulla di fatto: l’Abruzzo è l’unica regione italiana a non avere un Garante dei Detenuti. La X legislatura regionale che si sta per concludere porta con sé un silenzio imbarazzante sul tema del rispetto dei diritti delle persone private della libertà personale, di cui il Garante è figura di riferimento. Nel giugno del 2015 la pubblicazione del bando di gara: già in ritardo, a dire il vero, visto che i termini della selezione vennero aperti ben oltre i tre mesi dall’insediamento del consiglio regionale, cosa stabilita per legge. Ma da allora sono passati, appunto, oltre tre anni: 60 sedute (il dato pazientemente raccolto dal consigliere di SI Leandro Bracco) in cui il punto, pur essendo all’ordine del giorno, non ha mai avuto uno sbocco certo e definitivo. Tre anni di appelli, come quello del presidente del consiglio regionale Di Pangrazio, che nell’ottobre del 2017 chiamava alla responsabilità i consiglieri regionali, chiedendo con urgenza l’insediamento del Garante. Tre anni di scontro sulle candidature: in pole position c’è sempre stata la radicale Rita Bernardini, da sempre portavoce delle immense problematiche che vivono in carcere sia i detenuti sia i lavoratori del sistema penitenziario. Un nome illustre che però non è stato eletto in quanto in più occasioni sono mancati tre voti: quelli dell’opposizione, certo, ma spesso anche quelli della maggioranza. “Scene biasimevoli, scene comiche, scene surreali che però purtroppo si sono verificate in diverse occasioni”, sottolinea Bracco, ricordando che spesso sul punto veniva a cadere il numero legale. La Regione Abruzzo prevedeva infatti che il Garante potesse essere eletto con una maggioranza qualificata di 21 voti a favore di un candidato: il veto dei 5Stelle su Bernardini - rea di essere stata condannata per disobbedienza civile a favore della depenalizzazione delle droghe leggere, e quindi ineleggibile per i pentastellati - è stato inamovibile. Ma spesso, appunto, a mancare erano anche i voti di alcuni esponenti della maggioranza. Per cercare di sbloccare la situazione, nell’estate del 2017 fu apportata una modifica a questo regolamento: sì alla maggioranza assoluta dopo tre votazioni avvenute in tre sedute consecutive. Una decisione che suscitò aspre polemiche: “Non si cambiano le regole in corsa” tuonarono l’avvocato Salvatore Braghini, il professor Gianmarco Cifaldi e l’avvocato Antonio Di Biase, candidati alla carica, che con una lettera alla Presidenza della Regione chiesero la pubblicazione di un nuovo bando. Anche questa, lettera morta: la situazione non si è sbloccata e sono passati altri mesi. Intanto, aumentano a dismisura i problemi delle carceri abruzzesi: sovraffollate, con una grande carenza di personale penitenziario, dove gli episodi di autolesionismo e di aggressione alle guardie carcerarie continuano ad aumentare. “Le carceri aquilane sono come forni”, denunciava l’estate scorsa la Uil-Pa Polizia Penitenziaria. Infine, i suicidi: due in un solo mese, nella scorsa primavera. Su questo la Regione ha in parte agito: esiste infatti un programma, datato 2012, per la prevenzione del rischio autolesivo e suicidario dei detenuti, degli internati e dei minorenni sottoposti a provvedimento penale. Nel piano era stato disposto che in ciascun Istituto Penitenziario venisse realizzato un piano di accoglienza che prevedesse una valutazione multi-professionale e la individuazione di un percorso interno, per tutti i detenuti nuovi giunti, in particolare per i soggetti che risultavano a rischio di suicidio. A questo, nell’aprile scorso, se ne è aggiunto un altro: è previsto che la Regione si doti di un proprio Piano di prevenzione regionale, affidando all’Osservatorio Regionale Permanente di Sanità Penitenziaria il compito di elaborare uno specifico Piano Regionale per la prevenzione delle Condotte suicidarie, contenente le linee di indirizzo utili per rendere operativi quelli locali in modo omogeneo. Lombardia: Bonafede a San Vittore per firma protocollo intesa su reinserimento detenuti Askanews, 26 settembre 2018 Oggi, mercoledì 26 settembre alle 11, presso la Sala Polivalente della Casa Circondariale Francesco Di Cataldo di Milano San Vittore, alla presenza del Ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, sarà firmato il protocollo d’intesa “Programma 2121”. L’accordo, promosso dal Ministero della Giustizia-Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria con il gruppo multinazionale di sviluppo immobiliare Lendlease, è finalizzato a valorizzare l’inclusione sociale dei detenuti presenti negli istituti penitenziari della Lombardia attraverso la promozione di inserimenti lavorativi. Insieme al Guardasigilli, interverranno il Presidente della Regione Lombardia Attilio Fontana, il Sindaco di Milano Giuseppe Sala, il Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria Francesco Basentini, il Presidente del Tribunale di Milano Roberto Bichi, il Presidente del Tribunale di Sorveglianza di Milano Giovanna Di Rosa, il Prefetto di Milano Luciana Lamorgese e il Responsabile per l’Europa Continentale di Lendlease Andrea Ruckstuhl. Padova: “carcere Due Palazzi da ristrutturare”. Il direttore lancia l’allarme di Alice Ferretti mattinopadova.it, 26 settembre 2018 Mazzeo lo dirige da 6 mesi: “Servono interventi su solai, spazi comuni e bagni Ho fatto presente alla Regione anche la carenza di corsi per i detenuti”. La Casa di reclusione di Padova avrebbe bisogno di una serie di lavori di ristrutturazione. A esporre la necessità il suo direttore, Claudio Mazzeo, arrivato a dirigere il Due Palazzi circa sei mesi fa. “Bisognerebbe intervenire negli spazi comuni, nel sistema di areazione delle docce e in altri locali che hanno bisogno di essere ristrutturati. Poi bisognerebbe reimpermeabilizzare i solai”. In particolare ad aver bisogno di una rinfrescata è la parte detentiva. “Gli ambienti dove lavorano associazioni e cooperative sono a posto, quella che è un po’ degradata e da ristrutturare è la parte detentiva. Ad esempio le camere detentive dovrebbero avere ognuna una doccia invece ci sono docce comuni nella sezione”. Il direttore da quando è arrivato spiega di aver già fatto presente più volte la problematica: “Stiamo aspettando di vedere se finalmente si muove qualcosa”. Più che il sovraffollamento (598 i detenuti), migliorato negli ultimi anni grazie alla sentenza Torreggiani, è questo il problema. Un’altra difficoltà, che il direttore del carcere ha già fatto presente alla Regione, è la carenza di corsi di formazione per i carcerati. “La Regione mi ha garantito il massimo impegno”, ha sottolineato Mazzeo, che ieri mattina era presente all’Hotel Sheraton in occasione della presentazione del progetto europeo Sat Law: Strategic Assessment for Law and Police Cooperation. “È un progetto finalizzato a favorire l’armonizzazione dei sistemi di giustizia a livello europeo”, ha spiegato Enrico Sbriglia, provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria del triveneto. “In Europa infatti ci sono impostazioni diverse, sia nell’approccio investigativo che giudiziario. E questo permette che si aprano dei varchi che consentono a chi è più astuto di fuggire alle maglie della giustizia”. Per questo motivo si cerca di trovare nuovi protocolli che sanciscano un coordinamento generale tra i vari paesi. “Ci sono molti casi di atti terroristici, per esempio, compiuti da persone già note ai sistemi di giustizia di un altro paese. Con un coordinamento tra paesi questo problema non esisterebbe”. Al convegno ieri mattina a parlare di queste tematiche è intervenuta anche la senatrice Angela Pirulli, primo direttore penitenziario che varca come parlamentare le porte di Palazzo Madama e che è perfetta conoscitrice di problematiche di sicurezza e giustizia in ambito europeo. Ivrea (To): Paola Perinetto è il nuovo Garante dei detenuti La Voce, 26 settembre 2018 Il Consiglio comunale riunitosi la scorsa settimana, a larga maggioranza (10 voti) ha proceduto alla nomina del nuovo “Garante dei detenuti”. Sarà Paola Perinetto. Prenderà il posto di Armando Micalizza. Avevano presentato domanda anche Giorgio Roberto Rosas, Raffaele Orso Giacone e Valeria Ferraris. Opererà presso la Casa Circondariale di Ivrea, come prevede la delibera di consiglio comunale n. 88 del 27 novembre 2012. Questa figura, con diverse denominazioni, funzioni e procedure di nomina, è presente in 22 paesi dell’Unione europea e nella Confederazione Elvetica. In Italia è presente in Comuni, Province e Regioni, è cioè articolata localmente ma non è stata ancora istituita a livello nazionale. Il Garante nasce nell’ambito della discussione sui diritti dei detenuti e del loro significato nell’esecuzione penale, nonché della necessità di una più efficace tutela al fine di evitare possibili involuzioni del sistema penale. Si tratta di un organo capace di svolgere attività di diversa natura. Le funzioni principali che gli competono sono: accertarsi personalmente delle reali condizioni di detenzione; individuare le problematiche dei detenuti su loro sollecitazione ed istanze; intervenire con strumenti e modalità adeguate anche e soprattutto con la collaborazione della amministrazione penitenziaria. Il Garante deve promuovere l’esercizio dei diritti e delle opportunità di partecipazione alla vita civile, agevolando la fruizione da parte dei detenuti dei servizi comunali, provinciali, regionali, nonché garantendo il diritto al lavoro, alla formazione, alla crescita culturale, alla tutela alla salute, alla cura della persona e promovendo diverse attività formative, culturali e sportive e, in ultimo, avvicinando la società civile al carcere. Il Garante di Ivrea ogni anno renderà noto il suo operato attraverso la presentazione di una relazione al Consiglio Comunale, dove verranno descritte le diverse attività intraprese durante l’anno, gli obiettivi prefissati e quelli raggiunti. È possibile contattare il Garante tramite e - mail garante@comune.ivrea.to.it o chiamando l’Ufficio Garante presso il Servizio Politiche Sociali del Comune al numero 0125.4101. Roma: “Made in Rebibbia”: in carcere si impara l’arte della sartoria Il Messaggero, 26 settembre 2018 La vita può ripartire anche dal carcere. Nel penitenziario romano di Rebibbia s’insegna l’arte della sartoria. Quindici allievi, per quattro giorni a settimana, sei ore al giorno, imparano come tagliare, cucire e confezionare un abito sartoriale. È il progetto “Made in Rebibbia - Ricuciamolo insieme”, nato per iniziativa di Ilario Piscioneri, presidente della storica Accademia Nazionale dei Sartori, fondata nel 1575, che ha voluto trasmettere le sue conoscenze ai detenuti, per offrire loro un’altra possibilità di vita. “Volevo cercare dei ragazzi con la voglia di apprendere questo mestiere. Fuori ce ne sono tanti, ma qui dentro sono più motivati. Infatti sono rimasto stupito, perché molti di loro hanno bruciato le tappe”. Siglato l’accordo con l’Istituto penitenziario di Rebibbia e grazie alla sponsorizzazione di BMW Roma, che ha finanziato l’acquisto di materiale didattico ed attrezzature, lo scorso settembre sono iniziate le lezioni, che durano come un anno scolastico e prevedono un percorso formativo di tre anni, al termine del quale, i detenuti-sarti saranno pronti per il lavoro professionale. Dentro l’aula di sartoria di Rebibbia gli errori commessi nella vita passata non contano. Per quelli, ognuno sta scontando la propria pena. Gli errori che contano, sono quelli che si commettono quando si taglia una stoffa o si cuce la manica di una giacca. Da quelli s’impara. E la soddisfazione è enorme, perché il lavoro è realmente uno strumento di rieducazione sociale. Tra le macchine per cucire, i fili e le stoffe ci sono due sarti. In loro c’è la passione del mestiere e la voglia di aiutare. “I ragazzi sono motivati ed apprendono facilmente” dice Giuseppe Bertone che viene da Rapallo, “io mi faccio 400 chilometri al giorno, vengo da Ascoli e sono orgoglioso di loro” aggiunge il maestro sarto Franco Mariani. Per gran parte dei 15 detenuti del progetto “Made in Rebibbia”, questa attività è iniziata come un passatempo per sfuggire alla noia della detenzione. Poi hanno scoperto la creatività e acquisito la consapevolezza di apprendere un mestiere. “Sto realizzando il mio futuro” dice Massimo “non avevo mai preso un ago in vita mia ed in pochi mesi ho già cucito tre giacche. In carcere ho scoperto di avere un dono”. “Nella mia vita non avrei mai pensato di fare il sarto” aggiunge Andrea, uno dei primi a fare parte del progetto, “per me è una bella soddisfazione, perché fa piacere sapere che possiamo ancora imparare”. Manuel ha iniziato sette mesi fa, ora è in grado di realizzare giacca e gilet “noi veniamo dalla strada ed abbiamo commesso degli errori. Non sapevamo nulla di questo mestiere, ma è fondamentale per il nostro reinserimento nella società”. Filippo ha 47 anni, è molto attento mentre sta cucendo la manica di una giacca eppure “all’inizio non mi sentivo predisposto, ma con l’impegno eccomi qua. Nulla è impossibile”. A fine corso, il progetto “Made in Rebibbia”, prevede la consegna di un diploma per ogni allievo e la possibilità di partecipare ad una sfilata con gli abiti realizzati. “Il pensiero più bello” aggiunge Filippo “è far vedere alla mia famiglia ed ai miei figli, che essere stato qui dentro per anni, non è stato tempo perso perché ho usato la mia creatività”. Genova: carcere Pontedecimo, sei detenute imparano le basi per diventare parrucchiere genova24.it, 26 settembre 2018 Il club Soroptimist ha organizzato un corso professionale di 60 ore consentendo alle detenute di acquisire un bagaglio di utile conoscenza professionale. Sono stati consegnati ieri gli attestati di partecipazione al corso professionale di 60 ore “in hair styling” organizzato dai due Soroptimist Club genovesi (Club Genova e Club Genova 2) in collaborazione - e all’interno - della Casa circondariale di Genova Pontedecimo. L’iniziativa ha coinvolto 6 detenute, dando loro la possibilità di apprendere le nozioni tecniche di base di “parruccheria”, erogate da professionisti del settore, acquisendo pertanto un bagaglio di utile conoscenza professionale. A esse si sono affiancate, nello svolgersi del corso, altre detenute come “modelle” per le prove pratiche, con conseguente più ampio coinvolgimento. L’iniziativa fa parte del progetto Soroptimist Club Italiano “Donne@Lavoro-SISostiene”, rivolto a donne di categorie fragili (detenute, donne che hanno subito violenza, donne di paesi stranieri…) per sostenerne formazione professionale o attività lavorative. Su tale programma è stato firmato, nell’ottobre 2017, un protocollo d’intesa tra il Soroptimist Italia e il ministero di Giustizia, che prevede collaborazione tra istituti penitenziari e i club Soroptimist italiani, nell’ambito di programmi di questo tipo. Il corso è durato 60 ore. Hanno risposto all’appello tre professionisti hair styling della provincia di Genova, titolari di saloni, con esperienza ventennale nella formazione. Organizzativamente non tutto è stato facile: portare in carcere stagnole, prodotti speciali, attrezzi taglienti ha richiesto elenchi preventivi, autorizzazioni, concessioni, anche dinieghi. Il locale “parruccheria” è inoltre un ambiente piccolo, dove non è stato possibile far lavorare sulle “testine prova”, insieme tutte le studentesse. Ma la cosa si è risolta presto, perché sempre più ragazze si sono candidate come “modelle” degli esercizi pratici delle compagne. Ieri la consegna degli attestati, presenti i funzionari della casa circondariale, molte rappresentanti dei due Soroptimist club genovesi e la loro vicepresidente nazionale di area, Adriana Macchi. “L’esperienza è stata estremamente positiva - ha dichiarato Angela Armetta, funzionario giuridico dell’Istituto, in rappresentanza della direttrice, Maria Isabella De Gennaro - perché ha dato alle ragazze la possibilità di entrare in contatto con un mondo dove non si parla solo di estetica e moda, ma anche di igiene, pulizia, attenzione alle norme di sicurezza, prevenzione degli infortuni sul lavoro e malattie professionali”. Cristina Bagnasco e Paola Benedusi - rispettivamente presidenti del Club Soroptimist Genova e Genova 2 - ringraziando per la grande collaborazione ricevuta, dopo aver presentato le socie presenti, hanno ricordato precedenti esperienze Soroptimist in ambito carcerario, e, per questo progetto, la valenza formativa ma anche psicologica, per un “volersi bene” che è importante rimanga anche nelle situazioni più difficili. Al termine, hanno consegnato alla direzione della Casa circondariale e agli insegnanti alcune targhe di ringraziamento. Per il Soroptimist club italiano l’iniziativa con la Casa circondariale di Genova Pontedecimo rappresenta la 26esima in Italia, su questo specifico progetto, dall’ottobre 2017. Trieste: il 27 settembre incontro letterario alla Casa circondariale di Elisabetta Burla* Ristretti Orizzonti, 26 settembre 2018 Con Anna Costanza Baldry e Carla Garlatti autrici di “Orfani speciali. Chi sono, dove sono, con chi sono. Conseguenze psicosociali su figlie e figli del femminicidio”. Il libro affronta una tematica molto delicata: le conseguenze sui figli a seguito dell’uccisione della madre da parte del padre. Omicidio che, “in termini d’impatto sui figli comporta il danno e le conseguenze peggiori e maggiormente devastanti”: in un unico momento i figli si vedono - infatti - privati di entrambi i genitori. A seguito dell’azione omicida i figli non potranno più vivere nella medesima casa perdendo l’ambiente familiare; non sempre riescono a recuperare le loro cose e se ciò è possibile avviene in tempi non immediati; in alcuni casi sono costretti ad abbandonare gli amici, le loro abitudini, la scuola che frequentano, la città dove vivono. Una serie incredibile di eventi traumatici e di continue perdite. “Orfani speciali perché speciali sono i loro bisogni, i loro problemi, la condizione psicosociale in cui si trovano. Come in una guerra, l’omicidio è stato spesso solo l’epilogo di continue violenze domestiche: questi orfani vivono un trauma complesso”. Si stima che in Italia, nell’arco di 14 anni, ci siano stati 1.600 casi di orfani speciali. Un numero che deve far riflettere che impone di porre l’attenzione sui bisogni dei figli e sulle conseguenze che su di essi ricadono dall’agire dei genitori. Un tema sicuramente complesso e complicato, forse difficile da affrontare in un contesto come quello carcerario, ma sicuramente uno stimolo e un invito alla riflessione per una genitorialità più responsabile. *Garante comunale dei diritti dei detenuti di Trieste Migranti. Egoismi e illusioni d’Europa di Sergio Romano Corriere della Sera, 26 settembre 2018 Tocca alla Commissione e al Parlamento europeo prendere l’iniziativa per affrontare la crisi soprattutto là dove sono le sue origini. Anche con un Piano Marshall per l’Africa. Per molto tempo i governi europei hanno trattato il problema dell’immigrazione con rassegnazione e una buona dose di egoismo nazionale. Sapevamo che l’Africa era diventata un enorme serbatoio di vite umane ansiose di lasciare il loro continente per cercare fortuna in Europa. Sapevamo che le crisi mediorientali avrebbero scaricato sulle nostre coste qualche milione di profughi. Ma ogni Paese cercava soluzioni nazionali e sperava di scaricare il problema sulle spalle degli altri. Il trattato di Dublino, con cui l’Unione Europea decise che la richiesta di asilo doveva essere indirizzata alle autorità del primo sbarco, è diventato per molti Paesi un alibi perfetto. Quando in Italia sbarcò una prima ondata di tunisini, quasi tutti diretti verso il Paese dove viveva il maggior numero di amici e congiunti, la Francia di Nicolas Sarkozy chiuse la porta di Ventimiglia. La Gran Bretagna era una meta desiderata, ma il governo britannico riuscì a ottenere che le prime pratiche amministrative venissero fatte a Calais piuttosto che a Dover. Quando la Turchia accettò di vendere la propria ospitalità a caro prezzo (quasi sei miliardi di euro in due versamenti) per accogliere due milioni e mezzo di migranti, ci dimenticammo che il Paese di Erdogan non era un modello di democrazia. Non mancarono iniziative che avrebbero giovato all’Europa e avrebbero fatto di Gheddafi il poliziotto del Nord Africa. Il trattato che Silvio Berlusconi firmò con il leader libico a Bengasi nell’agosto del 2008 era certamente discutibile sotto il profilo umanitario, ma poteva essere migliorato. Non è stato altrettanto possibile, invece, sostituire Gheddafi, quando tre grandi Paesi occidentali (Francia, Gran Bretagna e Stati Uniti) decisero di abbandonarlo ai suoi nemici e spalancarono ai migranti africani le porte del Mediterraneo. Non mancò nemmeno chi cercò di rendere le migrazioni meno inquietanti ricordando che avrebbero permesso di affrontare meglio la crisi della natalità in alcuni Paesi europei. Fu uno degli argomenti usati dalla cancelliera Merkel quando decise di accogliere 800 mila siriani. L’analisi era giusta, ma anche le cose giuste, quando sono dette nei momenti sbagliati, producono effetti negativi. I profughi giunti nella Repubblica federale nel 2015 sono diventati la palla al piede della cancelliera tedesca nei suoi quotidiani duelli con una forza politica, Alternativa per la Germania, che odora di nazismo. Questo è il contesto in cui i partiti populisti e sovranisti hanno cominciato a raccogliere e a interpretare gli umori della pubblica opinione. Quanto più ogni Paese si dimostrava privo di una politica efficace, tanto più i sovranisti potevano riempire il vuoto lasciato dai governi e proclamarsi interpreti autorizzati della volontà popolare. Il problema delle migrazioni non è il solo fattore che ha contribuito alla diffusione del populismo. Nel corso dell’ultimo decennio, gli effetti della grande crisi finanziaria del 2008, alcune sgradite ricadute della globalizzazione, le incertezze provocate dalla Brexit e un certo malessere della Commissione di Bruxelles hanno ingrossato la legione populista. Ma niente ha favorito l’ascesa dei sovranisti quanto il problema dell’immigrazione. Non sembra che i governi abbiano imparato la lezione. Oggi si parla più frequentemente di politica comune e di rafforzamento delle frontiere europee. Ma nella pratica di ogni giorno la reazione al singolo caso è ancora strettamente nazionale. Ne abbiamo avuto una dimostrazione quando all’Aquarius (una nave ben nota alle cronache italiane) e ai suoi 58 migranti è stato impedito lo sbarco a Marsiglia. Non credo che i sovranisti, dopo avere conquistato il potere in alcuni Paesi, cercheranno di trovare insieme una ragionevole soluzione del problema. La paura dei migranti è diventata il terreno su cui è cresciuta la loro pianta e continueranno a innaffiarla probabilmente con una sgradevole e crescente dose di razzismo. Tocca quindi alla Commissione e al Parlamento europeo prendere l’iniziativa per affrontare la crisi soprattutto là dove sono le sue origini. Negli scorsi giorni il presidente del Parlamento europeo, Antonio Tajani, ha proposto un Piano Marshall per l’Africa. La ricetta è stata usata troppo frequentemente, spesso a sproposito. Ma in questo caso potrebbe finanziare nel continente africano strutture e istituzioni capaci di dare ai giovani in patria il futuro che oggi cercano altrove. Migranti. Sui rimpatri l’Ue strizza l’occhio a Salvini di Carlo Lania Il Manifesto, 26 settembre 2018 Da Bruxelles mezzo via libera al provvedimento. Il ministro: “Stop da Mattarella? Non credo”. “No, non penso proprio che dal Quirinale arriverà uno stop”. Come al solito Matteo Salvini si mostra sicuro. Il decreto immigrazione e sicurezza che porta il suo nome non è ancora arrivato al Colle ma il titolare degli Interni si dice convinto che il provvedimento riuscirà a superare l’esame di Mattarella. O almeno finge di esserlo. Che le cose stiano veramente come dice Salvini, è tutto da vedere. Già nei giorni scorsi, quando giravano le prime bozze del decreto, i tecnici del Quirinale hanno sottolineato in rosso alcune misure sulle quali sarebbe stato impossibile avere il consenso del presidente. Come, ad esempio la possibilità di espellere dall’Italia un richiedente asilo solo sulla base di una denuncia. La misura è stata “limata”, per usare un’espressione utilizzata dal premier Conte, ma molte di quelle ancora presenti nel decreto sono fortemente a rischio di incostituzionalità. Una per tutte: la possibile revoca della cittadinanza, seppure in caso di condanna definitiva per reati legati al terrorismo. In attesa del pronunciamento del Colle - l’arrivo del decreto sicurezza è subordinato al via libera al decreto su Genova, Salvini incassa intanto un mezzo sì da parte dell’Unione europea. Cosa che sorprende, ma solo fino a un certo punto. Da molti tempo infatti Bruxelles spinge perché gli stati membri aumentino il numero dei rimpatri e, soprattutto, per l’estensione del periodo in cui è possibile detenere un migrante in attesa che venga identificato (come previsto del resto da una direttiva Ue del 2008). Punti che trovano puntuale risposta nel decreto varato lunedì dall’esecutivo giallo verde e che per questo ieri è stato giudicato “non negativo” dalla Commissione europea anche se per un giudizio definitivo si aspetta che il decreto passi l’esame del parlamento. Un gesto distensivo dopo gli scontri delle scorse settimane che ovviamente non è sfuggito al titolare del Viminale: Una volta tanto Bruxelles invece di dire no con pregiudizio, ha letto e capito che si tratta di maggiore sicurezza. Sono contento che chi lo ha letto lo ha condiviso”, è stato il commento di Salvini. Decisamente meno entusiasmo arriva dai sindaci italiani, preoccupati per le possibili conseguenze di alcune delle misure contenute nel decreto. Come la prevista limitazione dell’accesso al sistema Sprar ai soli titolari di protezione internazionale e ai minori non accompagnati: “Fosse per noi daremmo le chiavi degli Sprar a Palazzo Chigi domani, ma no si può tornare tre anni fa”, ha detto l presidente dell’Anci e primo cittadino di bari Antonio Decaro. La paura è di non poter più contare sul processo di accoglienza diffusa che finora ha permesso di non sovraccaricare i comuni di un numero eccessivo di migranti. Migranti. Decreto Salvini, attacco allo stato di diritto di Fulvio Vassallo Paleologo Il Manifesto, 26 settembre 2018 Sembrano ormai legalizzate le prassi di abbandono in mare, con il supporto dell’Unione Europea. Si stanno respingendo di fatto tutte le persone soccorse in acque internazionali con la chiusura dei porti e le pressioni sugli stati di bandiera. Sempre più evidente appare la natura strumentale della cosiddetta zona Sar (ricerca e salvataggio) libica dichiarata all’Organizzazione internazionale per le Migrazioni (Oim). Dal 28 giugno la Guardia costiera italiana delega sistematicamente ai libici tutti i soccorsi da operare in una zona Sar tanto ampia che non controlla nessuno. L’atteggiamento della Francia verso l’Italia è di evidente chiusura, e si manifesta anche nelle prassi illegali di respingimento adottate alla frontiera di Ventimiglia. Per nascondere i fallimenti internazionali, anche sulla mancata riforma del Regolamento Dublino, Salvini cavalca adesso il binomio allarme sicurezza-emergenza immigrazione. In un documento sottoscritto da 40 giuristi - adottato alcuni giorni fa al Convegno di Filosofia del diritto che si è svolto a Bergamo - si mette in rilievo come “le numerose e gravi violazioni del diritto internazionale, delle garanzie del diritto penale italiano, della Costituzione e del diritto umanitario, giustificate con il supposto volere della maggioranza degli italiani, mettono in crisi lo stato di diritto e si pongono in contrasto con la fondamentale massima kantiana secondo cui si deve agire in modo da trattare gli esseri umani sempre anche come fine e mai semplicemente come mezzo”. Una considerazione analoga può valere se si prende in esame il Decreto legge Salvini su “sicurezza e migranti”, un binomio che tradisce l’impostazione repressiva del provvedimento, peraltro privo di quei caratteri di necessità ed urgenza che legittimerebbero il ricorso alla decretazione d’urgenza. Si tende a criminalizzare chi soccorre, e chi viene salvato in mare, facendo ingresso nel territorio italiano per richiedere protezione, mentre si elude qualsiasi prospettiva di regolarizzazione e di ingresso legale. Di fatto si alimenta irregolarità e dunque quella “clandestinità” che a parole si dice di volere “combattere”. I punti principali del nuovo decreto legge sui quali Salvini sta rilanciando la sua campagna elettorale di fronte a impegni che i partiti di governo non sono in grado di mantenere, costituiscono un attacco al ruolo di garanzia della giurisdizione e la negazione di principi fondamentali sanciti dalla Costituzione italiana. In primo luogo, l’abolizione della “protezione umanitaria”, con la riformulazione dell’art. 5 c.6 del T.U. n. 286 del 1998, non è imposta da vincoli europei e risulta in contrasto con l’articolo 10 della Costituzione, di cui la norma costituisce attuazione diretta, come riconosciuto da una consolidata giurisprudenza della Cassazione. Secondo la sentenza n. 4445 del 2018, “la protezione umanitaria costituisce una delle forme di attuazione dell’asilo costituzionale (art. 10, c.3 della Costituzione), secondo il costante orientamento di questa Corte (Cassazione 10686 del 2012; 16362 del 2016)”. In secondo luogo, al di là dell’aumento del periodo di detenzione nei centri per i rimpatri - appena 600 posti in tutta Italia, un boomerang per chi lo propone - l’aumento del trattenimento, fino a 30 giorni, nei cosiddetti Hotspot, ancora privi di una disciplina legislativa, ed il trattenimento negli uffici di frontiera (così come è previsto dall’art.4 del decreto) violano l’articolo 13 della Costituzione e l’art. 5 della Corte europea dei Diritti dell’uomo, perché si introduce una forma di detenzione amministrativa già censurata dalla Corte di Strasburgo, sottratta ad un effettivo controllo giurisdizionale con una sostanziale riduzione dei diritti di difesa. Infine, tutte le altre misure introdotte dal decreto legge: la revoca o il diniego della protezione internazionale e dello status di rifugiato per chi commette determinati reati, anche lievi; la revoca del permesso per motivi di protezione per coloro che faranno temporaneo rientro nel paese d’origine; e il sovvertimento del sistema di accoglienza, si pongono contro obblighi stabiliti dalle Direttive europee in materia di protezione internazionale, violando altresì il principio di uguaglianza stabilito dalla Costituzione ed il divieto di non refoulement imposto dalla Convenzione di Ginevra. La Corte europea dei Diritti dell’uomo (nella sentenza Hirsi Jamaa contro Italia del 2012) ha ribadito che il divieto di rimpatrio verso paesi nei quali le persone potrebbero essere esposte a trattamenti disumani o degradanti, ha “natura assoluta”. Un principio che andrebbe ricordato anche nel caso della nave umanitaria Aquarius, che non può ritenersi obbligata ad obbedire agli ordini di riconsegna dei naufraghi alle autorità libiche. Ma evidentemente, per questo governo, il rischio di tortura o di trattamenti inumani, se avvengono lontano dalle nostre frontiere, si può anche ignorare. Migranti. Stretta sulla protezione umanitaria, il 30% rischia il diniego di Alessandra Ziniti La Repubblica, 26 settembre 2018 L’allarme delle organizzazioni umanitarie. Msf: la fragilità delle persone non sempre ha tratti evidenti. Il Viminale stima l’impatto dei criteri più rigidi, che escludono l’inserimento in percorsi di integrazione. Susan è nigeriana. Quando è sbarcata a Catania pesava 40 chili. La malnutrizione patita in Libia l’ha ridotta sulla sedia a rotelle. Polineuropatia, la diagnosi dei medici di Msf che l’hanno avuta in cura per un anno e che l’hanno rimessa in piedi. Susan ha avuto la protezione umanitaria, ma il motivo di salute per il quale le è stato concesso può ora essere considerato di “eccezionale gravità”, come prevede il decreto Salvini? O la stretta impressa alla più diffusa delle protezioni potrebbe mettere a rischio la sua permanenza in Italia? Motivi di salute di eccezionale gravità, calamità naturali (eccezionali anche queste), grave sfruttamento lavorativo, violenza domestica e atti di particolare valore civile: sono queste le uniche cinque “tipizzazioni” che d’ora in avanti consentiranno di attribuire i permessi temporanei, da sei mesi a due anni, che sostituiranno la protezione umanitaria che il decreto Salvini abroga. Di fatto togliendo alle commissioni per il diritto d’asilo prima e ai questori poi la discrezionalità nella “valutazione residuale” che ha consentito di includere in questo tipo di permesso generiche condizioni di vulnerabilità dei migranti, ma anche povertà, instabilità politica, non rispetto dei diritti umani nei paesi d’origine. Difficile valutare realisticamente l’impatto di questa abrogazione che Salvini ha fortemente voluto per incidere sulla forma di protezione che negli ultimi anni ha consentito mediamente a più di un richiedente asilo su quattro di rimanere in Italia: 60.000 circa dal 2015 ad oggi, con una percentuale che ha sfiorato il 30 per cento di tutti i permessi di soggiorno concessi nel 2018 prima dell’insediamento di Salvini al Viminale. Un trend che, a luglio, dopo la direttiva con la quale il ministro ha sollecitato le commissioni a restringere i criteri, è sceso di sette punti percentuali ma che è risalito ad agosto. Un trend che, incrociato con il calo delle richieste di asilo, fa indicare a fonti del Viminale l’obiettivo minimo previsto in un taglio del 30 per cento. Complessivamente dall’inizio dell’anno ad oggi sono stati 16.755 i migranti che hanno beneficiato della protezione umanitaria con i vecchi criteri. Cosa succederà adesso? A quanti non sarà rinnovata? E a quanti non verrà mai concessa? Realisticamente la forbice oscillerà tra il 10 e il 30 per cento in meno. Certamente resteranno fuori tutti coloro che, in assenza di altri requisiti, si sono visti concedere la protezione umanitaria in virtù del percorso di formazione e integrazione già avviato o coloro che, torturati in Libia, sono arrivati in condizioni di vulnerabilità fisica e mentale o chi ha un tragico vissuto personale o semplicemente coloro che provengono da paesi in cui i diritti umani non sono garantiti né “l’effettivo esercizio delle libertà democratiche” come recita la Costituzione italiana. Un ventaglio molto ampio di cui terranno conto le osservazioni tecniche che l’Unhcr, come annunciato dall’Alto commissario Filippo Grandi, invierà nei prossimi giorni al governo. “Qualsiasi disposizione di legge adottata da un paese firmatario della Convenzione di Ginevra del 1951 deve essere conforme agli obblighi e ai principi in essa contenuti, in primo luogo il principio di non respingimento”. Le organizzazioni umanitarie esprimono perplessità: “Attendiamo di conoscere i criteri di assegnazione del nuovo permesso di soggiorno per cure mediche - dice Anne Garella, capomissione dei progetti Msf in Italia. Il rischio è che siano escluse e lasciate in condizioni di marginalità persone che soffrono di problemi di salute con sintomi non facilmente riconoscibili”. Droghe. Colla, coca, eroina: in Italia l’emergenza comincia a 8 anni di Arianna Giunti L’Espresso, 26 settembre 2018 Dal 2013 sono raddoppiati i ragazzi tossici. E l’età media è sempre più bassa: bambini che sperimentano i solventi, tredicenni che si prostituiscono per una dose, adolescenti sottoposti a Tso. Ecco le loro drammatiche storie. Le scuole medie, Riccardo, le ha viste solo da lontano. Quel giorno di settembre è arrivato davanti al cancello dell’istituto, l’ha fissato per alcuni secondi e poi se ne è andato. Per lui non ci sarebbero stati libri, compagni, compiti in classe. Aveva 12 anni e una sola necessità: farsi di coca e farlo in fretta. Oggi Riccardo, 16 anni appena compiuti, tossicodipendente da quattro, in fuga da tre diverse comunità terapeutiche, praticamente analfabeta, fa parte di quella generazione di ragazzi interrotti che aumenta giorno dopo giorno. Bambini che a 8 anni hanno già sperimentato le droghe più devastanti: colla e solventi. Tredicenni che si prostituiscono per una dose, rimangono incinte e sono costrette ad abortire. Adolescenti legati con le cinghie ai letti di contenzione, sottoposti a trattamenti sanitari obbligatori negli ospedali psichiatrici per adulti. Eroina non più fumata ma sparata direttamente in vena, così che a 13 anni hanno già il corpo massacrato dai buchi delle siringhe, si ammalano di epatite e Aids, come i vecchi tossici negli anni Ottanta. Le loro storie, raccolte dall’Espresso, fanno rabbrividire. Sono contenute nei verbali delle forze dell’ordine che ogni giorno prestano servizio nelle piazze dello spaccio e nei boschi della droga. Sono scritte nero su bianco nelle relazioni dei Tribunali per i minorenni. Escono dalla bocca di quegli stessi ragazzi che a fatica accettano di parlare, dalle comunità dove stanno cercando lentamente di riemergere dagli abissi della tossicodipendenza. Un’emergenza alla quale il nostro Sistema sanitario nazionale non riesce più a stare dietro. Secondo i dati ottenuti dall’Espresso, da Nord a Sud la presa in carico da parte dei Servizi sanitari locali dei minori che fanno uso di droga negli ultimi 5 anni è quasi ovunque raddoppiata. Anche i Tribunali per i minorenni - sia civili che penali - registrano un’impennata di baby consumatori: quasi tutti italiani, iniziano ad assumere droga in media a 12 anni. Mentre le comunità terapeutiche per minori con problemi psichici causati dalle droghe - il vero fenomeno di questi ultimi anni - si contano sulle dita di una mano. E così i bambini tossicodipendenti con disagi mentali spesso sono trasferiti a centinaia di chilometri di distanza dalle loro famiglie in luoghi non idonei. O trattenuti in reparti neuropsichiatrici per adulti, dove non potrebbero stare. In tutta Italia - secondo i dati elaborati dal Dipartimento per la giustizia minorile del ministero della Giustizia - i minori e i giovani adulti (dai 18 ai 25 anni) attualmente in carico agli uffici di servizio sociale per i minorenni sono 20.466, di cui oltre 7 mila nuovi arrivi solo nell’ultimo anno. Negli ultimi 12 mesi, quelli collocati nelle comunità dell’area penale - fra cui i minori che hanno commesso reati in materia di stupefacenti - sono stati 1.837, con un aumento di quasi 300 unità rispetto al 2015. Poco più di cento, invece, quelli ricoverati in apposite strutture per disintossicarsi. Quando si tratta di minorenni infatti - i magistrati sono i primi ad ammetterlo - le comunità sono solo l’estremo rimedio. Nella maggior parte dei casi i ragazzi vengono indirizzati verso i Serd, i servizi pubblici per le dipendenze patologiche. Ed è anche qui che i numeri degli under 18 in cura negli ultimi anni hanno avuto un’impennata, al punto che alcune Regioni si sono dovute attrezzare con dipartimenti riservati solo agli adolescenti e con la nascita di strutture private, ormai sempre più diffuse. Ma si tratta ovviamente di una panoramica sottostimata: mancano all’appello tutti i ragazzi che non sono entrati nel circuito dei tribunali e che si sono rivolti direttamente a strutture terapeutiche private. O che sono totalmente sconosciuti ai servizi sociali. In Lombardia il fenomeno è in continua crescita. A Milano nonostante le ripetute operazioni di polizia resiste il bosco della droga di Rogoredo, una delle piazze di spaccio più grandi d’Europa. Le dosi di eroina vendute a prezzi stracciati - fino a 2 euro al grammo - richiamano ogni giorno adolescenti da ogni parte d’Italia. Quando non bastano i soldi, le dosi vengono pagate con la prostituzione. Non di rado, spiegano dal commissariato Scalo Romana, i fidanzatini arrivano in coppia, ma poi mandano avanti la ragazza, che ritorna dal bosco stravolta e in stato confusionale. Mentre all’ospedale Mangiagalli, racconta un’operatrice in forza agli uffici per la 194, sono sempre di più le ragazzine tossicodipendenti che si rivolgono alla clinica milanese per abortire dopo rapporti sessuali avvenuti sotto effetto della droga. I dati parlano chiaro: solo nell’ultimo anno i minorenni presi in carico dai servizi ambulatoriali della Lombardia per la cura delle dipendenze sono stati quasi novecento. Più che raddoppiati rispetto a cinque anni prima. Tanto che per correre ai ripari l’assessorato regionale al Welfare guidato da Giulio Gallera ha aumentato di 6 milioni di euro le rette destinate alle comunità. Strutture che, spiega l’assessore, devono essere ripensate per fronteggiare questa nuova emergenza sociale. Il discorso cambia di poco nel Lazio. Gli under 18 in cura per tossicodipendenza sono schizzati a quasi 300 nell’ultimo anno. Erano 78 cinque anni prima. La situazione è difficile anche in Emilia Romagna: i ragazzi che hanno avuto accesso ai Servizi per le dipendenze sono quasi raddoppiati, passando da 207 casi a 389. Qui attualmente esiste una sola comunità terapeutica pubblica riservata ai minori e accreditata dalla Regione, in provincia di Forlì-Cesena, che accoglie 12 ragazzi. Mentre la storica San Patrignano, sui colli del Riminese, fra i suoi 509 ospiti accoglie in tutto 177 giovani, fra cui minori di appena 13 anni. Ragazzi che provengono da tutta Italia, per i quali i servizi sociali dei Comuni di appartenenza rimborsano una retta di 100 euro al giorno. “Fra i 34 minorenni presenti da noi in questo momento, 30 di loro sono arrivati solo nel corso dell’ultimo anno”, spiega il Presidente di San Patrignano Antonio Tinelli, “rispetto a 5 anni fa, per quanto riguarda i minori, c’è stato un aumento di ingressi del 70 per cento”. In Veneto, invece, sono circa mille i ragazzini in cura nei 38 Serd della Regione. Alcuni di loro hanno appena 11 anni. Mentre a Trieste per far fronte al problema è nato il primo servizio per la cura delle dipendenze riservato esclusivamente ai più giovani, dove sono già in cura 170 ragazzi. Negli ultimi anni, poi, vista la difficoltà a trovare posti letto liberi nelle comunità pubbliche o del privato accreditato, stanno crescendo a vista d’occhio anche le costosissime cliniche “rehab” su modello anglosassone. Al momento se ne contano una cinquantina. Fra queste ci sono i 10 centri Narconon ispirati alla dottrina di Scientology, che chiedono alle famiglie dei pazienti rette da oltre duemila euro al mese. Ma il problema per i minorenni tossicodipendenti non è più solo la droga. Sono soprattutto le patologie psichiatriche, spesso scatenate dal policonsumo, l’utilizzo di più droghe, che provoca nella psiche giovane effetti devastanti. Una fetta di popolazione, questa, che sta raggiungendo numeri sempre più alti: secondo le stime del ministero della Giustizia, almeno il 15 per cento dei ragazzi che entra in comunità avrebbe bisogno di essere seguito per una “doppia diagnosi”: ovvero quando la tossicodipendenza si accompagna a un disturbo mentale. Però le Regioni italiane attrezzate per questa nuova emergenza sono ancora pochissime. Abruzzo, Basilicata, Calabria, Sicilia e Puglia, ad esempio, sono totalmente prive di strutture del genere. Richieste d’aiuto arrivano attraverso segnalazioni quasi quotidiane da parte dei Tribunali per i minorenni di mezza Italia, soprattutto al Centrosud. Per capire la portata del problema basta dare uno sguardo ai numeri del Dipartimento per la Giustizia minorile: nell’ultimo anno i ragazzi affidati a comunità autorizzate al trattamento della doppia diagnosi sono stati solo 6 in tutta Italia. Pochissimi e selezionati posti distribuiti in 3 strutture presenti soltanto in Liguria, Lombardia e Umbria. Più del 30 per cento dei ragazzi che dovrebbero essere ricoverati in una apposita comunità, rende noto la Società italiana di neuropsichiatria dell’infanzia, non trova posto da nessuna parte. “È una situazione che abbiamo denunciato più volte al ministero”, spiega la presidente del Tribunale per minorenni dell’Aquila Cecilia Angrisano. “Riscontriamo almeno un caso a settimana di adolescenti con problematiche psichiche mediamente gravi e diversi casi all’anno di ragazzi con una psicopatologia strutturata spesso associata all’uso di droghe. Per questo abbiamo chiesto alla Regione di cercare di disporre almeno 3 posti letto per le emergenze di questo tipo. Anche se la soluzione”, prosegue il magistrato, “dovrebbe essere quella di costruire una comunità di riferimento per il Centrosud” E così succede che Francesca, nome di fantasia di una ragazza che oggi ha 17 anni, consumatrice di crack da quando ne aveva 12, venga ricoverata per 50 giorni in un reparto psichiatrico per adulti, nel Lazio, a centinaia di chilometri da casa. Senza seguire un percorso terapeutico adatto alla sua età. E succede anche che Stefan, 18 anni, cresciuto nelle fogne di Bucarest dove ha iniziato a sniffare colla e a fumare crack all’età di 8 anni, negli ultimi 10 abbia vagato da una comunità del Centro Italia all’altra, in un crescendo di disperazione. È affetto da un lieve deficit cognitivo dalla nascita aggravato dall’uso massiccio di droga, e le strutture non abilitate a seguire i problemi psichici non sono state in grado di aiutarlo. Oggi, malato di epatite e sieropositivo, continua ad avere rapporti sessuali non protetti, prostituendosi nelle stazioni. E poi esiste il problema dei mancati controlli all’interno delle numerose comunità terapeutiche private presenti in tutta Italia, sottolineato anche nell’ultima relazione della Commissione parlamentare delle politiche antidroga. Alcune strutture si accreditano per ospitare ragazzi in cura con doppia diagnosi, ma non potrebbero farlo. Sarebbe successo per esempio nella provincia di Perugia, dove la cooperativa sociale Il Piccolo Carro è accusata - il processo è tuttora in corso - di aver truffato per anni lo Stato chiedendo rimborsi da 400 euro al giorno per ogni ospite pur senza averne titolo. Da qui, scapparono la 14enne Daniela Sanjuan e la 16enne Sara Bosco. I resti del cadavere di Daniela sono stati ritrovati, a 10 anni dalla scomparsa, a pochi metri dalla struttura. Sara è morta di overdose due anni fa, in uno dei padiglioni abbandonati dell’ex ospedale Forlanini a Roma. Dalla colla alla coca - Per chi ha cominciato ad addentrarsi nel tunnel quando era appena un bambino, tornare indietro è difficilissimo. Lo sanno bene alla comunità terapeutica Draghi Randagi, nella campagna bergamasca, una delle strutture approvate dal circuito della giustizia minorile, costruita per volere dell’Aga, associazione nata negli anni Ottanta su iniziativa di un gruppo di genitori di tossicodipendenti. Qui da due settimane vive Kevin, che ha cominciato a sniffare colla a 9 anni in Brasile e poi, una volta in Italia, la cocaina. “Ho tentato di annegare nelle sostanze il dramma del distacco dalla mia famiglia di origine”, racconta. “Ho vissuto 5 anni in cui non capivo più niente: sniffavo e mentivo”. Paolo, invece, ha smesso di mentire 6 mesi fa. In 5 anni ha bruciato tutte le tappe: a 13 anni le pastiglie, a 16 la coca, a 19 l’eroina in vena. Quindi, in fumo, ha mandato tutto quello che di buono aveva al mondo: la sua famiglia, la sua ragazza, il suo lavoro. Matteo, 17 anni, un mese fa è stato fermato durante l’ennesima rapina. Quando lo hanno portato in Questura i suoi occhi erano annebbiati, continuava a ridere, come fosse impazzito. “La mia più grande fortuna”, racconta oggi, “è essere stato arrestato adesso. Così sono stato costretto a curarmi. Perché io, a 20 anni, non ci sarei arrivato”. Finisce di parlare, poi corre a sistemare la sala da pranzo. Seduto al tavolo c’è Carlo, il più piccolo ospite della comunità. Lui, però, non ha tempo di parlare: sta preparandosi per la terza media.