Carcere, che errore buttare la riforma di Gennaro Migliore* Il Dubbio, 25 settembre 2018 Il governo gialloverde sta smantellando quanto di buono era stato fatto dal nostro governo in materia di intercettazioni e, soprattutto, per l’ordinamento penitenziario. Viene buttato al macero un lavoro prezioso durato molti anni, che ha coinvolto centinaia di persone tra le più esperte in Italia, con l’unico obiettivo di perseguire il disegno giustizialista. Ma è dal modo con cui il ministro della Giustizia, Bonafede, ha affrontato una tragedia come quella di Alice Sebesta che si possono evidenziare i limiti sia d’approccio che di comprensione dei fenomeni. La vicenda è molto nota e ringrazio il giornale che ospita questo mio intervento per aver dato subito grande evidenza a quanto accaduto. Il dramma di una donna che uccide i propri figli che già scontavano, senza averne alcuna colpa, insieme a lei il regime detentivo è cosa troppo grande e troppo tragica perché dovesse essere affrontata a favore delle telecamere e per convincere l’opinione pubblica che ci fosse una reazione da parte delle istituzioni. Ci sono almeno tre ordini di problemi che vanno affrontati con serietà. In primo luogo quei bambini non dovrebbero stare lì. In tutta Italia ci sono ancora circa 60 bambini in strutture detentive. Di questi circa 30 sono nei quattro Icam, istituti a custodia attenuata per madri, a Venezia, Milano, Torino e Lauro. Queste strutture pur essendo amministrate dal Dipartimento dell’amministrazione Penitenziaria hanno caratteristiche più adatte alla permanenza di donne detenute con figli piccoli. Dei restanti 30 circa la metà sono a Rebibbia, mentre gli altri sono dispersi sul territorio nelle varie carceri italiane. Questi bambini, in particolare, dovrebbero vedere una capillare rete di accoglienza in case protette e sicure affinché non sia inflitta ai bimbi una pena che sicuramente altererà l’intera loro esistenza, poiché essa avviene proprio negli anni della formazione della personalità. Il secondo tema riguarda l’azione normativa regolamentare che è stata portata avanti dall’amministrazione precedente e che ha visto il rinnovarsi dell’impegno di non avere più bambini nel carcere. In particolare furono sottoscritte due protocolli con l’associazione “Bambini senza sbarre” cui è seguita di una costante diminuzione dei bambini reclusi. Questo lavoro ha trovato una definizione proprio nella riforma dell’ordinamento penitenziario che viene mandata al macero. In questo modo sollevando anche da responsabilità molto gravi le amministrazioni regionali, che avrebbero dovuto essere parte attiva della realizzazione di strutture alternative, per consentire il raggiungimento dell’obiettivo di zero bambini in carcere. La terza questione riguarda la decisione che ha visto come vittime la direttrice, la vice direttrice e la vice comandante della polizia penitenziaria dell’istituto. Sono state sospese a favore di telecamera pur non avendo ancora accertato nessun responsabilità a loro carico. Anzi, il ministro si è recato personalmente presso il carcere mentre era in corso l’attività inquirente della magistratura, attuando una sospensione dall’incarico di chi, a detta degli operatori, di tutti sindacati e anche delle detenute, ha sempre operato con massimo scrupolo e professionalità nel realizzare gli obiettivi che la Costituzione impone. Peraltro, non c’erano stati segnali registrati di un disagio specifico relativo alla madre detenuta che ha ucciso i suoi bambini, come ricordato anche dalle altre madri detenute oltre ai funzionari dell’istituto. Si tratta, a ben vedere, di una evidente manifestazione del principio di superiorità rispetto alle leggi. Una ricerca dell’esibizione del colpevole a fronte di una incapacità di risolvere i problemi. È indispensabile che si ritorni sulla riforma dell’ordinamento penitenziario che troppo frettolosamente le ansie giustizialiste hanno teso a cancellare. *Parlamentare del Pd Infanzia negata dietro le sbarre: quella legge ancora ignorata di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 25 settembre 2018 Bambini in cella dal 1931, la normativa è cambiata sei volte ma i problemi sono sempre gli stessi. C’è un passeggino vuoto fuori da una cella, poi un pallone su una branda, alcune mamme tengono per mano il figlioletto aggrappate alle sbarre, allattano nel cortile del penitenziario o disegnano con i loro bimbi nello spazio angusto dei corridoi delle sezioni. È uno spaccato di vita delle donne con figli piccoli in carcere offerto dalla mostra fotografica inaugurata il 10 settembre scorso a Torino e aperta fino al 17 ottobre presso l’Ufficio relazioni con il pubblico della Regione Piemonte. Tante sono le immagini della rassegna di un gruppo di fotografi, organizzata con la Conferenza dei volontari della giustizia di Piemonte e Valle d’Aosta e l’associazione di volontariato “A Roma, insieme”. L’intenzione del curatore Bruno Mellano, garante regionale del Piemonte, è quella di sensibilizzare l’opinione pubblica su quanto ci sia ancora da fare per applicare la legge del 2011 che dettava la realizzazione di Istituti a custodia attenuata per detenute madri (Icam) e le case protette. Nessuno di loro poteva immaginare la tragedia che da lì a poco sarebbe avvenuta nel carcere di Rebibbia con la morte di due bimbi, ristretti assieme alla madre, la loro assassina. Un dramma che ha riportato alla ribalta la situazione dei bimbi nelle carceri italiane. Altre situazioni, che rischiavano di diventare un dramma, si sono verificate nel passato. Come un bambino nigeriano di meno di un anno che, a settembre del 2017, era rimasto intossicato dopo aver ingerito del veleno per topi nel reparto femminile del carcere Gazzi di Messina, dove viveva insieme alla madre detenuta. Il bambino era stato ricoverato d’urgenza in gravi condizioni al Policlinico di Messina e poi dimesso dopo qualche giorno. Oppure, l’altro caso, avvenuto a gennaio dello scorso anno, riguardante una bambina di 14 mesi, detenuta assieme alla madre rom nel carcere di Cagliari, che aveva bisogno di cure perché ha subito un intervento chirurgico piuttosto delicato alla bocca e al palato. Ma era rimasta in prigione, senza dare la possibilità alla madre (con altri due piccoli figli) di essere trasferita in un Icam, attualmente vuoto perché dislocato purtroppo in una località periferica e che richiede la presenza costante di agenti della polizia penitenziaria. Secondo i dati forniti dal Dipartimento dell’amministra-zione penitenziaria, le detenute madri con figli al seguito presenti nelle carceri italiane al 31 agosto 2018 erano 52, con 62 bambini (33 italiani e 29 stranieri). Mamme e bimbi sono ristretti in 12 strutture penali, di cui 4 Icam, mentre 8 sono ancora le vecchie sezioni nido nei reparti femminili. Una trentina di bimbi vivono dunque nelle carceri vere e proprie, senza possibilità di fare una vita, almeno apparentemente, normale. La genesi della normativa per le detenute madri. Nel corso degli anni si sono succedute varie leggi in merito alla questione delle madri detenute. Il tema era già stato affrontato nel 1975 con la prima riforma dell’ordinamento penitenziario. L’articolo 11 cita: “In ogni istituto penitenziario per donne sono in funzione servizi speciali per l’assistenza sanitaria alle gestanti e alle puerpere. Alle madri è consentito di tenere presso di sé i figli fino all’età di tre anni. Per la cura e l’assistenza dei bambini sono organizzati appositi asili nido”. Tale articolo ha modificato la precedente normativa del decreto Regio del 1931, di cui l’articolo 43 dava la possibilità alle madri detenute di tenere i propri bambini in carcere fino al compimento del secondo compleanno. Successivamente, nel 1986 venne varata la legge numero 663, cosiddetta “legge Gozzini”. L’innovazione più importante fu la possibilità per il condannato di ottenere, almeno in parte, le misure alternative direttamente dallo stato di libertà con il preciso scopo di sottrarre il condannato dal contatto con l’ambiente carcerario. La legge Gozzini introdusse una serie di disposizioni in materia di detenzione che possiamo riassumere in: permessi premio, affidamento al servizio sociale, detenzione domiciliare, semilibertà e liberazione anticipata. Per quanto riguarda la detenzione domiciliare, essa prevedeva come condizioni per la sua concessione una pena o un residuo di pena inferiore a due anni e, nel caso fosse stato concesso a madre o donna incinta, richiedeva che i figli fossero di età inferiore a tre anni e fossero con lei conviventi. Ma la legge non era completa: ha offerto ai detenuti gli strumenti necessari per l’effettiva realizzazione del progetto di decarcerizzazione, però mancava la previsione di forme rieducative. Nel 1998 nasce la “Legge Simeone- Saraceni”, che dà vita a una rielaborazione e a un miglioramento per garantire l’accesso alle misure alternative alla detenzione ai condannati meritevoli. Ma è conosciuta soprattutto come un importante traguardo raggiunto per la tutela del bambino e per il rispetto dell’importanza del rapporto madre-figlio, dando alle madri la possibilità di stare vicino ai propri figli in un periodo non più limitato alla sola infanzia. In particolare, dà la possibilità di espiare la pena nella propria abitazione o in un altro luogo di privata dimora, alle donne incinte o madri di prole di età inferiore ai dieci anni, prolungando così il tempo che la madre può dedicare alla crescita dei propri figli. Altro traguardo normativo è la legge del 2001, meglio conosciuta come “Legge Finocchiaro”, che tutela il rapporto genitori-figli dando vita a due nuovi istituti giuridici: la detenzione domiciliare speciale e l’assistenza all’esterno di figli minori. Obiettivo primario della legge era evitare che a detenute madri si aggiungessero “detenuti bambini”, poiché l’ingresso del minore in carcere provocava un danno enorme al suo corretto sviluppo psico-fisico. La detenzione domiciliare speciale permette l’assistenza familiare ai figli di età non superiore a dieci anni da parte delle madri condannate quando non è possibile l’applicazione della detenzione domiciliare ordinaria. Per accedere al beneficio è necessario che sia stato espiato almeno un terzo della pena (15 anni in caso di ergastolo), che vi sia l’insussistenza di un reale pericolo di commissione di nuovi reati e che vi sia la possibilità di ripristinare la convivenza con i figli. Nel caso non sia possibile applicare la detenzione domiciliare speciale, la “legge Finocchiaro” ha introdotto l’assistenza all’esterno dei figli minori che permette la cura e l’assistenza extracarceraria dei figli di età non superiore a dieci anni. La legge Finocchiaro, in sintesi, prevede la presenza dei figli con la madre, senza però precisare quale sarà il destino di questi minori una volta compiuti i tre anni. Altro grande gap della legge è che le misure alternative alla detenzione non sono applicabili né alle donne rom, in quanto queste non hanno residenza, né alle donne drogate, perché si pensa possano facilmente ricadere nella droga, né alle donne ancora in attesa di giudizio. In pratica la legge non è applicabile alla maggioranza delle detenute nel nostro Paese. Proprio per questo è stata partorita un’altra legge - l’ultima - nel 2011 che ha modificato il codice di procedura penale e introdotto altre disposizioni a tutela del rapporto tra le detenute madri e figli minori. Ma non basta nemmeno questa e i problemi sono rimasti. Io, tra i figli prigionieri di Rebibbia di Rosella Postorino* La Repubblica, 25 settembre 2018 Uno Stato che fa scontare ai bambini la colpa dei genitori è uno Stato che non crede nella rieducazione né nel futuro. Finché accettiamo di chiudere i piccoli in cella, nessuno di noi può considerarsi umano. Non meritava di essere madre” è la frase che più ho letto dopo che Alice Sebesta ha lanciato i suoi due figli dalle scale del nido di Rebibbia, uccidendoli. Così gran parte della gente ha liquidato la questione: un caso di follia, del tutto avulso dal contesto in cui è avvenuto. Il ministro Bonafede ha sospeso i vertici del carcere, la polizia penitenziaria si è indignata, Bonafede ha invocato il silenzio. Invece proprio adesso bisogna parlare del tema che sembrano trascurare in molti: la detenzione dei bambini è una violenza. Quelle scale le conosco. Sono entrata nel nido per partecipare alle feste della Befana o di Pasqua organizzate in ludoteca, una saletta con giocattoli, tavolini colorati e sbarre alle finestre; le uova di cioccolato venivano rotte a causa dei controlli, anche se questo rovinava la sorpresa. Per più di due anni, con l’associazione “A Roma insieme”, mi sono occupata dei piccoli detenuti di Rebibbia, portandoli fuori il sabato su un pulmino assieme ad altri volontari, per mostrare loro il mondo: le strade, i cani al guinzaglio, i supermercati, il teatro dei burattini, il rumore dei clacson. Non per forza la bellezza, semplicemente la normalità. I bambini di Rebibbia avevano meno di tre anni, il catarro perenne, abiti sempre inadatti alla stagione, giubbotti con la zip rotta, nomi assurdi come Al Capone e cognomi che indicavano la loro etnia Rom o africana. Li ho imboccati, perché spesso si rifiutavano di mangiare in autonomia, li ho addormentati, alcuni avevano problemi di sonno, li ho portati in braccio se non avevano voglia di camminare, sono rimasta sulla battigia con loro ad aspettare la risacca, perché di immergersi avevano paura, e l’istinto con cui si affidavano a me, un’estranea, mi sconvolgeva, tanto da farmi dimenticare che quelli erano i sintomi della sindrome da prigionia di cui parla lo psicologo Gianni Biondi. Mancanza d’appetito, problemi locomotori, ritardo nel linguaggio: se per tutto il giorno ripeti gli stessi gesti, come fa il tuo vocabolario a svilupparsi? Di fronte alla camera da letto di una donna che ci ospitava a casa in uno dei sabati di libertà, un bambino disse: “Che bella, la tua cella!” In montagna, un’altra s’infilò in tasca una palla di neve e pianse perché si sciolse: avrebbe voluto regalarla alla mamma. Poi a sei anni quei bambini escono dal carcere, e alla prigionia si somma il trauma della separazione. La legge 62/2011 dovrebbe teoricamente tutelare il minore, che può crescere accanto alla madre ma fuori dalla galera. Prevede infatti misure alternative - gli arresti domiciliari (ma non in un campo Rom), le case famiglia protette e gli Icam (istituti di custodia attenuata, dove si applica l’ordinamento penitenziario, per esempio rispetto ai rapporti con l’esterno, ma gli agenti sono in borghese) - cui però possono accedere solo le detenute che non incorrono nella recidiva. Ma statisticamente quelli femminili sono piccoli reati, legati a furto o spaccio, e ripetuti nel tempo. E di Icam in Italia ce ne sono due appena. Le case famiglia pesano sul bilancio degli enti locali, non sull’amministrazione carceraria, dunque se non ci sono soldi non si fanno. D’altronde la legge non elimina le sezioni nido, continua a contemplarle. Il risultato è che oggi 60 bambini vivono ancora reclusi: a qualcuno sembrerà un numero esiguo, che non rappresenta un’urgenza. Ma se la detenzione ha lo scopo di rieducare chi ha sbagliato, che cosa insegniamo a chi paga una pena da innocente? Alice aveva partorito Divine da soli sei mesi. Quante donne affrontano un disagio psichico dopo la gravidanza, sentendosi incapaci di rispondere ai bisogni del neonato? Quale senso d’inadeguatezza può provare una madre in gabbia, che ha costretto, seppur non intenzionalmente, i figli alla segregazione? Persino se si trattasse di un unico bambino, il numero sarebbe troppo alto. Uno Stato che invece di proteggerlo gli fa scontare la colpa di chi l’ha messo al mondo, gli sta negando il diritto a una vita degna nonostante le sue origini. È uno Stato che non crede nel suo futuro e così rinuncia al proprio. Finché accettiamo che esistano bambini di serie B, e li chiudiamo in galera, nessuno di noi merita di essere genitore, anzi di considerarsi umano. *Scrittrice. Ha vinto la 56esima edizione del Premio Campiello con il romanzo “Le assaggiatrici” (Feltrinelli, 2018) Bambini dietro le sbarre di Maria Rosaria Mandiello Il Denaro, 25 settembre 2018 È morta sul colpo la piccola Divine di quattro mesi, lanciata dalla mamma dalle scale del nido del carcere di Rebibbia, avviato l’iter per la morte cerebrale per il fratello di due anni. Sulla mamma, 33 enne di origini tedesche pende ora l’accusa di duplice infanticidio, è piantonata all’ospedale Pertini di Roma, pare abbia dichiarato al suo legale “i miei bambini adesso sono liberi,” apparendo consapevole del gesto compiuto; nel frattempo, il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, ha sospeso i vertici del carcere. La cronaca riporta alla luce il tema dei bambini reclusi insieme alle loro mamme nei penitenziari italiani. Sono 62 i bimbi, con 52 mamme, attualmente presenti nelle carceri italiane. Dal 2007 sono stati creati in Italia cinque Icam (istituti di custodia attenuata per detenute madri), più vicini ad un asilo che ad una prigione, per ridurre al minimo i traumi dei più piccoli. Poche per troppi bambini reclusi. Nascere e crescere chiusi dietro le sbarre: sono i figli neonati delle detenute nei carceri femminili italiani, a cui la legge permette di vivere coi propri figli all’interno della struttura fino al compimento dei tre anni. Non è un modo di dire, poiché il giorno stesso del compleanno il bambino viene prelevato dalla struttura dove vive con la madre e affidato ad altre cure, nella migliore delle ipotesi alla famiglia d’origine. Una vita, quella dei piccoli, modulata sulle dinamiche della detenzione adulta, con le stesse sbarre, gli stessi colori, i pochi spazi e il problema del superaffollamento. E così capita che un bambino debba crescere dietro le sbarre, scontando una pena che non ha commesso, a volte anche da solo, senza altri bambini. A questi piccoli si aggiungono quelli che ogni giorno entrano in carcere per far visita al genitore detenuto: 100 mila ogni anno in Italia, sottoposti a perquisizione prima di entrare, proprio come gli adulti, e spesso sono costretti a incontrare il genitore in spazi grigi e chiusi. Tutto previsto dall’ordinamento penitenziario del 1975, mentre una legge che dispone diversamente esiste, ed è la legge 62 dell’aprile 2011 che introduce due alternative alla detenzione per questi bambini. La prima di queste opzioni sono gli Icam (Istituti a custodia attenuata per detenute madri con prole fino a tre/sei anni) che sebbene siano carceri, a livello edilizio sono comunque più simili a una casa normale, anche se la donna vive la propria quotidianità da detenuta. La seconda alternativa al carcere vero e proprio sarebbero, invece, le famose case famiglia protette, che dovrebbero essere destinate a donne che non hanno la possibilità di ripristinare la normale convivenza con il figlio per mancanza di un domicilio. Eppure la legge del 2011 urla con le sue misure alternative che i bambini in carcere non devono starci. Chi nasce e cresce in detenzione soffre di gravi deprivazioni sensoriali. La vita di un minore in carcere è uno schiaffo ai suoi diritti, il mondo è visto dalle sbarre di un penitenziario tra urla, sofferenze, storie di vita non facili, colori spenti, giochi monotoni e in luoghi chiusi e angusti, a volte in stanze piccole, per motivi di spazi, mentre fuori c’è il sole, la vita, i parchi giochi e poco oltre il mare. Il carcere non è il luogo dove poter essere madri, non è possibile gestire i propri figli, crescerli secondo criterio. I tempi, i modi, le compatibilità sono decisi altrove. E anche le esperienze significative, l’esplorazione del mondo, avvengono con altri. Come i volontari che operano in molti penitenziari, che nel fine settimana portano fuori dalle mura carcerarie i piccoli, che aspettano con gioia queste giornate. Ma arrivano poi le angosce, la paura di non tornare più dalla mamma o quella di non uscire più. Le madri sbagliano ma i bambini ne pagano le conseguenze in ambienti inidonei all’infanzia e alla possibilità di essere madri. La legge c’è ed è quella del 2011 che pensa a luoghi senza sbarre, armi o divise. Possibili soluzioni che ad oggi sono ancora utopia in un paese che non guarda ai diritti dei più piccoli, negandogli un’infanzia serena, spensierata, ma fatta di celle, di ambienti piccoli, di spazi verdi inesistenti, con un impatto psicologico non indifferente: a questi bambini vengono negati gli affetti, l’amore dei familiari, la possibilità di socializzazione, ma ancora la possibilità di conoscere il mondo, la curiosità e la scoperta tipici dei primi anni di vita. La vita tra le sbarre per un bambino si traduce anche in difficoltà di linguaggio, a volte imparano parole, gesti, atteggiamenti da adulti. Possono riscontrare difficoltà di inserimento in classi di bambini, possono essere iperattivi, sviluppare aggressività. Inoltre, l’istituto di pena spesso è l’elemento ostacolativo tra il bambino ed il genitore. L’istituto penitenziario non è il luogo adatto per un incontro, spesso sono gli assistenti sociali o anche il giudice a non concedere l’autorizzazione per un incontro ravvicinato tra madre e figlio, quando viene concesso, i bambini subiscono l’impatto con la realtà e vengono trattati dagli agenti come adulti, ritrovandosi nelle grandi stanze del parlatorio ad incontrare i loro genitori, senza privacy, senza possibilità di gioco. Bambini che vivono da piccoli realtà che solo un adulto può accettare e comprendere, fanciulli a cui l’infanzia viene concessa sotto reclusione, perché mamma sconta la pena e per riflesso anche suo figlio. C’è bisogno di avvicinarsi alla pena degli adulti con gli occhi di un bambino, perché le colpe degli adulti non possono ricadere sui più piccoli e l’infanzia non può e non deve essere negata o filtrata. Bambini a cui lo Stato deve garantire un’infanzia oltre le sbarre. Costruire speranza evita la galera di Paola Cornaglia Ferraris La Repubblica, 25 settembre 2018 Due studiosi dell’università dell’Aquila (Casacchia e Roncone) hanno descritto l’impatto della ricerca psicosociale familiare sui servizi di salute mentale italiani e sui principali interventi psicosociali attualmente in uso. I loro dati dovrebbero essere presentì quando si discute su cosa si voglia fare per migliorare i servizi di salute mentale, in modo che le decisioni siano prese su basi scientifiche. In Italia i parenti sono coinvolti nella cura di persone con disturbi fisici e mentali e, nonostante le famiglie siano sempre più piccole, mantengono stretti legami e si sta con i genitori fino a tardi. Gli autori descrivono l’impatto della ricerca psicosociale familiare internazionale sui servizi di salute mentale italiani e sui principali interventi. Evidenziano il contributo dato dai ricercatori italiani allo studio di importanti variabili nella cura dei disturbi mentali, come l’onere familiare dell’assistenza, l’atteggiamento dei familiari, il funzionamento familiare e la soddisfazione sui servizi offerti. Discutono le difficoltà di disseminazione degli interventi familiari. Per esempio, i bambini con bassi livelli di speranza hanno più problemi rispetto agli altri. Chi ha la madre in carcere o viene da un’esperienza d’immigrazione, percepisce un minore sostegno sociale e manifesta problemi comportamentali anche dopo che il sostegno sociale e lo stress sono sotto controllo. Essere fiduciosi nella propria capacità di superare le sfide e avere una prospettiva positiva funziona da fattore protettivo della propria salute mentale, mentre genitori sfiduciati mettono un bambino a rischio di problemi di adattamento, anche seri. Insegnare ai bambini con livelli bassi di speranza è difficile se la famiglia condivide questo atteggiamento. Fenomeno poco studiato nei servizi di salute mentale, concentrati su forme di malattia impegnative, tradizionalmente aggredite con farmaci neurolettici. Deve essere chiaro che il disagio familiare, sociale e la mancanza di speranza e fiducia nel futuro incidono sulla salute mentale di bambini e famiglie e che tale situazione si scarica su servizi che hanno bisogno di rinforzo e crescita culturale e scientifica, non di tagli al personale. Mettere in prigione chi manifesta devianza e sotto farmaci chi ha un vissuto di disperazione è come tappare una botte che perde da tutte le altre parti. Costruire speranza, solidità familiare e fiducia nel futuro eviterebbe a molti galera, uxoricidio e psicofarmaci, per questo guardare i tg non aiuta. Spegneteli! Una psichiatria che curi, nelle carceri e anche fuori di Gemma Brandi e Mario Iannucci* Corriere Fiorentino, 25 settembre 2018 A Civitavecchia due suicidi in cella in 24 ore, a Rebibbia una donna ha ucciso i due figli nel nido del penitenziario. L’uomo che in Mugello ha ucciso il figlio era sì in cura, ma non era ricoverato in ospedale. Alla chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari non è seguita la creazione di un circuito che integrasse Rems, strutture psichiatriche penitenziarie e servizi di salute mentale. La cronaca dimostra la deriva: pochi soldi, poche strutture. E un equivoco di fondo. Tre notizie. La prima: nel Mugello, un uomo di 34 anni uccide il figlio di un anno e tenta di uccidere la moglie e l’altra figlia di 7 anni. L’uomo era in cura da anni presso psichiatri del servizio pubblico e ultimamente, pare, presso uno psichiatra privato. La seconda notizia: nel carcere di Civitavecchia (che ha una Sezione di Osservazione Psichiatrica) due detenuti si uccidono in 24 ore. Nello stesso carcere e nelle stesse ore una detenuta viene salvata da un serio tentativo di suicidio. La terza notizia: nel “nido” del carcere di Rebibbia, a Roma, una detenuta trentatreenne, di nazionalità tedesca, scaraventa giù dalle scale i suoi due bambini: la prima, di sei mesi, muore sul colpo; il secondo, di due anni, è morto ore dopo in ospedale. “Ora sono liberi”, ha dichiarato la madre. Cosa hanno in comune questi episodi e quali riflessioni è bene che stimolino in tutti? La prima riflessione è che attualmente le carceri italiane, in maniera forse un po’ superiore a quanto peraltro avviene in tutto il mondo, sono stracolme di persone che presentano gravi o gravissime turbe psichiche. L’uomo che ha ucciso nel Mugello il figlioletto e ha tentato di uccidere la moglie e un’altra figlia, è attualmente ristretto in una prigione ordinaria, non è ricoverato in ospedale. I due uomini che si sono uccisi a Civitavecchia erano reclusi anche loro in un carcere ordinario. Il “Nido” di Rebibbia si trova in un carcere ordinario. Ma è mai possibile che nessuno - tantomeno la psichiatria “ufficiale e accademica” - avvii una seria riflessione sulla pericolosità sociale dei pazienti con gravi turbe psichiche, allo scopo di prendersene cura, invece di argomentare intricati e ben poco intriganti dissertazioni sul pericolo che causerebbero certe patologie psichiatriche mimetizzate e non quelle evidenti al profano? Gli psichiatri che hanno davvero e seriamente curato, nella loro attività clinica, pazienti con gravi patologie psichiche (chiamiamole con il loro nome scientifico: disturbi deliranti cronici, schizofrenie, disturbi depressivi severi e disturbi bipolari, “deep and dangerous” disturbi di personalità), sanno perfettamente che, in talune fasi critiche del decorso di tali patologie, si possono presentare delle impennate della pericolosità sociale: chi ne è portatore può uccidersi, uccidere, uccidere e uccidersi. È per questo che gli psichiatri sono, dalla legge, chiamati nella “posizione di garanzia”: assumono, curando i malati anche qualora questi ultimi non vogliano curarsi, la responsabilità di tutelare loro stessi e la società dai pericoli cui le severe patologie psichiche, talora ma non infrequentemente come si vorrebbe dare ad intendere, espongono. Lo scorso luglio il ministro degli Interni Matteo Salvini, con la franca ruvidezza che lo contraddistingue, ha affermato, dapprima a Pontida e quindi in tv, che “c’è quest’anno un’esplosione di aggressioni per colpa di malati psichiatrici e qua non è competenza del (suo, ndr) ministero, però evidentemente c’è da rivedere il fatto che sia stato abbandonato il tema della psichiatria e lasciato solo sulle spalle delle famiglie italiane chiudendo tutte le strutture di cura per i malati psichiatrici”. Possiamo dire che l’analisi del ministro è totalmente sbagliata, come hanno fatto molti psichiatri, comprese talune autorevoli società e associazioni professionali? Possiamo dire che l’affermazione di Salvini è generica, come è inevitabile che sia quando prende la parola una persona che non è addetta ai lavori, anche se ricopre il ruolo di ministro. Ma non possiamo certo dire che non risponda in parte a verità. L’”esplosione di aggressioni” da parte di gravi malati psichici non è avvenuta solo nell’ultimo anno, ma certo negli ultimi decenni il problema ha subito una impennata. Questo non è dovuto unicamente alla indubbia esiguità delle risorse economiche destinate alla salute mentale, ma anche al fatto che la salute mentale pubblica, quella che istituzionalmente deve occuparsi della cura delle gravi patologie psichiche, ha dedicato una attenzione decrescente alla necessità di imporre una cura, quando necessaria, ai pazienti che a quella cura tendono a sottrarsi proprio a causa della loro patologia. L’attenzione alla cosiddetta “coazione benigna” (il dovere, da parte degli operatori della salute mentale, di prendersi cura dei pazienti, anche se questi ultimi rifiutano le cure; la costruzione e il mantenimento di relazioni terapeutiche, proprio nelle situazioni di rifiuto delle cure, è parte integrante dell’arte terapeutica dei buoni operatori e dei buoni servizi) è andata progressivamente decrescendo, così come sono senza dubbio calate, negli ultimi decenni, le opportunità terapeutiche residenziali che sono indispensabili in certe fasi critiche o subcritiche delle patologie: i ricoveri nei Spdc (servizi psichiatrici di diagnosi e cura) durano pochissimo, con gli psichiatri e i servizi che vengono penalizzati per i ricoveri protratti o ripetuti; le “comunità terapeutiche” gestite dai servizi pubblici sono, sul territorio italiano, totalmente insufficienti e la dotazione di personale è scandalosamente impari rispetto ai bisogni; alla chiusura degli Opg (che erano senza dubbio luoghi “indegni di un Paese appena civile”) non è certo seguita la costituzione di un circuito virtuoso che mettesse a disposizione una assistenza di salute mentale integrata tra Rems, strutture psichiatriche penitenziarie e Servizi di Salute Mentale. Anzi: l’orientamento prevalente della psichiatria, specie di quella forense, è nei fatti quello di ridurre progressivamente il plateau di coloro che vengono valutati, e quindi giudicati, “totalmente incapaci di intendere e di volere” al momento dei fatti. La conseguenza diretta è che le carceri ordinarie si riempiono di pazienti affetti da gravi patologie psichiche, che in carcere non riceveranno cure adeguate, trattandosi appunto di carcere. Certo: questo risponde al preciso disegno, espresso a chiare lettere da molti rappresentati delle istituzioni e dei governi pregressi, di “abolire il doppio binario” per i pazienti psichiatrici, abrogando il vizio totale e quello parziale di mente, restituendo ai rei-folli il “diritto alla pena”. I tempi mutano. Molti di coloro che adesso vengono chiamati stalker venivano riconosciuti come erotomani (una delle forme più pericolose di psicosi delirante) fino a ieri. Occorre abituarsi alla presenza in strada di persone che bevono in eccesso e/o che assumono comportamenti bizzarri e molesti su base psicopatologica. D’altra parte, perché limitare la presenza di winebar e precludere il piacere delle happy hours? E inoltre: perché non riconoscere che, in fondo in fondo, siamo tutti “abbastanza uguali” e che “un ramo di follia non lo si nega ad alcuno”? Di questo passo la psichiatria, che è nata nelle carceri e che invece oggi, di coazione benigna e di carcere, non vuole più occuparsi, finirà per esaurire le sue funzioni, che sono sicuramente di cura e, perciò, anche di controllo delle situazioni di pericolo. A proposito dell’infanticidio del “Nido” di Rebibbia, ci sarà certo chi si ostinerà a dire che si è trattato di un “raptus” e imputerà la responsabilità dell’episodio alle discusse norme relative alla facoltà delle madri detenute, qualora lo vogliano e possano farlo, di tenere con loro i figli finché sono piccoli. Un modo per spostare l’attenzione dal vero focus: non tutte le detenute madri fanno del male ai loro figli in quanto recluse, anzi! Più opportuno sarebbe approfondire le condizioni mentali della madre di cui sopra al momento in cui ha commesso i reati per cui la si è detenuta e, soprattutto, quali fossero dette condizioni quando ha gettato i piccoli figli giù dalla scale. Infine una domanda: si pensa e in quale modo, con quali strumenti, in quale luogo di tutelare ora la psiche e la vita di questa donna, una psiche e una vita di certo duramente provate? *Esperti di salute mentale applicata al diritto La politica degli annunci dove tutto è un’emergenza di Fiorenza Sarzanini Corriere della Sera, 25 settembre 2018 Lo schema seguito dal governo 5 Stelle-Lega si ripete sempre uguale. Ma agendo in questo modo si finisce per lasciare appeso il Paese a decisioni irrealizzabili. Reazione immediata con una frase ad effetto, seguita dall’annuncio di un decreto per fronteggiare il problema nel più breve tempo possibile. È questo lo schema seguito dal governo 5 Stelle-Lega. Di fronte a ogni evento - sia che abbia normale rilievo, sia che si tratti di una reale tragedia - il copione non cambia. Tutto viene vissuto, o meglio narrato, come un’emergenza da risolvere. Basta scorrere quanto accaduto in quasi quattro mesi, dal momento dell’insediamento a palazzo Chigi fino alle ultime ore. In una rincorsa tra chi dimostra di avere maggiore peso politico dell’altro, capacità di intervento e soprattutto un numero più alto di seguaci sui social. Si torna dunque a giugno, quando l’attenzione è concentrata sugli stranieri. Ogni volta che una nave delle Ong carica di migranti chiede l’attracco in un porto italiano, oppure un cittadino extracomunitario commette un reato, il vicepremier e titolare del Viminale Matteo Salvini ricorda via Facebook o Twitter che sta “lavorando a un decreto sicurezza, perché per questi la pacchia è finita”. Si arriva a metà agosto. Appena poche ore dopo il crollo del ponte Morandi a Genova, mentre ancora il bilancio delle vittime è provvisorio e si scava tra le macerie alla ricerca dei superstiti, lo stesso Salvini e l’altro vicepremier Luigi Di Maio si muovono sui social e nei programmi televisivi di maggior ascolto. Fanno sapere che “la concessione ad Autostrade sarà revocata con un decreto e dopo dieci giorni nomineremo un commissario per la ricostruzione”. Danno la sensazione che tutto è già stato deciso e in appena pochi giorni sarà risolto. La realtà si dimostra ben diversa. Il provvedimento sulla sicurezza è stato approvato ieri a Palazzo Chigi, dopo numerosi “passaggi” tra i ministeri dell’Interno e della Giustizia e “suggerimenti” arrivati dal Quirinale. Fino a ieri sera non esisteva un testo definitivo, ma una bozza da limare e rivedere ancora. Quando arriverà al Colle dovrà essere esaminato dall’ufficio legislativo per la controfirma del presidente della Repubblica. La strada per la conversione in legge da parte del Parlamento appare comunque impervia, vista la contrarietà già espressa da una parte del Movimento 5 Stelle su alcune norme che ritengono incostituzionali. Ancor più complicato l’iter del decreto per Genova. Il testo, più volte anticipato, non ha ancora visto la luce. Proprio ieri il premier Giuseppe Conte - che nei giorni scorsi aveva respinto sdegnato le critiche per i continui rinvii - ha annunciato che sarà inviato questa mattina al Quirinale. È soltanto il primo passo, molti altri ne mancano per arrivare alla fine del percorso. Non c’è l’accordo politico sul nome del commissario, mentre sono emerse tutte le difficoltà - giuridiche ed economiche - per togliere la concessione ad Autostrade. Anche perché non c’è alcuna certezza sulla causa del crollo del viadotto e invece, per contestare le “gravi inadempienze” che consentono l’avvio della procedura, bisogna avere a disposizione dati concreti sulla responsabilità della società di gestione dell’appalto. Potrebbero essere sufficienti questi due esempi per convincere gli esponenti dell’esecutivo che in queste settimane hanno partecipato alla politica degli annunci, a muoversi con maggiore cautela. Perché è vero che un governo interventista rassicura i cittadini, però è altrettanto vero che se alle parole non si fanno seguire i fatti si dimostra di non essere all’altezza del compito. E intanto si possono creare situazioni poi difficili da risolvere. La scorsa settimana una donna detenuta nel carcere di Rebibbia ha buttato i suoi figli piccoli dalle scale e li ha uccisi. Appena qualche ora dopo, senza attendere le verifiche su eventuali responsabilità, il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede ha annunciato la sospensione dal servizio della direttrice dell’istituto. Un provvedimento firmato in via d’urgenza, nonostante gli esperti siano concordi nel ritenere quel reparto penitenziario “un’eccellenza”. Non c’era alcuna emergenza eppure anche in questo caso si è deciso di agire sull’onda dell’emozione. Si è scelto evidentemente di procedere per dare la sensazione di avere la soluzione pronta. Invece il problema è proprio questo: prima di intervenire sarebbe opportuno analizzare quanto successo, esaminare le possibili risposte, riflettere sulle conseguenze. Per evitare di annunciare ciò che non si può fare. Lasciando il Paese appeso a decisioni irrealizzabili. Quel confine tra marketing e governo di Sofia Ventura La Stampa, 25 settembre 2018 Con l’approvazione del decreto su sicurezza e immigrazione Matteo Salvini rafforza la sua immagine di sceriffo buono, tutore dell’ordine e della legalità per il bene dei cittadini. Ci vorrà tempo per comprendere portata ed efficacia delle misure. Ma è possibile proporre alcune considerazioni generali. Salvini durante la conferenza stampa si è concentrato in particolare sull’immigrazione. Il vicepresidente del Consiglio ha definito immigrazione e sicurezza due ambiti “complementari”. Ovvio no? No. Questo è un modo di inquadrare il problema, non l’unico. Tale inquadramento è così potente che nemmeno ci accorgiamo che esiste. Nel 2010, l’allora presidente Sarkozypreoccupato di conquistare gli elettori del Fronte Nazionale per la prima volta presentò immigrazione e sicurezza come facce dello stesso problema, sconcertando parte dei gollisti che non ritenevano che il loro destino fosse trasformarsi in una nuova destra estrema. Questa prospettiva non è dunque ovvia. Il tema dell’immigrazione, anche se indubbiamente pone questioni di sicurezza, può essere visto dalla prospettiva dell’integrazione di chi si è in grado di accogliere: dall’organizzazione delle città per fare sì che questa integrazione si realizzi veramente, al potenziamento delle strutture con compiti di integrazione e formazione; della tutela degli individui rispetto alle comunità di appartenenza quando queste portano valori per noi lesivi della dignità della persona; della tutela degli immigrati rispetto a forme di sfruttamento e della repressione di quello sfruttamento. Ci si può interrogare su come coniugare controllo dell’immigrazione illegale e creazione di canali per una immigrazione legale. La scelta del governo, una scelta possibile, non ovvia, è stata invece quella di inviare il messaggio che l’immigrazione va tenuta sotto controllo per i danni che provoca ai cittadini italiani. Miscelando misure di buon senso, come la sospensione della richiesta di domanda d’asilo per chi commette reati, con altre più discutibili. Come la soppressione dei permessi di soggiorno per motivi umanitari, sostituiti da permessi speciali secondo sei specifiche fattispecie. Di quei permessi si è abusato; la soluzione è stata quella di specificare i criteri per concedere i permessi. Quei criteri consentiranno a una ragazza che vuole sfuggire a un matrimonio forzato o a uno stile di vita che rifiuta di trovare riparo nel nostro Paese? L’infibulazione considerata normale in tanti Paesi africani sarà considerata violenza domestica (uno dei criteri)? Ma oltre a ciò, chi riesce a raggiungere il nostro Paese lasciandosi alle spalle insopportabili condizioni esistenziali, forse tornerà indietro perché le regole sono più restrittive? No, semplicemente entrerà in uno stato di clandestinità, vulnerabile a sistemi criminali. Con buona pace delle intenzioni law and order del governo. Che non ci pare si preoccupi di un più efficace controllo di chi già vive sul nostro territorio in clandestinità. Ancora, è condivisibile che si riveda la cifra di 35 euro pro capite per i richiedenti asilo, ma sono stati anche previsti maggiori controlli per le istituzioni che li accolgono, che in vari casi si sono dimostrate utili soprattutto per i gestori più che per gli ospiti? Il risparmio potrebbe essere utilizzato per migliorare le condizioni di accoglienza. E invece no. Salvini ha precisato che saranno investiti in sicurezza. Prima gli italiani. Prima gli italiani. Questo è il grande spot. Creato il capro espiatorio di ogni problema, l’immigrato, rassicuri i cittadini ai quali lo hai additato che ora ti occuperai di lui. Ma questo è marketing, non è governare. Il Decreto sicurezza spiegato in 10 punti Avvenire, 25 settembre 2018 Confermate la cancellazione della protezione umanitaria in caso di condanna di primo grado e la revoca della cittadinanza per terrorismo. Cambia il modello di accoglienza Il Decreto sicurezza spiegato in 10 punti 1. Via la protezione umanitaria. Il decreto prevede l’abrogazione del permesso di soggiorno per motivi umanitari. Si elimina “l’attuale esercizio discrezionale nella concessione, con l’introduzione di una tipizzazione dei casi di tutela complementare, con precisi requisiti per i soggetti interessati”. 2. Sei “permessi speciali”. La protezione umanitaria viene sostituita da “sei permessi speciali”: vittime di grave sfruttamento, motivi di salute, violenza domestica, calamità nel Paese d’origine, cure mediche e atti di particolare valore civile 3. Revocato l’asilo con condanna di primo grado. Il decreto amplia la possibilità di negare o revocare la protezione internazionale ad una condanna in primo grado per i reati di violenza sessuale, lesioni gravi e rapina, violenza a pubblico ufficiale, mutilazioni sessuali, furto aggravato, traffico di droga. È prevista inoltre la sospensione della domanda d’asilo in caso di pericolosità sociale. 4. Stop alla cittadinanza. È prevista la revoca della cittadinanza acquisita dagli stranieri condannati in via definitiva per reati di terrorismo 5. Meno Sprar e più Cas. Il decreto riserva esclusivamente ai titolari di protezione internazionale e ai minori non accompagnati i progetti di integrazione ed inclusione sociale previsti dal sistema Sprar. I richiedenti asilo troveranno accoglienza solo nei centro ad essi dedicati: i Cas (Centri di accoglienza secondaria) e i Cara (Centri di accoglienza per richiedenti asilo) 6. Più tempo nei Cpr. La durata massima di permanenza nei Centri per il rimpatrio passa da 3 a 6 mesi per facilitare l’espulsione degli irregolari. Il decreto prevede anche “completamento, adeguamento e ristrutturazione” dei centri già presenti sul territorio e la “costruzione” di altri. 7. Espulsioni più facili. Il decreto prevede misure a garantire l’effettività dell’esecuzione dei provvedimenti di espulsione. Il decreto stanzia 500mila euro per il 2018 e 1,5 milioni per il 2019 e 2020. 8. Daspo per terrorismo. Il Daspo per le manifestazioni sportive potrà essere applicato anche agli indiziati per reati di terrorismo. Possibilità di applicare il Daspo urbano anche nei presidi sanitari e in aree destinate allo svolgimento di fiere, mercati e pubblici spettacoli. 9. Taser ai vigili. Il decreto prevede la sperimentazione dei taser da parte di operatori della polizia municipale di Comuni con più di 100mila abitanti. 10. Occupazioni abusive. Vengono inasprite le sanzioni (con reclusione fino a quattro anni e multa) nei confronti di coloro che promuovono o organizzano l’invasione di terreni o edifici. “Il diritto alla difesa e le libertà personali sono a rischio” di Andrea Carugati La Stampa, 25 settembre 2018 Intervista a Cesare Mirabelli, ex presidente della Consulta. “Speriamo che il Parlamento corregga le criticità”. “Non c’è dubbio che nel decreto Salvini vi siano alcuni elementi critici sotto il profilo della costituzionalità. Mi riferisco in particolare agli articoli 13 e 24 della Carta, che disciplinano il diritto alla difesa e la limitazione delle libertà personali”, spiega Cesare Mirabelli, presidente emerito della Corte costituzionale. “Uno dei punti critici è l’obbligo di lasciare il territorio nazionale per il richiedente asilo che viene condannato in primo grado per alcuni reati”. Questo tipo di espulsione rischia di essere irregolare? “Il problema non è la stretta sui requisiti per poter fare domanda e ottenere la protezione, ma l’espulsione di chi sta affrontando un processo e ha subito una condanna in primo grado. Questa norma lede il diritto alla difesa e dunque l’articolo 24 della Costituzione. Ci sono già state delle sentenze della Consulta su casi di espulsione di stranieri che avevano un processo in corso in Italia e ha sempre prevalso il diritto della persona a potersi difendere nel processo. Semmai, in questi casi, si possono attivare modalità di controllo come l’obbligo di soggiorno o di firma”. Tra i reati per i quali decadrà la domanda di protezione ce ne sono di molto gravi ma anche alcuni cosiddetti minori. “Questa lista di reati è oggetto di una valutazione politica da parte del legislatore. Ma il diritto alla difesa vale in qualsiasi tipo di procedimento giudiziario”. Il decreto prevede il trattenimento di stranieri “da espellere” anche in strutture di pubblica sicurezza oltre che nei Centri per il rimpatrio. Si tratta di una norma costituzionale? “Bisogna valutare la norma alla luce dell’articolo 13. Il problema non è tanto l’allungamento dei tempi da 90 a 180 giorni, ma il tipo di luoghi scelti e il livello di restrizione della libertà. La Carta non prevede forme di detenzione senza un provvedimento motivato dell’autorità giudiziaria e questo naturalmente vale anche per i cittadini stranieri: il decreto modifica in parte la norma, allarga i luoghi di trattenimento anche a strutture di pubblica sicurezza e questo rende ancora più necessario l’intervento del giudice”. Vede rischi di tipo interpretativo? “Il trattenimento degli stranieri in attesa di espulsione non può essere gestito solo dalle forze di polizia senza alcun controllo della magistratura. Un conto è l’accompagnamento alla frontiera, altro è tenere una persona reclusa fino a sei mesi, magari senza possibilità di contatti con l’esterno. Siamo su un crinale molto sottile”. La revoca della cittadinanza per i condannati per terrorismo rischia di creare cittadini di “serie B”? “Non mi pare ci siano problemi. La cittadinanza in questo caso viene concessa e poi revocata di fronte a una condanna per un reato che mette a rischio la sicurezza nazionale”. Nel complesso che giudizio dà del decreto? “Ci sono senza dubbio alcune criticità, auspico che il Parlamento possa correggerle durante la conversione in legge del decreto”. “C’è un giro di vite ma adesso le regole sono più razionali” di Ugo Magri La Stampa, 25 settembre 2018 Intervista a Giovanni Guzzetta, costituzionalista: “Non vedo conflitti né con la Carta né con le norme internazionali”. Da giurista liberale, professor Giovanni Guzzetta, come valuta il decreto immigrazione? “Come una scelta politica. Ma sul piano costituzionale non scorgo palesi conflitti né con la nostra Carta né con le principali norme internazionali”. Non negherà però un giro di vite sul piano dei diritti... “Sicuramente siamo in presenza di una razionalizzazione. C’è ad esempio uno sforzo di “tipizzare” le varie fattispecie per superare incertezze e anche disparità di trattamento”. Si riferisce alla cancellazione del soggiorno umanitario, sostituito da alcuni casi eccezionali di permesso? “Chiariamo che qui non esiste un vincolo internazionale sul punto specifico. Nella sua formulazione generica, il soggiorno per motivi umanitari veniva trattato in modo molto diverso dalle commissioni territoriali. Qualcuno era più fortunato, altri meno. Il decreto introduce un elemento di chiarezza e anche di uguaglianza, precisando nel concreto i casi in cui il permesso può essere rilasciato”. D’ora in avanti gli stranieri da espellere potranno essere trattenuti non solo nei CPR, ma in altre “strutture idonee”. Cioè in luoghi meno adatti. Le sembra giusto? “Qui però dobbiamo metterci d’accordo. Non si può denunciare da una parte che i CPR scoppiano, e poi protestare se si ricorre a strutture equivalenti. Equivalenti vuol dire equivalenti. Anche perché si introducono procedure accelerate per la costruzione di nuovi Centri”. Cresce la platea dei reati che portano all’espulsione. Non è contro l’articolo 10 della Costituzione, che garantisce il diritto d’asilo secondo le condizioni stabilite dalla legge? “Per l’appunto, la legge può stabilire condizioni. Di tipo procedurale ma anche legate alle nostre capacità di accoglienza e alla tutela di altri beni giuridici. Lo diceva già un grande costituzionalista liberale come Carlo Esposito. A me sembra ragionevole che si possa negare la protezione a chi commette violenza sessuale o traffica stupefacenti. Di questo si sta parlando”. Ma l’espulsione fa venir meno la possibilità di difendersi in giudizio, non le pare? “Questo è in effetti un tema delicato. Il punto di domanda è se può essere garantito tecnicamente il contraddittorio anche a distanza, cioè senza il diretto interessato. Però il decreto Minniti già prevedeva che i giudici possano decidere comunque, semplicemente basandosi sui video preparati dalle commissioni territoriali. Quindi non vedo, da questo punto di vista, un salto di qualità del nuovo provvedimento”. Rischiamo o no di diventare i sorvegliati speciali d’Europa, come l’Ungheria di Orbán? “Non mi pare che gli standard europei siano molto più generosi rispetto all’immigrazione. Anzi l’art. 8 della Direttiva qualifiche avrebbe consentito misure anche più restrittive. Certo che c’è una stretta. Ma di qui a sostenere che stiamo virando verso un’Italia illiberale, francamente ne passa”. Taser anche ai vigili, intercettazioni e pene per i promotori di occupazioni di Eleonora Martini Il Manifesto, 25 settembre 2018 Decreto Salvini. Nella seconda parte del decreto legge approvato dal Cdm, quello relativo alla sicurezza pubblica, la prevenzione e il contrasto al terrorismo e alla criminalità mafiosa, sono contenute le norme più disparate. Il sindacato di polizia Silp Cgil: “L’utilizzo indiscriminato della forza pubblica per le occupazioni arbitrarie di immobili non risolve i problemi”. Pistole taser in dotazione anche ai vigili urbani; aumento delle pene per chi organizza e promuove occupazioni di immobili, e addirittura possibilità di ricorrere alle intercettazioni per prevenire e punire l’”invasione di terreni o edifici”; Daspo urbano anche dentro gli ospedali e i presidi sanitari, e Daspo per le manifestazioni sportive anche agli indiziati (per reati di terrorismo); sanzioni penali e non più solo amministrative per chi partecipa a blocchi stradali. Sono le più importanti novità contenute nella seconda parte del “decreto Salvini” - quella riguardante “la sicurezza pubblica, la prevenzione e il contrasto al terrorismo e alla criminalità mafiosa” - adottato ieri dal Consiglio dei ministri ma palesemente carente dei requisiti di necessità e urgenza che l’atto normativo stesso richiederebbe. Un provvedimento evidentemente volto a colpire in particolare gli occupanti di case, i manifestanti, i senza casa - soprattutto stranieri - che si accampano negli anfratti delle città. Comunque il testo del decreto legge appare perfino leggermente mitigato, rispetto agli annunci leghisti delle settimane scorse. Riguardo all’esecuzione delle pene, per esempio, il dl prevede l’estensione del trattamento penitenziario minorile anche per i detenuti divenuti maggiorenni, “tenuto conto del percorso normativo in atto”. Oppure anche, nel caso delle pistole taser, attualmente in uso delle forze dell’ordine dei comuni con più di 100.000 abitanti, la sperimentazione si estende “soltanto” agli operatori delle polizie municipali di quelle stesse città, e non anche agli agenti di polizia penitenziaria come avrebbe voluto il ministro dell’Interno Matteo Salvini (che conosce benissimo, però, il divieto assoluto di introdurre armi di qualunque tipo all’interno delle carceri, anche nelle situazioni più estreme). Negli ultimi due “titoli” del decreto (dall’articolo 17 al 42) sono poi contenute norme delle più disparate: dal braccialetto elettronico da applicare anche agli imputati dei reati di maltrattamento in famiglia e stalking, fino al rafforzamento dell’interscambio informativo tra i vari corpi di polizia, compresi quelli municipali che potranno accedere alla banca dati interforze, le autorità amministrative e le autorità giudiziarie. Dal pagamento delle indennità accessorie per le forze di polizia, fino alla possibilità di usare lo strumento delle intercettazioni (articolo 33 del dl) “nelle indagini a carico dei promotori e degli organizzatori del reato di invasione di terreni o edifici”, come spiega lo stesso Viminale. Ministero che nell’era Salvini ha eletto a nemico pubblico numero uno le famiglie senza casa che occupano stabili, immobili che per la maggior parte delle volte sono sfitti e abbandonati da tempo. Con la modifica all’articolo 633 c.p., si arriva fino a quattro anni di reclusione più una multa da 206 a 2.064 euro per i promotori e organizzatori di invasioni di terreni e edifici. Alcune novità anche in materia di prevenzione e contrasto alla criminalità mafiosa: aumentano le pene per i subappalti illeciti e i controlli dei cantieri; più soldi per le Commissioni straordinarie incaricate di gestire gli Enti sciolti per mafia; possibilità di nominare Commissari ad acta nei Comuni in cui sono emerse irregolarità amministrative nell’ambito dei controlli antimafia. “Il decreto sicurezza contiene di tutto e di più”, commenta a caldo Daniele Tissone, segretario generale del sindacato di polizia Silp Cgil che, riservandosi di analizzare più a fondo il testo, fa comunque notare alcune assurdità. “L’utilizzo indiscriminato della forza pubblica per le occupazioni arbitrarie di immobili non risolve i problemi”, dice puntualizzando che “occorrerebbe definire le diverse tipologie di occupazione”. Nel caso di edifici, per esempio, chiede il sindacalista, “una volta sgomberati, chi li dovrà custodire e quale ente li avrà in carico? La polizia - conclude - non può diventare l’imbuto dove confluiscono tutte le competenze non esercitate da chi ne ha la titolarità”. Decreto sicurezza, da oggi al Quirinale un “esame severo” di Marzio Breda Il Sole 24 Ore, 25 settembre 2018 I rilievi in base alla Carta tenendo conto della “libertà della politica”. Per Sergio Mattarella la partita è delicata. L’esame comincerà oggi e già si sa che sarà attento e severo. Lo sanno i tecnici del Quirinale, che hanno scoperto i punti critici del decreto sicurezza e avvertito il governo che erano minati da una precaria costituzionalità, se non palesemente incostituzionali (vizi tali da rendere non firmabile il provvedimento da parte del capo dello Stato). E lo sanno gli uffici giuridici di Palazzo Chigi e Viminale, destinatari dell’avvertimento, che hanno avuto mandato da Giuseppe Conte e Matteo Salvini di correggere i capitoli controversi. “C’è stata un’interlocuzione al massimo livello”, assicurava ieri il premier, confermando con compiacimento che un dialogo tra istituzioni è avvenuto e annunciando il via libera del Consiglio dei ministri. Resta da vedere se “le piccole limature”, come ha minimizzato il leader leghista e vicepremier, saranno sufficienti. Decreto sicurezza, il testo corretto e tutti i punti chiave dopo due mesi di mediazioni | L’”esame severo” che attende la norma al Quirinale Macroscopica violazione - Per Sergio Mattarella la partita è delicata. Infatti, il decreto, che accorpa in un unico testo misure sulla sicurezza e sull’immigrazione, nella sua ottica prepolitica - dunque di sensibilità culturale - è, per impianto e filosofia, “molto duro”. Dunque ben poco condivisibile, da uno con la sua formazione, per certe forzature e asprezze. Un esempio che gli è parso fuori da ogni logica e in macroscopica violazione dei diritti fondamentali presente nella prima bozza? La libertà di far espellere chiunque dall’Italia solo in base a una singola denuncia o a un’azione di polizia, senza neppure il pronunciamento di un magistrato. Il che finirebbe con l’azzerare qualsiasi protezione umanitaria ai migranti. Comunque, mettere quelle norme in cantiere e vararle “attiene alla libertà della politica”, dicono dallo staff quirinalizio, alludendo al principio di neutralità che in casi come questi può legare le mani agli inquilini del Colle. Principio che però non autorizza nessuno, per quanti voti abbia raccolto nelle urne e si senta quindi rappresentante della volontà popolare, a scambiare la neutralità per complicità e a confidare in un vaglio non ostativo del presidente. Cioè benevolo a priori. Specie se colui cui spetta il preventivo controllo delle leggi e la ratifica di una nuova norma nutre seri dubbi di violazione della Carta e dei trattati internazionali. Dubbi che pertanto vanno al di là della sua scala di valori e convincimenti personali. Conflitto potenziale - Ecco com’è avvenuto il monitoraggio e lo scambio d’esperienze fra i due Palazzi. Con la presidenza della Repubblica mossa dall’intento di appianare situazioni di conflitto potenziale di una legge ancora in itinere e tenerle lontane dal punto di crisi, suggerendo le indispensabili “migliorie” prima di arrivare al voto del Parlamento. Uno schema che è valso, e vale, sia sul decreto-Salvini sia su quello per Genova, di cui si conoscevano finora soltanto linee vaghe e pasticciate, peraltro non condivise dall’intera maggioranza gialloverde e che i tecnici di Mattarella saranno perciò costretti ad esaminare al buio. Per inciso: l’analisi degli specialisti del Colle al via da stamane è interesse degli stessi “azionisti” del governo, nel senso che è anzitutto interesse loro evitare una pioggia di ricorsi molto probabilmente destinati a culminare in un verdetto negativo della Corte costituzionale. In caso contrario, lo scontro che si aprirebbe con il rifiuto della firma presidenziale su una legge-bandiera per la Lega di Salvini, potrebbe avere conseguenze inimmaginabili. Sarà forse per esorcizzare prospettive fosche che ieri sera fonti dell’esecutivo assicuravano che “le mediazioni” intercorse con il Quirinale hanno dato buoni frutti. Legittima difesa: il sistema non funziona, ma bisogna evitare il Far West di Carlo Valentini Italia Oggi, 25 settembre 2018 Dopo la manovra finanziaria, approderà in parlamento la discussione sulla legittima difesa. Un tema delicato, che andrebbe affrontato con maturità e senso di responsabilità. Su un tale argomento sarebbe auspicabile un pacato confronto tra le diverse convinzioni per arrivare a un provvedimento sostanzialmente condiviso. Invece si rischia la solita rissa, nonostante ci sia spazio per il buon senso e per una mediazione. Infatti da un lato la legge attuale è senza dubbio troppo garantista, basti pensare ai casi registrati dalle cronache di ladri scoperti, inseguiti, caduti nello scappare e con le vittime del furto (o tentato furto) condannate al risarcimento per le lesioni provocate dalla caduta. In contrapposizione c’è chi propone una sorta di giustizia fai da te, con armi dal facile reperimento e da usare senza remora. Possibile che non si riesca a dare tutela alla proprietà senza sfociare in un’americanizzazione dell’uso delle armi, che tanti guai provoca in quella società? Le divisioni all’interno del Pd hanno impedito nella scorsa legislatura di approvare la riforma (votata alla Camera ma non al Senato). Nel 2006 venne emanata una regolamentazione più precisa ma da allora si attende un provvedimento completo e articolato, quello che non riuscirono a fare gli ultimi governi e che su iniziativa della Lega si appresterà a varare il governo gialloverde. La Lega ha già depositato la sua proposta al Senato, che si affianca ad altri 5 disegni di legge giacenti in parlamento. In pratica, la legge firmata Lega, limita la discrezionalità del giudice e riconosce il diritto alla difesa con ogni mezzo, Forza Italia stabilisce che occorre proporzione tra difesa e offesa ma, in questa valutazione, si deve tenere conto della “percezione di pericolo dall’aggredito e della sua situazione di concitazione o paura”, il Pd riprende la proposta che non andò in porto nella scorsa legislatura che allarga l’impunibilità solo a chi si difende se l’intrusione avviene di notte, il M5s non ha presentato proprie proposte e ha chiesto una pausa di riflessione. Che succederà? È indubbia la necessità di individuare con maggiore certezza gli spazi dell’autodifesa legittima. Anche per evitare la beffa di interminabili iter giudiziari a chi ha subìto l’offesa e si è regolarmente difeso. Spetterà cercare un punto d’equilibrio a Giuseppe Conte e Alfonso Bonafede, che sono studiosi di diritto, oltre che premier e ministro della Giustizia. Il M5S vuole la stretta sugli evasori fiscali. Soglie più basse per finire in carcere di Nicola Lillo La Stampa, 25 settembre 2018 A fine mese il governo varerà un decreto fiscale per inasprire le pene per gli evasori. Se la Lega insiste per la “pace fiscale” fino a un milione di euro, il leader del Movimento 5 Stelle Luigi Di Maio chiede il carcere per chi non dichiara i suoi introiti al fisco. Le norme saranno inserite in un decreto che sarà collegato alla legge di Bilancio e che conterrà altre misure, tra cui in prima fila il condono del Carroccio, che consentirà di sanare alcune pendenze dei contribuenti. L’obiettivo è infatti quello di mettere a punto una legge di Bilancio snella, affiancata da diversi provvedimenti divisi per materia. Il carcere per chi evade nel nostro paese è comunque già previsto, per i reati di dichiarazione fraudolenta e dichiarazione infedele (ci sono poi altri casi che riguardano le false fatture o la distruzione di documenti contabili). L’intento del governo ora è di abbassare le soglie che attualmente sono di 1,5 milioni di euro evasi per il primo reato - che prevede pene dai 18 mesi ai 6 anni - e di 3 milioni per il secondo, con pena da uno a 3 anni di carcere. Nei restanti casi invece sono previste sanzioni amministrative, dato che si parla di illeciti tributari. I Cinque Stelle vorrebbero dunque abbassare le soglie, così da includere più casi e farli rientrare nell’ambito penale, e su questa misura sono a lavoro i tecnici del ministero dell’Economia. Trattativa sul condono “Non ci sarà nessuna pietà per chi cerca di fregare lo Stato e gli altri cittadini. In ogni caso i furbi non vanno premiati”, spiega il vicepremier Di Maio promettendo il decreto fiscale per la fine del mese. Nel provvedimento ci saranno misure soprattutto sul lato della spesa, mentre per le entrate ci sarà solo il condono, criticato dai Cinque Stelle. Quella che i leghisti chiamano “pace fiscale” riguarderà chi ha dichiarato al fisco una certa quantità di somme, senza poi pagare le tasse dovute per vari motivi. Il cosiddetto “saldo e stralcio” dei debiti con il fisco dovrebbe prevedere una soglia particolarmente alta, fino a un milione di euro, anche se i grillini chiedono che arrivi al massimo a 100 mila. La trattativa su questo punto continua, ma è possibile che in cambio di inasprimenti sulle pene per chi evade alla fine venga accolta la soglia chiesta dai leghisti. Per il Carroccio è possibile ricavare in questo modo almeno cinque miliardi, mentre per i Cinque Stelle non si arriverebbe a tre miliardi. Si tratta comunque di entrate che per l’esecutivo sono preziose, dato che la prima manovra del governo gialloverde prevede per lo più uscite e spese in deficit, rendendo particolarmente complessa la quadratura del cerchio, tra il reddito di cittadinanza dei grillini che richiede almeno dieci miliardi e il superamento della Fornero con l’introduzione di “quota 100” (62 anni di età e 38 di contributi), per cui a detta dei leghisti servono almeno 8 miliardi. Novità sul fisco Il pacchetto fiscale conterrà anche altre misure, anche in questo caso comunque sul fronte della spesa. Ci sarà la cosiddetta “flat tax” per le partite Iva, che in realtà è semplicemente l’ampliamento della platea di chi potrà beneficiare dell’aliquota al 15%. Se fino ad oggi infatti valeva per i ricavi fino ai 30 mila euro, con la manovra la soglia si alzerà fino ai 65 mila euro e riguarderà 1,5 milioni di autonomi. Il costo di questa operazione è di 1,5 miliardi. È stata esclusa invece la seconda aliquota al 20% fino ai 100 mila euro, che sarebbe stata troppo costosa per le casse dello Stato. Non dovrebbe essere toccata invece l’Irpef - come inizialmente promesso - che avrebbe aggravi di spesa non indifferenti. La “flat tax” sventolata dalla Lega in campagna elettorale in pratica è stata rinviata ai prossimi anni. Oltre a questo arriva un taglio di nove punti dell’Ires: l’aliquota ordinaria del 24% scende al 15% sugli utili reinvestiti in azienda per ricerca e sviluppo, macchinari e assunzioni. Il costo in questo caso si aggira intorno a un miliardo. Infine è prevista la cedolare al 21% per i nuovi contratti di affitto che riguardano i negozi sfitti nei centri delle città: il costo sarà di 150 milioni. Sanzione a misura di condotta di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 25 settembre 2018 Corte di cassazione - Sentenza 40986/2018. Il principio del favor rei prevale. In materia di successione di leggi penali, nel caso di una condotta posta in essere quando era in vigore una norma penale più favorevole, ma un evento determinante si è verificato quando la legge è cambiata in senso più severo, deve trovare comunque applicazione la disposizione applicabile al momento della condotta. Lo chiarisce la Corte di cassazione con la sentenza n. 40986 delle Sezioni unite penali depositata ieri. La pronuncia è intervenuta sul caso di un omicidio stradale: investimento di un pedone con decesso di quest’ultimo verificatosi a mesi dall’evento. Nel frattempo il trattamento sanzionatorio era cambiato per effetto dell’introduzione dell’omicidio stradale come reato autonomo (articolo 589 bis del Codice penale), mentre in precedenza la condotta era punita solo a titolo di aggravante. Le Sezioni unite hanno così sciolto un nodo interpretativo che aveva visto dividersi la Cassazione, con pronunce tese a valorizzare, rispetto alla soluzione adottata dalla sentenza di ieri, l’applicazione della legge in vigore al momento della consumazione del reato e, nel caso, il momento coincide con il verificarsi dell’evento. Ieri, invece, le Sezioni unite hanno sottolineato il principio di irretroattività della norma più sfavorevole, che riguarda, a rigore di Consulta, non solo le norme incriminatrici, ma anche tutte quelle che riguardano qualità e quantità della pena. Un principio cardine che fa salire in primo piano la necessità di una preventiva valutazione da parte dell’individuo delle conseguenze penali della propria condotta. “È dunque la condotta - osserva la pronuncia - il punto di riferimento temporale essenziale a garantire la “calcolabilità” delle conseguenze penali, e, con essa, l’autodeterminazione della persona”. Spostare in avanti l’azionabilità del principio di irretroattività, facendola coincidere con l’evento, avrebbe come conseguenza la sostanziale retroattività della disciplina penale più severa rispetto al momento in cui per la persona è effettivamente possibile calcolare le conseguenze penali della propria azione. Inoltre, aggiungono ancora le Sezioni unite, corroborano la scelta fatta anche considerazioni sulla natura della pena, che, anche in questo caso con riferimento a quanto segnalato a più riprese dalla Corte costituzionale. Si tratta di una sottolineatura di quella natura preventiva della sanzione per la quale ogni cittadino deve essere messo nelle condizioni di potersi adeguare o meno alla regola penale, subendone poi le conseguenze del caso. Reato di associazione con finalità di terrorismo: configurabilità della condotta di partecipazione Il Sole 24 Ore, 25 settembre 2018 Delitti contro la personalità dello Stato - Associazioni con finalità di terrorismo anche internazionale o di eversione dell’ordine democratico - Elementi costitutivi - Idea eversiva - Non è sufficiente. Ai fini della configurabilità del reato di cui all’art. 270 bis c.p., che è un reato di pericolo presunto, non basta l’idea eversiva se non è accompagnata da programmi, propositi, comportamenti violenti, che anzi riceve tutela proprio dall’assetto costituzionale democratico e pluralistico che essa, contraddittoriamente, mira a travolgere. Perché si configuri il reato è necessaria l’esistenza di una struttura organizzata, con un programma - comune tra i partecipanti - finalizzato a sovvertire violentemente l’ordinamento dello Stato e accompagnato da progetti concreti e attuali di consumazione di atti di violenza. • Corte di cassazione, sezione VI penale, sentenza 11 settembre 2018 n. 40348. Sicurezza pubblica e forze di polizia - Terrorismo - Reati contro la personalità dello Stato - Associazione con finalità di terrorismo anche internazionale - Partecipazione - Caratteristiche. Per la configurabilità della condotta di partecipazione a un’associazione con finalità di terrorismo internazionale (articolo 270 bis, comma 2, del c.p.) non è sufficiente l’adesione del singolo a proposte in incertam personam - quelle del sodalizio internazionale -, giacché l’adesione deve essere accompagnata dalla necessaria conoscenza, anche solo indiretta, mediata, riflessa di essa da parte della struttura internazionale, ossia è necessario che questa, anche indirettamente, sappia di avere a disposizione, di “poter contare” su un determinato soggetto. Diversamente si rischierebbe di considerare “partecipi” all’organizzazione internazionale (ad esempio, l’Isis) anche coloro che con lo Stato islamico non hanno nessun contatto, ovvero soggetti la cui esistenza è ignota al gruppo “madre”, che si limitino ad avere rapporti di mera condivisione di informazioni mediante i social network. • Corte di cassazione, sezione VI penale, sentenza 29 marzo 2018 n. 14503. Reati contro la personalità dello Stato - Associazione con finalità di terrorismo e di eversione - Attività di proselitismo ed indottrinamento - Insufficienza. L’attività di indottrinamento finalizzata al proselitismo non consente di ravvisare quegli atti di violenza il cui compimento costituisce specifico oggetto dell’associazione terroristica o eversiva. L’opera di indottrinamento può costituire elemento da cui desumere, quantomeno in fase cautelare, i gravi indizi di colpevolezza per il reato di partecipazione all’associazione di cui all’art. 270 bis c.p. a condizione che vi siano elementi concreti che rivelino l’esistenza di un contatto operativo reale tra il singolo e la struttura che consenta di tradurre in atti i propositi di violenza ideologica. • Corte di cassazione, sezione VI penale, sentenza 11 settembre 2018 n. 40348. Reati contro la personalità dello Stato - Delitti contro la personalità internazionale dello Stato - Associazioni sovversive - Elementi costitutivi - Indicazione - Mera attività di proselitismo - Configurabilità del reato - Esclusione - Fattispecie. Per la configurabilità del delitto di associazione con finalità di terrorismo anche internazionale è necessaria la sussistenza di una struttura criminale che si prefigga la realizzazione di atti violenti qualificati da detta finalità e abbia la capacità di dare agli stessi effettiva realizzazione, non essendo sufficiente una mera attività di proselitismo e indottrinamento, finalizzata a inculcare una visione positiva del martirio per la causa islamica e ad acquisire generica disponibilità a unirsi ai combattenti in suo nome. (Nella specie, la Corte ha ritenuto insussistente il delitto di cui all’articolo 270-bis cod. pen., individuando una serie di indici della limitata operatività del gruppo e sottolineando come l’attività di mero proselitismo e indottrinamento, potendo costituire precondizione ideologica per la costituzione di un’associazione terroristica, è valutabile ai fini dell’applicazione di misure di prevenzione). • Corte di cassazione, sezione V penale, sentenza 14 novembre 2016 n. 48001. Campania: il Garante “il carcere ha fallito, l’80% dei detenuti torna in cella” di Biagio Salvati Il Mattino, 25 settembre 2018 “Non vi scandalizzate, ma il carcere come azienda è fallita, perché quasi l’ottanta per cento di chi vi entra torna dietro le sbarre. L’altro 20 per cento di reclusi riesce a sfuggire di nuovo alla cella perché magari ha incontrato nel suo percorso una cooperativa, un volontario, un cappellano, un giudice che ha compreso la loro storia, qualcuno che ha dato loro una possibilità come una zattera in pieno mare”. Parole del Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale (i detenuti) della Regione Campania, Samuele Ciambriello che ieri ha presentato - nell’aula di Giurisprudenza di Santa Maria Capua Vetere - i dettagli due progetti al centro di una convenzione con l’Università della Campania Luigi Vanvitelli. Si chiamano “Diamo un calcio all’indifferenza” e “Vieni e vedi” le iniziative che coinvolgeranno gli studenti in Legge che vorranno aderire con partecipazione in tornei di calcio con i detenuti e con la visita nei penitenziari per toccare con mano la realtà carceraria. L’iniziativa è stata illustrata ieri alla presenza del professor Lorenzo Chieffi del Dipartimento di Giurisprudenza dell’ateneo; del professor Mariano Menna ordinario di Diritto processuale penale; del magistrato Marco Puglia giudice di sorveglianza del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere; dell’avvocatessa Mena Minafra referente per la Università della Campania Vanvitelli della convenzione e dei progetti e di Francese Perez Tortosa dell’Università di Malaga. Una presentazione trasformatasi anche in dibattito tra studenti e relatori (era presente il rappresentante degli studenti Michele Esposito) ed anche di tre studenti stranieri (di San Paolo e della Spagna) che stanno approfondendo il diritto penitenziario con la docente Minafra che si è soffermata tra l’altro sulla dignità della pena. Il professor Menna, invece, in un discorso giurisdizionale più ampio ha parlato della necessità di un organismo politico “cuscinetto” in determinate situazioni decisionali della magistratura. Molto profondo, come nel suo stile, l’intervento del giudice Marco Puglia che ha sottolineato come spesso “la stessa pena diventi genesi di un crimine” (recidiva). “La maggior parte delle persone -ha spiegato il magistrato -vede il carcere ed il detenuto con ostilità e ciò si traduce anche nelle scelte politiche tradotte, per esempio, nella mancata attuazione della riforma. Quest’iniziativa ha perciò la sua valenza perché rappresenta uno strumento di sensibilizzazione dal punto di vista sociale”. Il Garante ha sottolineato ancora una volta il problema della mancanza d’acqua nel carcere di Santa Maria soprattutto d’estate e quello del carcere femminile di Pozzuoli che i metri quadrati per cella più affollati d’Europa, ricordando la nota sentenza Torreggiani che fece sanzionare l’Italia. Orvieto (Pg): salvaguardare l’Istituto di Custodia Attenuata, un esempio in Italia di Gabriele Anselmi orvietonews.it, 25 settembre 2018 Sarebbe potuto essere un episodio di cronaca relegato alle pagine dell’edizione di una testata provinciale, ma dal dibattito sorto ha assunto un’utile riflessione sul delicatissimo concetto dell’erogazione della pena carceraria e del ruolo che la civiltà e la Costituzione affida a un istituto penitenziario. Il fatto accaduto in un ristorante del centro di Orvieto, dove un detenuto si è addormentato su un tavolo al termine di una giornata di lavoro, mezz’ora dopo le 22 a cui si sarebbe dovuto attenere per il rientro in cella, stimola in realtà importanti considerazioni da parte di chi non si sottrae al compito di essere componente attivo della società. La preoccupazione che deve emergere e che questo episodio non debba nuocere all’originale modello penitenziario in vigore a Orvieto perché sarebbe una sconfitta per il buonsenso, per la civiltà giuridica intesa come limite del potere e per la città. Già nel recente passato si era in tal senso manifestato un timore di fronte alla decisione della dirigenza carceraria di eliminare la presenza di maestri d’arte nell’indirizzo del lavoro dei detenuti. La giustificazione di un approccio autoritario per la limitazione dell’impiego esterno risulterebbe fatale per l’azione del Programma ICA (Istituto di Custodia Attenuata). Ecco perché è necessaria l’attenzione delle istituzioni e dell’opinione pubblica, ma ci troviamo di fronte un altro pericolo: l’indifferenza. Larghi strati dell’opinione pubblica si mostrano disinteressati al problema carcerario, come se non appartenesse all’evoluzione della comunità. Per questo appare risibile l’affermazione del sindacato della polizia penitenziaria secondo cui l’episodio avrebbe lasciato sgomenti gli orvietani. Per definire il diffuso agnosticismo che ci sta paralizzando, è stato formulato un efficace acronimo inglese, nimby che vuol dire “non nel mio cortile”, ovvero me ne frego di tutto ciò che non mi riguarda direttamente. E “nel mio cortile”, per la moltitudine, non c’è il carcere. Un egoistico disinteresse che finisce per assumere la forma mentale di contestazione contro ogni novità che il mondo globalizzato propone al “cortile”. Una sorta di sindrome del “no” che si esprime con il no Expo, no Tav, no trivellazioni, no gasdotti, no euro, no vaccini, no nucleare, no discariche. È così che ha preso corpo il relativismo culturale e con esso quello morale per il quale i giudizi di valori, le regole di condotta adottate da un gruppo sociale o da individui sono legati ai loro specifici bisogni e non hanno quindi alcun fondamento di assolutezza valida per ognuno. La delicatissima e complessa questione legata alla gestione della pena carceraria e del rapporto con la comunità esterna deve vedersela con questo problematico fenomeno generale che pone barriere ai già diffusi limiti mostrati da sempre dall’azione dell’amministrazione penitenziaria, per l’incapacità di eliminare la rozza tendenza d’interpretare i regolamenti con sterile spirito burocratico. Puntare il dito contro questa tendenza ce lo consente il dettato costituzionale, dal momento che il terzo comma dell’articolo 27 stabilisce la finalità rieducativa della pena poiché non può essere una vendetta, né una costrizione traumatica nel tentativo irrazionale e improbabile di far sorgere lo scrupolo a non commettere reati. Il problema, generalmente irrisolto, è stato avvertito in passato tanto che ha portato al varo della riforma del 1975 che si proponeva di recuperare questo principio costituzionale quasi dimenticato. I risultati sono stati, a dir poco, timidi. In quanti istituti di pena è stato accolto? Ad Orvieto sì, ed è motivo di soddisfazione, ma anche di responsabile impegno per tenere vivo e, se è possibile esaltare, ciò che prevede il Programma ICA: la fine della ghettizzazione e del regime di severe ed esemplari punizioni, spesso responsabili dell’acuirsi della predisposizione a delinquere perché dilata il contrasto inconscio o caratteriale nei confronti della convivenza civile. Non sono molti infatti gli istituti di pena con regime “aperto” come quello di Orvieto che permettono ai detenuti di svolgere un lavoro esterno integrato nella comunità. L’importanza dell’occasione è stata pienamente valutata dal Comune che ha promosso la sottoscrizione di una convenzione, assieme alla Casa di Reclusione e all’Ufficio Esecuzione Penale di Spoleto, per istituzionalizzare l’azione e la vita dell’ICA. La soddisfazione del Ministero della Giustizia è stata espressa in un documento nel quale si riconosce che “L’esperienza della custodia attenuata di Orvieto intende raggiungere l’obiettivo di iniziare dalla detenzione un percorso di recupero che riconduca l’autore di reato al contesto sociale, offrendogli l’opportunità di maturare e intraprendere una scelta di cambiamento attraverso concrete attività di lavoro, studio e formazione”. Se il concetto del lavoro divenisse regola generale, i 50 mila detenuti potrebbero divenire una risorsa economica per il Paese e non un peso finanziario. Senza eccessive illusioni, basterebbe che ogni comune utilizzasse qualche decina di detenuti dei 193 istituti di pena per iniziative socialmente utili e si avrebbero prospettive di grande rilievo. All’estero spesso questo accade. Chi va a Princeton non trova una foglia per terra, neppure in autunno, perché sono i detenuti a pulire viali e parchi. Se lo facessero anche a Roma! L’occasione dello sfortunato episodio del detenuto, reo di non essere stato capace di difendersi da un colpo di sonno, impone la riflessione sul valore umano e civile dell’adozione del Programma ICA e della sua difesa. Questo regime carcerario si è mostrato fondamentale per il futuro dell’individuo giudicato dalla legge che l’ha punito, ma nel contempo agisce per cancellare gli impulsi che l’hanno spinto a delinquere, sorti spesso in una realtà di degrado educativo e di convivenza in cui non hanno trovato posto principi capaci di creare le basi su cui nasce e si sviluppa la formazione responsabile di cittadino. La legge, espressione delle legalità e quindi della più alta definizione di civiltà, deve per questo dispensare giustizia e non inumana ritorsione, utilizzando violenze morali e strumenti legati alla sfera del crimine. Perché allora non ricordare le parole di Cesare Beccaria: “La morte dell’animo è perfino più dolorosa di quella della carne”. A dargli ragione sono i cento morti suicidi che si contano ogni anno nelle carceri italiane. È bene sottolineare un altro aspetto del problema che coinvolge l’intera comunità. Il recupero del detenuto non è solo una straordinaria vittoria morale, ma riguarda l’interesse dell’intera società perché, scontata la pena, lo accoglie con il beneficio di inserirlo nel tessuto produttivo. È a questo fine che s’inserisce il programma di apprendimento di un mestiere qualificato e remunerativo. Ma per essere qualificato ha bisogno di maestri a loro volta qualificati, altrimenti tutto diventerebbe arbitrario e superfluo. Rimandando il pensiero alla riforma del 1975 sarebbe auspicabile che il programma di recupero attuato a Orvieto fosse integrato da un programma culturale-formativo capace di rimuovere le macerie psicologiche e culturali dell’ambiente in cui il detenuto è spesso vissuto. A margine di quanto osservato, non deve apparire retorico soffermarsi su una riflessione che riguarda l’ambiente storico e culturale in cui la Casa di Reclusione è inserita. L’originalità degli sforzi fin qui compiuti onorano lo spirito del documento approvato dalla Conferenza generale dell’Unesco nel novembre 1972, e sottoscritto da ben 157 Stati membri, a favore di ciò che rappresenta Orvieto di fronte alla storia. Gli obiettivi dell’Organismo mondiale sono quelli di proteggere il patrimonio di grandi civiltà e culture, che sottolinei l’evoluzione della storia dell’uomo e ne segnali i grandi valori. L’altissimo privilegio dell’alto riconoscimento impone quindi che la città sappia essere degna degli attributi che l’Unesco ha additato come valori assoluti. Ebbene, battersi perché l’ICA possa essere sempre più valorizzata vuol dire operare al fine che questi principi vengano conservati e tutelati per il bene di cittadini che si trovano, al di là delle loro colpe, in gravi difficoltà e per il futuro della stessa città di Orvieto. Venezia: Carla Forcolin (Ass. “La Gabbianella ed altri Animali”) giudecchina dell’anno Il Gazzettino, 25 settembre 2018 Si è aperta con il celebre Premio nazionale di Pittura e la consegna del riconoscimento di Giudecchino dell’Anno 2018, la 37esima edizione della Settimana culturale nell’Isola per la Città, promossa dall’attivo Circolo Nardi alla Giudecca presieduto da Luigi Giordani. Lo scorso sabato i giurati Toni Toniato, Francesca Brandes e Maurizio Favaretto hanno scelto, dopo aver varato sessantasei opere in concorso, la “sapiente tecnica” di Caterina Margherita: la quale, nella tela A Torcello, ha recuperato “la tradizione dell’encauto, restituendo una laguna fantasmatica, espressa con essenzialità”. Secondo posto a Gianni Molin con La Piazza, la Basilica dal sottoportego, dominata da una intensa luminosità, e terzo a Cecilia Pavan con lo spaccato di vita veneziana Spesa in fondamenta. Targa della giuria (dedicata ad Elio Jodice) a Marina Jovon autrice di Marginalità e turismo, tecnica vicina alla riproduzione fotografica. Altrettanto atteso appuntamento domenica per il Giudecchino dell’Anno: “Abbiamo voluto riconoscere - ha spiegato il presidente Luigi Giordani - le non comuni doti sociali che contraddistinguono Carla Forcolin, riconoscendole la passione ed il sacrificio dimostrati in questi anni”. Diplomatasi maestra elementare nel 1967, poi laureata in pedagogia, per venticinque anni (gli ultimi dieci proprio alla Giudecca) la Forcolin ha insegnato Lettere alla scuola media. Importante nel 1999 il lavoro per l’associazione La Gabbianella ed altri Animali: tre bambini le furono affidati per un anno, poi un adolescente e due gemelli provenienti dal Carcere Femminile. Circa centoventi sono stati i bambini posti sotto tutela. Dal 2009, ogni estate La Gabbianella ed altri Animali apre uno spazio giochi nella spiaggia lidense di San Nicolò, dedicato principalmente ai bambini della struttura circondariale femminile; dal 2015 sono assistiti anche i figli piccoli di quella maschile di Santa Maria Maggiore. Una sua proposta di legge, volta a raccogliere l’esigenza di continuità degli affetti ai bimbi dichiarati adottabili, è stata approvata in Parlamento. “Per tutte queste ragioni - ha concluso Giordani di fronte ad una emozionata Carla Forcolin - il Circolo Nardi ha scelto una figura che al costante impegno sociale ed umanitario è riuscita a creare, nel tempo, profondi legami con l’isola della Giudecca ed i suoi abitanti”. Caserta: “Epoché”, in scena detenuti e magistrati per “sospendere il giudizio” di Ornella Esposito comunicareilsociale.com, 25 settembre 2018 Il 29 settembre alle ore 19.00 nella piazza di S. Maria Capua Vetere, nell’ambio della Settimana della Cultura, una compagnia teatrale sui generis, composta da detenuti, magistrati e operatori della giustizia, la prima in Italia, si esibirà nello spettacolo dal titolo “Epoché” (Sospesi) per la regia di Marco Puglia. La innovativa e, al momento, unica esperienza di uno spettacolo messo in scena dai detenuti e i loro giudici è nata circa due anni da un’idea del Magistrato di Sorveglianza Marco Puglia, con trascorsi attoriali, che ha trovato sponda nel laboratorio teatrale già attivo all’interno del penitenziario di S. Maria Capua Vetere. “L’arte è da sempre ritenuta - afferma Giovanna Tesoro, funzionario operante all’interno dell’istituto di pena e animatrice del laboratorio - un valido strumento di rieducazione per le persone sottoposte a misure restrittive della libertà perché consente loro di riflettere, contattare le emozioni, liberarsi. E la funzione rieducativa è l’obiettivo ultimo della pena”. L’esperienza sammaritana ha poi un valore aggiunto altissimo: i detenuti si avvicinano ai loro giudici, quelli dai cui dipendono alcune decisioni che li riguardano, abbattendo così l’idea immaginifica del giudice chiuso nelle sua stanza; i magistrati, di contro, hanno la possibilità di conoscere da vicino le persone di cui si occupano e non soltanto attraverso la carta bollata. “Questa esperienza è molto bella - dichiara il Magistrato di Sorveglianza Marco Puglia - perché mi ha permesso di entrare in contatto profondo con i detenuti, uno dei quali mi ha particolarmente commosso quando, dietro le quinte, ha detto che per la prima volta sentiva di essere nel posto giusto”. Lo spettacolo è un viaggio, attraverso le opere di Raffaele Viviani, Bob Dylan, William Shakespeare, Dante Alighieri, Giorgio Gaber, che racconta cosa abbia significato e cosa significhi oggi l’esperienza carceraria. Il titolo reca già in sé un messaggio preciso: epoché in greco significa sospensione del giudizio, una sospensione necessaria fino a quando non si hanno elementi sufficienti per esprimerlo. In senso più ampio “Epoché” vuole soffermarsi sull’importanza della seconda opportunità, di un’altra chance, e sul dovere di offrirla. “Siamo alla nostra quarta rappresentazione - continua il magistrato-regista - e volutamente ci siamo esibiti fuori dal carcere, perché il nostro primario intento è sensibilizzare la società civile sul tema della rieducazione del condannato e sulle possibili alternative al carcere, che non eliminano la pena ma lo aiutano “solo” a costruirsi un progetto di vita diverso dal precedente”. E a crederci nella possibilità del cambiamento sono state anzitutto le Istituzioni - il Presidente del Tribunale di Sorveglianza di S. Maria Capua Vetere, l’ufficio di sorveglianza (Oriana Iuliano, Filomena Capasso, Lucia De Micco), il Direttore dell’Istituto di Pena - senza le quali “Epoché”, e tutto quello che a più livelli vuole significare, non avrebbe mai visto luce. Ferrara: Internazionale incontra il carcere, ben 130 richieste estense.com, 25 settembre 2018 Appuntamento in via Arginone per conoscere i detenuti artisti e giornalisti. Ha già riscosso un grande successo in termini di interesse l’evento “La città incontra il carcere” inserito nel programma ufficiale del festival di Internazionale a Ferrara. L’incontro presso la casa circondariale di via Arginone, aperto alla cittadinanza, ha visto l’iscrizione di ben 130 persone di cui solo 80 potranno entrare a causa della capienza della sala. Il programma si aprirà alle 18 con una visita guidata del pubblico esterno, dei giornalisti, degli operatori e delle autorità locali alla “Mostra fotografica e di pittura” realizzata con i lavori delle persone detenute che hanno partecipato ai laboratori di fotografia e di pittura organizzati all’interno dell’istituto penitenziario. Seguirà, dalle 19 alle 20, un incontro con i detenuti della redazione di Astrolabio, il giornale del carcere di Ferrara. Il comitato di redazione, composto da detenuti e da un curatore, incontrerà i giornalisti e i cittadini per un confronto sul tema della comunicazione. Roma: “Frammenti di Libertà”, gli scatti dei detenuti di Rebibbia in mostra themammothreflex.com, 25 settembre 2018 Sabato 13 e domenica 14 ottobre la III Casa Circondariale di Rebibbia ospiterà la mostra fotografica “Frammenti di Libertà” opera dei detenuti dello stesso carcere. La mostra è il risultato finale del progetto Scatto Libero, nato nel 2016 da un’idea della fotografa Tania Boazzelli, pensato e condotto appositamente per i detenuti del carcere di Rebibbia (Roma). Lo scopo dell’iniziativa è quello di far conoscere le potenzialità del mezzo fotografico a coloro che non hanno opportunità di utilizzarlo. Ogni detenuto ha avuto a disposizione una macchina, un rullino fotografico e la possibilità di scattare negli spazi comuni del carcere. Uno scatto libero per raccontarsi e trasmettere un messaggio personale che impressioni la pellicola, ma anche gli occhi e la sensibilità dello spettatore. L’associazione - Scatto Libero è un’associazione no-profit, nata nel 2016 da un’idea della fotografa professionista Tania Boazzelli, che opera attraverso un progetto formativo all’interno del carcere di Rebibbia per far conoscere la fotografia su base sia teorica che pratica ai detenuti, perché vengano sostenuti creativamente nel difficile compito di dover rieducare se stessi. Il progetto fornisce concreto sostegno alle istituzioni nella creazione di nuove prospettive culturali per il futuro di fasce socialmente più svantaggiate e problematiche. Per questo dedica ai detenuti della 3a Casa una serie di incontri a cadenza bisettimanale e fornisce a proprio carico materiale didattico, macchine e rullini, apparecchiatura tecnica di sostegno, materiale di sviluppo e quanto sia utile per il corso a supporto dei partecipanti. I lavori confluiscono in mostre fotografiche, finanziate dalle donazioni per l’associazione, a esposizione delle competenze maturate. Frammenti di libertà. Dove: III Casa Circondariale di Rebibbia, via Bartolo Longo 82, Roma (Muro di cinta della casa Circondariale). Orari mostra: Sabato 13 ottobre dalle 15 alle 19; domenica 14 ottobre: dalle 10 alle 13. Ingresso: gratuito. Varese: più di cento libri nuovi per gli ospiti del carcere Miogni varesenews.it, 25 settembre 2018 Erano più di cento i libri nuovi - per un valore di circa 2000 euro - che questa mattina, 24 settembre 2018, sono stati consegnati alla biblioteca del carcere di Varese dall’associazione “Un’altra storia”. Un’iniziativa che l’associazione, in collaborazione con Sherazade e di alcuni attivisti Potere al Popolo, ha fatto partire all’inizio del 2018, è stata in fase di raccolta nella primavera dello stesso anno e ora è arrivata al momento della consegna. “La raccolta dei libri ha funzionato come una “lista nozze” - spiega Giuseppe Musolino, referente di Un’Altra storia”, e fino a poco tempo fa insegnante nel carcere di Varese - A inizio anno gli ospiti hanno stilato una lista di volumi che potevano interessare particolarmente, a primavera abbiamo cominciato a raccoglierli. Per quello, dobbiamo ringraziare la disponibilità innanzitutto della libreria Ubik, ma anche della libreria Feltrinelli e persino al colorificio Gattoni: ci avevano chiesto infatti manuali per imparare o perfezionarsi nel disegno, ed è stato possibile acquistarli da loro”. I più grandi ringraziamenti però “Vanno ai donatori, che hanno permesso di acquistare cosi tanti libri. In particolare, dobbiamo ringraziarne uno anonimo, sconosciuto anche a noi, che ci ha regalato centinaia di euro in libri”. Ad accogliere con entusiasmo questa nuova “imbarcata” di divertimento e sapere c’erano il neoresponsabile (dal primo settembre scorso) dell’area circondariale di Varese, Domenico Grieco, e tre ospiti dei Miogni: il bibliotecario Sante, l’aiutante e appassionato di libri Umberto, e il giovane Alae Eddine, rappresentante della commissione attività culturali. Tra i libri più attesi c’erano il codice penale e il codice di procedura penale aggiornato “Perché molto spesso vengono in biblioteca per saperne di più sui capi di imputazione ricevuti, o su norme che sono state loro citate: e il codice più nuovo presente in biblioteca è datato 2009”. Ma anche libri di cucina e letteratura, con predilezione per i gialli. Nel pacco, anche fumetti e libri illustrati “Per invogliare la lettura, propria o anche dei figli in visita”. “Un’altra storia” mantiene aperto il canale di fornitura di libri, anche perché “Aprire una scuola o una biblioteca significa chiudere un carcere”. Tra i prossimi desiderata ci sono libri in lingua araba o albanese (Per i tanti ospiti del carcere di quelle nazioni) e libri di criminologia, o storie vere di crimini. Migranti. Ecco il decreto: stop alla protezione dopo la prima condanna Il Sole 24 Ore, 25 settembre 2018 Via libera all’unanimità del Consiglio dei ministri al decreto che ha unificato i precedenti testi su sicurezza e migranti. Dopo il rinvio di giovedì 20 settembre e una trattativa con il Colle sui contenuti che avrebbero potuto sollevare dubbi di costituzionalità, con una serie di limature - alcune dell’ultimo minuto - per accorpare i due testi iniziali in un unico provvedimento - scatta il semaforo verde per il “pacchetto sicurezza”. Le misure per gestire l’immigrazione sono il tema forte del decreto. “Per i richiedenti asilo lo stop alla domanda si avrà in caso di pericolosità sociale o condanna in primo grado. Questa è stata una delle mediazioni raggiunte e suggerite”, ha spiegato il vicepremier e responsabile del Viminale Matteo Salvini, che ha illustrato le misure in una conferenza stampa al termine della riunione del Cdm. “L’obiettivo - ha affermato - è chiudere tutti i campi rom entro la fine della legislatura”. Tra le misure previste nel pacchetto, la revoca della cittadinanza concessa agli stranieri di fronte a condanna definitiva per terrorismo internazionale e, appunto, la sospensione della domanda d’asilo per cause legate all’ordine pubblico (la disposizione si applica ai migranti con condanna in primo grado per reati come spaccio di droga, violenza sessuale, violenza a pubblico ufficiale e lesioni gravi). “Saranno sei le fattispecie che renderanno possibile l’ingresso nel nostro paese per motivi umanitari - ha spiegato ancora Salvini -: l’ingresso è consentito alle vittime di grave sfruttamento, per motivi di salute, violenza domestica, calamità, cure mediche e atti di particolare valore civile”. Lo Sprar (Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati, ndr) “continuerà ad esistere per rifugiati e minori non accompagnati, cioè per le fattispecie che meritano di essere accolte”, ha affermato. Una nota di Palazzo Chigi ha chiarito che il provvedimento prolunga da 90 a 180 giorni la durata massima del trattenimento dello straniero nei Centri di permanenza per il rimpatrio e prevede la possibilità di procedere per l’esecuzione dei lavori di costruzione o ristrutturazione dei Centri per i rimpatri attraverso procedure negoziate, per lavori di importo inferiore alle soglie comunitarie in un arco temporale di tre anni. Nei piani del governo la stretta sui migranti dovrebbe liberare risorse, che potrebbero essere utilizzate per la copertura delle misure che entreranno nella manovra. “I 35 euro a migrante stanziati per l’accoglienza verranno rivisti in base alla media europea con un netto taglio alle spese che porterà un risparmio medio annuo di un miliardo e mezzo di euro”, ha chiarito Salvini. Al fianco del segretario federale del Carroccio in conferenza stampa, il premier Giuseppe Conte. “Continueremo ad assicurare il sistema di protezione, evitiamo solo gli abusi. In Italia c’è stata accoglienza indiscriminata e la normativa ha assecondato tutto questo”, ha aggiunto il capo del governo. Per quanto riguarda le disposizioni in materia di sicurezza, viene consentito anche alla Polizia municipale di utilizzare in via sperimentale armi comuni ad impulso elettrico. Si predispongono poi misure finalizzate al contrasto del fenomeno delle occupazioni arbitrarie di immobili, attraverso l’inasprimento delle pene fissate nei confronti di promotori o organizzatori dell’invasione, nonché con la possibilità, nei confronti degli stessi, di disporre intercettazioni. Il Cdm è iniziato in ritardo, in quanto è stato preceduto, questa mattina da un vertice, sempre a Palazzo Chigi, tra Conte, i due vicepremier, Luigi Di Maio e Salvini, i ministri Giovanni Tria, Paolo Savona e il sottosegretario Giancarlo Giorgetti. Tema: la manovra. Entro questa settimana il governo dovrà varare la nota di aggiornamento al Def che prelude alla legge di bilancio. Tornando al decreto sicurezza, la forma del pacchetto è quella di un corposo decreto legge (44 articoli). “Per una questione di rispetto il decreto su sicurezza e immigrazione verrà consegnato al Quirinale un’ora dopo del decreto Genova”, ha chiarito il ministro dell’Interno.Il provvedimento esprime la svolta securitaria più volte messa in evidenza da Salvini. “In un quadro di assoluta garanzia dei diritti delle persone e dei Trattati, andiamo a operare una revisione per una disciplina più efficace”, ha chiarito Conte. “Ci sono norme contro la mafia e il terrorismo”, ha aggiunto. Quanto ai rilievi del Colle, il capo del Governo ha ricordato che “quando c’è un decreto, cortesia istituzionale prevede che si anticipi i contenuti e un testo. Cosa che è stato fatto anche in questo caso. C’è stata una interlocuzione. Non dico che Mattarella abbia approvato eccetera, non sarebbe rispettoso del galateo istituzionale... Il Presidente avrà tutto l’agio di fare eventuali rilievi”. Da parte sua Salvini ha ricordato che il provvedimento “non è blindato” e che il via libera, all’unanimità, dimostra che non ci sono state distanze su questo tema nella coalizione giallo verde. “Non lediamo nessun diritto fondamentale - ha sottolineato Salvini -: se entri a casa mia e spacci ti accompagno da dove sei arrivato. Se sei condannato in via definitiva è di buon senso toglierti al cittadinanza. È stato il decreto più condiviso, più modificato della storia almeno di questo governo”, ha aggiunto. Il Consiglio dei ministri, ha spiegato il ministro dello Sviluppo economico e del Welfare Di Maio, ha nominato come direttore dell’Ispettorato nazionale del lavoro il generale dei carabinieri Leonardo Alestra. “Alestra - ha ricordato il vicepremier - è stato comandante provinciale dei carabinieri in Calabria - terra di mafia e caporalato - e capo del nucleo tutela del lavoro”. Profughi, Salvini mette limiti alla protezione di Carlo Lania Il Manifesto, 25 settembre 2018 Via libera al decreto sicurezza e immigrazione: Il ministro: “Non è un provvedimento blindato”. Rischio boom irregolari. Rispetto alle bozze del decreto circolate nelle scorse settimane appaiono attenuate alcune misure repressive nei confronti di chi ha già ottenuto lo status di rifugiato, al quale potrà essere revocata la protezione internazionale solo in caso di condanna definitiva per una serie di gravi reati. Ma tra i rilievi fatti pervenire nei giorni scorsi all’esecutivo dai tecnici del Quirinale, questo sembra essere l’unico ad essere stato recepito. Per essere però subito controbilanciato da una forte contrazione delle garanzie per chi la domanda di asilo l’ha solo presentata ed è in attesa di una risposta da parte delle commissioni territoriali, misura che viene accompagnata con analoghi provvedimenti di sospetta incostituzionalità oppure che, come l’abolizione del permesso umanitario e la limitazione del Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati (Sprar) rischiano di provocare un aumento degli immigrati irregolari, praticamente impossibili da rimpatriare e per questo condannati alla clandestinità. Annunciato più volte come imminente, il decreto Salvini su immigrazione e sicurezza è stato approvato ieri all’unanimità dal consiglio dei ministri e potrebbe arrivare oggi all’esame del Colle, subito dopo il decreto urgenze su Genova. “Non è un decreto blindato” ha tenuto a specificare il ministro degli Interni, consapevole del malumore esistente tra gli alleati grillini per alcune delle misure contenute nel provvedimento, tanto da ricordare che il parlamento potrà intervenire per eventuali modifiche. E le mani avanti le mette anche il premier Conte ricordando a sua volta come il testo del provvedimento sia stato anticipato al Quirinale. “C’è stata un’interlocuzione”, spiega Conte al termine del consiglio dei ministri. “Non dico che Sergio Mattarella abbia approvato, non sarebbe rispettoso del galateo istituzionale. Il presidente avrà tutto l’agio di fare eventuali rilievi”. Precisazione che non mette al riparo il governo da possibili critiche. Tra le misure destinate a suscitare polemiche c’è l’abrogazione della protezione umanitaria, sostituita da un permesso temporaneo riconosciuto solo per casi eccezionali. Sei sono quelli previsti dal decreto: atti di particolare valore civile, grave sfruttamento lavorativo, violenza domestica, eccezionali calamità naturali e, infine, motivi di salute di eccezionale gravità. Giro di vite anche per quanto riguarda il tempo in cui è possibile trattenere un migrante all’interno dei Centri per il rimpatrio (Cpr) e che può essere prolungato fino a 180 giorni, in linea con quanto già previsto da una direttiva europea del 2008. Trenta giorni è invece il tempo durante il quale un richiedente asilo può essere trattenuto in un hotspot al fine di accertarne l’identità e la nazionalità. Anche in questo caso, però, se dovessero sorgere difficoltà nell’identificazione la detenzione può essere prolungata fino a sei mesi. Prevista anche la possibilità di detenere i migranti in “strutture nella disponibilità della pubblica sicurezza”, come ad esempio caserme e commissariati, in caso di mancanza di posti nei Cpr. Al migrante espulso è inoltre vietato il rientro non solo in Italia ma in tutti i Paesi dell’area Schengen. Altro punto delicato riguarda la possibilità di negare o addirittura revocare la protezione internazionale. Il decreto amplia la fattispecie di reati per i quali questa misura è possibile inserendo reati di allarme sociale come la violenza sessuale, la produzione, il traffico e la detenzione a uso non personale di sostanze stupefacenti, rapina ed estorsione, violenza o minaccia a pubblico ufficiale (inizialmente era prevista anche la resistenza), lesioni personali gravi o gravissime, la mutilazione degli organi genitali femminili nonché il furto e il furto in abitazione aggravati dal porto di armi. Per quanti riguarda i richiedenti asilo, invece, è previsto che l’esame della domanda di protezione possa essere sospeso nel caso il migrante abbia commesso un reato. “Basterà una condanna di primo grado”, ha spiegato Salvini. In realtà nel testo decreto, almeno in quello circolato fino a ieri sera, non si fa cenno a eventuali condanne ma è prevista la sospensione dell’esame della domanda di asilo anche per il semplice avvio di un procedimento penale con conseguente obbligo di lasciare il territorio nazionale. In caso di sentenza definitiva di assoluzione, l’interessato avrà 12 mesi di tempo per chiedere che la commissione riavvii l’esame della domanda di asilo. Novità anche per quanto riguarda il Sistema di protezione richiedenti asilo e rifugiati (Sprar) gestiti dai Comuni. In futuro potrà accedervi solo coloro che avranno avuto riconosciuta la protezione internazionale e i minori non accompagnati. Tutti gli altri saranno destinati ai Centri di accoglienza straordinaria (Cas) con il rischio di creare megacentri destinati e tensioni con le popolazioni locali. L’Ue deferisce la Polonia alla Corte di giustizia: “A rischio l’indipendenza dei magistrati” di Emanuele Bonini La Stampa, 25 settembre 2018 La Commissione parla di “Minaccia sistemica” dello stato di diritto: leso il principio della separazione dei poteri. La Polonia alla sbarra per “minaccia sistemica” dello stato di diritto. La Commissione europea ha deferito il governo di Varsavia alla Corte di giustizia europea per la riforma del sistema giudiziario che, secondo Bruxelles, lede il principio della separazione dei poteri nella misura in cui intacca l’indipendenza della magistratura. La modifica del quadro normativo rischia di costare caro all’esecutivo di Mateusz Morawiecki, visto che in prospettiva si profila l’eventualità di multe. L’esecutivo comunitario, nell’inviare le carte all’Alta Corte, ha chiesto ai giudici di Lussemburgo di esprimersi con procedimenti accelerato. Si vuole una sentenza in tempi rapidi, così da porre fine a una storia che si trascina da troppo tempo. La decisione del collegio dei commissari ripropone lo scontro tra Unione europea e Stati membri dell’est, dopo che il Parlamento europeo ha approvato la richiesta di attivazione delle procedure sanzionatorie contro l’Ungheria, sempre per politiche ritenute contrarie al rispetto dello stato di diritto. Si tratta dell’articolo 7 del trattato su funzionamento dell’Ue, che prevede addirittura la sospensione del diritto di voto in Consiglio. Una misura che per la Polonia il team Juncker ha chiesto di attivare a dicembre. Rischio “grave e irreparabile” in Polonia - Entrata in vigore il 3 aprile di quest’anno, la nuova legge polacca abbassa da 70 a 65 anni l’età pensionabile per i giudici della Corte suprema. Circa un terzo dei componente dell’Alta corte polacca (27 membri su 72) rischia di fatto il pensionamento d’ufficio. Ciò vale anche per il presidente, che potrebbe quindi terminare in anticipo il suo mandato. A preoccupare Bruxelles è anche “l’accelerazione” che sta conoscendo il processo di pensionamento dei giudici. Si teme che in questo modo si incorra nel rischio di “pregiudicare in modo grave e irreparabile l’indipendenza della magistratura in Polonia e quindi l’ordinamento giuridico dell’Ue”. Procedura d’infrazione mai chiusa, da Varsavia nessuna risposta - La posizione della Commissione europea non è nuova. Ha avviato per questi motivi una procedura d’infrazione ad aprile, e in questi mesi il vicepresidente Frans Timmermans si è speso in prima persona in un dialogo con le autorità polacche per evitare di portare fino in fondo il dossier. I tentativi non hanno però sortito alcun effetto. Il governo polacco, spiega l’esecutivo comunitario, non ha fatto marcia indietro, e “non ha fugato le preoccupazioni espresse dalla Commissione dal punto di vista giuridico”. Da qui la decisione di mettere lo Stato membro sul banco degli imputati. Cosa rischia la Polonia - In questo momento la Polonia non rischia nulla, a livello pratico. Le procedure d’infrazione che arrivano alla Corte possono vedere o assoluzione o condanna dell’imputato. In questa seconda ipotesi la sentenza chiede di conformarsi al diritto dell’Unione. È solo in un secondo momento, quando lo Stato membro dovesse non rispettare la sentenza, che scatterebbero multe. Solitamente è la Commissione europea che propone gli importi, in base a diversi fattori (gravità del reato e durata della situazione illecita), ma la Corte può decidere di modificarli. Dossier in Consiglio e in Corte, scontro Ue-Polonia è totale - La Commissione europea a dicembre ha chiesto di attivare i meccanismi sanzionatori contro la Polonia ai sensi dell’articolo 7, lo stesso attivato contro l’Ungheria dal Parlamento europeo in occasione dell’ultima sessione plenaria. L’esecutivo comunitario aveva contestualmente minacciato di portare Varsavia di fronte ai giudici di Lussemburgo, come fatto oggi. Il team Juncker si dice sempre disposto a dialogare con l’esecutivo polacco, nella speranza che il dialogo sin qui tra sordi possa iniziare a produrre degli effetti. Stati Uniti. I 1.500 bambini immigrati scomparsi di Roberta Zunini Il Fatto Quotidiano, 25 settembre 2018 Il fallimento dell’ente che doveva vigilare sui minori arrivati soli o divisi dai genitori. In Texas, nella città di Browswille, al confine con il Messico, un centro commerciale dismesso della catena Walmart ospita ben 1.470 minori. È il centro governativo per ragazzi (la maggioranza tra i 10 e i 16 anni) più affollato degli Usa, sotto la custodia dell’Health and Human service. Molti di questi minori hanno passato il confine da soli, altri sono stati separati dai loro genitori dopo la decisione di Trump di far perseguire dai tribunali chi entra negli Usa senza documenti. Nel centro i minori hanno due ore di libertà e alcuni sono riusciti a scappare pur di non vivere sotto sorveglianza. Chi riesce a uscire senza fuggire è perché gli incaricati federali sono riusciti a trovare dei parenti residenti negli Usa o i cosiddetti sponsor, persone che hanno mostrato, a sentire gli ufficiali federali, di avere le carte in regola per l’affido temporaneo. Peccato che di 1.500 bambini, tra quelli messi al “riparo” nelle strutture statali, si siano perse le tracce. L’amministrazione Trump, per la seconda volta in meno di un anno, non è stata in grado di individuare dove e con chi circa 1.500 bambini immigrati irregolarmente abbiano trascorso gli ultimi 3 mesi. La cifra è stata resa nota da un gruppo bipartisan di senatori che hanno messo a punto un disegno di legge per rendere il governo responsabile della custodia di questi bambini anche dopo il loro rilascio. Negli ultimi 8 mesi la polizia di frontiera ha fermato 32mila minori non accompagnati, 1.300 poco più che neonati. Intanto il numero di quelli accompagnati è sceso a 59mila a partire dall’anno scorso. Dal 1 ° aprile al 30 giugno, l’Hhs ha effettuato chiamate di controllo a 11.254 bambini immigrati rilasciati ma non è stata in grado di sapere dove sia il 13%, rivelano i dati rilasciati dalla sottocommissione investigativa del comitato di senatori. Venticinque sarebbero fuggiti dalle case dove erano stati trasferiti. Rob Portman, presidente della sottocommissione, si occupa di questo enorme problema dal 2015, quando 8 bambini privi di documenti sono stati scoperti nelle mani di trafficanti di esseri umani in Ohio: “Il nostro disegno di legge garantirà che i minori vengano protetti dalla tratta e dagli abusi di eventuali sponsor e inoltre contribuirà ad assicurare che compaiano davanti alle commissioni incaricate di aiutarli a chiedere l’asilo”, ha detto Portman in una nota. “Non si tratta di essere democratici o repubblicani, è una soluzione pragmatica oltre che umanitaria. I problemi sono iniziati durante la precedente amministrazione e sono continuati sotto l’attuale”. Uno dei co-sponsor della legge, il senatore James Lankford, repubblicano dell’Oklahoma, ha detto in un’audizione di martedì che vorrebbe anche che l’Hhs non affidi più bambini senza documenti a nessuno che sia entrato negli Usa illegalmente. Un funzionario dell’immigrazione e delle dogane che ha testimoniato, Matthew Albence, ha affermato che eliminerebbe circa l’80% degli sponsor. Il numero di bambini immigrati detenuti negli Stati Uniti è salito alle stelle, sebbene il tasso di minori non accompagnati che attraversano illegalmente la frontiera sia relativamente stabile da diversi anni. Libia nel caos: mezzo milione di bambini a rischio a Tripoli corrierenazionale.it, 25 settembre 2018 Allarme dell’Unicef: già 8 minori uccisi nelle ultime settimane in Libia. Oltre 1200 famiglie sfollate negli ultimi due giorni a causa dell’intensificarsi degli scontri nella parte meridionale di Tripoli. “Siamo sconvolti e rattristati dalle notizie secondo cui un’intera famiglia, fra cui due bambini, è stata uccisa a Tripoli ieri a causa della caduta di un missile sulla loro casa. Quanto accaduto porta a 8 il numero totale di bambini uccisi dall’inizio delle violenze, il 27 agosto, nella città di Tripoli. Molti altri bambini stanno affrontando molteplici e gravi violazioni dei diritti dei minorenni”. A lanciare l’allarme è Geert Cappelaere dell’Unicef. Secondo le notizie, un numero maggiore di bambini è stato reclutato per combattere, esponendoli a un pericolo immediato. A causa di ciò, almeno un bambino è stato ucciso. Oltre 1.200 famiglie sono state sfollate solo nelle ultime 48 ore a causa dell’intensificarsi degli scontri nella parte meridionale di Tripoli, portando il numero totale di sfollati a oltre 25.000. Secondo le stime dell’Unicef, la metà sono bambini. La mancanza di cibo, acqua ed energia elettrica è fra le sfide quotidiane che i bambini e le famiglie affrontano. Nel paese è in corso un’epidemia di morbillo, con oltre 500 casi segnalati - la maggior parte dei quali bambini. Una sempre maggiore mancanza di servizi sanitari pienamente operativi porterà soltanto a ulteriori casi di morbillo. Ancora altre scuole vengono utilizzate per offrire un riparo alle famiglie sfollate, e questo probabilmente ritarderà l’inizio dell’anno scolastico, previsto per il 3 ottobre. Per i bambini migranti in transito attraverso la Libia, questa violenza sta aumentando le loro già profonde sofferenze. Centinaia di rifugiati e migranti detenuti, fra cui bambini, sono stati costretti a trasferirsi a causa delle violenze. Altri sono bloccati nei centri in condizioni disperate. L’Unicef sta lavorando per fornire aiuti d’emergenza a questi bambini e continua a chiedere il loro rilascio. “L’Unicef chiede a tutte le parti in conflitto in Libia di proteggere i bambini, sempre. La soluzione ai recenti scontri e alla crisi in Libia non si ottiene attraverso la violenza, ma attraverso la diplomazia e gli accordi politici, tenendo al centro l’interesse dei bambini”. Il premio Nobel alternativo a tre attivisti sauditi La Repubblica, 25 settembre 2018 Abdullah al-Hamid, Mohammad Fahad al-Qahtani e Waleed Abu al-Khair, promotori dei diritti umani e attualmente in carcere in Arabia Saudita, hanno ricevuto il premio assegnato ogni anno in Svezia a chi si batte per un mondo migliore. È andato a tre dei più importanti attivisti sauditi il Right Livelihood Awards, il cosidetto premio Nobel per la Pace alternativo che viene assegnato ogni anno a Stoccolma. Ad Abdullah al-Hamid, Mohammad Fahad al-Qahtani e Waleed Abu al-Khair sarà assegnato un premio di 1 milione di corone (circa 97.000 euro) “per i loro sforzi visionari e coraggiosi, guidati dai principi universali dei diritti umani, per riformare il sistema politico autoritario in Arabia Saudita”. L’assegnazione arriva in un momento in cui il regno è sotto attacco da parte degli attivisti dei diritti civili di tutto il mondo: se da una parte il principe ereditario Mohammed Bin Salman, che nei fatti guida il Paese, dice di voler aprire la nazione, dall’altra nell’ultimo anno gli arresti di attivisti, oppositori, giornalisti e religiosi si sono moltiplicati. Ultime a finire in carcere le attiviste che per anni hanno combattuto per l’abolizione del divieto di guida per le donne, arrestate proprio pochi giorni prima della fine del divieto stesso: fra loro, la ex moglie di Abu al-Khair, Samar Badawi. I premiati sono stati definiti tra i più importanti difensori dei diritti umani in Arabia Saudita: “Nonostante occupino una posizione privilegiata nella società, hanno deciso di non rimanere in silenzio di fronte alle palesi ingiustizie di cui sono testimoni nel loro Paese. Le loro richieste, tutto fuorché estreme, sono criminalizzate dalle autorità saudite. Nonostante il rischio, tutti e tre sono rimasti fermi e determinati nel loro desiderio di un’Arabia Saudita più giusta per tutti”, si legge nel comunicato. Al-Hamid e al-Qahtani sono stati tra i fondatori della Associazione saudita per i diritti civili e politici (Hasem). Nel 2013 sono stati condannati rispettivamente a 11 e 10 anni di carcere. Poco dopo, la stessa sorte è toccata a molti altri attivisti dell’associazione. Al-Khair, avvocato, difensore di Raif Badawi, blogger condannato al carcere e alla fustigazione per i suoi post, è stato arrestato nel 2014 per aver firmato una petizione in favore di riforme nel regno. È stato in seguito condannato a 15 anni di carcere per aver “disobbedito al sovrano” e “messo in pericolo la reputazione dello stato attraverso contatti con organizzazioni internazionali”. Creato nel 1980 dal filantropo ed ex europarlamentare svedese Jacob von Uexkull, il premio non prevede categorie ed è rivolto “a chi lavora e si batte per un mondo migliore”, obiettivi che il fondatore riteneva ignorati dalla cerimonia del Nobel.