Donne in carcere di Onelia Onorati Il Foglio Vivono in spazi concepiti per gli uomini, spesso senza programmi di prevenzione medica, né figure di mediatori linguistici. Le donne recluse in Italia sono una percentuale molto più bassa degli maschi e scontano una forte disattenzione. 2.500 - Le donne oggi detenute in Italia, pari al 4,3 per cento dell’intera popolazione carceraria (dati di agosto del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria). Tra le difficoltà denunciate dall’Associazione Antigone ci sono carenze di personale (Venezia) sovraffollamento e strutture fatiscenti (Pozzuoli), mancanza di figure di mediatori culturali per le straniere (Rebibbia). 134 - Le donne detenute per associazione di stampo mafioso secondo i dati di una ricerca svolta da Antigone sul 2017. 97 - Le donne detenute per reati di prostituzione, di cui 86 straniere. 52 - Le mamme attualmente recluse nei penitenziari italiani. Alcune sono in istituti solamente femminili (cinque quelli esistenti: si trovano a Empoli, Pozzuoli, Roma, Trani e Venezia). Il resto delle detenute vive in reparti ad hoc all’interno di istituti di pena maschili. 5 - Gli Icam, cioè gli Istituti a custodia attenuata per detenute madri, che rispettano meglio le esigenze dei minori, assumendo le caratteristiche di un asilo. A Milano è stato aperto il primo nel 2007, seguito da Venezia, Senorbì (in provincia di Cagliari), Lauro (Avellino) e Torino. I bambini possono rimanere con le mamme fino a 6 anni. In altri istituti, come nel caso di Rebibbia a Roma, sono previsti solamente asili nido all’interno delle sezioni femminili. 62 - I bambini che vivono reclusi con le madri, sempre secondo quanto ha riportato ad agosto il Dap. Le 52 madri sono per metà italiane e per metà straniere. In marzo erano qualcuna in più: 58 con 70 bambini. Nelle sezioni “nido” i bambini possono restare a vivere con le madri fino ai tre anni, poi passano alle celle ordinarie. 13 - Le madri che stanno scontando attualmente la loro pena nel carcere di Rebibbia, che detiene il record di presenze di donne con figli negli istituti di reclusione. Le detenute vivono con i loro 14 bambini. Sulla legge per le madri detenute c’è ancora molto da fare di Simona Olleni agi.it Dopo il caso della donna che ha ucciso i suoi due figli nel carcere di Rebibbia, torna d’attualità il tema dei bambini in età prescolare presenti nelle carceri. Resta ancora in gran parte inattuata la legge dedicata alle detenute madri approvata nel maggio 2011: un provvedimento che, dopo un lungo iter parlamentare, aveva come obiettivo quello di evitare che vi fossero ancora bambini costretti a vivere in carcere con le loro mamme recluse. Con quella riforma, si cercò di favorire il più possibile la detenzione domiciliare di quelle donne che hanno figli in età prescolare - quindi fino a 6 anni di età - con il collocamento in case famiglia o negli Icam, istituti a custodia attenuata, strutture più simili ad asili che a penitenziari, in cui i bimbi possono vivere i primi anni di vita con la mamma in un’atmosfera positiva per la loro crescita. La stessa norma, inoltre, stabilì che nelle sezioni nido di un carcere potessero essere ospitati bimbi da zero a 3 anni con le madri detenute per eccezionali esigenze cautelari o per le quali non fosse possibile trovare una collocazione differente. La situazione degli Icam - Ad oggi, gli Icam in tutta Italia sono solo 5: a Lauro (Avellino) vivono 10 donne (3 straniere con i loro 4 figli) con 12 bimbi; a Milano San Vittore (struttura ‘apripistà nata nel 2007) ce ne sono 4 con 4 bambini (3 donne e 3 bimbi sono stranieri); a Venezia Giudecca sono ospitate 5 detenute madri con 6 figli al seguito (anche qui 3 donne e 3 bambini vengono da un paese straniero); a Torino Lorusso Cotugno ci sono 7 donne e 10 bimbi (2 le straniere con 3 figli), mentre nella struttura di Cagliari non risulta allo stato presente alcun ospite. Le donne che vivono negli Icam, dunque, sono davvero una piccola percentuale del totale delle detenute madri: al 31 agosto scorso - ultimo dato aggiornato prima della tragedia di Rebibbia - il loro numero era pari a 52 (25 straniere con 29 bimbi), con 62 bambini. A Rebibbia femminile, vivevano, alla fine del mese scorso, 13 donne con 16 figli al seguito. Nonostante i tentativi di sensibilizzare l’opinione pubblica sulla situazione dei bimbi in cella e la creazione di nuove strutture ad hoc - a Roma, nel 2017, è stata inaugurata la Casa di Leda, casa famiglia protetta per detenute madri e i loro figli realizzata in una villa confiscata alla criminalità organizzata - i passi in avanti fatti finora, secondo gli operatori del settore, non sono abbastanza. “Il dramma dei bambini in carcere è noto a tutti - scrivono in una lettera aperta decine di associazioni, tra cui Antigone, A Buon Diritto, la Conferenza nazionale Volontariato giustizia, Magistratura democratica, Nessuno tocchi Caino, Comunità di Sant’Egidio, Ristretti Orizzonti - e la legge del 2011 ha tracciato una linea che prevede una collocazione alternativa al carcere per mamme e bambini, ma la sua applicazione fatica a trovare pienezza. Il disagio sociale sempre più presente all’interno degli istituti di pena non è certo una novità e troppo spesso il peso di tale problema è affidato al personale di Polizia penitenziaria. Gli enti locali - dice ancora il testo - faticano a dare risposte a chi esce dal carcere e cerca di ricominciare una vita diversa. I cittadini molto spesso si oppongono alla nascita di strutture di accoglienza, come le case famiglia per le donne detenute con figli”. Pressing sul governo - Numerose critiche, infatti, sono state rivolte alla decisione del ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, poche ore dopo il dramma di Rebibbia, di sospendere la direttrice dell’istituto e la sua vice, nonché il vicecomandante del reparto di Polizia penitenziaria. Lo stesso Garante nazionale dei detenuti ha parlato di “responsabilità collettiva” e, sul fronte politico, l’ex Guardasigilli Andrea Orlando ha rilevato come con la sua riforma, stoppata dal nuovo governo, la questione delle detenute madri avrebbe finalmente trovato soluzione. Della legge a cui aveva lavorato il precedente governo, nei giorni scorsi, è tornato a parlare anche lo scrittore Roberto Saviano, definendola una “riforma morta per viltà e incompetenza”. Dal ministro Bonafede è giunto l’invito a evitare “strumentalizzazioni”: “Ci vuole rispetto”, ha affermato dopo giorni di silenzio. “Prima di commentare la morte di due bambini non sarebbe stato giusto stare in silenzio, mostrare un minimo rispetto per una tale tragedia, e non parlare a tutti i costi solo perché si ricopre un ruolo pubblico? Io rispetto l’opinione di tutti - ha detto Bonafede - e credo che le critiche più aspre rappresentino uno stimolo fondamentale per chi vuole governare. Ma c’è un limite a tutto”. Verini (Pd): “via i bimbi dalle carceri, Bonafede applichi la delega” agenparl.eu “Non si distrugga il lavoro di volontari e personale compiuto a Rebibbia. I bambini non possono stare chiusi in carcere. La drammatica tragedia di Rebibbia, sulla quale sono in corso inchieste che ne potranno chiarire i motivi, richiede un segnale forte invece di dare l’impressione di cercare capri espiatori, invece di affossare la delega che prevede luoghi alternativi al carcere dove scontare le pene per le mamme con i bambini piccoli, il Ministro della Giustizia dovrebbe applicarla, dando anche un segnale alla magistratura che deve applicare le leggi attuali”. Lo ha dichiarato il deputato Walter Verini, responsabile Giustizia del Pd, che questa mattina, insieme al deputato romano Claudio Mancini e all’avvocato Cristina Michetelli, del Dipartimento Giustizia del Partito ha visitato istituto carcerario femminile di Rebibbia, compreso il reparto dove si trova il nido per i bambini figli delle detenute. Che oggi sono tredici - ha raccontato la delegazione al termine della visita - con dodici mamme. C’è un clima di grande emotività dopo quello successo e che nessuno prevedeva. Le detenute hanno inviato la loro solidarietà alla Direzione del Carcere oggetto di provvedimenti di sospensione e hanno avuto parole di apprezzamento per il lavoro difficile svolto dal personale di polizia penitenziaria e dalle operatrici del servizio sanitario che accudiscono i bambini. C’è bisogno - ha aggiunto Mancini - di rafforzare in un momento drammatico e scioccante come questo, il personale di supporto psicologico. C bisogno di rafforzare i servizi di mediazione culturale. E, soprattutto, necessario che non sia indebolito o messo in discussione il patrimonio positivo di esperienze che in quell’Istituto a Rebibbia sono state e sono in piedi, anche grazie alla rete delle associazioni di volontariato, tra le quali Insieme per Roma - La casa di Leda. Il Pd - ha concluso Verini - si batter a partire dalla Commissione Giustizia del Senato prevista per martedì - per questi obiettivi. E perché questo Governo e questo Ministro non buttino a mare un grande lavoro civile come quello della riforma Orlando sull’ordinamento penitenziario. Togliere i bambini dalle carceri, investire in carceri umane, investire su pene alternative per chi non socialmente pericoloso, significa recuperare e rieducare persone che una volta scontata la pena non torneranno a commettere reati, per la sicurezza di tutti. Morte a Rebibbia, le detenute difendono la direttrice di Francesco Salvatore La Repubblica “Siamo tutte sotto shock, ancora adesso. Non c’era stato nessun preavviso e apparentemente sembrava una situazione normale. Personalmente non ho notato nulla di strano, anche se ovviamente parlavamo poco per via della lingua”. A mettere l’accento “sull’apparente normalità” del comportamento di Alice Sebesta è una delle dodici detenute che quotidianamente frequenta il nido Leda Colombini, l’area protetta nell’istituto penitenziario di Rebibbia. È lì che la 33enne tedesca, detenuta in seguito ad un arresto in flagranza per spaccio, martedì scorso ha ucciso i suoi bambini, Faith e Divine, 6 mesi e 2 anni. Non è una voce isolata quella della donna, presente il giorno del duplice infanticidio, ma è una percezione comune anche alle altre mamme dell’asilo: “Nulla di strano, nessuno preavviso. I nostri bambini giocavano insieme fino a poco prima”. Ieri il deputato Walter Verini, responsabile Giustizia del Pd, è andato a visitare quella sezione e a raccogliere le testimonianze di quelle donne insieme al “collega” Claudio Mancini e all’avvocato Cristina Michetelli, dello stesso dipartimento del partito. Non solo per avere un feedback su quel tragico episodio, ma anche per capire come viene gestita un’area così delicata e fare una riflessione sulla necessità di limitare situazioni del genere: “I bambini non possono stare chiusi in carcere - taglia corto Verini - per quanto, come mi hanno raccontato, i bambini vengano fatti giocare e vivano una situazione “altra” rispetto al carcere, la sera tornano dietro le sbarre”. Il nido Leda Colombini, infatti, secondo le detenute che lo vivono, è un luogo dove c’è “umanità e comprensione” e che non viene affatto disdegnato: “Ci capiscono e comprendono i nostri problemi - racconta un’altra detenuta - per questo abbiamo scritto una lettera di solidarietà nei confronti della direttrice e della vice direttrice (sospese dal ministro ndr). Non è giusto che paghino loro, speriamo che possano ritornare”. Quel giorno erano 5 le mamme presenti. Ma sono 12 in totale, con 13 bimbi: “C’è un clima di grande emotività e che nessuno prevedeva - spiega Verini - le detenute hanno inviato la loro solidarietà alla direzione del carcere e hanno avuto parole di apprezzamento per il lavoro della polizia penitenziaria e delle operatrici del servizio sanitario che accudiscono i bambini”. Il punto, però, per il responsabile Giustizia Pd, è che i bambini non vengano più segregati: “Invece di affossare la legge delega - afferma il deputato - che prevede luoghi alternativi al carcere per le mamme con i bambini piccoli, il ministro della Giustizia Bonafede dovrebbe applicarla, dando anche un segnale alla magistratura”. Dal 2011 la legge prevede per le madri detenute con figlie, con un profilo di bassa pericolosità, le case famiglia o gli istituti a custodia attenuata. Anche la riforma Orlando è andata in quel senso: “Ci batteremo - conclude Verini - perché non venga buttato a mare il lavoro della riforma sull’ordinamento penitenziario”. Se il rispetto della Carta è in pericolo di Vladimiro Zagrebelsky La Stampa Nei mesi scorsi i giudici della Corte costituzionale si sono recati in numerose scuole per incontrare studenti e insegnanti e illustrare la Costituzione. La Corte esce dal Palazzo per incontrare “fisicamente” realtà importanti della società italiana. Nel dialogo, essa vuole contribuire a costruire una solida cultura costituzionale facendo conoscere cosa significa avere una Costituzione, la nostra Costituzione. Il programma prosegue ora con gli incontri che i giudici avranno nelle carceri. Il presidente della Corte costituzionale Giorgio Lattanzi ha illustrato il senso dell’iniziativa al presidente della Repubblica che l’ha condivisa. Ne dà notizia un comunicato della Corte costituzionale. L’ufficialità data al programma della Corte e l’attestazione dell’accordo del presidente della Repubblica indicano l’importanza che viene attribuita all’azione intrapresa dai giudici della Corte. Ma il senso del comunicato diviene straordinario per il momento in cui cade. Un momento in cui vi sono motivi di inquietudine per i rischi che corrono i capisaldi dei fondamenti costituzionali del vivere insieme in Italia e in Europa. Non è usuale ed è anzi motivo di allarme che dalla Corte costituzionale si ritenga venuto il momento di avvertire che “la Costituzione è una legge suprema, uno scudo nei confronti dei poteri dello Stato, che neppure il legislatore con le sue mutevoli maggioranze può violare e che la Corte costituzionale ha il compito di farla rispettare”. Tanto più che il comunicato della Corte prosegue ricordando che sono la Carte dei diritti e la Costituzione, con la Corte costituzionale e tutti i giudici, che “ci difendono dai vecchi fantasmi che hanno ripreso ad agitarsi in Europa e a mettere in discussione le regole della democrazia, della libertà e dell’eguaglianza, e i diritti fondamentali che le accompagnano”. È sotto gli occhi di tutti coloro che vogliono vedere che sono spesso messi a rischio il rispetto della Costituzione e delle leggi, delle libertà di tutti e dell’eguaglianza di tutte le persone, della soggezione anche dei poteri pubblici alla legge. Il fatto che ciò avvenga finora più con le parole che con i fatti (ma ci sono anche i fatti), non toglie pericolosità alla situazione che si sta creando. Chi non la vede o la sottovaluta non potrà poi dire di non essersene accorto. Insieme a ripetuti interventi del presidente della Repubblica, questa volta è la Corte costituzionale che aiuta tutti ad aprire gli occhi. Il linguaggio violento, offensivo, irrispettoso delle istituzioni fondamentali della Repubblica è diffusissimo su organi di stampa e nei messaggi che circolano e si moltiplicano sui social; esso mostra a che punto sia arrivato il degrado civile. Ma è soprattutto l’esempio dato da parlamentari e ministri che è pericolosissimo per l’eccitazione che crea e la legittimazione che offre ad atteggiamenti che uniscono la volgarità all’aggressività. Una società si mantiene civile e democratica non solo rispettando le leggi e le istituzioni che si è data con la Costituzione, ma curando sul piano della vita quotidiana l’essenziale “cultura della Costituzione” giustamente richiamata dalla Corte costituzionale nel suo comunicato. L’occasione della presa di posizione della Corte costituzionale è particolarmente pertinente, poiché riguarda una realtà come quella del carcere, su cui ogni giorno si scaricano commenti privi di umanità, razionalità e conoscenza di cosa effettivamente essa sia. Non da oggi la Corte costituzionale, in sintonia con la Corte europea dei diritti umani, afferma che la carcerazione non priva il detenuto dei diritti che non siano necessariamente compressi dalla privazione della libertà. Pone certo restrizioni e doveri particolari ai detenuti, ma non toglie loro il diritto a veder rispettata la dignità e la tutela della legge che spetta a ogni persona. Ricordarlo è utile. Ai nostri giorni è divenuto necessario. Decreto sicurezza. Stretta su migranti e case occupate di Francesco Grignetti La Stampa È arrivato il giorno più atteso da Matteo Salvini, quello della svolta securitaria impressa all’intero governo giallo-verde. Con l’approvazione, oggi in Consiglio dei ministri, del decreto che porta il suo nome, cambia di segno l’approccio alla materia degli sgomberi di case occupate e dell’accoglienza dei migranti. Due capisaldi della gestione precedente di centrosinistra vengono rovesciati. Nel caso degli sgomberi, si mettono prima le esigenze della proprietà rispetto alla vulnerabilità degli occupanti: per questi ultimi ci sarà un letto e nient’altro, quando ci sarà; aumentano le pene per gli organizzatori delle occupazioni, e si potranno usare le intercettazioni per questo tipo di reato. Nel caso dei migranti, arriva una stretta clamorosa. “In tre mesi abbiamo mostrato che gli sbarchi si potevano fermare, con il decreto sull’immigrazione voglio dimostrare che anche la gestione dell’accoglienza e dei rimpatri si può e si deve cambiare”, annuncia. L’incertezza - La rivoluzione salviniana è talmente clamorosa, e non è stata del tutto digerita dai Cinque Stelle, che ancora ieri c’erano almeno 4 capitoli che non avevano garanzia di approvazione: la cancellazione del permesso umanitario, finora molto utilizzato per concedere i permessi di soggiorno, per lasciare spazio a tre ipotesi molto più residuali (in caso di calamità naturali in un Paese, in caso di grave malattia; in caso di speciali meriti civili); l’espulsione del richiedente asilo in presenza di un ampio elenco di reati; la revoca della cittadinanza quando il nuovo cittadino abbia avuto una condanna definitiva per reati di terrorismo (o per avere fatto dichiarazioni mendaci o utilizzato documenti falsi? Questa seconda ipotesi non sembra più così sicura); il trattenimento fino a 180 giorni in un Centro di identificazione finalizzato alla procedura di rimpatrio. Dato che Luigi Di Maio è stato in Cina ed è appena rientrato, le due parti non ne hanno ancora parlato davvero. La discussione sarà oggi al consiglio dei ministri. Sono diversi, insomma, i temi politicamente delicati, il che è materia da dibattito tra le forze politiche. Nelle prime bozze c’erano poi alcuni aspetti di dubbia costituzionalità, che il Quirinale ha discretamente sollevato, e si vedrà alla fine quanto ha pesato la “moral suasion” del Colle. Ad esempio sulle espulsioni di un richiedente asilo in presenza di una mera denuncia di polizia. Di sicuro dal decreto, anche per semplificarne l’iter in Parlamento, e non confliggere con le caratteristiche di necessità e urgenza, sono state stralciate le norme sull’ordinamento dei vigili del fuoco o dell’Agenzia per i beni confiscati alla mafia che dovrebbero finire nel ddl Bongiorno sulla Pubblica amministrazione. Così come le nuove assunzioni di vigili del fuoco, poliziotti e carabinieri finiranno nella legge di Stabilità. Resta nel decreto, invece, la riforma dello Sprar, che in futuro accoglierà soltanto i rifugiati e i minori stranieri non accompagnati, non i semplici richiedenti asilo, destinati a centri gestiti dalle prefetture. Resta anche la stretta contro i cosiddetti “profughi vacanzieri”: la protezione internazionale decadrà se il rifugiato rientra anche temporaneamente nel suo Paese di origine, “salva la valutazione del caso concreto” Una domanda di asilo, infine, dovrebbe decadere se il richiedente commette un reato, quindi alla semplice apertura di un procedimento penale: teoricamente l’interessato potrebbe chiedere di riaprire la sua pratica solo in caso di assoluzione con sentenza definitiva. E ancora: c’è la pistola a scariche elettriche, il taser, per la polizia locale. Oppure il Daspo a protezione anche di aree dove ci sono ospedali o fiere. Salvini sa bene che dovrà fronteggiare una selva di critiche. Ha ironizzato nei giorni scorsi: “Ci sarà l’allarme dell’Onu, dell’Osce, della Croce rossa, di quella bianca, dei vegetariani, dei vegani e degli animalisti perché limitiamo i diritti... ma io me ne frego”. E ieri la Chiesa ha fatto sapere come la pensa: “A me - ha detto monsignor Galantino, segretario della Cei - sembra strano che si parli di immigrati all’interno del decreto sicurezza. Inserirlo lì dentro significa giudicare già l’immigrato per una sua condizione e viene considerato già un pericolo pubblico per il suo essere immigrato e non per i comportamenti che può avere. È un brutto segnale”. Decreto Sicurezza, i 4 punti controversi nel testo del governo di Fiorenza Sarzanini Corriere della Sera Urgenza, reati, permessi e cittadinanza revocata. Il ministro: solo limature. L’incognita dei rilievi del Quirinale. Via lo status di rifugiato dopo una condanna in primo grado ma anche per parenti condannati. La relazione che illustra il provvedimento specifica che “i testi hanno subìto delle limature con l’obiettivo di rispondere pienamente ai requisiti di necessità e urgenza”. Eppure è proprio questa la prima incognita per il decreto sicurezza che questa mattina il titolare del Viminale Matteo Salvini porterà al Consiglio dei ministri. Le perplessità del Colle su modalità e contenuti non sono un mistero, così come quelle di una parte del Movimento 5 Stelle, contraria alla “stretta” che il leader leghista vuole imporre in materia di permessi di asilo e protezione umanitaria. Ma il leader leghista ha deciso di tirare dritto, pur nella consapevolezza che quelle “limature” potrebbero non essere sufficienti a superare i dubbi di costituzionalità. E così sono quattro i punti che rimangono controversi e rischiano la bocciatura o comunque una modifica pesante. Tenendo conto che i “rilievi” mossi dal Quirinale la scorsa settimana e le “correzioni” richieste dal ministero della Giustizia guidato dal grillino Alfonso Bonafede non sono stati tutti accolti. Nonostante sia stato ben chiarito dal Colle che non si possono modificare principi previsti dalla Costituzione con una legge ordinaria com’è appunto quella di conversione di un decreto. L’emergenza - Lo strumento del decreto legge deve essere utilizzato per fronteggiare una situazione di emergenza. Per soddisfare questo requisito, nella relazione tecnica si specifica che il provvedimento ha come scopo quello di “rafforzare i dispositivi a garanzia della sicurezza pubblica, con particolare riferimento alla minaccia del terrorismo”. E poi, esaminando i vari punti che riguardano l’arrivo dei migranti, si sottolinea come ci sia necessità e urgenza di “scongiurare il ricorso strumentale alla domanda di protezione internazionale”, e di “garantire l’effettività dell’esecuzione dei provvedimenti di espulsione”, ma anche di “adottare norme in materia di revoca dello status di protezione internazionale in conseguenza dell’accertamento della commissione di gravi reati”. Saranno gli esperti giuridici del Quirinale e dover valutare se ciò sia sufficiente alla controfirma del presidente Sergio Mattarella per la trasmissione in Parlamento. Protezione umanitaria - Nel luglio scorso Salvini aveva diramato una circolare per invitare prefetti e commissioni territoriali a utilizzare “criteri rigorosi nell’esame delle istanze”. Il decreto va oltre e prevede “l’abrogazione dei permessi di soggiorno per motivi umanitari” che vengono sostituiti da “permessi per meriti civili o per cure mediche o se il Paese di origine vive una calamità naturale”. Al di fuori di questi tre casi, non potrà essere concessa l’accoglienza in Italia, ma il via libera alla norma non è scontato perché sia il Quirinale sia la Giustizia hanno evidenziato la necessità di rispettare i trattati e le norme internazionali che prevedono una rosa molto più ampia di possibilità. Trova invece d’accordo tutti la “revoca della protezione umanitaria ai cosiddetti “profughi vacanzieri”. L’esempio più eclatante è quello dei cittadini eritrei che dopo aver ottenuto lo status tornano in patria nei periodi di festa e dunque non possono essere ritenuti in “situazione di rischio”. Rifugiati condannati - La prima stesura del provvedimento prevedeva la “revoca del permesso di rifugiato a chi viene denunciato per reati come la violenza sessuale, lo spaccio di droga, la violenza a pubblico ufficiale”. Il testo che arriva in Consiglio dei ministri è stato modificato e stabilisce che ciò avvenga dopo la condanna di primo grado, ma anche questo potrebbe non bastare perché la Costituzione prevede la presunzione di non colpevolezza fino al terzo grado di giudizio. E dunque, anche se fosse approvato in Parlamento - eventualità remota visto che introdurrebbe un principio che poi potrebbe valere per tutti i cittadini, italiani e stranieri - potrebbe essere la Consulta a renderlo inefficace. Anche perché tra le novità ipotizzate c’è l’allargamento della revoca in caso di condanne dei parenti, il che violerebbe il principio secondo cui la responsabilità penale è personale. La misura automatica - Il decreto preparato dagli esperti del Viminale prevede la “revoca della cittadinanza per gli stranieri considerati una minaccia per la sicurezza nazionale”. Una misura che dovrebbe scattare in maniera automatica. Ma proprio su questo ci sono le maggiori critiche, anche se fosse previsto di procedere in via discrezionale esaminando caso per caso. La cittadinanza è infatti inserita tra i diritti inviolabili. E dunque non si può sospendere. “Legittima difesa sempre presunta”. La Lega accelera, i grillini frenano di Barbara Acquaviti Il Messaggero Matteo Salvini lo ha ribadito qualche giorno fa anche a Luigi Di Maio: “La legittima difesa deve essere legge al più presto, entro fine anno deve avere il primo via libera del Senato”. Insieme al pacchetto immigrazione- sicurezza che arriva oggi in Consiglio dei ministri, è la sua impronta digitale su questi primi mesi di legislatura. Ribadirne l’urgenza all’alleato significa che se la legittima difesa diventa terreno di scontro nella guerra a chi pianta più in alto la sua bandierina, anche la Lega avrà cura di metter i bastoni tra le ruote ai provvedimenti più cari al M5s. D’altra parte, le perplessità del Carroccio su un ddl come quello anti-corruzione non mancano. E su quel testo c’è la faccia di Alfonso Bonafede, capo di quel ministero della Giustizia da cui sono emersi i maggiori rilievi sul decreto sicurezza. Ma non solo. La guerra dei distinguo tra il Guardasigilli e il titolare del Viminale si trascina ormai dall’affaire Diciotti: non piacquero a Bonafede gli attacchi di Salvini ai pm. Le armi - Inoltre, ripetutamente in passato e poi ancora due giorni fa, il responsabile di viale Arenula ha frenato l’attivismo dell’alleato sulla legittima difesa, ribadendo la volontà del governo di intervenire sulla normativa, come scritto nel contratto, ma ricordandogli anche che “il ministro dell’Interno non ha competenze”. Altro tema che preme al Guardasigilli è evitare che passi l’idea che si apra la strada al Far West. “Ho più volte detto che non ci sarà nessuna liberalizzazione di armi”. La reazione della Lega al rischio di questo schema di veti incrociati è quello di alzare il tiro e chiedere un’accelerazione. Ancora di più dopo l’episodio della rapina in villa a Lanciano. “Faremo di tutto per arrestare i colpevoli e farli marcire in galera, non si può vivere con la paura anche in casa propria”, avverte Salvini. Per Roberto Calderoli, poi, è la prova della necessità di procedere spediti. “Consentire la legittima difesa, senza se e senza ma, senza rischiare un processo e anni di problemi legali, sarebbe anche un deterrente nei confronti dei malviventi”. Il timing - In commissione, con la seduta di domani, si concluderà il ciclo di audizioni. Quindi, sarà assegnato al presidente Andrea Ostellari (Lega) il compito di procedere all’elaborazione di un testo base. Il timing del Carroccio prevede che venga presentato entro i primi di ottobre e che il provvedimento arrivi in aula entro l’inizio di novembre. Attualmente, allo studio dei senatori della commissione Giustizia di palazzo Madama ci sono otto disegni di legge. Tra questi, quello che porta la firma del capogruppo leghista Romeo, ricalca la proposta presentata nella scorsa legislatura da Nicola Molteni, attualmente sottosegretario agli Interni. Ed è in quel testo il cuore dell’approccio leghista alla legittima difesa. In pratica, si aggiunge un comma all’articolo 52 del codice penale e si stabilisce che la difesa sia sempre legittima e proporzionata. Di fatto che c’è una “presunzione di legittima difesa per gli atti diretti a respingere l’ingresso, mediante effrazione di sconosciuti in un’abitazione privata, ovvero presso un’attività commerciale, professionale o imprenditoriale con violenza o minaccia o uso di armi”. Un cuore al quale la Lega non intende rinunciare e che, al netto di qualche correzione formale, dovrebbe essere riproposto interamente nel testo base. Ma è proprio sul concetto di proporzionalità della difesa che si annidano quelle “zone d’ombra” che Bonafede vuole eliminare. La strada di “compromesso” che Ostellari sarebbe orientato a intraprendere potrebbe essere quella di aggiungere al testo Romeo-Molteni anche delle modifiche all’articolo 55 del codice penale, quello cioè che tratta dell’eccesso colposo della legittima difesa, in modo da accogliere i rilievi del M5S. “Stiamo lavorando - assicura il pentastellato Massimo Urraro - puntando sulla necessità di fare sintesi e di trovare un giusto equilibrio per evitare divergenze interpretative. Questo è alla base del nostro ragionamento”. I tempi di esame del provvedimento non potrebbero comunque essere dilatati all’infinito: in base al nuovo regolamento del Senato, approvato in chiusura della scorsa legislatura, infatti, un tema sul quale c’è un ddl di iniziativa popolare va incardinato entro un mese dall’assegnazione in commissione e approda in aula entro tre mesi anche se (ma non sarà questo il caso) l’esame in commissione non dovesse essere concluso. Legittima difesa. L’81% degli italiani vuole questa legge di Antonio Calitri Il Messaggero Tre anni fa d’accordo solo uno su due. In tre anni il desiderio di potersi difendere e di difendere i cari se un malintenzionato entra in casa o nel proprio negozio è cresciuta di 25 punti percentuali. Se nel febbraio 2015 poco più di un italiano su due (esattamente il 56%) era favorevole a una legittima difesa meno stringente, questo mese ben l’81% vuole la possibilità di potersi difendere se qualcuno viola la sua proprietà privata. Secondo l’ultima indagine Swg sull’argomento (effettuata su un campione di 1.000 persone dal 4 al 6 settembre scorso con interviste telefoniche metodo Cati-Cami e online metodo Cawi), soltanto i112% degli italiano è contrario a che ci si possa difendere da soli, mentre la maggior parte dei favorevoli (81%) divide l’autotutela in due forme. La maggioranza dei favorevoli alla legittima difesa (42%), preferisce una forma di autotutela solo difensiva ovvero vuole il diritto di potersi difendere ma ritiene che “non si deve mai sparare per uccidere o colpire un ladro in fuga”. Un po’ meno invece sono gli italiani che vogliono una autotutela offensiva (39%) cioè che dovrebbe essere “giusto potersi difendere con qualsiasi mezzo da chi invade la nostra proprietà privata”. Risposta a un bisogno - Il fatto che il dato complessivo degli italiani che vogliono potersi difendere sia tanto aumentato in appena tre anni, chiarisce Enzo Risso, direttore scientifico di Swg, “non dipende dal fatto che la politica o una parte di questa sta fomentando gli italiani verso questo argomento ma al contrario, negli ultimi anni sono stati sempre più italiani a vivere in maniera sbagliata il fatto che qualcuno potesse farla franca ed è cresciuta nella società la voglia di poter avere delle tutele. Sono quindi gli italiani che si stanno spostando politicamente verso chi cerca di accontentare i loro bisogni o per lo meno di dar loro delle risposte”. Entrando poi nelle varie comunità politiche che chiedono la riforma della legittima difesa, possiamo notare che l’Italia si divide in due gruppi. Aree politiche - Gli appartenenti al centrodestra originario, con la Lega al suo interno, che è favorevole a una legittima difesa maggiormente offensiva. E un’altra parte, formata da pentastellati e partito democratico, che è sempre in maggioranza favorevole alla legittima difesa ma in questo caso preferisce di più una riforma più difensiva. Nella Lega, dove i favorevoli alla legittima difesa raggiungono addirittura il 96% mentre solo il 2% è contrario, quelli che vogliono potersi difendere per il solo fatto che uno è entrato nella proprietà privata sono il 70%. E sono in maggioranza anche in Forza Italia dove raggiungono il 56%, rispetto al 27%, difensivo. Discorso capovolto per M5s dove il 51% dei suoi elettori è per una riforma difensiva e il 35% per quella offensiva, e per il Pd (58% difensivi e 19% offensivi). “Daspo ai corrotti”, inizia l’iter parlamentare del disegno di legge sui reati contro la Pa di Alberto Cisterna Il Sole 24 Ore Ennesimo intervento sul fronte della corruzione (il quarto dal 2012 se si tiene conto anche della riforma dell’Anac) e proprio nel momento in cui la Corte d’appello di Roma, modificando la sentenza di primo grado, prende in esame nel processo Mafia-Capitale le delicate interconnessioni tra devianze istituzionali e agglomerati malavitosi. Il contrasto alla corruzione e la questione del Daspo ai corrotti - Il disegno di legge - recante “Misure per il contrasto dei reati contro la pubblica amministrazione”, approvato dal Governo nel Consiglio dei ministri n. 18 del 6 settembre 2018 - inizia il suo non semplice iter parlamentare all’insegna di uno slogan mediatico di grande efficacia: il Daspo per i corrotti. Laddove per Daspo si vuole indicare un complesso di modifiche al codice penale (e non solo) che punta a escludere pressoché definitivamente i condannati per gravi delitti contro l’amministrazione dall’alveo dei contratti a evidenza pubblica e dalla correlativa negoziazione. Si avrà tempo, nel prosieguo dei lavori delle Camere, di verificare quali e quante delle proposte governative saranno tradotte in legge, al momento si deve esprimere un giudizio complessivamente positivo per il pacchetto di modifiche suggerite dal ministero di via Arenula. Poiché sono certo positive, al di là del restyling di alcune disposizioni sanzionatorie, le innovazioni sul versante dell’agente sotto copertura e della causa di non punibilità per chi denunci tempestivamente la corruzione. Si tratta, si badi bene, di due modifiche che si sostengono reciprocamente, e l’intuizione di proporle congiuntamente sembra del tutto corretta. Si doveva per forza destabilizzare la cornice di omertà e di reciproca convenienza che circonda i delitti di corruzione e, in genere, la messa a disposizione delle funzioni pubbliche e che rende difficile la collaborazione di giustizia e le due modifiche imboccano decisamente questa strada. L’attuale quadro sanzionatorio e la causa di non punibilità - È sotto gli occhi di tutti che la sola attenuante di cui all’articolo 323-bis del Cp (voluta dalla legge 69/2915) non era sufficiente a favorire l’emersione della corruzione e la denuncia delle dazioni. Occorreva, sulla scia della legislazione di altri Paesi, rendere precario e provvisorio l’accordo corruttivo, la certezza che nessuna delle due parti del sinallagma avesse realmente interesse a denunciare l’altra. A questo dovrebbe porre un efficace rimedio il nuovo articolo 323-ter del Cp che introduce una speciale causa di non punibilità allorquando recita: “Non è punibile chi ha commesso taluno dei fatti previsti dagli articoli 318, 319, 319-quater, 320, 321, 322-bis, limitatamente ai delitti di corruzione e di induzione indebita ivi indicati, 346-bis se, prima dell’iscrizione a suo carico della notizia di reato nel registro di cui all’articolo 335 del codice di procedura penale e, comunque, entro sei mesi dalla commissione del fatto, lo denuncia volontariamente e fornisce indicazioni utili per assicurare la prova del reato e per individuare gli altri responsabili”. Il costrutto è chiaro ed esso si estende per certo anche al tentativo di commettere uno dei delitti ivi indicati. Si pone un limite temporale del tutto ragionevole (sei mesi dal fatto) per compiere la scelta di denunciare. La mera denuncia, come si vede, non è sufficiente, ma si esige anche che il reo resipiscente dia agli acquirenti elementi utili ad assicurare la prova del reato (già consumato) e per assicurare alla giustizia gli altri responsabili. La causa rimanda a congegni identici in materia di attenuanti e non presenta vulnerabilità di sorta. Certo laddove a denunciare il reato sia un pubblico ufficiale, l’incaricato di pubblico servizio o il mediatore illecito, la non punibilità è stata “subordinata alla messa a disposizione della utilità percepita o, in caso di impossibilità, di una somma di denaro di valore equivalente ovvero alla indicazione di elementi utili a individuarne il beneficiario effettivo, entro il medesimo termine” di sei mesi. Quindi, per evitare imboscate, la nuova norma si chiude con una clausola significativa e di rilievo secondo cui “la causa di non punibilità non si applica quando vi è prova che la denuncia di cui al primo comma è premeditata rispetto alla commissione del reato denunciato”. L’annosa questione dell’agente sotto copertura - E qui la questione flette in direzione dell’annosa e controversa questione dell’utilità o meno dell’agente sotto copertura per i reati di corruzione. L’opinione largamente e da lungo tempo favorevole a questa imprescindibile opzione si rafforza, sul piano delle garanzie, proprio per effetto della limitazione ora ricordata portata dall’articolo 323-te r del Cp che esclude tout court la possibilità di agenti provocatori per i reati di corruzione. La disposizione, in altri termini, risolve espressamente il tema dell’agente provocatore e correttamente in senso negativo, escludendo che possa beneficiare dell’esimente in parola colui il quale corrompa o si faccia corrompere al solo fine di denunciare il correo. Sia chiaro, il profilo non ha nulla a che vedere con il caso in cui ad esempio il privato, in accordo con gli inquirenti, si appresti al pagamento di una somma per far arrestare il funzionario infedele. In quel caso non sussiste l’elemento soggettivo del reato di corruzione e, quindi, nulla quaestio. Piuttosto la regolazione di confine riguarda i casi in cui, anche da parte degli inquirenti, si governi una fase di induzione alla corruzione del pubblico dipendente per giungere al suo arresto. Il combinato disposto del nuovo articolo 323-ter del Cp e dell’articolo 9 della legge 146/2006 sembra escludere una tale evenienza (ossia la legittimità dell’agente provocatore). È un effetto probabilmente ragionato e perseguito con coerenza dal disegno di legge che non vuole in alcun modo aprire la strada a operazioni spericolate con cui si inducono personaggi pubblici a ricevere dazioni per poi inquisirli. Il limes tra le agente provocatore e agente sotto copertura è, ora, del tutto chiaro e questo dovrebbe sopire ogni polemica e ogni preoccupazione sulla novella in esame. Come detto l’articolo 9 della legge 146/2006 dovrebbe essere modificato prevedendo che non siano punibili gli ufficiali di polizia giudiziaria della Polizia di Stato, dell’Arma dei carabinieri e del Corpo della guardia di finanza, appartenenti alle strutture specializzate o alla Direzione investigativa antimafia i quali, nel corso di specifiche operazioni di polizia e, comunque, al solo fine di acquisire elementi di prova in ordine (anche) ai delitti previsti dagli articoli 317, 318, 319, 319-bis, 319-ter, 319-quater, primo comma, 320, 321, 322, 322-bis, 346-bis, 353 del Cp “acquistano, ricevono, sostituiscono od occultano denaro o altra utilità, documenti, beni ovvero cose che sono oggetto, prodotto, profitto, prezzo o mezzo per commettere il reato o ne accettano l’offerta o la promessa o altrimenti ostacolano l’individuazione della loro provenienza o ne consentono l’impiego ovvero corrispondono denaro o altra utilità in esecuzione di un accordo illecito già concluso da altri, promettono o danno denaro o altra utilità richiesti da un pubblico ufficiale o da un incaricato di pubblico servizio o sollecitati come prezzo della mediazione illecita verso un pubblico ufficiale o un incaricato di pubblico servizio o per remunerarlo o compiono attività prodromiche e strumentali”. A parte qualche difficoltà a catalogare sotto l’egida codicistica le “attività prodromiche”, resta chiaro che l’induzione non appartiene alle attività scriminate, mentre vi rientra, però, l’istigazione alla corruzione (articolo 322 del Cp) con intuibili difficoltà interpretative che andrebbero evitate per non ricadere nell’alveo (non consentito) dell’agente provocatore. Effetto Casalino sul Csm, in pole c’è il Pd Ermini. Il Colle: voto sia unanime di Liana Milella La Repubblica Potrebbe essere David Ermini - avvocato penalista, Pd, renziano doc - il neo vice presidente del Csm. Non sarà il candidato dei 16 togati, come pure sta raccomandando da giorni il presidente Sergio Mattarella. Ma l’effetto Casalino ha fatto crollare il gradimento per un candidato M5S che avrebbe potuto raccogliere buona parte dei consensi. Le chance del calabrese Fulvio Gigliotti, che sembrava il favorito tra i tre grillini, sono in picchiata per via dell’sms. Perché il rischio di un candidato dei pentastellati è di ritrovarselo eterodiretto dai vertici del partito. Nonché in liaison con il Guardasigilli Alfonso Bonafede che però, alle voci di una vittoria di Ermini, avrebbe manifestato stupore all’idea che i magistrati possano preferire un vice presidente che viene dalla politica piuttosto che votare un professore. Anche se Gigliotti è stato in pole per una candidatura a sindaco di Catanzaro nel 2017 e poi per un posto in lista alle ultime politiche. Giovedì si vota per il vice presidente che prenderà il posto di Giovanni Legnini. Che oggi farà il bilancio dei suoi quattro anni davanti a Mattarella. Il suo invito ai giudici a eleggere uniti, com’è avvenuto tante volte, il vice presidente, stavolta rischia di restare inascoltato. Troppe le divisioni tra le correnti, a partire dall’effetto Davigo. L’ex pm di Mani pulite, con 2.252 preferenze, è stato il più votato 1’8 luglio, staccando gli altri di mille voti. Ne deriva una sorta di sbarramento contro di lui, anche se il successo personale non ha coinciso con il boom di Autonomia e indipendenza che al Csm conta due giudici, Davigo e il procuratore aggiunto di Catania Sebastiano Ardita. Tant’è. Davigo sostiene un candidato grillino, e ciò favorisce Ermini, l’ex responsabile Giustizia del Pd. Voterebbe per lui Magistratura indipendente, la corrente più conservatrice, il cui storico leader però, l’ex sottosegretario alla Giustizia Cosimo Maria Ferri, è parlamentare del Pd in quota Renzi. Mi avrebbe scelto l’avvocato forzista Alessio Lanzi, difensore di Confalonieri e Mills, che però nessun altro dei togati avrebbe votato. Ai cinque voti di Mi si aggiungono i cinque di Unicost, la corrente centrista, che non ha preclusioni contro Ermini, che si presenta come un avvocato penalista approdato tardi alla politica. Siamo a undici voti, compreso quello di Ermini. Lontano dai due terzi necessari alla prima votazione su 27 componenti. E anche dalla maggioranza assoluta nei due turni successivi. Bisogna arrivare al quarto. Qui potrebbe essere utile il voto dei vertici della Cassazione, il presidente Giovanni Mammone, di Mi, e il procuratore generale Riccardo Fuzio di Unicost. Il capo dello Stato non vota il suo vice. L’interrogativo è cosa faranno le toghe “rosse” di Area, la corrente di sinistra, a partire dal capogruppo, il pm di Roma Giuseppe Cascini. Ridimensionata dal voto di luglio (da 7 a 4 posti), Area ha chiesto ai colleghi di optare per un vice presidente indipendente, senza un passato politico. Una linea che poteva privilegiare i grillini contro Ermini. Ma l’effetto Casalino potrebbe fargli cambiare idea. Anche per l’assenza di alternative. Certo è che per Ermini non voteranno gli altri sette laici, i tre grillini (Gigliotti e i professori di Firenze Filippo Donati e di Genova Alberto Maria Benedetti), i due fornisti (Lanzi e Michele Cerabona, l’avvocato napoletano di Berlusconi), i due leghisti (l’avvocato Stefano Cavanna ed Emanuele Basile). Lega e Fi erano d’accordo su Lanzi, convinti che Unicost e Mi li avrebbero seguiti. Ma Unicost, che ha la presidenza dell’Anm con Francesco Minisci, non vuole “compromettersi” con il candidato di Niccolò Ghedini. La Lega, da sola, può votare un grillino. Ma le toghe storcono il naso su Gigliotti, considerato il più grillino dei tre professori. Donati, di Firenze, viene visto come una creatura del premier Giuseppe Conte. Resta Alberto Maria Benedetti che però ha avuto il torto di dire a più d’uno “per me è già un onore essere qui, non pongo io stesso la mia candidatura”. Per il giudizio abbreviato pronunce non impugnabili di Andrea Magagnoli Italia Oggi La pronuncia che decide sulla richiesta di giudizio abbreviato non è impugnabile neppure sotto il profilo dell’ abnormità dato che i singoli mezzi d’impugnazione debbono essere previsti dall’ordinamento in forma tassativa. La Corte di cassazione con sentenza n. 40111/2018 depositata il giorno 6/9/2018 ha deciso sull’ammissibilità di un motivo di ricorso relativo a una decisione di rigetto di una richiesta di giudizio abbreviato non condizionato, presentata nel corso di un procedimento durante il quale erano stati contestati due fatti nuovi all’imputato configuranti il reato di bancarotta a suo carico. Eccepiva la difesa del ricorrente che l’imputato aveva a ogni modo il diritto di accedere al rito alternativo relativamente a tali ulteriori contestazioni. Il Tribunale di Ravenna investito della questione decideva rigettando l’istanza di quest’ultimo, negandogli la possibilità di accedere al rito abbreviato e alla conseguente riduzione di pena, tanto da rendere necessario un ricorso per Cassazione avverso la pronuncia del Tribunale di Ravenna. La Corte suprema esaminava il predetto motivo, collocandosi sulle posizioni uniformi già precedentemente espresse sulla questione, che ritenevano inammissibile l’impugnazione di una decisione di tale tipo anche sotto il profilo dell’abnormità, stante il principio di tassatività previsto per i mezzi d’impugnazione dall’articolo 568 del codice di procedura penale. La posizione dei supremi giudici si fonda su di una considerazione circa le attività esperibili nel corso del dibattimento e sull’osservazione circa gli eventuali rimedi di una decisione di rigetto della richiesta di giudizio immediato. Osservano, a tal proposito gli Ermellini che il rigetto della richiesta di giudizio abbreviato trova nel dibattimento ad ogni modo un rimedio, posto che la diminuzione di un terzo della pena prevista quale beneficio nel caso di giudizio abbreviato può essere recuperata all’esito del dibattimento qualora si accerti l’irritualità della pronuncia di rigetto. Pena pecuniaria sostitutiva della detentiva: rimodulazione con criterio del ragguaglio di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore Cassazione - Sezione VI penale - Sentenza 18 luglio 2018 n. 33472. In tema di decreto penale di condanna a pena pecuniaria sostitutiva di quella detentiva, il disposto del comma 1 dell’articolo 459, del codice di procedura penale prevede che sia il pubblico ministero a indicare la pena, mentre il comma 1-bis dello stesso articolo assegna al giudice la determinazione dell’ammontare della pena pecuniaria sostitutiva, che, ormai non più determinata in maniera fissa quanto al criterio di ragguaglio a seguito del novum introdotto con legge n. 103 del 2017 (che, tra l’altro, per favorire l’applicazione dell’istituto deflattivo, ha superato il ragguaglio in precedenza determinato in maniera fissa in 250 euro, prevedendo il diverso e più favorevole valore giornaliero di ragguaglio di euro 75, aumentabile fino a tre volte tale ammontare). Lo ha detto la Cassazione penale con la sentenza n. 33472 del 2018. Pertanto, il giudice può rimodulare la determinazione della pena pecuniaria secondo l’importo giornaliero di ragguaglio, fissato ora nel minimo a 75 euro, ferma restando ovviamente l’intangibilità della misura della pena detentiva per come determinata dal pubblico ministero nella richiesta, la cui eventuale ritenuta incongruenza potrà piuttosto fondare il rigetto della richiesta di decreto. Un’innovativa disposizione - Il comma 1-bis dell’articolo 459 del codice di procedura penale, nel testo introdotto dalla legge n. 103 del 2017, stabilisce il criterio di ragguaglio fra pene pecuniarie e pene detentive, nel caso di irrogazione di una pena pecuniaria in sostituzione di una pena detentiva, avendo riguardo al parametro giornaliero di 75 euro (“il valore non può essere inferiore alla somma di euro 75 di pena pecuniaria per un giorno di pena detentiva e non può superare di tre volte tale ammontare”), in tal modo derogando a quanto disposto in via generale dall’articolo 135 del codice penale in ordine al ragguaglio fra pene pecuniarie e pene detentive, laddove si dispone che il computo vada effettuato calcolando euro 250 o frazione di euro 250 di pena pecuniaria per un giorno di pena detentiva. Tale più innovativa disposizione si spiega con le esigenze, ricavabili dai lavori parlamentari, di ridurre il numero dei detenuti presso le strutture carcerarie e di incamerare maggiori somme di denaro sebbene non quantificabili; nonché con l’ulteriore finalità di diminuire il numero delle opposizioni al decreto penale di condanna. In questa prospettiva, quanto ai rapporti tra la richiesta del pubblico ministero e la decisione del giudice, in linea con quanto qui statuito dalla Cassazione, già in precedenza è stato correttamente affermato che, in caso di decreto penale di condanna a pena pecuniaria sostitutiva di quella detentiva, dal combinato disposto degli articoli 459, comma 1-bis, del codice di procedura penale, che consente al giudice di “determinare” la pena sostituita, e dell’articolo 460, comma 2, del codice di procedura penale, laddove si vincola il giudice ad “applicare” la pena nella misura richiesta, deve ritenersi che la “misura della pena” che vincola il giudice quando emette il decreto è solo quella detentiva indicata dal pubblico ministero richiedente, utilizzata come moltiplicatore per il ragguaglio che il giudice, appunto, “applica”, mentre la pena “irrogata cui si riferisce il Cpp è quella sostituita all’esito del calcolo, con la conseguenza che il giudice resta libero di rideterminare il tasso giornaliero che, moltiplicato per i giorni di pena detentiva indicati dal pubblico ministero, individua l’ammontare della pena pecuniaria sostitutiva” (cfr. sezione III, 29 marzo 2018, Proc. Rep. Trib. Pisa in proc. Addario). Va piuttosto ricordato che il quantum del parametro di ragguaglio va stabilito dal giudice anche avendo riguardo alle condizioni economiche del reato ex articolo 133-ter del codice penale. A tal fine, peraltro, non è affatto necessario, ai fini della quantificazione della pena sostituita, l’espletamento di specifiche e mirate attività di verifica sulle condizioni economiche del reo, specie quando il ragguaglio sia effettuato in misura corrispondente al minimo stabilito dalla legge. Nel caso specifico - In proposito, si è così affermato che al pubblico ministero incombe solo un onere di allegazione di dati che consentano al giudice di esercitare la facoltà che la legge gli attribuisce di stabilire il criterio di ragguaglio, ma gli elementi valutativi cui la legge si riferisce, tuttavia, ben possono ricavarsi da circostanze obiettivamente apprezzabili comunque rappresentate nel fascicolo processuale, della preventiva considerazione delle quali il pubblico ministero può anche dare atto nella richiesta di decreto penale. Diversamente, si perverrebbe alla inaccettabile conclusione che, in presenza di qualsiasi reato rispetto al quale la pena sia astrattamente convertibile in pena pecuniaria, si debbano svolgere specifici accertamenti sulle capacità economiche del reo e del suo nucleo familiare, vanificando così l’intento del legislatore di favorire il ricorso al decreto penale. Il giudice, in definitiva, non può imporre al pubblico ministero tali accertamenti (cfr. la citata Sezione III, 29 marzo 2018, Proc. Rep. Trib. Pisa in proc. Addario, laddove la Corte, dichiarando inammissibile il ricorso del pubblico ministero, basato sull’abnormità della restituzione degli atti da parte del giudice, ha escluso che questi avesse imposto alcun accertamento sulle capacità economiche a carico del pubblico ministero, essendosi solo limitato a ritenere non congrua la pena). Attenuanti: configurabilità dell’esimente della provocazione. Selezione di massime Il Sole 24 Ore Reato - Circostanze attenuanti comuni - Attenuante della provocazione - Configurabilità - Elemento della proporzione - Valutazione. Ai fini della sussistenza dell’attenuante della provocazione, sebbene non occorra una vera e propria proporzione tra offesa e reazione, è comunque necessario che la risposta sia adeguata alla gravità del fatto ingiusto, in quanto avvinta allo stesso da un nesso causale, che deve escludersi in presenza di un’evidente sproporzione: ove si verifichi una tale evenienza, invero, il fatto provocatorio diventa una mera occasione della reazione, la quale, in effetti, trova origine e spiegazione in altre ragioni inerenti essenzialmente alla personalità dell’agente. • Corte di cassazione, sezione V penale, sentenza 7 settembre 2018 n. 40175. Reato - Circostanze del reato - Attenuanti - Provocazione - Riconoscimento - Requisito della proporzione tra fatto ingiusto e reazione - Non necessità. La proporzione tra fatto ingiusto e reazione non costituisce un elemento richiesto dalla legge per il riconoscimento della circostanza attenuante comune della provocazione. Tuttavia la proporzione medesima può assumere rilevanza, ai fini dell’esclusione dell’attenuante, quando essa sia di così notevole entità da escludere in concreto la stessa sussistenza del nesso causale tra fatto provocatorio e reazione. In tal caso il fatto provocatorio diventa una mera occasione della reazione, la quale in effetti, trova origine e spiegazione in altre ragioni inerenti essenzialmente alla personalità dell’agente. • Corte di cassazione, sezione I penale, sentenza 6 aprile 2018 n. 15529. Omicidio - Traffico di stupefacenti - Circostanze attenuanti generiche - Attenuante della provocazione - Configurabilità. In ordine all’attenuante della provocazione di cui all’articolo 62 c.p., comma 1, n. 2, ai fini della sua configurabilità si richiede il riscontro: a) dello stato d’ira, costituito da un’alterazione emotiva che può anche protrarsi nel tempo e non essere in rapporto di immediatezza con il fatto ingiusto altrui; b) poi, del fatto ingiusto altrui, elemento che deve essere caratterizzato dal carattere della ingiustizia obiettiva, intesa come effettiva contrarietà a regole giuridiche, morali e sociali, reputate tali nell’ambito di una determinata collettività in un dato momento storico, non con riferimento alle convinzioni dell’imputato e alla sua sensibilità individuale; c) infine, del rapporto di causalità psicologica e non di mera occasionalità tra il fatto ingiusto e lo stato d’ira, indipendentemente dalla proporzionalità tra esse, sempre che sia riscontrabile la persistenza della derivazione causale, descrittivamente indicata come “una qualche adeguatezza” tra l’una e l’altra condotta. • Corte di cassazione, sezione I penale, sentenza 20 novembre 2017 n. 52766. Omicidio - Tentativo - Concorso di persone - Attenuanti comuni - Provocazione - Elementi costitutivi - Indicazione. L’attenuante della provocazione “non ricorre ogni qualvolta la sproporzione fra il fatto ingiusto altrui ed il reato commesso sia talmente grave e macroscopica da escludere o lo stato d’ira, ovvero il nesso causale fra il fatto ingiusto e l’ira”. In altri termini, per quanto i criteri di adeguatezza e proporzione fra fatto ingiusto e reazione non siano propri della circostanza in esame, ciò nonostante una evidente e macroscopica differenza tra tali termini a raffronto induce a ritenere che non sia lo stato d’ira prodotto dal fatto altrui a scatenare la reazione lesiva, quanto altri sentimenti, quali la vendetta, il malanimo, il desiderio di sopraffazione, con esclusione quindi del necessario nesso di causalità, rappresentando l’offesa precedente soltanto l’occasione per estrinsecare impulsi violenti. • Corte di cassazione, sezione I penale, sentenza 16 marzo 2017 n. 12816. Reato - Circostanze - Attenuanti comuni - Provocazione - Proporzione tra offesa e reazione - Necessità - Esclusione - Adeguatezza tra reazione e offesa - Necessità. Per la sussistenza della circostanza attenuante della provocazione non è richiesta una vera e propria proporzione tra offesa e reazione, mentre è comunque necessaria l’adeguatezza della risposta rispetto alla gravità del fatto ingiusto, occorrendo un nesso causale tra il secondo e la prima che va escluso in presenza di una sproporzione molto consistente. • Corte di cassazione, sezione I penale, sentenza 14 gennaio 2009 n. 1214. Padova: Ostellari (Lega) “gli agenti di Polizia penitenziaria vengano dotati del taser” Il Gazzettino “Anche gli agenti di Polizia penitenziaria vengano dotati del taser”. A chiederlo è presidente della commissione Giustizia del Senato, Andrea Ostellari che, sabato scorso, assieme al deputato leghista Alberto Stefani, ha visitato la Casa di reclusione di Padova. Assieme a loro, il provveditore delle Carceri del Triveneto Enrico Sbriglia, il direttore della casa di reclusione di Padova Claudio Mazzeo, il Procuratore aggiunto di Padova, Valeria Sarzani, il Generale di Brigata della Polizia penitenziaria Lorenzo Silvestrelli, e numerosi commissari, ispettori, sovrintendenti, assistenti e agenti della Polizia penitenziaria. Questi ultimi hanno manifestato le preoccupazioni e le aspettative del Corpo, confidando in un concreto impegno affinché siano migliorate le condizioni di servizio e ampliate le dotazioni a disposizione (comprese quelle per l’auto-tutela degli agenti dalle frequenti aggressioni), dando vita ad una full immersion sul tema della sicurezza e della dignità degli operatori penitenziari. Gli ospiti istituzionali, hanno rivolto la loro prima attenzione al personale, pur non trascurando le persone detenute. Nella visita ai vari reparti, intrattenendosi con gli agenti in servizio nei diversi piani della grande struttura, Ostellari ha compreso come sia necessario assicurare importanti manutenzioni e rafforzare gli organici del personale, sia di Polizia Penitenziaria che delle figure civili specialistiche (educatori, personale amministrativo, dirigente direttore aggiunto). Raccogliendo le esortazioni ricevute, Ostellari e Stefani hanno garantito il loro impegno sia verso il Governo che nelle aule parlamentari. “Siamo e saremo sempre al fianco di chi difende i cittadini e ha la responsabilità di custodire le persone detenute ha spiegato presidente della Commissione Giustizia del Senato. Il corpo di Polizia penitenziaria merita più rispetto, più uomini e migliori dotazioni. Come già dichiarato dal sottosegretario alla Giustizia, Jacopo Morrone, lavoreremo perché nella sperimentazione del Taser vengano coinvolti anche gli agenti della Penitenziaria”. Torino: la birra realizzata dai detenuti al Salone del gusto Redattore Sociale “Vale la pena”, progetto made in Lazio, è sbarcato anche al Salone del gusto di Torino. Coinvolge chi è in regime di semilibertà con l’obiettivo di creare una professionalità e ridurre la recidiva. “Vale la pena”. Non si poteva trovare un nome più azzeccato per il progetto tutto dedicato alla birra e al reinserimento sociale dei detenuti. L’iniziativa made in Lazio è sbarcata anche al Salone del gusto di Torino, dove “Vale la pena” ha portato la sua birra artigianale su una bici-birrificio, una bicicletta superattrezzata per la vendita itinerante, con tanto di slogan, “nun ve fate beve, ve famo beve noi”, cassa e lavagnetta con il menu. In tema, anche i nomi dei prodotti: si va dalla Recuperale, una birra fatta usando il pane in eccedenza dei ristoranti, a Fà er bravo, di origine americana, fino a Gatta buia, di qualità scura. Gli ospiti del Salone le hanno assaggiate tutte grazie a una degustazione organizzata nello stand della Regione Lazio e di Arsial a Terra Madre. “Il progetto nasce tra il 2011 e il 2012 dall’associazione Semi di libertà”, ha spiegato Oscar La Rosa, 31 anni, che dopo una laurea in Scienze politiche e un master ha deciso di entrare a far parte di Vale la pena per aiutare questa realtà a crescere sul mercato. I loro prodotti si trovano da Eataly, nel birrificio ospitato dall’Istituto agrario Sereni di Roma e da poco anche nel pub aperto nella Capitale, a Furio Camillo. In vendita nel locale inaugurato a settembre, anche tutti gli altri prodotti di agricoltura carceraria, come i taralli di Trani, la pasta di Palermo, dal cui carcere minorile arrivano anche i dolcetti, i grissini da Torino e il caffè ‘galeotto’ prodotto a Rebibbia e Pozzuoli. “Nel nostro pub ci lavorano un ex detenuto e un detenuto che ha un permesso fino alle 23”, ha specificato Oscar. Sì, perché Vale la pena coinvolge chi è in regime di semilibertà con l’obiettivo di creare una professionalità ancora prima di tornare nella società ed evitare così le recidive. “Un tasso altissimo, il 70%, colpisce queste persone che dopo una media di 5 anni tornano dentro. La chiave di tutto è il lavoro- ha raccontato Oscar- e noi offriamo loro una professione nel settore della birra artigianale. Fino a oggi, con il nostro progetto abbiamo accompagnato 13 ragazzi. Di questi, 2 sono tornati nel loro Paese di origine, mentre gli altri 11 li sentiamo mensilmente. Sono avviati al lavoro con una buona reputazione sociale”. Del resto, negli ultimi anni la cultura della birra è cresciuta a vista d’occhio in Italia, tra prodotti artigianali e biologici. “Non c’è più quella visione di un prodotto alcolico consumato per sballarsi - ha detto ancora La Rosa - Noi dedichiamo grande attenzione alle materie prime, perché la birra è una bevanda che raccoglie tanti profumi e sapori”. Vale la pena coinvolge 3 detenuti alla volta inserendoli in percorsi formativi che permettano loro di conoscere tutte le diverse fasi del lavoro. “Poi, se riusciremo a ingrandirci, questi percorsi diventeranno anche un’occupazione vera e propria”, ha auspicato il giovane manager. Vale la pena “è a tutti gli effetti una best practis della nostra regione”, ha tenuto a dire l’assessore regionale all’Ambiente e all’Agricoltura, Enrica Onorati, che ha voluto il progetto nello stand del Lazio al Salone di Torino. “Si tratta di una scelta etica- ha aggiunto- che va raccontata e diffusa come una epidemia positiva”. Milano: carcere di San Vittore, quando il coro ti cura di Bruno Delfino* Corriere della Sera Dopo le esibizioni benefiche con Arisa e al Refettorio Ambrosiano i detenuti di San Vittore cantano per noi. Musica e attività del reparto “La Nave” per il trattamento terapeutico dei soggetti con problemi di dipendenza. Operatori sanitari e volontari (tra cui un magistrato) ogni martedì provano con i pazienti in attesa di giudizio. Three, four: “La mia buona notizia è sperare di averne una, è la pagella di mia figlia che mi ride nelle vene, è che mi ha scritto mio padre che fuori neanche mi parlava, è che ieri è passato e mi ha lasciato i segni, e che oggi è arrivato e che avrò degli impegni. E domani domani domani...”. Nella saletta al quarto piano del III raggio di San Vittore come ogni martedì si canta, si prova, si spera. Per raggiungerla si devono varcare dieci cancelli, un lungo corridoio colorato che porta al cuore del carcere dove resistono le tracce e gli affreschi del monastero cappuccino su cui dopo l’Unità d’Italia fu costruito, quattro rampe con squarci dipinti di tramonti e gabbiani a incorniciare sogni e finestre sbarrate, 60 scalini. Emozioni che riscaldano “La Nave”, si chiama così il reparto terapeutico dedicato alla cura di chi, con problemi di dipendenza da droga e alcool, in attesa di giudizio è riuscito a imbarcarsi. È anche la casa del coro. Insieme ai detenuti-pazienti ci sono operatori sanitari e volontari, tra cui avvocati, magistrati, artisti, insegnanti, giornalisti, in una condivisione reale di spazi ed emozioni che riscaldano la fredda definizione di “programma trattamentale riabilitativo”. È la vigilia di una nuova esibizione, si festeggia il primo compleanno del giornale che state sfogliando e vi sorride in prima pagina. In scaletta oltre a Redemption song di Bob Marley c’è un pezzo, Buone notizie, scritto e musicato per l’occasione dal direttore e anima del coro, Paolo Foschini. Un testo-collage, ispirato dagli stessi detenuti-coristi in risposta alla domanda: ma qual è la mia buona notizia? E c’è anche una terza canzone, la più significativa, pronta a essere intonata, Finirla di nuotare: l’ha scritta Yassin, un giovanissimo corista, sulle note di Bella ciao. Quando è arrivato non riusciva a mettere insieme due parole in italiano: “...di questo mare non so l’uscita, ma so che un giorno, un bel giorno la troverò, quel che ho trovato ora è una Nave, la Nave che ha trovato me. E adesso vedo la porta aperta, e vedo la sofferenza che sparirà, e vedo il mare, ancora il mare, ma è il mare della libertà”. I marinai hanno storie e accenti diversi ma quando il “comandante” lancia il suo richiamo all’ordine: “artisti del coro!”, sono, siamo, tutti sulla stessa Nave, ancorata in porto nel murales sulla parete che fa da sfondo per le prove alla vigilia degli eventi. I respiri si sincronizzano, una sintonia emotiva che precede e accompagna i go minuti cantati. C’è un’espressione che s’impara tra le tante cose qui a San Vittore, “stare accupato”: un concentrato di tristezza, nostalgia e paura. Nessuno degli sguardi che s’incrociano quando si canta trasmette accupamento. Alla fine non tutti i 52 detenuti-coristi avranno il via libera dalla magistratura per l’esibizione in pubblico, che significa anche riabbracciare per qualche ora genitori, mogli e figli; poco importa, il canto è sempre libero anche dietro le sbarre e i martedì di San Vittore sono sicuramente una buona notizia che fa bene. Ne è convinta Roberta Cossia, professione magistrato, voce del coro e testimoniai dell’importanza per i detenuti “di essere ascoltati, pensare che esiste e deve esistere una chance per tutti, pensare, soprattutto, che questo pezzo di strada si può fare insieme, ognuno con il proprio molo, naturalmente, ma insieme”. Obiettivo comune - Il coro è solo una delle tante attività che fanno scuola alla Nave, guidata da Graziella Bertelli alla testa di una équipe per portare avanti un percorso di cura che fa capo al Servizio dipendenze, Area penale e penitenziaria dell’Assi Santi Paolo e Carlo, diretto da Riccardo Gatti. Percorso tanto più efficace quanto prima lo si inizia, anche se chi arriva nella casa circondariale di San Vittore è solo di passaggio: alla Nave transitano ogni anno in media 152 marinai. Un lavoro corale per un comune obiettivo sostenuto con forza dal direttore dell’istituto, Giacinto Siciliano, e dal provveditore delle carceri lombarde, Luigi Pagano. Detenuto e carcerato non sono sinonimi, è il messaggio che si cerca di trasmettere a chi vive in cella, offrendogli strumenti e opportunità di riscatto. Three, four: “La vita è una guerra non esistono i buoni, ma la guerra che conta è solo quella che vuoi fare, devi deciderlo tu per che cosa lottare”. *Art director del Corriere della Sera e volontario Bollate (Mi): detenuti e liberi, il primo torneo di bridge dentro un carcere di Elisabetta Andreis Corriere della Sera Persone libere e detenuti insieme per sfidarsi a bridge. Al carcere di Bollate alcuni reclusi hanno studiato le tecniche per cinque mesi e sabato, emozionati, hanno affrontato il loro primo torneo “contro” milanesi esperti che hanno accettato di giocare con loro. Una distesa di tavoli verdi e via alla gara, nella casa di reclusione, con un pubblico numeroso composto da altri detenuti che applaudiva di volta in volta i vincitori. Molti di loro, alla fine di questo primo torneo, hanno chiesto alla Federazione italiana bridge di aggregarsi agli allievi. “Seguirà un altro corso, speriamo anche in altre carceri - dice il presidente Francesco Ferlazzo -. Tra gli sport che allenano la mente, il bridge è l’unico non individuale ma di coppia, incoraggia la socialità”. Orgoglioso l’istruttore che ha seguito i carcerati in questi mesi: “Ho notato questo - sottolinea Eduardo Rosenfeld. All’inizio quasi tutti tendevano a pensare solo per sé, quasi in contrasto con il loro compagno di squadra. Ma pian piano hanno imparato a sintonizzarsi, a lanciare messaggi all’altro instaurando una relazione”. Daniele, giovane detenuto, era tra i più agguerriti del torneo: “Nel bridge bisogna fare più prese possibili evitando di sprecare le risorse. Per vincere bisogna sapersi fidare del compagno e collaborare con lui”. Mario, che si è lasciato trascinare obtorto collo dal vicino di cella ma adesso, colto lo spirito del gioco, si è appassionato: “Si allena l’abitudine al rispetto, la partita è una sorta di lavoro comune, tutto diverso dagli scacchi perché non è solitario e non è solo cerebrale. Qui conta l’empatia con il compagno. Ognuno vede solo le proprie carte ma sono patrimonio comune anche quello della persona che siede di fronte”. Si impara a collaborare al buio, basando le mosse solo sulla logica e sulle informazioni che si riescono a intuire o dedurre dalle giocate dell’altro. “In una parola - dice ancora Gaetano, all’inizio della sua reclusione - si prova a fidarsi dell’altro e di se stessi. A farsi guidare dall’istinto, un istinto che però è in un certo senso altruista, e ragiona”. Larino (Cb): murales nel cortile dell’ora d’aria, colori ed emozioni in carcere primonumero.it Su una parete la silhouette del tuffatore, un richiamo all’antichità, all’omonima tomba affrescata di Paestum, e un tributo al mare, che tanti non vedono ormai da anni. Su un altro muro oggetti che segnano il tempo, il tempo dell’attesa, più avanti un aereo, i binari della ferrovia. E ancora, la sagoma di una mano tatuata, o la cima fumante del Vesuvio. Le radici della terra d’origine sono sempre vive per raccontarsi, nei murales realizzati con creatività e maestria da dodici detenuti ospiti della casa circondariale di Larino, grazie al progetto promosso dal Cpia (Centro territoriale per l’istruzione in età adulta - sede di Termoli). Le opere di street art esprimono talenti inaspettati e colorano il cortile frequentato durante l’ora d’aria. I detenuti coinvolti nell’iniziativa si sono messi al lavoro con entusiasmo nel laboratorio estivo di progettazione diretto dall’architetto Marianna Giordano e dagli artisti del Collettivo Guerrilla Spam Andrea De Bernardi e Alessandro Gamurrini, con la supervisione delle due docenti del Cpia Angela Pietroniro e Filomena Di Lisio. Un grande risultato, applaudito durante l’inaugurazione aperta al pubblico, nella tarda mattinata di domenica 23 settembre. “Un’esperienza eccezionale” le parole del direttore della casa circondariale e di reclusione di Larino Rosa La Ginestra nell’illustrare l’iniziativa che già lo scorso anno ha portato alla bonifica di uno dei tre cubicoli di cemento, sempre grazie al Cpia, con la realizzazione di un primo murales. Il pubblico presente, dopo aver ammirato i lavori, ha potuto gustare un ricco buffet, nel brunch solidale di fine estate a conclusione del corso di formazione sulla mediazione tra vittima e autore di reato, organizzato dal Cappellano dell’istituto penitenziario, don Marco Colonna, presso il seminario di Larino. “Sembra mio figlio”: sul grande schermo la storia dimenticata degli hazara di Riccardo Noury Corriere della Sera Non succede spesso che quattro organismi diversi tra loro ma tutti dedicati alla difesa dei diritti (A buon diritto, Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati, Amnesty International e Ufficio nazionale anti-discriminazioni razziali) decidano di patrocinare un film. Se questo è accaduto per “Sembra mio figlio”, il bellissimo film di Costanza Quatriglio nelle sale dal 20 settembre, non è per recintare l’opera nel settore tematico del “cinema sull’immigrazione”, che pure ottiene successo di pubblico e non poche volte premi che suonano quasi risarcitori per come le politiche europee trattano la questione. I temi di “Sembra mio figlio” sono irrecintabili: l’esilio, il distacco dalle radici, da una madre, il desiderio di girarsi indietro per recuperare il proprio mondo così come la tentazione di guardare verso il nuovo, l’incognito, il futuro. Dopo averci fatto conoscere l’orrore dei reparti psichiatrici col documentario “87 ore” sul calvario di Francesco Mastrogiovanni, Costanza Quatriglio porta gli spettatori in un altro mondo pressoché sconosciuto: quello della minoranza hazara, vessata in Pakistan, vittima di crimini di guerra in Afghanistan, la cui terra nel corso di decenni si è letteralmente spopolata. Era hazara il ragazzo che si è suicidato a luglio a Kabul, la capitale dell’Afghanistan: faceva parte di un gruppo di 69 afgani rimpatriati dal governo della Germania in occasione del compleanno numero 69 del ministro dell’Interno. I rimpatri forzati degli afgani sono migliaia, da molti paesi europei, verso un paese giudicato “sicuro” nel quale negli ultimi due anni le vittime civili sono state oltre 20.000. Ed è hazara Taibeh Abbasi, del cui futuro appeso a un filo in Norvegia abbiamo più volte parlato in questo blog. Sono hazara, per tornare al film, i due straordinari attori e attivisti, Basir Ahang e Dawood Yousefi. Ogni loro gesto, ogni dialogo (nella loro lingua, che per una felice scelta autoriale e produttiva è rimasta tale, sottotitolata in italiano) ci parlano della tensione dell’esilio. E pongono due domande universali: chi sono io? Dov’è il mio destino? Migranti. Lite Viminale-Ong e arriva il decreto di Virginia Piccolillo Corriere della Sera Cei: l’immigrato non è un delinquente. Limato e fuso in un unico testo, il decreto sicurezza e immigrazione approda oggi al Consiglio dei ministri in piena bufera migranti. Con il vicepremier Matteo Salvini impegnato in un nuovo duro scontro con le Ong e la nave Aquarius: “Denuncerò per favoreggiamento chi aiuta gli scafisti”. Dal Quirinale erano filtrati nei giorni scorsi dubbi di costituzionalità. E il decreto era slittato, anche per venire incontro all’anima più movimentista dei Cinque Stelle, mal disposta a digerire il giro di vite sulla protezione umanitaria. E contro il decreto ieri ha fatto sentire la sua voce anche la Cei. Parlare di immigrati nel decreto sicurezza, ha obiettato monsignor Galantino, “significa giudicare l’immigrato per la sua condizione. E non possiamo considerarla come condizione di delinquenza”. Ma Salvini va avanti. “Non c’è nessun problema”, assicura a Non è l’Arena di Massimo Giletti su La7. “Se c’è una critica positiva io cambio, aggiungo, arricchisco”, dice. E annuncia che porterà il testo a Palazzo Chigi alle 10. Forte di un dato: “Siamo fermi a soli 20 mila sbarchi. Già un miliardo di risparmio per i soldi degli italiani”. Ma soprattutto sulle ali del nuovo scontro con l’Aquarius. Lo aveva già annunciato nel pomeriggio. “Nelle ultime ore i trafficanti hanno ripreso a lavorare approfittando della collaborazione di qualche Ong. Aquarius2 poco fa ha recuperato 50 persone al largo di Zuara. Altri due gommoni, con 100 immigrati ciascuno, sarebbero in navigazione. E pensare che dopo la nave Diciotti le partenze dalla Libia si erano azzerate”. Poi ha anticipato: la nave, dopo essere stata cancellata dai registri di Gibilterra, sarà cancellata anche da quelli di Panama. Dall’Aquarius si sono detti “scioccati”. E convinti che a togliere la bandiera alla nave siano state le pressioni italiane. Alla Jasmund Shipping, proprietaria della nave, le autorità panamensi hanno scritto: “È necessario che sia esclusa dal nostro registro. La sua permanenza implicherebbe un problema politico per il governo e per la flotta panamense in direzione dei porti europei”. Dure le proteste da parte di Sos Méditerranée e Medici Senza Frontiere: “In centinaia moriranno annegati”. “Nessuna pressione su Panama” controreplica Salvini. “Evidentemente nessuno vuole essere identificato con una nave che intralcia le operazioni di soccorso in mare, rifiuta il coordinamento con la guardia costiera libica, attacca governi democratici, pretende di distribuire clandestini in Europa e carica decine di persone pur essendo oceanografica”. Per loro, chiosa, “i porti italiani continueranno a restare chiusi”. Hotspot europei, rimpatri e aiuti all’Africa. Il piano spagnolo per gestire i migranti di Paolo Mastrolilli La Stampa I profughi distribuiti in tutta l’Unione. Il ministro degli Esteri Borrell: non si fermano i flussi bloccando i porti. Superare Dublino; creare centri di accoglienza europei per identificare i migranti in arrivo e distribuirli in tutto il continente; rimpatriare gli illegali che non hanno diritto all’asilo, facendo però accordi con i Paesi di provenienza per creare canali di immigrazione legale; investire nella stabilità e lo sviluppo dell’Africa. Sono i quattro punti del piano proposto dalla Spagna per uscire dall’emergenza. Josep Borrell, ministro degli Esteri di Madrid, è intervenuto al convegno organizzato a New York dalla Feps, a cui ha partecipato l’ex premier italiano Amato. Ha smentito che Trump gli abbia suggerito di costruire un muro nel Sahara, ma ha individuato i principi su cui dovrebbero puntare i progressisti, per contrastare la retorica populista in vista delle elezioni europee di maggio, dove “le migrazioni saranno il tema centrale”. Guardando anche oltre, perché nei prossimi 30 anni la popolazione africana aumenterà di un miliardo di persone, creando una pressione che non si potrà contenere solo chiudendo i porti alle navi delle Ong. Il primo sforzo è pedagogico. Le migrazioni sono un fenomeno per due terzi regionale, ma ormai richiedono un approccio globale. I politici che puntano sui temi identitari le usano come un’arma, invece di considerarne l’utilità storica. Per contrastarli, bisogna riconoscere che non sono la panacea automatica del calo demografico, e vanno gestite. Stesso discorso per la sicurezza: non la minacciano automaticamente, ma vanno controllate. La mobilità è un aspetto della natura umana, e va riconosciuta come diritto. Se non viene guidata, però, aiuta ad alimentare paura e rabbia. Nessuno può farlo da solo, e se l’Europa non accetta che i confini di Italia o Francia sono i confini esterni di tutti, Schengen finirà: “Capisco che gli italiani si sono sentiti lasciati soli. È toccato alla Grecia, poi all’Italia, ora alla Spagna”. Però “non ogni gestione è accettabile. Gli Stati hanno il diritto di decidere come proteggere i confini, ma nel rispetto delle leggi internazionali e dei diritti umani”. L’Europa vive un paradosso perché “ha bisogno dei migranti a causa del declino demografico, per garantire lavoro e tenuta dei sistemi pensionistici”, ma prevale la percezione della mancanza di controllo: “I polacchi si sentono invasi dai musulmani, ma non sanno che sono solo il 7% della loro popolazione. In genere la percezione del numero dei migranti è tripla rispetto alla realtà, ed è difficile applicare politiche efficaci se non si basano sulla realtà”. Un passo utile sarà l’approvazione del Global Compact in dicembre a Marrakech, perché stabilirà due principi fondamentali: la necessità di proteggere la vulnerabilità dei migranti, ma allo stesso tempo anche quella di gestirli, per evitare che i loro movimenti generino una sensazione di disordine e quindi paura. Passando dai principi alla pratica, questo è il piano che l’Europa dovrebbe approvare. Primo, superare l’accordo di Dublino che delega l’accoglienza ai Paesi di sbarco, perché è ingiusto, non funziona, nessuno lo applica più: quando la nave Acquarius attraccò a Valencia, molti migranti a bordo erano già pronti ad andare in Francia. Secondo, creare 3 o 4 hotspots per l’accoglienza, che fisicamente saranno nei Paesi di prima linea, ma sul piano amministrativo saranno europei. Qui si dovranno processare gli arrivi e distribuire gli aventi diritto all’asilo in tutti i Paesi Ue. Chi non vuole prenderli potrebbe pagare, come ha proposto il presidente francese Macron. Gli altri saranno rimpatriati. Terzo, fare accordi con i Paesi di provenienza: riprendete gli illegali, ma per ogni 10 illegali che rimandiamo indietro ci riprenderemo poi 5 legali (i numeri sono ipotetici), selezionati da noi e istruiti sul modello Erasmus, affinché abbiano le capacità per essere utili. Quarto, varare piani di lungo termine per favorire lo sviluppo e la stabilità dei Paesi di provenienza. Perché l’Africa non è solo un problema, ma anche una grande opportunità, e quando lo capiremo potrebbe essere troppo tardi, visti gli investimenti che sta già facendo la Cina. L’Europa e la lunga stagione dei nazionalisti di Stefano Folli La Repubblica Era scontato che Berlusconi tentasse di attirare su di sé un po’ di attenzione. Lo ha fatto annunciando a Fiuggi la sua candidatura alle europee. Mossa logica, anche perché quel voto si esprime con il proporzionale e Forza Italia ha bisogno di dimostrare la propria esistenza in vita. Ma la realtà cambia poco: il protagonista di 20 armi di politica italiana oggi è solo il comprimario di un centrodestra le cui redini sono nelle mani di Salvini. Se così non fosse, Berlusconi avrebbe votato di recente contro l’ungherese Orbàn, al di là di un’amicizia personale che in casi come questi conta poco. Avrebbe compiuto un gesto gradito ad. Angela Merkel che si è sempre sforzata di costruire in Italia un antimurale contro la marea “populista”. Risultato: il governo gialloverde è al 60 per cento dei sondaggi e Forza Italia è un partito a due passi dalla dissoluzione. Per salvare qualcosa, Berlusconi ha dunque accettato l’inimmaginabile: una sostanziale subordinazione a Salvini e alle sue logiche nazionaliste. Nella speranza che la stagione sovranista sia solo una parentesi, dopodiché si tornerà all’antico. una speranza condivisa da qualche esponente del centrosinistra, Renzi in primo luogo: una parentesi, destinata per di più a chiudersi in fretta. O per sovrabbondanza di errori da parte dei due soci che dominano la maggioranza e il governo. Oppure per le pressioni dei mercati, dietro cui si celano abilmente le varie cancellerie europee. Oppure per qualche evento internazionale non prevedibile: ad esempio, una rovinosa sconfitta di Trump nelle elezioni di novembre (metà mandato) che potrebbe precludere un secondo mandato al presidente in carica. Con ogni probabilità, infatti, le fortune dei nuovi nazionalismi in Europa sono legate a quelle del “trumpismo” in America. Ma non ci sono indizi che tale nesso stia per spezzarsi. Più facile immaginare che almeno in Italia la stagione dei populismi non sia transitoria, bensì rappresenti l’inizio di una nuova fase politica più o meno lunga. Almeno fino al 2022, quando si voterà per il presidente della Repubblica e il fronte Lega-5Stelle potrebbe avere i voti per eleggere in modo autonomo il successore di Mattarella. Di qui ad allora le varianti possibili sono numerose. Ad Atreju, la festa di Fratelli d’Italia, l’americano Steve Bannon ha descritto uno scenario in cui l’Italia di Salvini e Di Maio è una specie di ariete da scagliare contro l’Europa di Bruxelles, dipinta come schiava del “partito di Davos”. Molti dipingono l’ex ideologo di Trump, poi allontanato dalla Casa Bianca, come un estremista che cerca in Italia la fortuna che non trova più negli Usa. Ma il nodo è se esiste in Europa e nell’Italia di oggi una massa critica sufficiente a demolire la costruzione europea. La risposta non è certa. Ilvo Diamanti dimostrava ieri su questo giornale che l’immagine dell’Unione, nonostante tutto, sta recuperando credito, forse proprio per il timore di una rapida disgregazione. Del resto, anche fra i sovranisti ci sono diversi punti di vista. Il movimento di Bannon sembra ignorare che la vecchia Europa non è il Far West. Salvini, ad esempio, che certo desidera indebolire l’Ue, è attento più alle dinamiche fra Ppe e conservatori che ai sogni rivoluzionari. Non a caso il capo leghista non segue i 5S negli attacchi all’establishment e all’alta amministrazione. Anche con il Quirinale cerca punti d’incontro. In fondo, Salvini vuole mettere radici e costruire un nuovo establishment, anziché rendersi marginale per inseguire un’illusione alla Pancho Villa. Prigionieri nell’inferno libico di Umberto De Giovannangeli huffingtonpost.it A Tripoli e dintorni si combatte. Al-Serraj e l’inviato speciale Onu non possono recarsi a New York: se si muovono rischiano di essere uccisi. Un primo ministro costretto ad annullare la sua partecipazione all’Assemblea generale delle Nazioni Unite, per motivi di sicurezza: se esce dal suo bunker e prova a raggiungere l’aeroporto rischia la vita. Un inviato speciale delle Nazioni Unite che pur sapendo che al Palazzo di Vetro uno dei temi centrali delle assise sarà proprio la crisi libica, dovrà rinunciare a parteciparvi per le stesse ragioni di al-Serraj; motivi di sicurezza. Prigionieri a Tripoli. Il cessate il fuoco in Libia “è incrinato da continui ritorni di scontri con vittime”, rimarca il ministro degli Esteri Enzo Moavero Milanesi, intervenendo, ieri sera, alla festa del Lavoro di Articolo Uno e LeU a Roma. Per l’Italia, ha aggiunto, “l’interesse principale è la stabilizzazione della Libia” e in questo senso “parliamo con il governo riconosciuto dalla comunità internazionale, ma bisogna parlare anche con gli altri”. E il primo degli “altri” è l’uomo forte delle Cirenaica: il generale Khalifa Haftar. “Una guerra si può anche vincere - dice ad HuffPost il titolare della Farnesina, riferendosi a quella del 2011 che porta alla caduta del regime di Gheddafi e alla eliminazione fisica del Colonnello - ma se poi non hai una strategia politica chiara, una visione condivisa sul futuro, il rischio è il caos e una situazione di instabilità che non può non preoccupare l’Europa e l’Italia...”. Tripoli è tornata ad essere un campo di battaglia: le violenze che da venerdì interessano la zona di Trek al Matar, dove si trova la strada che porto all’aeroporto di Mitiga, hanno costretto al-Serraj ad annullare la sua partecipazione all’Assemblea generale delle Nazioni Unite e a concentrare le forze rimastegli fedeli a presidio dell’area di Tripoli dove sono concentrati il palazzo presidenziale e gli altri uffici governativi.. Il presidente dell’Alto Consiglio di Stato libico, Khalid al Mishri, ha incontrato l’altra sera a Tunisi gli ambasciatori di Regno Unito, Paesi Bassi, Canada e Cina, oltre ad un rappresentante della Banca mondiale. Secondo quanto riferito dall’ufficio stampa del Consiglio di Stato “i colloqui si sono concentrati sulla situazione della sicurezza in Libia e sui recenti sviluppi politici nel paese, oltre che sul programma di riforme economiche adottato dal governo di accordo nazionale”. Un’istituzione che, in maniera specifica, si presta da “contraltare” alla Camera dei rappresentanti di Tobruk, il parlamento monocamerale libico che si riunisce in Cirenaica. Ed è, secondo la “road map” tracciata dall’inviato delle Nazioni Unite, Ghassan Salamè, quell’organo fondamentale per far in modo che i membri delle due istituzioni si adoperino a trovare un’intesa per modificare l’accordo politico attuale e arrivare ad elezioni parlamentari e presidenziali. Nel sud di Tripoli non c’è più tregua: i pesanti combattimenti tra la Settima brigata e le Forze speciali di deterrenza (Rada) vanno avanti ormai da due giorni. Il bilancio è di almeno 111 morti e 33 feriti. La Settima brigata accusa le forze Rada di aver attaccato le sue postazioni nella zona sud, sulla strada dell’aeroporto, e chiedere al Governo di accordo nazionale di intervenire per fare rispettare la tregua. Il maresciallo Khalifa Haftar, capo delle forze armate che controllano la Cirenaica, è pronto a intervenire anche in Tripolitania per “portare ordine”. Nel frattempo, oltre 450 famiglie hanno lasciato il sud di Tripoli e sono state accolte in alcune scuole allestite a Tagiura, nell’est. La Mezzaluna rossa e le autorità sanitarie di Tripoli hanno invitato i civili che abitano nell’area degli scontri a restare nelle proprie case. A renderlo noto è l’agenzia di stampa ufficiale Lana, secondo cui i residenti sono stati invitati a non lasciare le proprie abitazioni “fino all’arrivo delle squadre di emergenza”. Secondo l’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim), quasi 20mila persone risultano sfollate nella capitale libica in seguito agli scontri cominciati il 26 agosto nel sud della città, che hanno provocato almeno 96 morti (compresi oltre 30 civili) e 444 feriti. Il maresciallo Khalifa Haftar, comandante dell’Esercito nazionale libico, ha negato qualsiasi collegamento tra le proprie forze e i gruppi armati in conflitto nella capitale ma non ha escluso un intervento futuro. La marcia su Tripoli - ha raccontato durante un incontro con alcuni leader tribali - avverrà in “modo tempestivo e a tempo debito”, sottolineando che tutti i gruppi armati saranno perseguiti “secondo la legge”. La situazione sta sempre più precipitando, al punto che Onu di adottare misure “più ferme ed efficaci” per proteggere la popolazione civile. Il segretario generale dell’Onu, Antonio Guterres, ha lanciato l’allarme per le crescenti violazioni del cessate il fuoco in Libia. Facendo appello a tutte le parti coinvolte nel conflitto per il rispetto della tregua annunciata il 4 settembre, Guterres ha chiesto lo stop di “ogni azione che potrebbe aumentare le sofferenze dei civili”. “Chi viola il diritto internazionale deve essere chiamato a risponderne”, ha detto il portavoce Stephane Dujarric. La situazione dei serbatoi di stoccaggio del petrolio in Libia è “catastrofica e pericolosa” perché i serbatoi vengono spesso utilizzati dalle milizie rivali per nascondersi e vengono distrutti. L’avvertimento arriva dal presidente della Noc, la National Oil Corporation, Mustafa Sanalla, che in un video illustra le condizioni dovute ai continui combattimenti nel Paese. Risultano operativi solo tre serbatoi di stoccaggio del petrolio, ha detto, mentre altre tre sono stati danneggiati. “La guerra del 2014 ha danneggiato nove serbatoi su 15 e in questi giorni ne abbiamo persi altri tre, e solo tre sono rimasti”, ha dichiarato il, precisando che la capacità operativa è ora pari solo al venti per cento. Sanalla ha quindi rivolto un appello alle milizie rivali, perché smettano di combattere e non usino i serbatoi di petrolio per ripararsi. L’inviato dell’Onu, in sintonia con le posizioni italiane, sottolinea che le elezioni sono un passaggio cruciale per la stabilizzazione della Libia, lanciando così un messaggio di apertura ad Haftar e ai suoi sostenitori, interni ed esterni. Lo stesso Haftar, come rivelato da HuffPost, nell’incontro di Bengasi con il capo della diplomazia italiana, ha mantenuto su questo il punto, “con me ho l’85 dei libici”, ma ha aperto sulla possibilità di uno slittamento, a patto che la data definitiva e vincolante fosse indicata, magari nella stessa Conferenza sulla Libia che l’Italia vorrebbe convocare, probabilmente in Sicilia, a metà novembre (sedi possibili Sciacca o Taormina) Ma se la data dovesse slittare di qualche mese - primavera 2019 - gli uomini del generale che controllano il parlamento di Tobruk, indicano ad HuffPost due condizioni irrinunciabili: 1) che a gestire la fase di transizione sia un comitato di garanzia nazionale e non l’attuale esecutivo a guida Sarraj; 2) che l’approvazione della Costituzione sia successiva al voto. Più che da militare, l’Haftar che ha incontrato Moavero “parlava come un presidente in pectore, conciliante, aperto a farsi carico delle preoccupazioni italiane”, confida ad HuffPost una fonte diplomatica bene informata. perché in ballo non ci sono “solo” gli affari (una torta, tra petrolio e ricostruzione, calcolata in oltre 130 miliardi di euro), ma anche sicurezza e migranti. E una tragedia umanitaria che è sempre più apocalittica. Sono “atrocità indicibili” quelle a cui vengono sottoposti migranti e rifugiati che vivono a Tripoli. Lo denuncia l’Unhcr, l’Alto commissariato per i rifugiati delle Nazioni Unite. I pesanti scontri nella capitale della Libia hanno portato a un “drastico deterioramento” della situazione sia dei migranti che vivono nelle aree urbane, sia dei richiedenti asilo in stato di detenzione. L’Unhcr riferisce di stupri, rapimenti e torture, perpetrate anche a danno di bambini. Una donna ha raccontato che criminali sconosciuti hanno rapito suo marito, l’hanno violentata e hanno torturato suo figlio di un anno. Il bambino - stando al racconto della donna - sarebbe stato denudato e molestato sessualmente dai criminali. Molti rifugiati erano detenuti in aree vicine agli scontri e a rischio di essere colpiti dai razzi. “Migliaia sono fuggiti dai centri di detenzione, in un disperato tentativo di salvare le loro vite”, riferisce l’agenzia, che da sempre “si oppone alla detenzione di rifugiati e richiedenti asilo” ma è presente ovunque si trovino per fornire loro assistenza L’Unhcr chiede con fermezza che vengano messe in atto alternative alla detenzione, compreso l’uso immediato della struttura di raccolta e partenza a Tripoli, che fungerà da piattaforma per raggiungere la sicurezza in paesi terzi e che sarà gestita dal Ministero degli interni libico e dall’Agenzia Onu. La struttura, già pronta per l’uso, può ospitare 1.000 rifugiati, vulnerabili e richiedenti. L’Unhcr chiede inoltre “una forte azione istituzionale per colpire i trafficanti responsabili”. Quella delle torture ai danni di donne e bambini non è l’unica denuncia che ha fatto l’Alto Commissario Onu per i rifugiati. (Unhcr). Ha fatto sapere anche di avere “affidabili informazioni” sul fatto che scafisti e trafficanti di esseri umani si spaccino per agenti delle Nazioni Unite in Libia. In questo modo riescono ad arrivare più facilmente ai migranti. L’Unhcr sostiene che ciò avvenga in diverse parti del Paese nordafricano. “Questi criminali sono stati individuati a punti di sbarco e ai crocevia dei traffici, sono stati visti con giubbotti e oggetti con le insegne simili a quelle dell’Alto Commissariato”, ha dichiarato l’Agenzia attraverso un comunicato. Le informazioni in questione arrivano in parte da “rifugiati che dicono di essere stati venduti a trafficanti in Libia e sottoposti a maltrattamenti e torture, a volte dopo essere stati intercettati in mare”. Iran. Nove giovani impiccati, accusati di stupro di gruppo di Giorgio Scura fanpage.it Nonostante la vittima avesse ritirato la denuncia, nove uomini, tutti sotto i 23 anni, sono stati condannati a morte. Inutili le proteste in strada dei familiari delle vittime. L’esecuzione è avvenuta nel carcere di Shiraz, nella provincia iraniana di Fars. Giudicati colpevoli di aver stuprato una donna dopo essere entrati con la forza nella sua abitazione, 9 uomini sono stati impiccati nel carcere di Shiraz, nella provincia iraniana di Fars. Lo riportano oggi i media locali. Ali Alghasimehr, responsabile provinciale del dipartimento Giustizia ha riferito che nonostante la vittima avesse ritirato la denuncia contro i suoi aggressori il tribunale ha insistito affinché nei loro confronti fosse applicata la pena di morte. Le agenzie di stampa statali hanno pubblicato i nomi dei condannati per stupro: Abdolkhalegh Safaie, Aliakbar Haghighi, Ali Shah Alian, Hamidreza Safaie, Behnam Roustaie, Ehsan Safaie, Mohammadreza Safaie, Davoud Zarèi e Mehdi Zamani. Gli uomini, tutti sotto i 23 anni, sono stati impiccati nonostante la vittima dello stupro avesse ritirato la denuncia. Le famiglie degli uomini si erano radunate in diverse occasioni, fuori dall’ufficio del governatore del villaggio “Ghir va Karzin”, chiedendo l’interruzione delle sentenze di esecuzione nei confronti dei loro cari. Giappone. Cresce il numero di stranieri detenuti per immigrazione illegale di Emanuele Amarisse farodiroma.it Il ministero della giustizia giapponese negli ultimi anni ha deciso di aumentare la severità delle pene nei confronti degli immigrati illegali presenti nel proprio paese. La conseguenza naturale di questo nuovo atteggiamento è stato l’incremento del numero di immigrati detenuti per più di sei mesi nelle istituzioni. Tale trend, cominciato alcuni anni fa, non sembra accennare alcuna inversione di marcia. Se nel 2016 “solo” il 28% di immigrati, detenuti in una delle 17 strutture adibite a tale pratica, risultava imprigionato da più di sei mesi, nel 2018 tale numero era cresciuto fino al 54%, pari a circa 700 individui privati a lungo della libertà e condotti alla disperazione e a tentativi di fuga o addirittura suicidio. In aprile, ad esempio, a Ushiku, un indiano ha tentato il suicidio impiccandosi nelle docce della struttura di detenzione dopo un soggiorno forzato di oltre nove mesi, mentre il mese successivo un brasiliano, un camerunense e un curdo hanno cercato di uccidersi a vicenda. Se gli immigrati rifiutano il rimpatrio o il paese di provenienza li respinge, il governo giapponese ritiene di non avere alternative se non continuare a ospitarli forzatamente nelle proprie istituzioni, scottato dall’incidente del 2010, per il quale fu scoperto che un uomo ghanese, morto durante il volo per essere rimpatriato, era stato legato e imbavagliato sull’aereo. L’imbarazzo scaturito dalla morte del quarantacinquenne ha segnato di fatto una maggiore cautela riguardo la politica di deportazioni giapponese. Allo stesso tempo, a causa del collegamento di alcuni immigrati illegali con attività criminali, dal 2015 il governo giapponese ha deciso di aumentare la sorveglianza su di essi imprigionando le persone anche per lunghi periodi di tempo, che in alcuni casi arrivano fino a cinque anni.