Liberate quei bambini incarcerati con le mamme di Luigi Manconi Corriere della Sera, 23 settembre 2018 Il prossimo 4 ottobre i giudici della Corte costituzionale inizieranno il loro “viaggio nelle carceri italiane”. È una iniziativa assai importante. Nella sezione nido del carcere femminile di Rebibbia, pochi giorni fa, una detenuta ha ucciso i propri figli neonati gettandoli nella tromba delle scale. Credo che sarebbe un atto estremamente significativo, denso di intensità morale e, allo stesso tempo, di valore giuridico, se la prima persona che il presidente della Consulta, Giorgio Lattanzi, incontrasse fosse proprio quella donna omicida, per ascoltarne la pena e la follia, lo strazio e la solitudine senza scampo. E per capire, soprattutto, come sia possibile che all’interno di quell’istituto penitenziario continuino ad essere detenuti 14 bambini. Come è noto, in carcere, si trovano colpevoli e innocenti. E ogni colpevole rivendica per sé, non sempre immotivatamente, una quota di innocenza. Mentre gli innocenti possono rimproverare a un errore giudiziario o a un destino nemico o a una qualche propria leggerezza la condanna iniqua. Ma c’è una categoria - tanto esile da risultare invisibile, come appunto è - costituita dagli assolutamente innocenti. Gli innocenti assoluti, detenuti con le loro madri all’interno del sistema penitenziario italiano, sono oggi 62. Nel 1991 erano 61. Nei tre decenni trascorsi da allora, quattro presidenti della Repubblica hanno avuto parole accorate e ferme nel criticare questo scempio di vita, più di un ministro della Giustizia ha tentato di trovare una soluzione, alcune commissioni parlamentari hanno affrontato il problema. Il risultato è che il numero degli innocenti assoluti in carcere, dopo aver conosciuto alcune oscillazioni, oggi è maggiore di quanto fosse nel 1991. All’epoca, visitai il nido di Rebibbia, dove la sconsolata buona volontà di tanti (le madri, in primo luogo, e i volontari, il personale e gli assistenti sociali) tentava di dare a quel luogo fatalmente squallido e ostile una qualche parvenza di ospitalità e di allegria, attraverso il ricorso a colori, disegni, giocattoli. Restava, tuttavia, un elemento a ricordare l’atrocità di quella situazione: gli angoli delle brande di ferro dove madri e figli dormivano erano malamente coperti da indumenti e stracci per smussarne le punte e attenuarne gli spigoli. Quel nido, nel frattempo, è stato ristrutturato e oggi ha un aspetto diverso. E altre cose sono cambiate. Già la legge 40/2001 ha introdotto nell’ordinamento penitenziario nuovi tipi di misure alternative per donne madri, nonché modalità di assistenza all’esterno dei figli minori. Le alternative al carcere per i bambini fino a sei anni (non più tre anni, da gennaio 2014) oggi sarebbero il trasferimento negli istituti a custodia attenuata (Icam) e nelle case famiglia protette. I primi sono istituti detentivi facenti capo all’amministrazione penitenziaria e ne esistono attualmente cinque. Le seconde, previste da una legge del 2011, dovrebbero essere strutture promosse insieme agli enti locali, ma finora ne è stata realizzata solo una a Roma, per 6 posti. Dunque, la possibilità di liberare dal carcere la grande maggioranza di quei 62 bambini tutt’ora reclusi è già contenuta nel nostro ordinamento. Se ciò non accade si deve in parte, ma solo in parte, alla rigidità di alcune norme e ai vincoli derivanti dalla particolare condizione di alcune detenute che, in ragione della recidiva o a causa della gravità del reato, richiede un controllo più stretto e assiduo. Ma si deve, soprattutto, a quella catastrofica impotenza riformatrice che è propria dell’intera classe politica nazionale e locale del nostro Paese. Come si è detto, le leggi ci sono, la loro attuazione richiede intelligenza di governo e pazienza amministrativa e costi relativamente modesti. La spesa complessiva per far uscire dal carcere quei minori e alloggiarli in case famiglia protette, che garantiscano la loro tutela e la sicurezza pubblica, è stata stimata intorno al milione di euro all’anno. Una volta si sarebbe detto: come è possibile che questo accada nel Paese di Cesare Beccaria? Oggi, dopo che abbiamo visto a quali e quante ingiurie è stato sottoposto il pensiero del grande illuminista lombardo, ci accade di sorprenderci un po’ meno. Ma confidiamo che la Corte costituzionale, guidata da quell’uomo d’onore che è Giorgio Lattanzi, sappia trovare l’occasione e le parole per dire al legislatore e alla magistratura che una simile ingiustizia assoluta ai danni degli innocenti assoluti non è più tollerabile. Detenute e bambini in carcere: questioni irrisolte di Antonio Salvati notizieitalianews.com, 23 settembre 2018 I due bimbi morti nel carcere di Rebibbia - lanciati giù dalle scale da una madre detenuta malata, georgiana di origine tedesca - riportano all’attenzione una questione mai risolta del tutto: è giusto, è opportuno, che le detenute con figli piccoli scontino la pena in carcere? Oppure: è giusto, è opportuno, che dei bambini crescano in prigione? La recente tragedia richiede una riflessione sulle soluzioni diverse dal carcere per le madri con figli piccoli. Queste morti - ha giustamente osservato Antonio Mattone sulle pagine del quotidiano napoletano Il Mattino - racchiudono tutte le contraddizioni e i problemi della realtà carceraria: la detenzione di tossicodipendenti, la difficile comunicazione con gli stranieri, la scarsa attenzione a persone con problemi psichiatrici per cui manca una vera e propria presa in carico. E soprattutto la presenza di minori all’interno dei reparti detentivi. Ci interessa soffermarci sulla detenzione femminile che presenta delle sue peculiarità. Indubbiamente, la criminalità e la detenzione femminile sono divenute materia di indagine e di studio solo in tempi relativamente recenti. Tale attenzione è da mettere in relazione con quanto è accaduto negli ultimi cinquant’anni. Infatti, le donne sono diventate protagoniste del profondo cambiamento sociale che ha interessato il nostro paese e che si è risolto nella approvazione di una serie di leggi a favore della libertà e della emancipazione delle donne: dalla procreazione controllata alla depenalizzazione dell’aborto, dal divorzio all’abrogazione del reato di adulterio femminile, con il riconoscimento di una parità - in termini di diritto di accesso a lavori prima esclusivi del mondo maschile e di parità di retribuzione - che interessa ora l’intera sfera sociale. Malgrado la maggiore visibilità delle questioni femminili, in ambito criminale e penitenziario si sono registrati scarsi mutamenti: gli uomini restano ancora i protagonisti quasi esclusivi della realtà e della scena carceraria e criminale. In altri termini, ha sostenuto T. Pitch “la criminalità, e così il carcere, sono domini maschili ma mai esaminati come tali”. È evidente come all’emancipazione della donna nella vita civile e a un cambiamento della sua posizione nella società occidentale, non sia seguito un cambiamento e incremento della criminalità femminile. La presenza delle donne negli istituti penitenziari viene analizzata solitamente nel confronto con la preponderante componente maschile. Gli sforzi di comprensione sembrano concentrarsi più sul perché le donne siano poche, che non sulla realtà in sé. Il fatto che le donne detenute siano meno rispetto agli uomini tende a far considerare la condizione maschile come norma, riproducendo la subalternità concettuale della donna, la sua assimilazione ad una generalità che non è generale. Il numero delle detenute si attesta intorno al 5% delle presenze complessive. Secondo i dati forniti dal Ministero della Giustizia Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria le donne detenute straniere presenti in carcere al 31 gennaio 2010 erano 1225 (erano 938 al 31 agosto 2018). Le donne complessive presenti negli istituti di pena italiani al 31 gennaio 2010 erano 2.832 su un totale di 65737 e dunque rappresentavano poco più del 4,25% della popolazione detenuta maschile; al 31 agosto 2018 erano 2551 su un totale di 61686, poco meno del 4,20%. Forse anche a causa dell’esiguità della percentuale di donne detenute, si riscontra un’evidente difficoltà a elaborare accorgimenti organizzativi e offerte riabilitative idonei a cogliere e valorizzare la specificità della popolazione detenuta femminile. Ne deriva che molti dei problemi specifici, che sono legati alla detenzione della donna, sono stati poco o male osservati e valutati. Negli ultimi anni, la media della permanenza in carcere delle donne sta diventando sempre più bassa, in quanto coinvolte anche loro in quel fenomeno di “porta girevole” che è diventato il carcere, ossia una struttura che in breve tempo tornerà ad ospitare nuovamente persone coinvolte in una pluralità di esperienze devianti. Moltissime detenute sono straniere. Alcuni anni fa la Fadda, magistrato di sorveglianza di Milano, osservò giustamente che le detenute vivono il “il trauma della separazione dal contesto familiare e sociale di riferimento e dunque spesso in condizione di sofferenza psichica, anche senza fissa dimora, senza riferimenti esterni significativi, che poco conoscono la lingua italiana, portatrici di una cultura di nomadismo o tossicodipendenti e comunque con un livello di bassa scolarizzazione”. In virtù di queste considerazioni - e tornando al dramma dei bambini in carcere - è opportuno allargare e valorizzare l’esperienza degli Istituti a custodia attenuata per madri con la prole al seguito (Icam), istituiti grazie ad una legge del 2011. Si tratta di strutture senza sbarre dove il personale non ha la divisa e si vive in condizioni penitenziarie più aperte (anche se sono pur sempre prigioni, dove si vive lo stress e le restrizioni proprie di un ambiente piccolo e contenuto). Antonio Mattone nel suddetto articolo ha ricordato l’esperienza dell’Icam a Lauro di Nola: una realtà che per alcuni rappresenta un modello positivo dove attualmente sono rinchiusi dodici minori. A Roma è aperta da più di un anno la Casa di Leda, intitolata a Leda Colombini, partigiana, sindacalista, parlamentare e soprattutto protagonista della battaglia per ottenere una legge che evitasse ai bambini di finire in carcere con le madri. Morta nel 2011 in seguito a un malore che l’aveva colpita nel carcere di Regina Coeli, dove stava svolgendo la sua quotidiana opera di volontariato, l’ex deputata del Pci aveva fondato “A Roma Insieme”, un’Associazione che ha come obiettivo quello che “nessun bambino varchi più la soglia di un carcere”. Mi piace ricordarla quando insieme agli amici della Comunità di Sant’Egidio organizzava i cosiddetti “sabati di libertà”, consentendo ai bambini di uscire dalle mura di Rebibbia femminile. Bimbi uccisi dalla madre detenuta. Il Dap: “Serviva l’isolamento” di Maria Elena Vincenzi La Repubblica, 23 settembre 2018 Fermo convalidato, disposta custodia cautelare. Rimane a Rebibbia Alice Sebesta, la tedesca di 33 anni che martedì ha ucciso entrambi i suoi figli, di 6 mesi e un anno e mezzo, lanciandoli giù da una scala. Ieri davanti al gip Antonella Minunni, al procuratore aggiunto Maria Monteleone e al pm Eleonora Fini, la donna ha deciso di rispondere. Dal giorno della tragedia è detenuta nel reparto psichiatrico della struttura protetta del Pertini. “Sono una buona madre, sono consapevole di quello che ho fatto. Volevo liberare i miei figli, avevo paura della mafia e li volevo proteggere. Ero impaurita dalle cose che leggevo sui giornali”, ha detto ai magistrati. Un interrogatorio difficile, che più volte è stato interrotto perché la donna, difesa dall’avvocato Andrea Palmiero, scoppiava a piangere disperata. Al termine dell’atto istruttorio, il giudice ha emesso un’ordinanza di custodia cautelare in carcere: l’accusa è di duplice omicidio. E mentre gli accertamenti su quei tragici momenti vanno avanti, il ministero della Giustizia che ha sospeso i vertici del carcere e il vice capo della polizia penitenziaria, continua la sua indagine interna. Dalla quale emergono alcuni dettagli. Agli atti dell’inchiesta avviata dal Dap ci sono, infatti, alcune segnalazioni redatte dagli agenti circa atteggiamenti della donna che avevano destato alcune perplessità. Agli atti ci sono note in cui le guardie mettono nero su bianco “un pericolo per i due piccolini”. Ce ne sono diverse. Una, in particolare, arrivata sul tavolo della direttrice Ida Del Grosso (poi sospesa), lo stesso giorno della tragedia raccontava di un ematoma sulla testa del piccolo Divine. Non forniva alcuna spiegazione sul perché di quella ferita. Ma, questa è la considerazione di via Arenula, a seguito di quella segnalazione, la madre avrebbe dovuto essere messa in isolamento. Così non è stato. Mentre le due inchieste, quella giudiziaria e quella disciplinare, vanno avanti, non si placa la polemica sulla detenzione delle mamme. Ieri è intervenuto anche il cappellano di Rebibbia, don Sandro Spriano: “La politica non vuole che queste donne Siano ospitate nelle case famiglia. Noi come chiesa qualche anno fa abbiamo detto che 60 donne le avremmo ospitate in pochi secondi nelle nostre diocesi in Italia ma non vogliono. Tutti quelli che vengono in carcere poi dicono “basta bambini in carcere” ma i bambini continuano a restarci. Un gesto del genere non era assolutamente prevedibile. Se vogliamo proteggerci da certi episodi, come pensa il ministro, dovremmo legare ogni donna in un posto con qualcuno di guardia davanti. Per buttare per terra due bambini ci vogliono pochi secondi”. Tragedia a Rebibbia. Il Garante Anastasìa “le responsabilità sono altrove” di Teresa Valiani Redattore Sociale, 23 settembre 2018 Intervista al garante dei detenuti di Umbria e Lazio: “Sono anni che parliamo del fatto che non dovrebbero esserci più bambini in carcere ma ce ne sono quanti ce n’erano 10 anni fa. Il carcere resta al centro della pena: sta qui il fallimento”. “Sospensione per il direttore della casa circondariale femminile di Roma-Rebibbia, Ida Del Grosso, per la sua vice, Gabriella Pedote, e per il vice comandante del reparto di Polizia penitenziaria, Antonella Proietti. Questa la decisione presa dal ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, in seguito ai fatti avvenuti ieri nel carcere romano. I provvedimenti sono stati adottati dal capo del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, Francesco Basentini. Da ieri, inoltre, è in corso un accertamento ispettivo da parte del Dap”. Il ministero interviene sulla tragedia di Rebibbia, il carcere romano in cui ieri una detenuta - ristretta con i suoi due figli piccoli -, ha deciso di togliere la vita a entrambi. Mentre pieno appoggio e solidarietà ai dirigenti sospesi arriva dal garante dei detenuti di Lazio e Umbria, Stefano Anastasìa che si unisce all’unanime coro di reazioni, auspicando un passo indietro nella contro-riforma che di fatto “ha eliminato dal decreto ogni riferimento alle misure alternative”. “Quello che è successo a Rebibbia - commenta il garante - è la tragedia più grande, quella non avevamo ancora mai visto. Ora bisogna chiedersi perché quella donna fosse in carcere, perché non avesse le possibilità di accedere a misure alternative con i suoi figli, se fosse adeguatamente assistita dal punto di vista sanitario. Queste sono le questioni di cui ci si dovrebbe occupare. Francamente, allo stato, non c’è nulla che lasci presagire una responsabilità diretta o indiretta dei dirigenti sospesi che ora pagano lo scotto dell’enormità della cosa. Probabilmente bisognava prendere dei provvedimenti esemplari, quando poi responsabilità magari non ve ne sono. Approfitto di questa intervista per ribadire la mia fiducia e stima nei confronti di tutti e tre perché so che sono persone di grande capacità e umanità. Tutto quello che avrebbero potuto fare certamente l’avranno fatto”. Quando le responsabilità personali sono relative, le cause vanno ricercate altrove. È il sistema che va cambiato? “Il primo dato macroscopico di questa vicenda è che stiamo ancora discutendo di una presenza nel femminile di Rebibbia di un numero di bambini che oscilla tra i 15 e i 16. Lo stesso numero di 10 anni fa. Lo stesso numero che c’era prima che venisse aperta la Casa di Leda, la casa famiglia per donne condannate e figli minori. Questo significa che evidentemente anche queste sperimentazioni di alternative al carcere non vengono usate con coraggio per ridurre, e cancellare, la presenza dei bambini in carcere. Ma vengono usate come una specie di area complementare per quelli che un giorno sarebbero andati a casa: invece di andare a casa loro vanno nella Casa di Leda. E questo è ovviamente un fallimento del sistema, perché significa che ancora una volta al centro del sistema c’è sempre e comunque il carcere. Poi se uno ha particolari risorse, fortuna, se nel suo territorio c’è un’esperienza come quella, se gli operatori lo seguono con particolare attenzione, eccetera eccetera, magari riesce ad arrivare ad una alternativa al carcere. Ma il carcere rimane comunque il punto d’accesso e il punto di svolgimento di gran parte delle pene. È questo il fallimento”. Un tentativo di invertire la rotta, con la riforma Orlando, c’è stato. Ma non è andato a buon fine… “Sono anni che parliamo del fatto che non dovrebbero esserci bambini in carcere ma ce ne sono quanti ce n’erano. Contestualmente, di tutto il processo di riforma che era stato avviato dal ministro Orlando è rimasto un piccolo decreto da cui sono state eliminate tutte le parole che facevano riferimento a una alternativa al carcere. Se il decreto, che ora dovremo chiamare “Bonafede”, nei prossimi dieci giorni, perché poi dovrebbe scadere definitivamente la delega, dovesse trasformarsi in legge, sarebbe un decreto da cui è espunto ogni riferimento alle alternative al carcere. Tutto questo, secondo un’idea veramente del secolo scorso, ma dell’inizio del secolo scorso, per cui la pena si svolge in carcere, il trattamento si svolge in carcere, qualsiasi cosa si svolge in carcere”. Ci sono i termini, secondo lei, per un passo indietro sulla riforma ancora una volta sul filo di lana? Episodi come questo riescono in qualche modo a smuovere le coscienze? “Mi sembra complicato, ma penso che questi episodi ancora una volta ci parlino di questo: del fatto che il carcere è un luogo di punizione che induce una straordinaria sofferenza e che quindi, se bisogna farvi ricorso, è solo, come si dice da troppo tempo, come extrema ratio. Spero che anche tragiche vicende di questo genere possano indurre il governo o almeno il ministero della Giustizia, a rivedere una politica carcero-centrica che non serve a niente e a nessuno. Contestualmente ognuno di noi dovrà fare la sua parte perché siano attivati altri mezzi e strumenti: perché sia garantita la migliore assistenza sanitaria e presa in carico, soprattutto dal punto di vista della salute mentale, e perché siano attivati percorsi di sostegno per l’inserimento e l’inclusione sociale. Per fortuna queste sono competenze non solo del governo ma anche delle regioni e degli enti locali che certo navigano in pessime acque dal punto di vista finanziario ma che, spero, possano attivarsi in questo senso. La sicurezza non si produce tenendo la gente sotto chiave ma accompagnandola in un percorso diverso”. In galera ventimila imputati che nessun tribunale ha giudicato di Azzurra Noemi Barbuto Libero, 23 settembre 2018 Troppo spesso in Italia il principio della presunzione di innocenza, sancito dall’articolo 27, secondo comma, della Costituzione, che stabilisce che “l’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva”, viene convertito nel suo esatto opposto, ossia in quello della presunzione di colpevolezza. Ed è così che migliaia di indagati ed imputati, addirittura ancora prima del giudizio di primo grado, vengono assimilati ai condannati e si ritrovano a scontare una pena detentiva che ancora deve essergli comminata. Anche secondo l’art. 6, secondo comma, della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, “ogni persona accusata di un reato è presunta innocente fino a quando la sua colpevolezza non sia stata legalmente accertata”. Eppure, stando agli ultimi dati del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, al 31 agosto del 2018 nei 190 istituti penitenziari italiani, a fronte di una capienza regolamentare di 50.622 individui, vi sono 59.135 detenuti, 9.901 dei quali in attesa del primo giudizio. Sono invece 9.766 i condannati non ancora definitivi. Quelli passati attraverso i tre gradi di giudizio sono 39.090. La regione con il più elevato numero di persone ristrette e non ancora processate è la Campania (1.425), seguono la Sicilia (1.359), la Lombardia (1.264), il Lazio (1.073). Se anche soltanto ai detenuti in attesa del giudizio di primo grado non venisse applicata la custodia cautelare in carcere, verrebbe risolto il problema del sovraffollamento, che determina l’impossibilità di eseguire sui singoli trattamenti individuali di rieducazione. Capienza massima - Infatti, il numero dei carcerati passerebbe da 59.135 a 49.234 individui, quota inferiore alla capienza massima possibile. I benefici sarebbero copiosi: diminuirebbero i suicidi, migliorerebbero le condizioni di vita all’interno degli istituti di pena nonché la salute fisica e psichica dei ristretti, per il personale che vi lavora sarebbe più agevole svolgere il proprio compito e diventerebbe più facile per l’istituzione totalizzante penitenziaria assolvere la sua funzione fondamentale, ossia quella rieducativa, mediante programmi mirati volti a favorire il reinserimento sociale e lavorativo del reo, dal momento che lo scopo del carcere non è imprigionare, ma redimere. Se si considera che ogni anno finiscano nelle nostre celle almeno mille innocenti (1013 nel 2017), quasi tre al giorno, 10mila in un decennio, i dati relativi ai carcerati in attesa di giudizio fanno ancora più impressione. Si tratta di uomini e donne accusati di diversi reati sulla base di prove irrisorie o addirittura inesistenti e per questo rinchiusi. Su di loro peserà per sempre lo stigma di criminali, anche nel momento in cui emergerà e sarà conclamata la loro estraneità ai fatti che gli sono stati contestati. Infatti, perché ciò avvenga, non di rado devono trascorrere molti mesi, addirittura anni, vissuti da presunti colpevoli in un micro-spazio in cui l’individuo viene privato di tutto ciò che gli appartiene, inclusi i rapporti familiari, e disumanizzato, diventando numero, soggetto invisibile, rifiuto sociale. Se la galera è insopportabile da colpevoli, lo è ancora di più da innocenti. Un vero e proprio calvario, che lo Stato, sempre più malvolentieri, è disposto a risarcire con un massimo di 270 euro per ciascun giorno di ingiusta detenzione. Codesti errori hanno già comportato una spesa di circa 700 milioni di euro di soldi pubblici, a cui devono essere sommati i costi giornalieri di mantenimento di ciascun detenuto in attesa di giudizio, che ammontano a circa 158 euro al dì. Il che implica che i 9.901 reclusi che attendono la sentenza di primo grado ci costano 1.564.358 euro al giorno, per un totale di oltre 570 milioni l’anno. Un salasso non indifferente per un Paese che cerca di racimolare quattrini per mantenere le grandiose promesse del governo in carica agli elettori. Inutile infamia - Ogni 12 mesi mille vite vengono distrutte nell’indifferenza generale della politica, della società e della magistratura, che spesso abusa della custodia cautelare in carcere, ossia della carcerazione preventiva, nonostante costituisca una misura di ultima istanza. Ecco perché siamo il Paese europeo con il più alto numero di individui messi dietro le sbarre senza processo, esseri umani la cui colpevolezza dunque deve ancora essere provata e oltre ogni ragionevole dubbio. Faceva bene Enzo Tortora a dividere il mondo in due categorie: “Quelli che conoscono sulla pelle l’infamia di una carcerazione preventiva in un regime cosiddetto democratico, protratta all’infinito, protratta per anni; e quelli che non hanno la jattura di conoscerla”. Sono questi ultimi a riservarla a cuor leggero a tutti gli altri. Quando è lo Stato a boicottare la legge di Michele Ainis L’Espresso, 23 settembre 2018 Invece di cambiare o abolire le norme che non piacciono, i politici hanno scoperto “l’ostruzionismo militante”. “L’abuso e la disobbedienza alla legge” diceva Giacomo Leopardi “nessuna legge può impedirli”. Tuttavia può favorirli, aprendo varchi e scappatoie per i più furbi. O altrimenti la legge successiva può svuotare la legge precedente, pur senza abrogarla espressamente. In Italia succede di continuo. E l’incertezza del diritto ha come vittima i diritti, l’armatura che ci protegge dai soprusi. Perché se un diritto esiste, innanzitutto dev’essere possibile conoscerlo; e alle nostre latitudini già questo è un bel problema, con 50 mila leggi che s’oscurano a vicenda. In secondo luogo dev’essere possibile azionarlo, garantirne l’osservanza in tribunale dinanzi a chi non lo rispetta. Altro problema formidabile, con 3,6 milioni di processi civili pendenti, con 130 mila processi penali che ogni anno vanno in prescrizione, altrettanti delitti senza castigo. Mali antichi, che nessun governo - di destra o di sinistra - ha mai saputo debellare. Però negli ultimi tempi si va consumando un attacco alle libertà degli italiani che viaggia in forme subdole, indirette, e perciò ancora più insidiose. Stringendo sui diritti una tenaglia con due lame: la borsa dei quattrini e l’obiezione di coscienza. Quanto al primo aspetto, è il caso del ddl Pillon, ora all’esame del Senato: dopo il divorzio, addio all’assegno di mantenimento per i figli, ciascuno s’arrangi come può. Quindi il diritto a divorziare resta, ma per il coniuge più debole - che in genere è la donna - quel diritto viene prosciugato, come il collo di chi subisca il morso d’un vampiro. D’altronde non è l’unico caso. Anche il ministro dell’Interno ha deciso una robusta sforbiciata ai fondi per l’immigrazione: basta con i 35 euro al giorno che ricevevano le cooperative per l’ospitalità dei richiedenti asilo, tagli profondi sui 3,4 miliardi destinati all’accoglienza. Sicché un altro diritto - l’asilo, in teoria protetto dall’articolo 10 della Costituzione - viene affamato, e di fatto dimezzato. Da qui una lezione: i diritti vivono (e muoiono) nell’inferno dei nostri rapporti quotidiani, non nel paradiso delle Gazzette ufficiali. Ma per vivere hanno bisogno di risorse, di stanziamenti pubblici. Come hanno scritto due studiosi americani (Holmes e Sunstein), la libertà dipende dalle tasse. Giacché pure i diritti civili costano, non soltanto quelli legati al Welfare. Nell’agosto del 1995 divampò un incendio a Long Island, dove hanno le proprie residenze i ricchi; l’incendio fu domato, ma per un costo di 3 milioni di dollari. Quattrini pubblici, senza i quali lo stesso diritto di proprietà resterebbe sulla carta. Figuriamoci i diritti sociali. E c’è poi un altro nemico delle nostre libertà: l’ostruzionismo “militante”, per lo più vestito con i panni dell’obiezione di coscienza. Succedeva (succede) già da tempo nei confronti dell’aborto, dove su 654 strutture dotate di reparti di ostetricia solo 390 effettuano interruzioni di gravidanza, dove in alcune aree del Paese i medici obiettori sfiorano il 90%, dove insomma riuscire ad abortire prima che scadano le 12 settimane previste dalla legge 194 non è più un diritto, è un colpo di fortuna. Adesso il medesimo fenomeno si ripete pari pari nei confronti delle nozze gay. Con l’aggravante che stavolta l’obiezione promana dallo Stato, da chi lo rappresenta. Dai sindaci, in primo luogo: quello leghista di Prevalle, il primo a rifiutarsi d’applicare la legge del 2016 sulle unioni civili; l’ex sindaco di Teramo, che negava agli sposi qualsiasi cerimonia; i primi cittadini di Sorrento, di Favria, di varie altre contrade. E in secondo luogo l’obiezione risuona dal pulpito più alto, dai banchi del governo. Con una vis declamatoria nella quale si è distinto il neoministro della Famiglia, Lorenzo Fontana: a cui dire le famiglie arcobaleno non esistono, il matrimonio gay è una bestemmia in chiesa, la teoria gender nelle scuole diseduca i nostri igli. E noi, cosa possiamo dire? Per esempio che i governanti hanno il potere di cambiare le leggi, non il diritto d’insultarle. Che le cambino, però, alla luce del sole, anzi del Parlamento; senza sotterfugi, senza svuotarle dal di dentro fingendo di mantenerle in vita. Altrimenti la politica diventa l’arte degli inganni. Sicurezza, il Decreto legge resta così. “Lo vogliono gli italiani” di Valentina Errante Il Messaggero, 23 settembre 2018 Per Matteo Salvini l’unico interlocutore è il “suo” popolo, quello stanco dell’immigrazione clandestina e delle città insicure. E così, il vicepremier e ministro dell’Interno va dritto per la sua strada: nessuna modifica sostanziale al testo del decreto sicurezza (un unico provvedimento su migranti e misure antiterrorismo e contro la mafia) che nella stesura esaminata domani in consiglio dei ministri manterrà l’impatto ad effetto per gli elettori, al di là dei rilievi del Colle e dei malumori di via Arenula. Al massimo sarà il Cdm a modificarlo, oppure se ne parlerà in aula, o ancora davanti alla Consulta, per quelle norme che stridono con le leggi costituzionali. Quello che per lui conta, Salvini, lo ha già detto: “Io ho fatto quello che dovevo fare”. D’altra parte il vicepremier è sicuro che con il Colle non ci saranno problemi: “È il decreto più partecipato della storia - dice - sono contento che in tanti lo abbiano esaminato, sono arrivati anche suggerimenti utili”. Ma di fatto né le indicazioni del ministero della Giustizia, guidato dal pentastellato Alfonso Bonafede, né quelle del Quirinale sono state accolte, a parte minime limature il testo è rimasto identico. Con una scelta tutta politica, il leader del Carroccio non fa un passo indietro, sicuro di aumentare ancora di più consensi e popolarità. Nel decreto anche precedenti i penali dei familiari potranno pesare sulla concessione dei permessi ai migranti. Nel nuovo testo per la revoca della cittadinanza o dell’asilo non basterà più una semplice denuncia, che poi potrebbe risultare infondata persino all’esame di una procura, senza arrivare a una sentenza di assoluzione, ma sarà necessaria una condanna, anche in primo grado. È questo uno degli aggiustamenti dell’ultima ora che i tecnici del Viminale hanno apportato al testo. Una risposta alle perplessità del Colle e al ministero della Giustizia che non modifica, dal punto di vista del diritto, la sostanza: in Italia un imputato è considerato innocente fino al terzo grado di giudizio. In particolare, il Quirinale, anche se mai esplicitamente, ha manifestato resistenze sulla possibilità di cambiare con decreto norme costituzionali che riguardano la protezione internazionale. Nel testo permane invece che nella valutazione dei permessi per rimanere in Italia non contino più soltanto i precedenti penali del diretto interessato, ma anche quelli dei familiari. Un altro nodo, dal momento che, secondo il nostro codice, la responsabilità penale è personale. E ancora resta immutata la possibilità di revoca della cittadinanza e dell’asilo per chi avesse guai con la giustizia, anche in caso di reati minori. Sul punto le modifiche non sono state sostanziali. Il Viminale ha solo rivisto qualche reato, per esempio, la resistenza a pubblico ufficiale è stata corretta in violenza a pubblico ufficiale. Difficile che possa bastare. I dubbi più grandi riguardano soprattutto la revoca della cittadinanza e ancora una volta l’ostacolo è la Costituzione. La sua linea Matteo Salvini l’ha rivelata ancora una volta ieri dal palco: “Lunedì, quando il provvedimento sarà approvato - preannuncia ad Atreju, la festa di Fratelli d’Italia - ci sarà l’allarme di Onu, Unhcr, Osce, Croce rossa, boy scout, vegani, vegetariani, animalisti perché limitiamo i diritti”. Ma “se avessi dovuto rispettare tutte le regole ne sarebbero sbarcati 100-150 mila come negli anni passati. Le regole sono fatte per essere cambiate”. E i dubbi di via Arenula e del Colle non lo preoccupano, semmai, saranno altri a modificare la sua risposta sotto forma di decreto agli elettori: “Discuterò amabilmente con la Corte costituzionale”, commenta, certo di star facendo ciò che chiedono “milioni di italiani”. Fino a che punto si potranno “cambiare le regole”, lo si vedrà presto. Il muro invalicabile è la Costituzione: la tenuta costituzionale dei testi è fondamentale perché il presidente della Repubblica possa apporre la sua firma. Emergenza baby gang, confronto a Napoli: verso proposta di legge alla Camera Il Mattino, 23 settembre 2018 Una proposta di legge per contrastare il fenomeno delle baby gang a Napoli sarà consegnata alla Commissione Cultura della Camera dei Deputati il prossimo 23 ottobre. Ad annunciarla è stato Mario Covelli, presidente della Camera Penale Minorile, al termine di un incontro-dibattito svoltosi a Napoli, promosso da Camera Penale Minorile, Giovani Penalisti Napoli e Dimensione Forense, cui hanno partecipato, tra gli altri, i vertici della magistratura partenopea, i deputati Gianfranco Di Sarno, della Commissione Giustizia, e Flora Frate, della Commissione Cultura. “Nella bozza si punta a evitare che il Tribunale per i Minorenni conosca il minore solo dopo la commissione del reato per giudicarlo e condannarlo. La proposta vuole fare in modo che il tribunale entri in contatto con il minore a disagio e lo indirizzi verso un percorso di educazione, recupero, formazione professionale, attività sportive e ludiche propedeutico a un ingresso positivo nella vita sociale”, ha aggiunto Covelli. “Togliere la responsabilità genitoriale agli appartenenti alla criminalità organizzata? A mio avviso - ha osservato - sarebbe solo anticostituzionale. Noi chiediamo invece che sia avviato un percorso educativo in virtù del quale il minorenne sappia reagire e abbracciare valori positivi, abbandonando quelli negativi trasmessigli dall’ambiente familiare”. “Per la prima volta possiamo avvalerci della positiva interlocuzione avviata da un Ministro della Giustizia che ha deciso di confrontarsi con associazioni forensi, avvocati e tutte le categorie professionali - ha detto Gennaro Demetrio Paipais, presidente dell’Unione Giovani Penalisti. Dopo essere stati ricevuti dal Guardasigilli nelle scorse settimane, contiamo quanto prima di poter essere auditi anche dalle Commissioni Giustizia di Camera e Senato per illustrare le nostre proposte finalizzate a rivedere il ruolo dello Stato nella capacità educativa del minore autore di reato”. Umbria: sovraffollamento e mancanza di attività trattamentali, i problemi delle carceri di Daniele Bovi umbria24.it, 23 settembre 2018 Il Garante: 1.400 carcerati, numero doppio di ergastolani rispetto alla media. Diritto alla salute tra le principali criticità. Tendenza al sovraffollamento, condizioni di vita e di salute, scarse opportunità per il reinserimento e riorganizzazione delle articolazioni periferiche del Ministero della giustizia. In 40 pagine, messe nelle scorse ore sul tavolo del consiglio regionale, il Garante regionale per i detenuti Stefano Anastasia mette nero su bianco i principali problemi del sistema carcerario umbro, del quale traccia un quadro d’insieme. Partendo dai numeri, il garante nota che benché “in Umbria la situazione è ancora relativamente sotto controllo”, in prospettiva “non può che preoccupare, anche in considerazione della relativa stabilità delle risorse umane e materiali per far fronte alla ospitalità e al trattamento delle persone”. L’analisi di Anastasia si ferma al dicembre 2017, quando nelle 4 carceri della regione (Perugia, Spoleto, Terni e Orvieto), erano ospitate 1.370 persone, numero lievitato al 31 agosto a quota 1.400, a fronte di una capienza regolamentare di 1.331. I detenuti - Stando ai dati del Ministero di pochi giorni fa a Perugia ci sono 410 detenuti a fronte di 363 posti e 454 a Terni per 411 posti; sotto controllo invece la situazione a Spoleto (452 persone per un massimo di 451) e a Orvieto (84 per 106 posti totali). In tutto quelli con una condanna definitiva sono 1.111 e gli ergastolani 109, in percentuale doppia (9,8%) rispetto alla media nazionale. Sei detenuti su 10 invece scontano una pena tra i 5 e i 10 anni, il che significa che molti di essi (“fatte salve - spiega il garante - le preclusioni di legge e la valutazione degli operatori e della magistratura di sorveglianza”) potrebbero presto uscire per essere destinati a una delle misure alternative al carcere (in Umbria quasi 1.600 persone), che spesso si rivelano vincenti sul fronte del reinserimento sociale. Situazioni diverse - Da sottolineare come ogni struttura abbia le proprie peculiarità, ma che tutte vengono giudicate dal garante in buone condizioni. A Perugia, dove c’è l’unica sezione femminile della regione e dove in quella maschile sono ristretti detenuti nel circuito di media sicurezza, il numero di stranieri (63%) è abbondantemente superiore alla media nazionale (34%) e regionale. Qui c’è anche una carenza del personale di polizia penitenziaria (297 i previsti, 74 in meno gli effettivi) “cui presto, per effetto di prossimi pensionamenti si andrà ad aggiungere - nota Anastasia - una Terni, Spoleto e Orvieto - A Terni invece ci sono in prevalenza detenuti del circuito di alta sicurezza, e una sezione è riservata anche ai carcerati sottoposti al 41bis, cioè al carcere duro. Pure qui, come a Perugia, c’è carenza di personale (276 previsti e 219 effettivi). Anche a Spoleto, dove dal 2007 c’è un padiglione dedicato al 41bis, ci sono detenuti ad alta sicurezza mentre in un’altra sezione ci sono quelli comuni e altri appartenenti al regime protetto (vedi ad esempio reati sessuali o appartenenti alle forze dell’ordine); in generale, comunque, la popolazione è fatta di persone con pene definitive e lunghe. Tutt’altra situazione a Orvieto, dal 2014 trasformata in un Icat, ovvero in un Istituto a custodia attenuata dedicato a programmi intensivi di sostegno al reinserimento sociale. I problemi - Ma quali sono i problemi che vivono i detenuti? Secondo quanto riferito nel corso dei colloqui con il garante, i principali riguardano le condizioni di detenzione e in particolare è la tutela del diritto alla salute “la criticità più rilevante” che accomuna tutte e quattro le carceri. “I detenuti - scrive Anastasia - lamentano eccessive liste di attesa per la sottoposizione a visite mediche specialistiche e a esami diagnostici, nonché´ un’inadeguatezza degli istituti rispetto alla cura di patologie gravi”. Particolarmente preoccupanti vengono definiti i dati relativi ai Tso: per tre quarti delle persone sottoposte la degenza è stata superiore ai sette giorni fissati dalla legge come limite di validità del primo provvedimento (per due casi limite si è arrivati a 81 e 104 giorni). Altrettanto rilevante il problema dei rapporti con i familiari e il contesto sociale di riferimento, in particolare per i detenuti che hanno famiglie lontane, così come “scarsa qualità del cibo, inadeguatezza del vitto rispetto alle problematiche di salute, camere di pernottamento non idonee dal punto di vista igienico-sanitario”. Molto spesso poi chi è rinchiuso vorrebbe avere un’opportunità di reinserimento. Reinserimento - Proprio la mancanza di attività di trattamento e reinserimento, come la possibilità di iscriversi a corsi di formazione oppure lavorare, è un altro dei problemi segnalati al garante. “In particolare - dice Anastasia - vanno segnalate le ripetuta richieste, ricevute anche dalle direzioni penitenziarie, affinché la Regione attivi corsi di formazione all’interno degli istituti penitenziari” (per il potenziamento dei percorsi di inclusione nel 2016/2017 sono stati destinati 1,2 milioni di euro per 157 persone). Da non sottovalutare poi la chiusura del Provveditorato umbro dell’Amministrazione penitenziaria, che “ha lasciato a lungo in una condizione di incertezza gli interlocutori territoriali”. Risolti alcuni problemi organizzativi, sul tavolo “rimane però una discutibile pratica di intendere in maniera unitaria il bacino territoriale di riferimento”, che ha come conseguenza “l’abuso del trasferimento fuori regione” di alcuni detenuti che hanno causato dei problemi di gestione, “con evidente violazione del principio di territorializzazione della pena”. Inadeguati anche gli strumenti a disposizione del garante: un collaboratore volontario nel primo anno e mezzo di attività, mentre ora grazie a una convenzione con il Dipartimento di Giurisprudenza ci sarà la possibilità di contare sulle competenze della Clinica legale penitenziaria. Mantova: detenuto muore in branda, trovato al mattino dagli agenti La Gazzetta di Mantova, 23 settembre 2018 L’uomo, 30 anni, campano era arrivato da poco dal carcere di Pavia. Il compagno di stanza non si è accorto di nulla. Lo hanno trovato privo di vita al mattino durante il consueto controllo delle celle al cambio turno. Immediato l’allarme lanciato dagli agenti di Polizia penitenziaria del carcere di via Poma, ma per il detenuto ormai non c’era più nulla da fare. Tragedia alla casa circondariale di Mantova nella mattina di sabato 22 settembre intorno alle otto, quando gli agenti hanno trovato un detenuto trentenne, con alle spalle dei gravi problemi di salute, esanime nella sua cella. Accanto a lui l’unico compagno con cui divideva la stanza, che però ha riferito di non essersi accorto di nulla. È presumibile che il decesso del detenuto sia sopraggiunto durante la notte, ma solo l’autopsia, già disposta dalla magistratura, potrà dare risposte più precise. Per il momento in carcere l’ipotesi più accreditata è quella di un decesso per cause naturali. La salma è stata comunque posta sotto procura dal magistrato di turno che ha aperto un fascicolo per accertare con esattezza il motivo del decesso. L’uomo, di origini campane, era stato trasferito a Mantova giovedì scorso dal carcere di Pavia. Le sue condizioni di salute erano minate dall’infezione da Hiv. Sabato durante il cambio del turno e il consueto controllo nelle celle da parte del personale della polizia penitenziaria gli agenti hanno fatto la macabra scoperta. Immediata la richiesta di intervento sanitario, anche se da una prima osservazione era abbastanza chiaro che la morte era sopraggiunta da alcune ore. Sono stati subito informati il direttore del carcere, Rossella Padula, e il sostituto procuratore di turno in procura. Nelle prossime ore sarà eseguita l’autopsia per capire che cosa sia accaduto durante la notte e le cause del decesso del detenuto. Roma: la Sindaca Raggi manda i detenuti a lavorare in autostrada L’Espresso, 23 settembre 2018 Saranno i reclusi a fare le pulizie e la piccola manutenzione Le pulizie per la società Autostrade le faranno i detenuti. Un accordo firmato il 31 luglio scorso tra il sindaco di Roma, Virginia Raggi, il capodipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, Francesco Basentini e l’amministratore delegato della concessionaria autostradale, Giovanni Castellucci, autorizza l’impiego in lavori di pubblica utilità di “soggetti destinatari di condanna penale definitiva”, cosi vengono chiamate nel documento le persone recluse in carcere. Scopo dell’intesa, firmata anche dal presidente del Tribunale di sorveglianza di Roma, Maria Antonietta Vertaldi, e dal garante dei detenuti, Gabriella Stramaccioni, è “avviare una collaborazione volta a sviluppare percorsi di reintegrazione sociale e lavorativa... attraverso piccoli interventi di manutenzione stradale che potrebbero riguardare il rifacimento della segnaletica orizzontale, la pulizia di caditoie, la sistemazione di sedi stradali a basso scorrimento”. Il programma di collaborazione riguarda per ora il distretto di Roma. Ma il capodipartimento Basentini, procuratore aggiunto a Potenza fino alla nomina al Dap decisa il 27 giugno scorso dal governo di Giuseppe Conte, ha inviato la copia dell’accordo a tutti i direttori degli istituti penitenziari perché possa essere “replicato e diffuso in tutte le realtà territoriali”. Il progetto del ministero della Giustizia, sostenitore dell’iniziativa con il ministro 5 Stelle Alfonso Bonafede, non prevede per il momento limiti al numero di detenuti da impiegare, che inevitabilmente andranno a sostituire gli addetti che finora hanno eseguito gli stessi lavori in base a contratti diretti o di subappalto con la società Autostrade. Nemmeno è stato finora specificato se, come e quanto la concessionaria pagherà i nuovi operai: dal testo dell’intesa il ministero potrebbe servirsi del denaro ricavato per ottenere un “abbattimento delle spese tributarie a carico dell’erario”. Forse un giorno anche i condannati per il crollo del ponte Morandi a Genova, se mai ce ne saranno, si ritroveranno a ramazzare le strade. Parma: gli allievi dell’università fanno da tutor ai detenuti-studenti di Jessica Chia Corriere della Sera, 23 settembre 2018 Il diritto allo studio, in quanto diritto inalienabile, deve poter oltrepassare le barriere. Comprese quelle del carcere. Per questo un progetto dell’Università di Parma, aperto ad allievi di tutte le aree di studio, porterà un servizio di tutoraggio all’interno dell’Istituto penitenziario della città, a beneficio dei detenuti che si sono iscritti all’ateneo. Fino a venerdì 28 settembre è possibile partecipare al “Bando per l’attribuzione di assegni per attività di tutorato rivolta a studenti dell’Università di Parma in favore dì studenti detenuti presso l’Istituto penitenziario di Parma”, retribuito e rivolto agli iscritti dell’ateneo, nell’anno accademico 2017-2018, ai corsi di laurea magistrale e ai dottorati di ricerca. “Attraverso il tutoraggio si cerca di dare sostanza al diritto allo studio dei detenuti e di permettere lo scambio tra mondo interno ed esterno, attraverso il confronto e l’interazione umana”, spiega Vincenza Pellegrino, delegata del Rettore ai rapporti università e carcere e professore associato di Sociologia dei processi culturali e comunicativi al Dipartimento di Giurisprudenza, studi politici e internazionali. Parma entra a far parte dei “Pup”, i Poli universitari penitenziari, già diffusi in altre città, “ma qui per la prima volta si lavorerà anche con detenuti nell’area di alta sicurezza”. Il bando ha due livelli di tutoraggio: quello di coordinamento (200 ore, retribuzione: 10 euro l’ora) e quello didattico (30 ore, 20 euro l’ora). Il primo aiuta nel supporto “pratico” (Iscrizione agli esami, relazioni con la segreteria...); il secondo prevede un sostegno allo studio delle materie. Trieste: incontro letterario con Carmen Gasparotto alla Casa circondariale di Elisabetta Burla* Ristretti Orizzonti, 23 settembre 2018 È l’autrice, assieme a Maria Elena Porzio, di “Eco, s. femminile, plurale”. Eco, è sinonimo femminile - al singolare, al plurale solo maschile; si tratta di fenomeno prodotto dalla riflessione di onde sonore contro un ostacolo che vengono a loro volta nuovamente percepite dall’emittente più o meno immutate e con un certo ritardo rispetto al suono diretto. L’eco può essere voluto o indesiderato ma la condizione fondamentale, affinché il suono si propaghi, è la presenza di un mezzo di propagazione: nel vuoto non c’è propagazione del suono. Il 22 settembre 2018 ad ore 10.00 l’Autore - Carmen Gasaprotto - presenterà il libro, scritto assieme a Maria Elena Porzio, “Eco, s. femminile, plurale” presso la Casa Circondariale di Trieste a favore delle persone private della libertà, alla presenza - anche - di un gruppo di persone provenienti dalla società esterna. Il libro, una serie di racconti, 26 storie, scritto da due donne, entrambe del Friuli Venezia Giulia; entrambe descrivono luoghi e raccontano esperienze - positive e negative - esperienze (forse) tratte dal proprio vissuto ma che lasciano al lettore ampia immaginazione, ampia facoltà di fantasticare, di ricordare propri vissuti, di riconoscersi in alcune vicende, di ipotizzare conclusioni per essere, spesso, ricondotti ad un finale sorprendente. Storie sulle possibilità che la scrittura ti offre, storie brevi raccontate in forma originale, racconti che - in alcune occasioni - sembrano svilupparsi gli uni dagli altri (non farsi eco ma fare eco) sembrano sviluppare ed elaborare il racconto che precede, paiono concatenarsi lasciando sempre al lettore libera la fantasia e l’immaginazione. La presentazione del libro da parte dell’Autore s’inserisce nel ciclo d’incontri letterari organizzati dal Garante Comunale dei Diritti dei Detenuti di Trieste - Elisabetta Burla - e si pone nel contesto rieducativo della pena conseguito attraverso il trattamento delle persone private della libertà. In una sala dove il vuoto non c’è mai stato si spera che l’eco oltrepassi il muro, anche quello dell’indifferenza. *Garante comunale dei diritti dei detenuti di Trieste Ravenna: detenuti e studenti sul palco insieme nel nome di Dante ravennaedintorni.it, 23 settembre 2018 Detenuti e studenti riuniti su un unico palco in omaggio alla poesia di Dante Alighieri. Per il settimo anno consecutivo, il progetto “Dante in carcere” entra a far parte degli eventi realizzati dal Comune di Ravenna per il Settembre Dantesco. Anche quest’anno, il 21 settembre, è andato in scena uno spettacolo teatrale che ha messo in dialogo la città e la sua Casa Circondariale, in una serata dedicata alla riflessione sui grandi temi della poesia dantesca. Lo spettacolo, intitolato Libertà va(n) cercando, ch’è sì cara (Purgatorio-Canto I v.71), è stato diretto dal regista Eugenio Sideri di Lady Godiva Teatro, coordinatore del Laboratorio Teatrale “Sezione Aurea”, parte del Coordinamento Teatro Carcere dell’Emilia Romagna. La drammaturgia, che ha rielaborato i versi della Commedia, racconta di un Dante accompagnato da Virgilio che viaggia nel Purgatorio attraversando delle fiamme che lo purificano definitivamente per concedergli l’accesso al Paradiso. Il Purgatorio, quindi, luogo e tempo di speranza in attesa della Redenzione - la detenzione perdita della libertà, tempo di attesa, tempo di scelta per una libertà maggiore, una libertà diversa e consapevole. Sulle coreografie di Mariella Ciccarino e la drammaturgia di Eugenio Sideri e Carlo Garavini, in scena I detenuti Corrado, Antonio, Aymen, Ciro, Pietro, Marco e gli studenti Ilenia, Sara, Giulia C., Francesca, Giulia N., Agnese, Clara. Con la partecipazione di Carlo Garavini e Federica Rallo La serata ha visto, inoltre, la partecipazione del coro di voci bianche Ludus Vocalis, diretto da Elisabetta Agostini e del fotoreporter Giampiero Corelli che ha condotto all’interno del carcere un laboratorio fotografico i cui scatti più belli e significativi sono diventati oggetto della mostra fotografica allestita nel corridoio di accesso al cortile di passeggio che gli ospiti della serata potranno ammirare. L’evento è stato reso possibile grazie alla sensibilità dei numerosi sponsor come la Fondazione Cassa di Risparmio di Ravenna, Bper Banca, Ravenna Teatro, Arcidiocesi Ravenna Cervia, Valeria e Roberto Ridolfi, Gianni e Viola Bambini, Coop. La Pieve, Pro Loco Marina di Ravenna, Pro Loco Lido Adriano, Pastificio Monograno Felicetti, Akamì, Osteria Madai, Comitato Cittadino Antidroga, Mistral Protezione Civile, Comitato pro detenuti e famiglie. Il caso Cucchi visto da vicino di Roberto Saviano L’Espresso, 23 settembre 2018 Il film “Sulla mia pelle” racconta una storia che ci riguarda tutti. Senza mostrare la violenza, ma facendola vivere. Sicuri di conoscere la storia di Stefano Cucchi? Sicuri di conoscere i dettagli della vicenda che ha portato alla sua morte? Forse prima che uscisse “Sulla mia pelle” avreste detto di sì. Avreste risposto che sapevate chi fosse Cucchi e che i dettagli del suo calvario vi erano noti. Ricordavate le immagini del suo corpo smagrito e tumefatto mostrate dalla sorella Ilaria, donna coraggiosissima. E tanto vi bastava per dire: so cosa è accaduto. Eppure non era così. Non sapevate abbastanza e lo dimostra l’accoglienza che ha avuto il film su Stefano Cucchi. Non conto più i messaggi che mi stanno arrivando da chi, interessato alla vicenda di Stefano Cucchi, mi dice: “Non pensavo avesse sofferto tanto”, “Non pensavo che queste cose potessero accadere”, “Credevo di sapere e ho scoperto di non sapere niente”. Qualcuno ammette che, mentre guardava “Sulla mia pelle”, a un certo punto il corpo è come se si fosse rifiutato di far entrare altri fotogrammi. Gli occhi pieni di lacrime impedivano di vedere cosa accadeva: una sorta di meccanismo salvavita. L’accoglienza e l’impatto che ha avuto “Sulla mia pelle” dimostra, più di ogni ragionamento possibile, come si sia compiuto il delitto perfetto, quello che si consuma lentamente, talmente tanto da non riuscire nemmeno a vederlo. Vittima è la cronaca, ovvero il racconto quotidiano di ciò che accade, un racconto che è superato, nel tempo di un respiro, dall’evento successivo. Non si riesce più a dare priorità a una notizia rispetto a un’altra e così la vicenda di Stefano, di cui pure ci siamo occupati in tanti, è stata spesso messa in ombra, superata anch’essa in un lasso di tempo infinitesimale. E quando la cronaca è sfiancata da un flusso continuo e ininterrotto di notizie, quando la nostra attenzione è continuamente sollecitata tanto da non riuscire a fermarsi, a ragionare, ad attribuire priorità, ecco che film, serie tv e documentari vengono in soccorso. In passato uno dei principi fondamentali dei prodotti cinematografici e televisivi era avere attenzione a non rappresentare una realtà troppo vicina, una realtà troppo “vera” perché esistono - esistevano - delle precise regole per la trasposizione su schermo. La verità non funzionava così com’era, aveva bisogno di diventare un racconto fluido, di avvicinarsi all’archetipo, di poter essere l’esempio. Un tempo era l’universale a essere raccontato, quell’universale che potesse contenere il caso Cucchi, il caso Aldrovandi, il caso Uva, il caso Magherini, il caso Mastrogiovanni, per citare alcuni nomi di persone morte mentre erano “affidate” allo Stato. Oggi al contrario abbiamo la necessità di fermarci sul particolare, di fermarci sul caso singolo azzerando. La regola della giusta distanza, quella che consentiva al racconto di non presentare distorsioni, di essere dentro i fatti ma a una distanza tale da non esserne assorbito, oggi quasi non vale più. Oggi non ci spaventa più la deformazione che la vista può subire dalla eccessiva vicinanza, sappiamo invece che quella vicinanza è necessaria a eliminare i frammenti di informazione non pertinenti, quelli che distraggono. Penso a quando le notifiche continue di WhatsApp rompono la concentrazione, e poi si ritorna alle notizie, ma nel frattempo la home che stavamo consultando è stata aggiornata e le news sono cambiate. La notizia che volevamo approfondire è già vecchia, anche se ha solo dieci minuti e chi di noi sente di potersi permettere il lusso di sprecare tempo? Oggi abbiamo dosi massicce di aggiornamenti e un numero infinito di approfondimenti senza sapere in quali avere fiducia e di quali dubitare. Ed ecco che questo pieno, che alla fine diventa un tragico vuoto, viene riempito da racconti che si fanno portatori di punti di vista forti, ma che non hanno nulla a che fare con la tifoseria che invade i social. Esistono storie che nessuno conosce davvero, ecco perché c’è bisogno che il cinema vada in soccorso alla cronaca. Il valore di “Sulla mia pelle” sta in questo: ha raccontato la storia di Stefano Cucchi senza mostrare la violenza, senza pugni e calci; non servivano a svelare un orrore che riguarda tutti, quello di un cittadino italiano morto mentre era affidato allo Stato. Mentre lo Stato ne era custode e responsabile. Scuole sicure? Videosorveglianza degli studenti, infame e costosa operazione di propaganda di Claudia Pratelli e Christian Raimo Il Manifesto, 23 settembre 2018 Eleggere quella securitaria, repressiva e di controllo come strategia cardine di contrasto allo spaccio e alle dipendenze è pericoloso, lo capisce un ragazzino delle medie. Perché allude ad un modello armato di relazioni tra le persone, che antepone la paura per quel che c’è fuori alla possibilità di contaminare il territorio, animarlo, rigenerarlo. Sembra che il mondo debba diventare un immenso carcere o un luogo di pistoleri, e che il modello del pianeta sia diventato Rodrigo Duterte, il presidente delle Filippine che in nome della guerra alla droga fa giustizia sommaria con numeri da stragi di massa. Qualche mese fa Trump ha fatto l’oscena proposta di armare gli insegnanti per rendere le scuole più sicure. La versione italiana, caricaturale nell’idiozia tragica, non si è fatta attendere: è della fine del mese di agosto il varo del piano Scuole sicure, una costosa operazione propagandistica del ministro degli Interni che ha stanziato 2,5 milioni di euro per installare telecamere nelle scuole e aumentare pattugliamento e sorveglianza fuori dagli edifici scolastici da parte delle forze di polizia locale. L’obiettivo dichiarato: contrastare e prevenire lo spaccio di sostanza stupefacenti. Le parole d’ordine: contenzione, sorveglianza e disciplinamento. Un progetto pensato da incompetenti in materia, scritto con i piedi, rivoltante nell’ideazione, del tutto inefficace negli esiti. Ai percorsi educativi nelle scuole sono indirizzati non oltre il 5% dei fondi, ma solo su progetti approvati dal Comitato per l’ordine e la sicurezza. Per chi si occupa di scuola, è un insulto. Per chi non si occupa di scuola, è evidente che non è una questione per addetti ai lavori, ma un tema di interesse pubblico, che ha a che fare con l’impronta che vogliamo dare al nostro stare insieme, alle relazioni sociali, oltre che con la funzione e la natura dei luoghi della conoscenza. È come se questo governo di bulli andasse rieducato prima ancora che combattuto. È come se gli andasse spiegato tutto da capo. Tutte le conclusioni ormai lapalissiane che 45 anni di intervento legislativo e sul campo hanno mostrato con un’evidenza eclatante. Dobbiamo ridire da capo che la sfida è, in primo luogo, educativa, di informazione e consapevolezza? E che oggi più che in passato si tratta di fare i conti con il poli-consumo e mettere in atto strategie di riduzione del danno? Che occorre soprattutto intercettare e rispondere alle fragilità di cui le dipendenze sono epifenomeno? È una fatica improba quella di dover ribadire le evidenze, ma andrà fatto e sarà un lavoro di lungo raggio. Ma di fronte alla direttiva Scuole sicure non c’è da discutere. Questa infame e costosa operazione di propaganda rischia di essere anche dannosa. Marchiare alcune scuole, quelle prescelte per installare telecamere o dove appostare le forze di polizia, come “insicure” può innescare meccanismi di stigma e di discredito verso quelle comunità scolastiche e il territorio in cui sono inserite. Quello che è ovvio è che, invece, si tratta di liberare le risorse e le energie di cui le scuole sono incubatrici, di raccontarle, valorizzarle, renderle patrimonio di tutti. Si tratta non di trincerare le scuole dentro le proprie mura ma di tenerle aperte: durante il pomeriggio, il fine settimana, ben oltre e al di là delle attività strettamente curricolari, perché è popolando i quartieri della creatività e in fondo della vita che nascono nelle scuole che si possono rigenerare i territori marginali, o deprivati, o a rischio di attività criminali. Per questo eleggere quella securitaria, repressiva e di controllo come strategia cardine di contrasto allo spaccio e alle dipendenze è pericoloso, lo capisce un ragazzino delle medie. Perché allude ad un modello armato di relazioni tra le persone, che antepone la paura per quel che c’è fuori alla possibilità di contaminare il territorio, animarlo, rigenerarlo. Le scuole sicure le fanno i ragazzi che le attraversano, i quartieri sicuri le scuole che li abitano. Decreto migranti, allarme sulla fine degli Sprar di Adriana Pollice Il Manifesto, 23 settembre 2018 Un decreto-manifesto. Salvini: “Limiteremo i diritti, me ne frego se ci saranno ricorsi”. I richiedenti asilo finiranno nei Cara. Tempi raddoppiati e nuove condizioni per la cittadinanza in caso di matrimonio con un italiano. Pene raddoppiate anche per chi occupa immobili. Anci (comuni) e Galantino (Cei): grave distruggere l’unico sistema di accoglienza che funziona. “Vi dò uno scoop. Dopo l’approvazione del decreto sicurezza-migranti, ci sarà l’allarme dell’Onu, dell’Osce, della Croce rossa, dei boy scout, dei vegetariani e degli animalisti perché limitiamo i diritti”: il ministro dell’Interno, Matteo Salvini, ha fatto ieri il suo solito show, ospite di Atreju, la manifestazione di Fdi. E ancora: “Me ne frego, prima vengono gli italiani”, questo il criterio del “decreto manifesto” della linea leghista. “In 1.500 - ha continuato - appena hanno avuto il foglietto che certificava che scappavano dalla guerra sono tornati in vacanza nel loro paese. Se torni nel tuo paese, il foglietto te lo straccio. Se avessi rispettato tutte le regole di immigrati ne sarebbero arrivati 150mila, come negli anni passati”. Sui forti dubbi di costituzionalità: “Se dovessero arrivare rilievi, ne discuterò amabilmente con la Corte costituzionale”. E ancora: “Di navi delle ong ne è rimasta una sola, per fortuna. Ieri ha raccattato 12 immigrati davanti alla Libia, che le ha detto “siamo nel nostro mare, è nostra responsabilità: riportateceli”. La ong ha detto no e ha chiesto un porto sicuro all’Italia: vi lascio immaginare che indicazione ho dato. Per me possono stare lì in mezzo per sei mesi”. Il leader leghista tira dritto su tutto, mentre i 5S mostrano una tranquillità che non hanno.Punti dubbi sono stati segnalati anche dai tecnici del ministero della Giustizia. Nel Dl (lato migranti) le norme sulla cittadinanza e la cancellazione dei permessi di soggiorno per motivi umanitari sono due bocconi difficili da digerire, soprattutto per una parte del MoVimento che spera nell’intervento del presidente delle Repubblica. In pubblico si limitano a ripetere: “È stato migliorato il decreto dignità in parlamento, allo stesso modo si può migliorare il decreto immigrazione”. Al Viminale rassicurano: domani in Consiglio dei ministri arriverà il decreto legge unificato (in origine erano due), l’iter del testo sarà così più rapido. Nessuno stravolgimento ma “cambiamenti formali per rispondere ai requisiti di necessità e urgenza”. Il Dl contiene una stretta sull’asilo: eliminata la protezione umanitaria (solo permessi speciali per ragioni di salute, calamità naturali e meriti civili); ampliato il numero di reati che portano alla revoca del permesso di rifugiato come violenza sessuale, rapina, violenza a pubblico ufficiale, droga; cancellato il gratuito patrocinio nei casi in cui il ricorso contro il diniego della protezione è dichiarato improcedibile o inammissibile. Il decreto riserva esclusivamente ai titolari di protezione internazionale e ai minori non accompagnati i progetti di integrazione sociale, solo loro avranno accesso agli Sprar. I richiedenti asilo, invece, finiranno nei Cara: il Viminale stima una spesa per ospite di 20 euro al giorno (15 euro in meno rispetto agli Sprar), risparmi da investire nei rimpatri. Per facilitare le espulsioni, raddoppio dei tempi di trattenimento nei Centri per i rimpatri. Stretta anche sulla cittadinanza: raddoppio dei tempi per la concessione per matrimonio o residenza; revoca per una lunga lista di reati (ci sarebbero così degli italiani con diritti attenuati). Sul fronte sicurezza, stretta sul noleggio dei furgoni per impedire attentati terroristici, estensione del daspo urbano, taser anche alla polizia municipale, potenziamento della Agenzia per i beni sequestrati alle mafie e la possibilità per lo stato di vendere i beni sequestrati (tornando così a prima del 1996, quando i clan li riacquistavano attraverso prestanome). Nei confronti dei promotori di occupazioni di immobili raddoppiate le pene e le multe. “No a interventi da ferro e fuoco” è stato il commento di monsignor Nunzio Galantino, segretario generale uscente della Cei. Il coordinamento delle Comunità di accoglienza attacca: “Un impressionante elenco senza alcuna idea di governo del fenomeno migrazioni”. Venerdì l’Anci aveva anche chiesto il rinvio: “Ridimensionare fin quasi all’irrilevanza la rete Sprar a favore dei grandi centri come i Cara, può avere un impatto dirompente sui comuni”. Tesi sostenuta anche dall’Associazione studi giuridici sull’immigrazione: “Cancellare l’unico sistema pubblico di accoglienza che funziona è destinato a produrre enormi conseguenze negative in tutta Italia”. Migranti. Non basta dire che si deve accoglierli di Renzo Guolo L’Espresso, 23 settembre 2018 Per troppi anni la sinistra è rimasta afona sulla scelta di modelli per integrare i migranti. E in questo silenzio è cresciuta la xenofobia. Come è maturata la sconfitta della sinistra sull’immigrazione? Determinante è stata la sottovalutazione del bisogno di sicurezza ma non si tratta solo di questo. Conta anche il formarsi di un immaginario collettivo intriso di sfiducia riguardo all’integrazione culturale degli immigrati. O almeno, di quelli appartenenti a gruppi ritenuti, a causa di taluni marcatori etnici e religiosi, più “lontani” dagli italiani. Un senso comune alimentato non solo da episodi di cronaca o da interessate narrazioni di attivi imprenditori politici della xenofobia, ma anche da micro-conflitti che coinvolgono autoctoni e immigrati nella vita quotidiana. Quello sull’uso degli spazi collettivi, ad esempio, dove si confrontano comportamenti e stili di vita ritenuti incompatibili. Aspetto più o meno occultato a sinistra, perché presuppone l’inconfessabile: la possibilità che tra gli italiani possa prendere forma una deriva di stampo xenofobo o razzista. La sinistra ha illuministicamente pensato che il tempo avrebbe comunque appianato gli eccessi. Ottimismo della volontà che, poco gramscianamente, metteva da parte la necessaria dose di pessimismo della ragione. Tanto da rimuovere l’idea che le culture possano essere, senza politiche e pedagogie pubbliche che aiutino a scongiurare quell’esito, motore di conflitti e non solo di convivenza. Eppure bastava guardare a quanto avveniva nel Nordest, granaio elettorale della Lega. Il capitalismo molecolare nordestino, policentrico per natura, ha popolato di immigrati non solo i centri urbani ma anche i piccoli paesi e le frazioni di campagne di quell’area. Se quella disseminazione territoriale ha scongiurato la nascita di grandi spazi di segregazione urbana e sociale, incubatori di conflitti potenzialmente acuti, non di meno ha reso palese ai più che la globalizzazione non faceva circolare solo capitali, merci e forza-lavoro, ma anche persone con le proprie identità culturali. Una constatazione che ha generato spaesamento e senso di spossessamento. Sino a dilatare, tra gli autoctoni, i fantasmi della perdita della propria cultura. Una visione acritica della globalizzazione - Di fronte a simili reazioni, spesso abnormi, sarebbe servito un discorso chiaro sulle difficoltà - oggettive ma non insormontabili - di ogni processo d’integrazione. Senza il timore di inseguire i competitori politici su un terreno ritenuto di destra. La sinistra, invece, non ha proferito verbo. Costretta al silenzio dal peso delle sue stesse culture di riferimento, quella di ispirazione marxista e quella cattolica progressista. La prima, in una sorta di “complesso di Kurtz”, il conradiano protagonista di “Cuore di tenebra”, vede nei migranti i figli dello sfruttamento coloniale e neocoloniale da risarcire per riparare agli orrori e agli errori dell’Occidente. La seconda guarda ai migranti come ai poveri e ai fratelli in Cristo. Richiami ideali che però non riescono a placare i timori di quella parte di società sempre più desiderosa di protezione che chiede efficaci pratiche di governo del fenomeno “qui e ora”. Uno sguardo, quello della sinistra, gravato dalla ricerca di un effetto “compensativo”. Alle prese dopo il 1989 con un serio problema d’identità, ha surrogato la subalternità all’ideologia liberista e a una visione acritica della globalizzazione, mediante un meccanismo sostitutivo: la sua vocazione universalista e umanista troverà nei diritti umani, in particolare quelli dei nuovi dannati della terra, un nuovo terreno di richiamo. Limitandosi per il resto a proporsi di gestire le conseguenze prodotte dall’incessante lavorio della talpa del capitale globale nelle viscere della società. Dando così l’impressione di occuparsi solo degli ultimi di “fuori”. Il successo dello slogan “prima gli italiani”, che ne fa un bersaglio senza che possa nemmeno poter mobilitare elettoralmente quelli per cui si batte (privi del diritto di voto), non è comprensibile senza questo fermo immagine. La sindrome di Lord Chandos - Per i suoi valori la sinistra è, naturalmente, portata all’accoglienza. Ma “che fare” di poveri ed ex-colonizzati una volta in Italia? Come governare non solo il presente ma anche il futuro, oltretutto in un contesto destrutturato dalla crisi del welfare e dall’aumento delle diseguaglianze? Paradossalmente ma non troppo, nonostante le ispirazioni solidaristiche, la sinistra è incappata, sul punto, nella sindrome di Lord Chandos: la parola ha lasciato il posto al silenzio che introietta la consapevolezza che dire diviene impossibile. Perché significherebbe mettere in discussione molto, se non tutto. Un silenzio che la condurrà a una passiva adesione a un “liberismo sociale” che affida i processi d’integrazione culturale all’evolversi delle dinamiche societarie. Rinunciando a governare le contraddizioni che nel frattempo esploderanno “in seno al popolo”. Certo, le culture mutano interagendo tra loro, ma cicli politici e cicli culturali hanno tempi diversi. I primi hanno come orizzonte il breve periodo, i secondi il lungo. Tanto più in un paese monoculturale come l’Italia, storicamente alieno dal misurarsi con la differenza. L’evitare di affrontare la questione dell’integrazione culturale favorirà sia le chiusure xenofobe sia quelle etno-comunitarie di taluni gruppi di migranti. Riconoscere le differenze La via della rinuncia ha avuto un momento topico tra la fine degli anni Novanta e i primi anni del nuovo secolo, quando - senza un vero confronto tra politica e saperi - verrà scartata l’ipotesi di adottare un qualsiasi modello d’integrazione culturale destinato, come in altri paesi europei, a definire regole del gioco e forme e limiti del riconoscimento delle differenze. Prevarrà la tesi sull’inutile rigidità dei modelli nelle loro varie versioni: assimilazionisti, multiculturalisti o pluralisti. Preferendo procedere attraverso misure legislative su singoli temi: scuola, politiche urbane, libertà religiosa. Le dinamiche dell’alternanza politica vanificheranno la scelta del passo dopo passo, svuotando quei provvedimenti a ogni cambio di maggioranza. Finirà così tra parentesi anche il discorso pubblico che sorregge ogni modello: quello che esplicita a cittadini e residenti strumenti e finalità dell’integrazione culturale. Nel panorama italiano, dunque, non vi sarà traccia di una discussione simile a quella francese, britannica o tedesca che, negli ultimi decenni, ha cercato di rispondere all’interrogativo sul come sia possibile far convivere culture diverse all’interno del medesimo spazio sociale. Un vuoto che farà diventare egemone un “assimilazionismo senza assimilazione”, fondato sull’idea che gli stranieri devono accettare regole e valori della società italiana e che la politica non deve fare nulla che incoraggi il riconoscimento della differenza, ritenuta disgregante. Un tipo di considerazione diffusa, oggi, in tutta Europa. Come dimostra il recente risultato elettorale svedese: l’avanzata dei partiti xenofobi è determinata anche dalla protesta di cittadini che stigmatizzano gli stranieri non solo perché concorrenti sul terreno del welfare ma perché ne usufruiscono senza condividere quella partecipazione civica ritenuta costitutiva del patto di cittadinanza. Fatto che, nella culla della socialdemocrazia scandinava, appare inaccettabile anche a elettori prima orientati a sinistra. Uno smottamento che investe ovunque settori di opinione pubblica liberale e progressista che convergono sulle posizioni della destra xenofoba in nome di valori che sentono minacciati da identità altrui ritenute regressive. Come quei pezzi di movimento femminista o Lgbt che imputano a taluni gruppi di immigrati chiusure sessiste. Insomma, il discorso della sinistra sull’immigrazione deve tenere conto non solo della sicurezza ma anche dei crescenti timori per la coesione culturale. La sfida si gioca su questo duplice piano. Europa. La questione migratoria come sfida identitaria di Sergio Fabbrini Il Sole 24 Ore, 23 settembre 2018 L’immigrazione è divenuto il tema cruciale della politica nazionale di ogni Paese europeo. Le stesse elezioni per il Parlamento europeo del prossimo maggio saranno influenzate dalla questione migratoria. Dopo tutto, ha argomentato Frank Fukuyama in Foreign Affairs, l’immigrazione ha messo in discussione l’identità delle cittadinanze nazionali. Non può stupire che il Consiglio europeo, riunitosi mercoledì e giovedì scorsi a Salisburgo, si sia diviso sul tema della politica migratoria, né stupiscono le divisioni emerse in merito al decreto legge su immigrazione e sicurezza che dovrà essere discusso domani dal nostro Consiglio dei ministri. Vediamo come stanno le cose, distinguendo i fatti e la politica. Cominciamo dai fatti. I numeri dicono che l’immigrazione non è (più) un’emergenza, né in Europa né in Italia. I migranti illegali che hanno attraversato i confini europei sono diminuiti da 1.822.637 (agosto del 2015) a 91.267 (agosto del 2018). I migranti illegali che sono giunti via mare in Italia, considerando il periodo gennaio-agosto, sono diminuiti da 95.200 (2017) a 18.50o (2018) (Agenzia per i rifugiati delle Nazioni Unite). Quest’ultima diminuzione è indipendente dalle scelte dell’attuale governo italiano (che è entrato in carica nel giugno scorso). È il risultato della politica del precedente governo (anche se disconosciuto dal suo principale partito), di un maggiore impegno di alcuni Paesi europei nell’area nord-africana e del dirottamento dei flussi migratori verso Paesi terzi (come la Turchia). Nondimeno, l’immigrazione continua ad essere al centro della preoccupazione dei cittadini europei e italiani. Nell’Ue, secondo i dati della Commissione europea, gli immigrati rappresentano il 7,2 per cento della popolazione ma la percezione pubblica è che essi siano più del doppio (16,7 per cento). In Italia, secondo i dati dell’Istituto Cattaneo, gli immigrati rappresentano il 7 per cento della popolazione ma la percezione pubblica è che essi siano ben il 25 per cento. In politica, la percezione conta (spesso) più della realtà. Veniamo alla politica. Dietro la distonia cognitiva (tra percezione e realtà) vi sono le eredità del passato (in Italia continuano ad esserci quasi 600.000 immigrati irregolari) ma anche l’azione di imprenditori politici (che hanno trasformato l’immigrazione in un business elettoralmente redditizio). È vero che lo sfruttamento politico del problema ha un suo limite. In Italia, la Lega ha vinto le elezioni del 4 marzo scorso promettendo (tra le altre cose) di “rimandare a casa quei 600.00 irregolari”. Ma poi, giunta al governo, ha dovuto prendere atto che rimpatriare tutti gli immigrati irregolari richiederebbe lo stesso tempo (80 anni) necessario per restituire allo stato i 49 milioni di falsi rimborsi elettorali (di cui si erano appropriati i suoi precedenti leader). Tuttavia, la realtà può essere forzata, se serve a vincere le prossime elezioni. Per questo motivo, alla drammatizzazione della minaccia migratoria non si può rispondere con la sua trasformazione in un problema di ordinaria politica pubblica. Tra la drammatizzazione e la normalizzazione, va perseguita invece una strategia che riconosca le implicazioni identitarie (e non solo materiali) della sfida migratoria. È necessario riconoscere all’Ue la competenza per intervenire autonomamente nella protezione delle frontiere europee e nella gestione degli immigrati. Allo stesso tempo, però, è necessario che gli stati membri dell’Ue conservino il potere di stabilire i criteri per la loro accettazione. Non basta (come pure è auspicabile) aumentare di io.000 unità il personale di Frontex oppure (come pure è indispensabile) superare l’Accordo di Dublino. Occorre istituire una autorità federale per la gestione dell’immigrazione (come proposto, già nel 2017, dal Rapporto della Task Force del Ceps). A Salisburgo, invece, il nostro presidente del Consiglio si è opposto financo al rafforzamento di Frontex, in quanto “il dispiegamento di questi mezzi e uomini significa prefigurare un’invasione della sovranità”. Così, l’Italia non vuole affidare all’Ue compiti di gestione dell’immigrazione e, contemporaneamente, denuncia l’Ue per la mancanza di aiuto nei nostri confronti. Un circolo vizioso che alimenta la propaganda, ma allontana la soluzione. Insomma, se le elezioni si decideranno sulla questione migratoria, allora chi vuole contrastare i partiti sovranisti dovrà mettere in campo una politica che sappia rispondere alle insicurezze identitarie, oltre che materiali, dei cittadini. La Corte penale internazionale e gli Usa, storia di un idillio mai sbocciato di Sergio Romano Corriere della Sera, 23 settembre 2018 Nel 1998 l’America rifiutò di siglare il trattato sostenendo che il suo ruolo nel mondo la rendeva giuridicamente vulnerabile. Ora ne vorrebbe addirittura la cancellazione. Dopo la fine della Seconda guerra mondiale i vincitori non si limitarono a colpire i vinti, come accadeva in passato, privandoli di una parte del loro territorio e infliggendo pene pecuniarie. In alcuni casi (Germania e Giappone) crearono tribunali che processarono i loro leader e pronunciarono un numero considerevole di condanne a morte. Quella decisione sembrò dimostrare che la società internazionale stava entrando in una fase in cui gli Stati, come i singoli individui, sarebbero stati soggetti a un giudizio non soltanto politico e la guerra, almeno in alcune circostanze, sarebbe stata considerata un crimine internazionale. Dopo la fine della Guerra fredda, quando sembrò possibile creare un mondo dominato dalla legge, nacquero tribunali locali, da quello della ex Jugoslavia a quello del Ruanda, e cominciò a diffondersi la convinzione che era giunto il momento di creare un tribunale penale internazionale. L’Assemblea delle Nazioni Unite raccolse la proposta, convocò a Roma una grande assise internazionale che preparò il progetto, e lo sottomise nell’estate del 1998 a una conferenza diplomatica riunita nella sede romana della Fao. Il risultato fu la redazione di uno Statuto, approvato dopo una votazione in cui i favorevoli furono 129, i contrari 7 e gli astenuti 21. Gli Stati Uniti rifiutarono di aderire e ne spiegarono le ragioni sostenendo che il loro ruolo nel mondo li rendeva giuridicamente vulnerabili. Per evitare che i loro militari, stanziati in circa duecento basi straniere e spesso impegnati in vicende belliche, corressero il rischio di essere denunciati e processati, vollero godere di uno status particolare. Non fu sufficiente, tuttavia. All’inizio degli anni Novanta un alto funzionario del Dipartimento di Stato, John Bolton, strappò a 93 Paesi la promessa che non avrebbero estradato cittadini americani se la Corte penale internazionale li avesse incriminati e ne avesse richiesto la consegna. Contemporaneamente, tuttavia, il governo degli Stati Uniti incoraggiava altri Paesi ad aderire e vi fu persino un momento in cui sembrò che l’America potesse cambiare parere. Nell’ultimo giorno della sua presidenza Bill Clinton siglò il trattato, ma il suo successore, George W. Bush, qualche giorno dopo, revocò la firma. Recentemente, quando qualcuno sostenne che la Corte avrebbe dovuto processare alcuni militari americani di stanza in Afghanistan, lo stesso Bolton, chiamato da Trump alla Casa Bianca, ha pronunciato una virulenta filippica contro il tribunale accusandolo di cattiva gestione, corruzione, inefficienza e partigianeria. In una prima fase gli Stati Uniti si sottrassero alla giurisdizione della Corte. Oggi vorrebbero addirittura sopprimerla. Questo accade in un Paese che ospita le Nazioni Unite e dovrebbe essere il custode dei suoi principi e delle sue creature.