Tragedia Rebibbia: non si aggiungano danni alla tragedia provocata da una mamma detenuta Ristretti Orizzonti, 22 settembre 2018 Lettera aperta di volontari, cappellani, operatori del sociale, del mondo del lavoro, della cultura, dello sport, della salute. La tragedia che si è consumata a Rebibbia ci ha lasciati senza fiato. Un dolore e un orrore che ha travolto tutti: i due bambini innanzitutto, quella madre che forse ancora non è consapevole di quello che ha fatto, tutti gli operatori dell’Istituto, le oltre trecento donne lì detenute, le loro famiglie e anche noi volontari, cappellani, operatori del sociale, del mondo del lavoro, della cultura, dello sport, della salute che ogni giorno entriamo in carcere per dare il nostro contributo affinché la pena risponda sempre più alle finalità dettate dalla Costituzione. Abbiamo accolto tutto questo dolore in un silenzio rispettoso, vicini alle donne detenute, al loro smarrimento e dolore. Abbiamo cercato di comprendere i tanti tasselli di una vicenda che ha avuto un epilogo così drammatico. Conosciamo la complessità del carcere, dei suoi problemi, della sua gestione. Ma conosciamo anche bene l’impegno da sempre profuso dalla Direzione dell’Istituto femminile di Rebibbia per fare del carcere un luogo di reinserimento, di riflessione, di presa di coscienza, di riappacificazioni delle detenute con sé stesse e con le persone che hanno sofferto per le loro colpe, di crescita culturale e molto altro ancora. Sappiamo dell’attenzione con cui le donne sono seguite e ne condividiamo le scelte operative, dell’apertura dell’Istituto al territorio e alle sue Istituzioni, come la scuola materna del quartiere che accoglie ogni giorno nelle sue classi i bambini della Sezione nido. Ed è per questo che sentiamo il dovere di rompere il silenzio. Pensare di dare una risposta risolutiva a questo dramma scaricando sulla Direzione e sulla Vice-comandante la responsabilità di quanto è successo è un grave errore. Le responsabilità sono tante e nessuno - nemmeno noi - può pensare di tirarsene fuori, trovando un colpevole che paghi per tutti. Il dramma dei bambini in carcere è noto a tutti. La legge del 2011 ha tracciato una linea che prevede una collocazione alternativa al carcere per mamme e bambini, ma la sua applicazione fatica a trovare pienezza. Il disagio sociale sempre più presente all’interno degli Istituti di pena non è certo una novità e troppo spesso il peso di tale problema è affidato al personale di Polizia penitenziaria. Gli Enti locali faticano a dare risposte a chi esce dal carcere e cerca di ricominciare una vita diversa. I cittadini molto spesso si oppongono alla nascita di strutture di accoglienza, come le case famiglia per le donne detenute con figli. Colpire i vertici della Casa circondariale femminile di Rebibbia significa, per noi, aggiungere danni alla tragedia provocata da una mamma detenuta. I firmatari: A buon diritto; Arci; A Roma Insieme; Associazione Articolo 21; AS.VO.PE. - Palermo; Associazione Antigone; Associazione Controluce - Pisa; Associazione Fuoririga - Casal del Marmo; Associazione Liberamente - Cosenza; Associazione Sarda per l’attuazione della riforma psichiatrica; Associazione Semi di Libertà onlus; Associazione Spondé onlus; Associazione Volontari In Carcere/Caritas di Roma; Atletico diritti; Cibo Agricolo Libero Comunità di Sant’Egidio; Comunità Papa Giovanni XXIII; Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia; Conferenza per la Salute mentale nel mondo “Franco Basaglia”; Cooperativa Con-Tatto; Cooperativa Sociale Concordia onlus; Coordinamento Regionale “Tino Beiletti” - Piemonte e Valle d’Aosta; Coordinamento SEAC - Calabria; Coordinamento SEAC - Veneto; Festival dei matti; Fondazione Franco e Franca Basaglia; Fondazione Zancan; Forum nazionale per la salute in carcere; Forum salute mentale nazionale Gruppo; Idee laboratorio ricuciamo; GRUSOL Gruppo solidarietà; I Cappellani degli Istituti di Rebibbia; La Fraternità - Verona; Magistratura democratica; Men at work onlus; Nessuno tocchi Caino; Oltre le sbarre; Osservatorio Stopopg per la salute mentale; Panta Coop arl onlus; Ristretti Orizzonti; SEAC; Sesta città di rifugio; Sesta opera San Fedele - Milano; Sesta Opera San Fedele - Rieti; Società Cooperativa e-Team; Società di San Vincenzo De Paoli; Ucsi - Unione cattolica stampa italiana Unasam; Volare - Velletri Vo.Re.Co. Le coscienze scosse da Rebibbia e la rivoluzione copernicana necessaria di Patrizio Gonnella Il Manifesto, 22 settembre 2018 Le carceri sono stracolme di persone che hanno problemi di salute fisica e psichica, nonché di persone che in qualche modo hanno avuto una storia più o meno lunga di dipendenza con le sostanze stupefacenti. Non è facile censirle tutti, ma una sorta di indagine globale penitenziaria biografica potrebbe forse ben dimostrare che la maggioranza delle persone recluse è costituita in qualche modo da potenziali utenti del sistema del welfare. Quando accadono fatti tragici come quello recente di Rebibbia ci si stupisce, indigna, commuove. La morte di due bimbi innocenti sconvolge le coscienze. È però importante che le coscienze sconvolte si trasformino in coscienze critiche. In carcere vi è la sofferenza delle nostre periferie, si incontrano gli scartati di un sistema di welfare in crisi. Accade però che le istituzioni si lavino le coscienze sospendendo dal servizio funzionari di alto profilo umano e professionale e non guardino minimamente al modello sociale e penale dentro cui stiamo tutti affondando. La vicenda è trattata in modo non complesso come se quelle due vite tenere potessero essere salvate tenendo ammanettata a vita la mamma oppure ponendo madre e figlia sotto controllo ossessivo. Non ci si interroga invece sul fatto che il modello proibizionista e securitario produce dolore, violenza, ghettizzazione. Non ci si interroga sul fatto che in Italia è morto il dibattito intorno a un differente trattamento della questione droghe, che invece continua a essere chiusa dentro il circolo vizioso di una ideologia repressiva e illiberale. Quante vite avremmo salvato, a partire da Stefano Cucchi, se i nostri giovani non avessero dovuto rischiare la libertà personale in quanto consumatori di sostanze? Nelle scorse settimane è stata pubblicata la nuova edizione di uno straordinario volume scritto dal compianto Massimo Pavarini e da Dario Melossi (Carcere e fabbrica, Il Mulino). Andrebbe letto e spiegato a chi semplifica la tragedia di Rebibbia e la tratta come un fatto di custodia male organizzata. Il carcere è selettivo e seleziona sulla base della classe di appartenenza, della nazionalità, del censo, della salute psico-fisica. Il carcere, grazie a molti operatori (direttori, poliziotti, educatori, assistenti sociali, medici, psicologi) appassionati e bravi come quelli che operano nella sezione femminile di Rebibbia diventa una sorta di tempo supplementare dove a volte è possibile rientrare in contatto con il mondo perso dei servizi. Doppie e triple diagnosi sono spesso per la prima volte certificate dentro gli istituti di pena. Detenuti con gravi problemi psichici o di dipendenza sono talvolta affidati alle sole mani dello staff penitenziario. Ci vorrebbe invece una rivoluzione copernicana, a partire da un’inversione delle politiche proibizioniste sulle droghe (come ha fatto di recente il Sudafrica) fino a un massiccio investimento di risorse nel sistema socio-sanitario. In attesa della rivoluzione copernicana speriamo che, così come molte associazioni laiche e cattoliche hanno richiesto, si riammettano in servizio le brave e qualificate dirigenti del carcere femminile di Rebibbia sospese dal ministro di Giustizia Bonafede. Rebibbia, i figli uccisi dalla madre in cella e il giallo dei domiciliari respinti di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 22 settembre 2018 Tutti i misteri della tragedia avvenuta nel carcere di Rebibbia il 18 settembre, quando Alice Sebaste ha ucciso i due figlioletti di due anni e sette mesi. Che la madre assassina fosse una donna instabile e non presente a se stessa l’ha confermato ieri lei stessa, davanti al giudice. Il terzo attore di una tragica odissea durata meno di un mese, che ha portato alla morte dei due figlioletti della trentatreenne tedesca Alice Sebaste, uccisi nel carcere romano di Rebibbia dove scontavano con lei la custodia cautelare; due anni il primo, sette mesi la seconda. Al magistrato la donna ha raccontato di avere tentato il suicidio quando aveva 16 anni, ha parlato di altri disturbi e ha sconnessamente insistito nel considerarsi una buona madre, che ha protetto i suoi bambini “dalla mafia”, mentre continuava a bere perché doveva produrre latte. Anche se ormai non deve allattare più nessuno. Il giudice ha confermato il fermo nel reparto penitenziario dell’ospedale Sandro Pertini, in vista di un prevedibile trattamento sanitario obbligatorio e di un successivo trasferimento in una residenza per malati di mente considerati socialmente pericolosi. Ma la drammatica vicenda di Alice e del suo crimine comincia prima, con altri provvedimenti giudiziari, insieme a un sistema e a una burocrazia che fatalmente non riesce (o non serve) a prevedere e prevenire certi eventi. Il “no” ai domiciliari - Ecco allora che l’attenzione si concentra sul provvedimento del secondo giudice che s’è occupato di Alice, quando il 7 settembre scorso ha negato la detenzione domiciliare dopo la cattura decisa dal primo, per il possesso di 10 chili di marijuana nascosta nei pannolini dei bimbi. “Gli elementi a sostegno dell’istanza non possono ritenersi tali da elidere, neppure in minima parte, i presupposti fondanti la misura in corso di esecuzione”, ha scritto il gip rigettando la richiesta. Quando si tratta di donne con figli piccoli, per lasciarle in carcere c’è bisogno di “esigenze cautelari eccezionali”, altrimenti gli arresti domiciliari sono la regola. Tanto più per una persona incensurata come Alice, fermata il 26 agosto nei pressi della stazione Termini con la droga, insieme ai figli e a due nigeriani (subito liberati per insufficienza di indizi), che però non aveva una “fissa dimora” dove poter scontare la misura cautelare. Motivo per cui il primo giudice l’ha trattenuta in cella. Il secondo ha aggiunto: “I dati offerti dal difensore sono già stati ampiamente valutati in sede cautelare, e non ne sono acquisiti nemmeno di ulteriori tali da modificare il quadro indiziario e cautelare”, e l’ha lasciata a Rebibbia. Dove Alice, quattro giorni fa, ha compiuto il suo crimine. L’avvocato Andrea Palmiero ribatte che il magistrato non ha valutato la sua istanza, dove una novità c’era: l’indicazione di un nome e un indirizzo presso i quali la donna poteva ottenere i domiciliari. Era la casa napoletana di un nigeriano “onesto lavoratore e lontano da logiche criminali, dotato di permesso di soggiorno” a Napoli, trovata dal compagno di Alice - nigeriano anche lui - che s’era accordato sul prezzo dell’affitto. Una soluzione che forse il magistrato non ha ritenuto adeguata, visto il contesto nel quale la donna sarebbe tornata. Tuttavia questa eventuale motivazione non compare nell’ordinanza. Un reparto modello - Dopodiché nemmeno il difensore conosceva i precedenti autolesionisti della donna, e non si capacita per quello che è successo: il giorno in cui li ha scaraventati dalle scale - uccidendo sul colpo la bambina e provocando la morte cerebrale del maschio - aveva vestito i suoi figli con gli abiti buoni perché convinta che stessero per farli uscire. Il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, e il nuovo capo dell’Amministrazione penitenziaria, Francesco Basentini, hanno decretato l’immediata sospensione dal servizio della direttrice e della vicedirettrice di Rebibbia femminile, e della vicecomandante degli agenti. Una decisione presa a tempo di record nello stile della risposta immediata e subito annunciata, contestata - prima ancora che dagli interessati - dalle associazioni di volontariato, dai sindacati della polizia penitenziaria, dai garanti dei detenuti. Quel carcere, e in particolare il reparto-nido dov’era rinchiusa Alice, insieme a chi lo dirigeva, sono considerati dagli operatori l’eccellenza del sistema penitenziario. Una specie di fiore all’occhiello decapitato nel giro di poche ore, quando ancora non è chiaro cosa sia successo riguardo alla sorveglianza sulla donna tedesca. Le segnalazioni - Il capo del Dap parla di ripetute segnalazioni di “comportamenti sintomatici di una preoccupante intolleranza nei confronti dei due piccoli”, che sarebbero stati ignorati o sottovalutati. Ma “eventi critici” comunicati secondo i protocolli in vigore non ne risultano. Si parla dell’iniziativa di una puericultrice, ma non è certo che sia arrivata alla direzione. Dopo la visita della psicologa al primo ingresso era stata rilevata la necessità di un incontro con lo psichiatra esterno al carcere, che in venti giorni non s’è visto. Forse ha pesato anche il periodo feriale, ma accertamenti sanitari di questo tipo non dipendono dagli istituti di pena bensì dal Servizio sanitario nazionale, a cui pure sono giunte le rimostranze del Dap. Rebibbia, si indaga sui referti psicologici di Adelaide Pierucci Il Messaggero, 22 settembre 2018 I diari clinici sequestrati e interrogatori a tappeto. Per ricostruire il dramma di Alice Sebesta la mamma assassina di Rebibbia, che ha ucciso i suoi figlioletti di 6 e 19 mesi lanciandoli dalle scale dell’istituto, sono scattate le prime acquisizioni all’interno del carcere. Le indagini della procura, ottenuta la convalida dell’arresto per duplice omicidio della detenuta, si concentrano ora sulle eventuali mancate attenzioni a lei riservate, visto il disagio mentale esploso all’improvviso. Per ora la donna, però, non è stata dichiarata folle. Serviranno accertamenti clinici. Anzi, il gip Antonella Minunni, che ieri l’ha sottoposta all’interrogatorio di garanzia in presenza del procuratore aggiunto Maria Monteleone, per l’uccisione dei due piccoli - di Faith, la femminuccia di 6 mesi, morta sul colpo e del fratellino Divine, spirato dopo tre giorni di agonia - le ha contestato l’omicidio aggravato dalla crudeltà. “L’indagata - ha precisato il giudice nella misura cautelare - ha agito con inaudita crudeltà e spropositata violenza”. Senza mostrare, ha precisato, “segni di pentimento”. Anzi giustificando l’orrore come una azione salvifica, “per portarli in paradiso o non farli cadere nelle mani dalla mafia”. I carabinieri del Nucleo operativo di via In Selci, comandati da Lorenzo D’Aloia, intanto, hanno sequestrato la relazione dello psicologo del carcere che ha tenuto il colloquio con la detenuta al momento dell’ingresso, e i referti dello psichiatra che l’ha valutata in un paio di incontri successivi, senza rilevare urgenze. Eppure Alice ogni giorno era più trasandata, canticchiava, coi bambini attaccati al seno, passava le ore a grattarsi. Alle gambe, sul viso, sulle braccia. “Ormai le si erano formate delle pustole”, ha raccontato una compagna di cella. Il difensore, l’avvocato Andrea Palmiero, allarmato dalle richieste di aiuto, non le aveva detto che un giudice il 7 settembre, a dieci giorni dal fermo che l’aveva portata in carcere per traffico di marijuana coi bambini in braccio, aveva bocciato la sua proposta di arresti domiciliari presso un amico a Napoli. “Perché - come aveva scritto il magistrato - il quadro indiziario non era cambiato”. Quindi, per liberare la mamma e i due neonati, il legale puntava sull’udienza davanti al Riesame, tenuta alle nove e mezzo di martedì 18 settembre, un paio di ore prima della tragedia. Una data attesa per Alice Sebesta. “Quel giorno ero certa che mi avrebbero scarcerata - ha raccontato, ieri, in inglese. Ho fatto sentire della musica ai bimbi, li ho vestiti con abitini nuovi. Poi all’improvviso mentre risalivo dal cortile ho sentito dei rumori, motori di auto, ho capito che era arrivata la mafia per strapparmeli. Li ho lanciati dalla rampa delle scale e per essere certa di averli salvati, di averli mandati in paradiso, sono scesa giù e li ho colpiti di nuovo”. Alice, però, ha anche tenuto a dipingersi come una madre attenta. “Sono una brava mamma. Continuo a bere molto per aumentare la produzione del latte. Lo faccio per i miei bambini. Due angeli”. I colpevoli non sono nel carcere di Francesco Petrelli* Il Tempo, 22 settembre 2018 Non spettava a loro applicare la legge che vieta la detenzione di madri con figli piccoli. La capacità di dare alle domande ed ai problemi che le generano sempre una risposta sbagliata non è certamente una dote ma possiede comunque in sé qualcosa di prodigioso. Il Ministro Bonafede è dotato evidentemente di questa temibile virtù. Se troppi processi si risolvono in una prescrizione perché evidentemente durano troppo, al Ministro Bonafede l’unica risposta che balza in mente è quella di eliminare nella sostanza questo fastidioso istituto, indispensabile, purtroppo, nel nostro Paese per assicurare ai processi una ragionevole durata. Una volta ottenuta la condanna l’ordinamento si ritiene soddisfatto, al diavolo appelli e ricorsi, inutili controlli di merito e di legittimità. Se quella condanna (con tutto il suo carico di misure preventive, sequestri e connessi...) peserà a vita sugli, a dispetto della presunzione di innocenza, poco importa. E poco importa se anche le persone offese resteranno in un limbo di incertezza in attesa di una decisione definitiva. Ma, eliminata la prescrizione, non ci saranno più appelli, replica il Ministro. Perché le impugnazioni non sono fatte per rimediare all’errore di un tribunale o di una corte di appello, ma solo per lucrare prescrizioni. E se qualcuno dovesse insistere nell’insana idea di voler ottenere comunque giustizia sappia che l’abolizione del divieto della reformatio in peius lo esporrà presto al rischio di veder moltiplicata l’ingiustizia subita e di trovarsi con una pena doppia rispetto quella inflitta dal primo giudice. Chissà Tortora, posto di fronte a questa Cabala, cosa avrebbe deciso di fare... Ma oramai la giustizia non è più un fatto reale, non è la risposta a un bisogno concreto dei cittadini e della collettività intera di tutela dei diritti e delle garanzie, ma il risultato di una semplice “percezione”, per cui il processo penale potrà efficacemente essere sostituito da ben più comprensibili slogan. Efficaci tweet al posto degli articolo di legge. Rapide prese di posizione al posto di ponderate analisi dei fatti. Se così la giovane e sventurata madre di due piccolissimi figli, tutti e tre reclusi all’interno del carcere di Rebibbia Femminile, compie il più tragico dei gesti che una madre può compiere, il Ministro, senza neppure pensarci un attimo, sospende i vertici della casa di reclusione. L’importante è il gesto dannunziano. L’esserci. Non conosciamo gli addebiti connessi a questa così esemplare misura disciplinare. Ma anche qui ci poniamo una domanda diversa. Se c’è un articolo del codice di procedura (che il Ministro dovrebbe conoscere) che fa divieto, salvo eccezionali esigenze cautelari, di applicare e di mantenere la misura della custodia in carcere alle madri di minori di sei anni (pochi mesi e pochi anni avevano i due piccoli incolpevoli reclusi), non spettava certo all’amministrazione carceraria farla rispettare. Quel che il Ministro avrebbe dovuto chiedersi, prima di dare quella risposta affrettata, è perché questa semplice regola non venga rispettata. Perché la presunzione di innocenza venga nel nostro Paese quotidianamente calpestata. E quali esigenze di eccezionale rilevanza, fondate quindi su di un pericolo non comune ovvero di spiccatissimo rilievo, così come ritualmente scandisce il lessico impopolare della Corte Suprema, ricorressero davvero così da imporre il sacrificio di due bambini, quelli si certamente innocenti al di là di ogni ragionevole dubbio. *Segretario Unione camere Penali Bimbi in carcere. Due madri e due misure di Lavinia Di Gianvito Corriere della Sera, 22 settembre 2018 La morte dei due bimbi a Rebibbia - lanciati giù dalle scale da una madre malata - ripropone una questione mai risolta del tutto: è giusto, è opportuno, che le detenute con figli piccoli scontino la pena in carcere? E viceversa: è giusto, è opportuno, che i bambini crescano in prigione anche fino al compimento dei sei anni? Se separare le mamme dai bimbi è ovviamente escluso, la tragedia avvenuta nel penitenziario sulla Tiburtina impone piuttosto una riflessione sulle soluzioni diverse dal carcere per le madri con figli piccoli. Soluzioni che garantiscano sì l’espiazione della pena, ma anche il rapporto affettivo tra le mamme e i bimbi e la protezione di questi ultimi. In questo ambito, a Roma è aperta da più di un anno la Casa di Leda, la prima struttura in Italia che accoglie le detenute con i loro piccoli. Il progetto, avviato quando era sindaco Ignazio Marino, è stato completato da Virginia Raggi e intitolato a Leda Colombini, partigiana, sindacalista, parlamentare e soprattutto protagonista della battaglia per ottenere una legge che evitasse ai bambini di finire in carcere con le madri. Però scontare la condanna nella Casa di Leda - una villa all’Eur strappata alla criminalità organizzata - non è automatico: ci vuole il via libera di un giudice. Quella detenuta sì, l’altra no. E quindi: per quel bambino la stanza pulita, il giardino, i giochi, i volontari; per l’altro le sbarre, i cancelli che sbattono, gli orari, le guardie penitenziarie. Un’iniquità che deve finire. Migranti e sicurezza: duello Lega-Bonafede, sarà scontro in aula di Marco Conti Il Mattino, 22 settembre 2018 I due decreti unificati in un solo testo. Lite tra il Carroccio e M5S su permessi umanitari e revoca cittadinanza. “Lo voteremo. Poi, tutto è migliorabile: è stato migliorato il mio decreto dignità in Parlamento e allo stesso modo miglioreremo il decreto immigrazione in Parlamento”. “Dalla Cina con furore”. Luigi Di Maio a Pechino indossa i panni di Bruce Lee e rifila un colpo non da poco al decreto sicurezza che a Matteo Salvini sta molto a cuore. Un decreto, e non due come si immaginava alla vigilia, con l’obiettivo di velocizzare l’iter parlamentare e aumentare l’impatto securitario che il ministro dell’Interno intende dare al capitolo immigrazione. Di fatto si tratta del primo provvedimento che il governo di Giuseppe Conte dovrebbe licenziare nel consiglio dei ministri di lunedì dopo il rinvio. Lo slittamento e il weekend dovrebbe servire ad unificare i due provvedimenti, quello sulla sicurezza e quello sull’immigrazione, e a sistemare alcuni passaggi che rischiano di far inciampare l’intero impianto alla prima valutazione della Corte Costituzionale. Al lavoro sono impegnati gli uffici legislativi di palazzo Chigi e dei ministeri dell’Interno e della Giustizia. Proprio dal dicastero di Alfonso Bonafede sono emersi i maggiori dubbi su alcuni punti del provvedimento. Su tutti la possibilità di restringere oltremodo la protezione umanitaria, la possibilità di revoca della cittadinanza e l’estensione dei procedimenti penali che dovrebbero bloccare la procedura di asilo. Un diritto, quest’ultimo, previsto all’articolo 10 e inserito tra i diritti fondamentali della nostra Costituzione. Il testo è ancora in via di ultimazione e, come ha teorizzato ieri l’altro lo stesso presidente del Consiglio, è possibile che venga cambiato anche durante il consiglio dei ministri di lunedì. Malgrado Di Maio abbia assicurato a Salvini il varo del decreto nel prossimo consiglio dei ministri, ai grillini il testo continua a piacere molto poco e confidano nella possibilità di correggerlo in aula. Salvini è però al suo primo appuntamento parlamentare con un suo testo e sembra disposto a concedere poco all’alleato. Il testo, una cinquantina di articoli in tutto, imprime una decisa stretta sull’asilo, eliminando la protezione umanitaria (permessi speciali per ragioni di salute, calamità naturali e meriti civili) ed ampliando il numero di reati che portano alla revoca del permesso di rifugiati (violenza sessuale, rapina, resistenza a pubblico ufficiale, traffico di droga). Prevista inoltre l’esclusione del gratuito patrocinio nei casi in cui il ricorso contro il diniego della protezione è dichiarato improcedibile o inammissibile. Inoltre per facilitare le espulsioni degli irregolari ci sarà il raddoppio dei tempi di trattenimento nei Centri per i rimpatri (da 3 a 6 mesi), nonché procedure più veloci per costruire nuovi Centri. Stretta anche sulla cittadinanza, ed è uno dei punti costituzionalmente più controversi: verrà revocata per reati con finalità di terrorismo e c’è il raddoppio dei tempi (da 2 a 4 anni) per la concessione della cittadinanza per matrimonio e per residenza. Ieri sera, intanto, due manifestanti che avevano partecipato a Bari al corteo antirazzista “Mai con Salvini” sono stati aggrediti e feriti dopo la manifestazione da un gruppo di militanti di Casapound. Il corteo si era concluso da poco, quando alcuni manifestanti sono passati davanti la sede di Casapound da dove sarebbe partita l’aggressione. “Baby gang? Criminalizzare non serve, i ragazzi vanno rieducati” di Simona Musco Il Dubbio, 22 settembre 2018 Intervista a Filomena Albano, Garante Infanzia e Adolescenza. Contesti disagiati, mancanza di assistenti sociali, pervicace presenza della Camorra. Ma anche abbandono educativo, crisi della famiglia e delle scuole. Sono questi gli elementi alla base del fenomeno delle baby gang, secondo il Csm, che ha fotografato il fenomeno della devianza dei minori a Napoli. Un’analisi che mette a nudo le carenze delle istituzioni - basti pensare che nella città metropolitana di Napoli gli assistenti sociali sono 1.042, uno ogni 5.600 abitanti, ma stigmatizza anche l’esigenza di reprimere, oltre che di prevenire. Un aspetto che emerge chiaramente nell’intervento del consigliere Antonio Ardituro, secondo cui bisognerebbe abbandonare un certo “buonismo” perché “un ragazzo che delinque a 16 anni è consapevole di quello che sta facendo”. Parole, queste ultime, sulle quali il garante per l’infanzia e l’adolescenza, Filomena Albano, mette in guardia: “Siamo contrari all’abbassamento dell’età per l’imputabilità ha detto al Dubbio, i ragazzi vanno rieducati prima che criminalizzati e colpiti”. E sulle comunità separate in base alla provenienza dal campo penale o da quello civile afferma: “Bisogna evitare le ghettizzazioni”. Partiamo dalla risoluzione: cosa le piace? Ci piace l’impostazione basata sulla prevenzione e non semplicemente sul contrasto. In quanto autorità di garanzia di diritti abbiamo una forte attenzione anche al fenomeno della devianza dei minori, interessati dai delitti sia come autori, sia come vittime e testimoni. In questo c’è stato il nostro interesse a seguire tutto l’iter e la risoluzione percepisce molte nostre osservazioni. Dietro un ragazzo che delinque c’è il fallimento della collettività e questa risoluzione è positiva perché valorizza il ruolo degli uffici giudiziari in chiave di una giustizia che non è solo applicazione della legge, ma che abbia anche una forte connotazione sociale. Però il consigliere Ardituro alcuni di questi ragazzi sono pienamente consapevoli delle loro azioni. La pensa così anche lei? Sgomberiamo il campo: ogni discorso relativo all’abbassamento dell’età per l’imputabilità non ci trova d’accordo. Come autorità riteniamo che l’età debba essere ferma a 14 anni, perché al di sotto non c’è assolutamente consapevolezza. Quando analizziamo questi casi ci troviamo di fronte a bambini e ragazzi che devono essere rieducati, prima che puniti. Un’altra considerazione va fatta, però, sull’arresto in flagranza: consentire l’arresto attraverso pene edittali più basse può essere un passaggio obbligato per indirizzare il ragazzo verso una seconda vita e renderlo libero di scegliere. Cioè bisogna arrestare i ragazzini? Spesso i ragazzi hanno bisogno di un evento tragico, che consenta loro di elaborare e rielaborare quello che hanno commesso. A volte, l’immediata riconsegna del ragazzo nell’ambito della famiglia di origine, se deprivata e non accogliente, non è una buona scelta. Un evento di rottura, accompagnato dall’individuazione di una comunità di accoglienza, anche in un posto lontano, dove sia possibile trovare degli accompagnatori altamente positivi, può essere una scelta molto positiva. Non rischia di essere drammatico? L’unità della famiglia va il più possibile salvaguardata, questo lo ribadiamo. La convenzione di New York sostiene il diritto alla salvaguardia delle relazioni familiari. Ma nel nostro diritto è possibile adottare provvedimenti di decadenza o sospensione della potestà genitoriale quando si verificano fatti gravi, che inficiano alla radice la possibilità del ragazzo di essere educato in quel contesto. Spetta all’autorità giudiziaria valutare caso per caso, consapevole che va salvaguardata l’unità familiare, ma anche che bisogna proteggere i ragazzi da situazioni maltrattanti. Al momento esiste una mappatura completa dei casi? No: quanto fatto a Napoli va esteso a tutta Italia. Il Csm ha fatto un buon lavoro, iniziando dalla realtà napoletana, ora bisogna avere una mappatura su scala nazionale, anche per individuarne i contorni. È importante capire se c’è un decremento o un incremento della delinquenza minorile. Il documento evidenzia anche una carenza importante di assistenti sociali nella realtà napoletana. Non è questo forse il problema principale? Si tratta di un numero imbarazzante ed è fondamentale investire nei servizi sociali, altrimenti sarà impossibile intervenire. Per prevenire bisogna attivare le risorse del territorio e la comunicazione, ora assente, tra scuola e uffici giudiziari. Se a scuola un ragazzo non ci va è chiaro che l’istituto deve segnalare subito l’abbandono scolastico agli uffici giudiziari, perché le procure, per legge, hanno la possibilità di fare degli interventi a tutela del ragazzo e indagare per capire perché non va a scuola. Ma questa comunicazione deve funzionare nell’immediatezza. I servizi sociali devono intervenire subito per prevenire, altrimenti non rimane che il contrasto, che rappresenta un danno. I ragazzi vanno rieducati prima che criminalizzati e colpiti, cosa che poi rappresenta un costo per la società. Si torna a parlare di allontanamento dei minori dai propri genitori. Vale anche in questi casi, oltre che nei contesti di criminalità organizzata? Sì, dove si riconosca che il permanere dei legami familiari possa aumentare la devianza verso comportamenti criminali. Altrettanto efficaci, nella medesima prospettiva, possono dimostrarsi le misure di allontanamento dai luoghi di origine. Abbiamo analizzato la giurisprudenza del tribunale di Reggio Calabria, che ha avviato questo tipo di progetti, e abbiamo seguito con attenzione il progetto “Liberi di scegliere”. Sappiamo che il tribunale di Napoli ha provveduto, in alcuni casi, in maniera analoga, ma non abbiamo esaminato i singoli casi. Non c’è il rischio di occuparsi di questo tema solo quando c’è il fatto eclatante e perdere di credibilità agli occhi di questi ragazzi? In realtà stiamo andando nella direzione di strutturare gli interventi, con il coordinamento tra procure ordinarie e minorili. Le prime, appena hanno contezza del coinvolgimento di minori nelle loro indagini, attraverso la tempestiva comunicazione alle procure minorili, possono consentire di attivare interventi di protezione. Parlarsi inizia a produrre effetti di collaborazione tra le istituzioni. La risoluzione ritiene giusto separare i ragazzi destinatari di provvedimenti civili da quelli finiti nell’ambito penale. Non si rischia di ghettizzare gli uni o gli altri? Questo è il punto della risoluzione che, a mio avviso, merita approfondimento. Pensiamo che bisogna evitare ghettizzazioni e che ogni rigidità rischi di non coincidere con l’interesse di questi ragazzi. Bisogna credere fino in fondo nella possibilità di rieducare. in questo le comunità promiscue possono rappresentare una risorsa, anziché un problema. Csm, perché il sorteggio serve all’autonomia di Serena Sileoni Il Mattino, 22 settembre 2018 È notizia di ieri che alcuni giudici abbiano presentato al ministro Bonafede la proposta di nomina per sorteggio dei componenti del Consiglio Superiore della Magistratura, il loro organo di autogoverno. Può il caso rivelarsi una delle vie per rendere responsabile, nella sua sacrosanta indipendenza, la magistratura? Per quanto possa sembrare paradossale, sì. L’ordine giudiziario italiano, giustamente tenuto al riparo dal potere esecutivo, ha negli anni trasformato la sua autonomia in una sostanziale irresponsabilità verso i cittadini. Emblema di questa deriva è proprio il fatto che il Csm sia palesemente, se non spudoratamente, attraversato da vere correnti politiche, stigmatizzate persino dall’allora presidente Ciampi in una lettera del 2005 che ne sottolineava le inefficienze dovute ai condizionamenti delle correnti interne. Prevedere che i suoi componenti siano sorteggiati, anziché eletti, vorrebbe dire limitare i rischi di correntismo che tanto possono nuocere alla giustizia e alla reputazione del suo operato. Dal Tardo Medioevo al Rinascimento, Venezia e Firenze affinarono le tecniche di sorteggio, note già dall’antica Grecia, in maniera anche molto complessa. L’una e l’altra città ispirarono l’organizzazione di governo di varie altre città italiane, da Parma a Bologna, da Siena a Perugia. Il Regno di Aragona e quello di Castiglia conoscevano e adottarono il sistema fiorentino dell’“imborsazione” e lo copiarono anche nel nome. Ai giorni nostri, quelli di una democrazia elettorale che ci sembra sempre esistita ma che in realtà è storia recente, tracce di sorteggio hanno resistito nelle nomine delle commissioni per alcune procedure concorsuali, nella selezione dei membri aggiunti della corte costituzionale italiana per giudicare i reati presidenziali, nelle corti d’assise, e, fino alla metà del secolo scorso, nella formazione degli uffici parlamentari (gli antenati delle commissioni). Lungi dall’essere un metodo sostitutivo della democrazia rappresentativa, come vorrebbero Beppe Grillo e Davide Casaleggio, in sistemi giuridici molto più vasti e molto meno elitari di quelli antichi il sorteggio può rivelarsi un elemento per rafforzarla: darebbe una legittimazione diversa ma più funzionale e persino credibile di quella rappresentativa a organi e istituzioni che, per loro natura e funzione, sono e devono restare al di fuori del circuito politico-rappresentativo. La nomina per sorteggio del Consiglio Superiore della Magistratura sarebbe un caso da manuale. Esso non ha, e non deve avere, rappresentanza politica, ammesso che esista (ancora). Svolge compiti essenziali di alta amministrazione e di controllo. E per questo deve svolgerli scevra da ogni condizionamento tipico dei meccanismi elettorali. Il sorteggio, come elemento di razionalizzazione, e non di sostituzione, della democrazia elettorale si può applicare agli organi di autogoverno, a partire dal Csm ma anche ai consigli degli ordini professionali o agli organi di governo delle università. O si può applicare a quelle autorità che attualmente sono designate attraverso meccanismi di cooptazione/nomina tra soggetti ritenuti altamente qualificati per quella nomina (come nel caso delle autorità indipendenti). La selezione randomica potrebbe inserirsi in questi circuiti e sostituirsi ai metodi appena detti, con almeno due accorgimenti generali. Il primo è la delimitazione della platea da cui condurre l’estrazione, che non deve essere più ampia di quella dei soggetti che sarebbe designati per via elettiva o di nomina. Il secondo, è una turnazione che abbia tempi idonei a consentire un adeguato bilanciamento tra efficacia dell’attività dell’organo e garanzia di ricambio dei componenti. Reintrodurre la dignità del sorteggio non per il Senato, come piacerebbe ai grillini, ma per gli organi di autogoverno, come i consigli superiori delle magistrature, o per ruoli tecnici, come le autorità indipendenti o le più varie commissioni e cariche che affiancano i governi, significherebbe, a ben vedere, rafforzare la nostra democrazia, e non rinnegarne i presupposti. Emilia Romagna: botta e risposta Morrone-Regione su assistenza psichiatrica ai detenuti quotidianosanita.it, 22 settembre 2018 Il Sottosegretario ha chiesto alla Regione di motivare i tagli. L’assessore Venturi risponde: “Ci siamo fatti carico del problema di altri per anni, ora chiediamo semplicemente il rispetto della legge che prevede che debbano essere prese in carico dalle strutture preposte nelle regioni di residenza. L’Emilia-Romagna ha finora garantito 50 posti per soli 17 ricoverati residenti nella nostra Regione”. “La cosa è molto semplice, e il sottosegretario Morrone dovrebbe saperlo bene: la legge prevede che le persone detenute con disturbi mentali debbano essere prese in carico dalle strutture preposte nelle regioni di residenza. Per solidarietà istituzionale, abbiamo accettato per alcuni anni di farci carico anche di chi non risiedeva in Emilia-Romagna. Ora pensiamo che sia giunto il momento che la legge venga rispettata. Tutto qua”. È la replica dell’assessore alla Salute della Regione Emilia-Romagna, Sergio Venturi, alle dichiarazioni del sottosegretario alla Giustizia Jacopo Morrone, che ha chiesto alla Regione Emilia-Romagna di motivare i tagli delle risorse e delle strutture dedicate al ricovero e all’assistenza psichiatrica dei detenuti non residenti affetti da questi problemi. Una situazione che, per il sottosegretario, creerebbe problemi al sistema complessivo. La Regione ricorda quindi di avere finora garantito un’offerta di 50 posti a fronte di 17 ricoverati residenti in Emilia-Romagna. “Non che ci aspettassimo ringraziamenti da parte del Governo per esserci fatti carico di un problema di altri per anni - commenta la Regione Emilia Romagna in una nota - ma l’uscita del sottosegretario è un po’ fuori luogo. Tra l’altro, lo scorso mese di agosto abbiamo scritto al Ministero per informarli che, semplicemente, abbiamo deciso di applicare la norma nella sua interezza. Detto che siamo come sempre pronti a collaborare, mi chiedo: dov’è l’errore?”. Parma: Claudio, fine pena mai “la mia salvezza nello studio” di Veronica Manca* Il Dubbio, 22 settembre 2018 Condannato all’ergastolo ostativo, ha preso due lauree e collabora con Ristretti Orizzonti. In un momento politico così complicato, trattare il tema dell’ergastolo non è cosa semplice: tra chi propone l’abolizione tout court del carcere, a chi vorrebbe l’inasprimento della pena detentiva, l’introduzione di ulteriori preclusioni e divieti (vedi, per tutti, l’inserimento del meccanismo preclusivo di cui all’art. 4bis O.P. per gli autori di reato minorenni), a chi, ancora, propone di “chiuderli tutti in gattabuia e buttare la chiave”, c’è un abisso, un mondo fatto di persone: detenuti e i loro familiari, i familiari delle vittime, gli avvocati (di entrambi), giudici, operatori, assistenti sociali, psicologi, educatori, direttori di carceri, volontari. Per questo quando ho il piacere di collaborare direttamente con i detenuti, la mia professionalità mi impone di tenere presente - ma mai come un pregiudizio - il punto di partenza, per cercare di conoscere liberamente la persona (e non il criminale, per gli atti giudiziari e forse anche per la realtà storica), ma senza con ciò scadere nell’eccessivo buonismo. I delitti puniti con l’ergastolo ad oggi sono reati di una certa gravità: omicidi, reati inerenti la criminalità organizzata, fatti che incidono sul tessuto sociale in termini irreversibili, come una malattia cronica. Eppure, data la premessa, dietro a un fatto così grave, c’è sempre un autore, una persona, una storia, un passato. La domanda che quindi mi pongo è se davvero dobbiamo avere paura e dobbiamo pensare che l’unico modo per eliminare le conseguenze del delitto sia annullare la personalità dell’autore del reato, isolandolo in una cella a vita, o, se invece, dato che tale soluzione fino ad oggi non ha portato a nulla, ma ha solo inflitto ulteriore sofferenza, dovremmo prenderci carico tutti, come società, anche delle persone che hanno “sbagliato”, commettendo fatti gravi. Solo affrontando il buio più profondo, una società può immaginare un futuro migliore, perché è consapevole di quanto l’animo umano possa sprofondare senza il supporto socio- culturale (e politico) adeguato. È una sfida ardua, difficile, forse senza una soluzione “giusta” e priva di conseguenze. La mia sfida personale, da avvocato e studiosa, mi ha portato a incontrare da vicino “il mondo dell’ergastolo”, scegliendolo una prospettiva particolare. Quando ho iniziato a conoscere Claudio Conte, ho subito avvertito dalle persone che lo seguono una percezione assolutamente positiva, di una persona seria, studiosa, applicata, con un curriculum scientifico fitto. Claudio Conte è riuscito da autodidatta in carcere - ininterrottamente dall’età di 19 anni dal 1989 e, per alcuni periodi, anche in regime di 41bis O.P. - a diplomarsi e a conseguire due lauree, di cui l’ultima in Giurisprudenza (con una votazione altissima, 110 e lode), con una tesi proprio in tema di ergastolo ostativo. Oltre ad essere uno studioso modello, Claudio Conte ha fatto della sua esperienza di vita (carceraria) una questione personale: la sua ricerca è diretta ad approfondire le tematiche dell’ergastolo ostativo, per verificarne la sua compatibilità con la Costituzione e con le fonti internazionali; è, inoltre, redattore della rivista Ristretti Orizzonti con sede presso la Casa Reclusione di Parma; collabora con diverse associazioni per i diritti civili, quali: Fuori dall’Ombra, Yairahia, Liberarsi e col Partito Radicale; in tal senso ultimamente sta collaborando anche alla stesura di alcune tesi di laurea con laureande delle Università di Parma e di Salerno. Tutto questo Claudio lo ha fatto in carcere, dato che vi è entrato quando era giovanissimo. Questo vuol dire che Claudio è un prodotto del carcere o che il carcere fa bene? O, invece che, anche la persona che ha commesso il fatto più grave, se seguita, incoraggiata e assistita nel modo corretto (nel massimo rispetto della legalità e delle possibilità che l’ordinamento penitenziario consente) può scegliere consapevolmente la legalità e intraprendere un percorso virtuoso, nonostante il suo passato e nonostante i numerosi anni di carcerazione/ isolamento? La cifra distintiva di Claudio è la consapevolezza che è riuscito a maturare su se stesso e sul suo percorso di vita: un percorso improntato sempre e comunque alla dignità (come dice lui: “Pur nella mia giovane età avevo capito che davanti a me si era aperto l’abisso del fine pena mai. Mi restava l’alternativa tra il suicidio, ritornare a delinquere o espiare la pena nel modo più dignitoso possibile. Ho scelto quest’ultima”). La sua salvezza - in tutti questi anni di carcerazione e, molto probabilmente, il suo punto di svolta - ruota tutta intorno allo studio, alla possibilità di rimediare agli errori commessi, con la lettura, l’apprendimento, dato che si può leggere anche da fermi, mentre la mente “spazia in tutto l’universo”. La profondità del suo percorso di cambiamento lo ha portato proprio sulla strada del diritto (e, per paradosso, verso tutto ciò che lo aveva condannato): “Fu, infatti, l’avvocato e professore Fabio Dean che mi spiegò come quella del diritto fosse una materia tec- nica e umanistica, che mi avrebbe consentito di aiutare me stesso e gli altri, fornendomi gli strumenti per migliorare la vita delle persone”. Per Claudio, la possibilità di studiare è diventata la via per migliorare se stesso, per aiutare gli altri e - come afferma lui - per “risarcire la società” di quanto aveva commesso da ragazzo. La straordinarietà della storia di Claudio sfata tutti i pregiudizi e le ostilità immaginabili sulla pena dell’ergastolo: certo non tutti i detenuti sono lineari come Claudio, non tutti gli ergastolani hanno un percorso così brillante, non tutti hanno avuto le sue possibilità, ma ciò non significa che non si debba prendere atto di un simile cambiamento a livello personale, che è l’espressione di un percorso sicuramente individuale (mosso dalla solitudine a cui era costretto in regime di 41bis O. P.: sullo sgabello presente in cella, Claudio racconta di interminabili letture, dal Vangelo a testi giuridici, che gli hanno fatto riflettere sulle sue azioni passate). Un percorso, però, anche condiviso con la società esterna: la sinergia di più operatori, volontari, docenti, avvocati che hanno lavorato per e con lui per guidarlo verso la dimensione della legalità (dalla prima giovinezza alla maturità, per 29 anni) ha dimostrato come un percorso trattamentale condiviso possa rappresentare davvero la differenza in termini di responsabilizzazione, cambiamento, recupero e apprendimento ex novo di schemi e modelli (che magari prima non erano condivisi o semplicemente conosciuti, perché banditi dal contesto socio- culturale di appartenenza). È una battaglia per il singolo solo in apparenza, perché dietro ad un ergastolano non c’è mai l’azione isolata di un singolo, ma c’è un gruppo, una famiglia, un contesto, una “società” o, meglio, una mentalità che andrebbe sradicata sin dalle radici. La carcerazione a vita davvero serve per vincere una simile battaglia? O serve solo per annullare il singolo, lasciando indisturbata la criminalità diffusa? Allora ritengo sia indispensabile aprire quella porta e conoscere chi vi sta dietro: non buttiamo la chiave, ma mettiamoci in gioco, perché se la sfida è così difficile è perché l’obiettivo finale è ancora più importante (nobile direi). *Avvocato del foro di Trento e responsabile della Sezione Diritto Penitenziario per Giurisprudenza Penale Piacenza: Garante dei detenuti, la Giunta dà il via alla procedura di Federica Sgorbati piacenzasera.it, 22 settembre 2018 “Candidature anche da fuori provincia”. Garante dei detenuti di Piacenza, la Giunta dà il via all’iter per l’individuazione della persona più adatta a ricoprire questo ruolo. Con una importante novità, come sottolinea l’assessore ai Servizi Sociali Federica Sgorbati, che ha presentato la delibera in Giunta nella mattinata del 21 settembre. “Abbiamo deciso di modificare parte del regolamento, estendendo la possibilità di presentare la propria candidatura anche a persone residenti in provincia di Piacenza, e non solo nel Comune capoluogo”. La figura del Garante “dei diritti delle persone private della libertà personale del Comune di Piacenza” risulta essere vacante da oltre un anno, ossia da quando Alberto Gromi, l’ultimo a ricoprire questo ruolo, diede le dimissioni in anticipo rispetto alla scadenza dell’incarico, con il cambio dell’amministrazione. Da allora silenzio, fino alla delibera di oggi. È quindi volontà della Giunta nominare un nuovo garante? La risposta che arriva dall’assessore Sgorbati è un convinto “sì”. I tempi però non saranno brevi: la delibera dovrà essere portata in commissione e poi in consiglio, per poi dare il via alla ricerca vera e propria del nuovo Garante. Roma: Rebibbia; da insegnante in carcere dico che anche lo studio è un problema di Giovanni Iacomini* Il Fatto Quotidiano, 22 settembre 2018 Nei miei oltre vent’anni di insegnamento a Rebibbia ho visitato il reparto femminile solo in sporadiche occasioni. La mia impressione, poco più che superficiale, è che rispetto alle sezioni maschili si respiri una maggiore tensione. Come se ci fosse maggiore difficoltà ad accettare la restrizione delle libertà. Sarà che, mi son detto, la carcerazione dei maschi può godere, in taluni casi e entro certi limiti, persino di una qualche approvazione sociale. A Roma si diceva che non si potesse essere veri uomini senza aver varcato i tre scalini dell’ingresso a Regina Coeli. Sandro Pertini, Gramsci, più indietro Silvio Pellico, Marco Polo, più in là Nelson Mandela, Martin Luther King, fino a Pepe Mujica, illuminato presidente uruguaiano: tutti sono passati per le sbarre, ispirando mitologie letterarie e cinematografiche. Ma le donne no: scontano, anche in questo campo, la plurisecolare subalternità per cui la detenzione femminile non può godere di alcuna dignità, alcun riconoscimento. Anzi, si è spinti a credere che le donne finiscano in carcere, per i reati più gravi, in quanto coinvolte in affari tipicamente maschili. Il capomafia, nello stereotipo, è un maschio dominante, il “padrino”. Oltre alla mancata accettazione del reato e della relativa sanzione, punto di partenza necessario di qualunque processo che conduca a riabilitazione e reinserimento sociale, le detenute scontano una mancanza di attenzione verso il loro mondo: il rischio che si crei nel già isolato universo carcerario un ghetto ulteriore, oggetto di profonda rimozione sociale. C’è voluto un fatto di incresciosa violenza perché molti si ponessero, in questi giorni, il problema della maternità in carcere (come se la paternità potesse risolversi con la limitatezza delle telefonate e colloqui settimanali). Sono temi di difficilissima soluzione, che meriterebbero una trattazione approfondita a parte, con approccio il più possibile scevro da pregiudizi. Ciò su cui mi preme invece concentrare l’attenzione è ancora una volta la situazione della scuola in carcere. Anni di riforme mancate o solo abbozzate hanno portato a un solo risultato tangibile: accorpamento degli istituti, reggenze dei dirigenti, riduzioni di orari e classi, avvilimento della funzione docente, quindi taglio degli organici. Come se le nuove norme, invece che dal Miur, fossero uscite dal Ministero dell’Economia, all’unico scopo di risparmiare risorse. Il numero di classi condizionato agli studenti frequentanti non tiene conto delle peculiarità della situazione e delle difficoltà di accettare iscrizioni in settori del carcere tra loro impossibilitati a comunicare. Ne dico una per tutte, restando all’interno del femminile: nel reparto di massima sicurezza sono rinchiuse, per reati associativi, sedici donne, di cui ben nove hanno espresso la volontà di iscriversi a scuola. È per loro una delle pochissime opportunità di comunicare con l’esterno, incontrare esperienze per loro inesplorate, lontanissime dall’ambiente di provenienza, nei casi auspicabili far partire una revisione critica del proprio vissuto per poi indirizzare le proprie energie (e talvolta le loro indubbie capacità) verso modelli alternativi, positivi, socialmente utili alla lettera. Niente da fare: la scuola blocca il numero di classi e non accetta nuove iscrizioni, nonostante la disponibilità e le sollecitazioni delle autorità penitenziarie, che ben conoscono la funzione trattamentale dello studio per chi altrimenti è condannato all’ozio e alla reiterazione dei reati. Di questa e di tante altre questioni relative all’insopprimibile diritto allo studio vogliamo parlare in un confronto aperto a tutti i contributi: l’appuntamento è per mercoledì 26 settembre 2018 dalle ore 17.00 nel punto vendita del forno della Terza Casa di Rebibbia, in Via Bartolo Longo 82. *Professore di Diritto ed Economia nel carcere di Rebibbia Milano: convegno su funzione dei percorsi detentivi e reinserimento sociale di Rossana Strambaci lombardiaquotidiano.com, 22 settembre 2018 Sono 15.000 (a livello nazionale) i condannati che potrebbero essere oggetto di misure alternative alla detenzione, secondo i dati diffusi da Lucia Castellano (Direzione generale del Dipartimento per la giustizia minorile e di comunità) questa mattina al convegno “Legalità come responsabilità condivisa”, in corso a Palazzo Reale di Milano. Ai lavori partecipa il Vice Presidente del Consiglio regionale della Lombardia, Carlo Borghetti. “Il tema della giustizia e la situazione all’interno delle carceri - ha detto Borghetti- sono delle vere emergenze, come dimostrano i recenti tragici fatti di cronaca. Si tratta di una questione delicata e complessa la cui soluzione non dipende solo dalla gestione degli istituti penitenziari ma sollecita tutta la società civile ad una riflessione sulla funzione dei percorsi detentivi. Per questo ritengo che forme di partecipazione allargata e di condivisione di progetti come quelli portati avanti dai Laboratori Nexus siano strumenti utili per dare efficacia al reinserimento sociale delle persone. Solo con un grande sforzo di solidarietà tra istituzioni, Enti locali, associazioni di volontariato e privati cittadini far sì che la pena abbia valore rieducativo, senza nulla perdere per quanto riguarda la sicurezza di tutti cittadini e l’abbattimento della recidiva”. “Costruire connessioni e condividere la responsabilità” è uno degli “slogan” dei laboratori Nexus, da cui parte l’iniziativa di oggi. I laboratori (che sono già attivi a Mantova, Pavia, Bergamo e Brescia e di cui il prossimo 5 ottobre si aprirà la sede milanese) mettono in sinergia le istituzioni, i servizi per il supporto dei percorsi di inclusione sociale degli autori di reato e le associazioni di volontariato, attraverso progetti attuati direttamente sul territorio. Fra questi, sono già sul campo alcuni protocolli destinati a studenti e insegnanti con simulazione di processi nelle scuole. Una modalità, che potenzia l’efficacia delle risorse a disposizione, in cui la Lombardia è molto avanzata, secondo Luigi Pagano, del Dipartimento per la giustizia minorile e di comunità. Busto Arsizio: diventare volontari del carcere, un corso per iniziare varesenews.it, 22 settembre 2018 Quattro lezioni che prenderanno il via lunedì nel salone dell’oratorio San Luigi di via Miani 3. Le associazioni di Busto Arsizio che si occupano di volontariato nel carcere cittadino lanciano una sfida all’indifferenza e organizza un corso per diventare volontari in carcere. Sono tanti i mali che affliggono oggi la nostra civile convivenza: tra questi, su alcuni temi specifici, disinformazione, superficialità, non comprensione di situazioni che dovrebbero essere di comune interesse. In una parola: indifferenza. Per questa ragione le associazioni e i gruppi di volontariato operanti nel carcere di Busto Arsizio organizzano, con il patrocinio del Comune, un corso di formazione al volontariato penitenziario. Il corso si rivolge a chi, interessato a questo tema, desideri per prima cosa informarsi e poi impegnare, se lo ritiene, una parte del suo tempo in azioni di volontariato interne od esterne al carcere. È articolato su quattro incontri a partire da lunedì 24/09/2018 e successivamente, sempre il lunedì, il 01/10, 08/10 e 15/10. Gli incontri si terranno nel salone dell’oratorio S. Luigi, via Miani 3, Busto Arsizio con inizio alle 21.00 e saranno tenuti da autorevoli personalità nel campo giuridico e psicologico e da organizzazioni e istituzioni che già operano nel settore. Nuoro: misure alternative al carcere, un evento formativo per avvocati e giornalisti laprovinciadelsulcisiglesiente.com, 22 settembre 2018 Camera penale e Ordine degli avvocati di Nuoro, con l’Ordine dei giornalisti della Sardegna hanno promosso l’evento formativo in corso di svolgimento a Nuoro, nella sede della Camera di Commercio, in Via Papandrea 8, in programma stamane, dalle 10.00 alle 13.00. Il tema è di grande attualità: “L’efficacia preventiva delle misure alternative al carcere”. Si parla di quelle misure alternative alla detenzione che consentono al soggetto che ha subito una condanna definitiva di scontare, in tutto o in parte, la pena detentiva fuori dal carcere. Provvedimenti creati per favorire la funzione rieducativa della pena, come previsto dall’articolo 27 della Costituzione (le pene devono tendere alla rieducazione del condannato) e contribuire ad abbattere la recidiva. Dopo i saluti di Salvatore Murru, presidente Camera penale di Nuoro, di Angelo Mocci, presidente dell’Ordine degli avvocati di Nuoro e di Francesco Birocchi, presidente dell’Oordine dei giornalisti della Sardegna, interverranno: Paolo Cossu (Presidente Tribunale di Sorveglianza di Cagliari), Giovanna Serra (avvocato), Giusy Fasano (giornalista giudiziarista del Corriere della Sera), ed Annino Mele (beneficiario di misura alternativa e autore del libro Mai). Modera Giuliana Serra (Osservatorio carcere dell’Unione delle camere penali. I giornalisti partecipanti avranno diritto a cinque crediti formativi. Milano: gli attori-detenuti di Opera sul palco dell’Idroscalo di Michele Weiss La Stampa, 22 settembre 2018 Da oggi a domenica in scena il festival “Prova a sollevarti dal suolo”. Più che un Festival, una “festa della diversità” per riempire l’Idroscalo con spettacoli, musica, mostre, video e drink con la missione di educare all’inclusione: valori civili fondamentali e sotto attacco. È “Prova a sollevarti dal suolo”, rassegna dell’associazione Opera Liquida, organizzazione mista di detenuti del carcere di Opera e “civili”, giunta alla settima edizione. Apre stasera “Medea delle case popolari ha perso il centro”, intervento teatrale di cittadinanza di Rossella Raimondi, seguito dalla trasfigurazione ironico-demenziale del celebre monologo di Molly Bloom nell’”Ulisse”: “La Molli - divertimento alle spalle di Joyce”, di Gabriele Vacis e Arianna Scommegna (anche in scena). Ancora risate sabato sera con “Cca’ nisciuno é fisso - l’era della precarietà”, monologo esilarante con Francesca Puglisi sul mondo della precarietà scritto da Alessandra Faiella e dalla stessa Puglisi. Domenica chiude la tre giorni “Carta canta - parole e musica per una nuova cittadinanza”, di e con Manuel Ferreira e alla chitarra Massimo Latronico: le storie dei figli degli immigrati che non vedono ancora riconosciuto il loro status di cittadini italiani. Dal prossimo weekend il Festival prosegue al carcere di Opera. Spazio IN Opera Liquida-Parco Idroscalo ingr. Riviera Est, fino al 23 settembre, 10/15 euro. Andrea Occhipinti: “Cucchi, adesso il mondo ci guarda” di Eleonora Martini Il Manifesto, 22 settembre 2018 Parla il produttore del film “Sulla mia pelle”, uscito in contemporanea nelle sale italiane e su Netflix che lo ha distribuito in 190 Paesi. Il fondatore della casa di produzione e distribuzione cinematografica Lucky Red ha deciso di dimettersi da presidente della sezione distributori dell’Anica per smorzare le polemiche con gli esercenti. Neppure adesso che le polemiche sollevate dai gestori delle sale cinematografiche lo hanno portato a decidere di dimettersi da presidente della sezione distributori dell’Anica, Andrea Occhipinti si è pentito minimamente delle sue scelte. Né di aver prodotto con la sua Lucky Red insieme a Cinemaundici Sulla mia pelle, il film di Alessio Cremonini che racconta gli ultimi sette giorni di vita di Stefano Cucchi, e neppure di aver ceduto i diritti a Netflix che lo ha messo in programma contemporaneamente alla distribuzione nelle sale. Una modalità che era già stata sperimentata in Italia con Rimetti a noi i nostri debiti di Antonio Morabito, ma questa volta il successo del film ha messo in evidenza le contraddizioni di una nuova realtà. Occhipinti, perché ha deciso di produrre “Sulla mia pelle”? Perché questa storia ci riguarda. È un tema caldo, molto attuale, che suscita interesse ed è vissuta sulla propria pelle da una famiglia in carne ed ossa, persone che vivono accanto a noi, che possiamo incontrare per strada ogni giorno. Per noi era fondamentale avere il loro appoggio su questa operazione, ma nello stesso tempo non volevamo santificare Stefano Cucchi. Volevamo un film secco, asciutto, una versione integra che raccontasse le cose come stanno, il più aderente possibile alla realtà. Per noi era importante questo, perché averlo fatto è già una scelta politica. E il regista Alessio Cremonini ci ha rassicurato, perché la sceneggiatura che ha scritto insieme a Lisa Nur Sultan - e che la famiglia Cucchi ha condiviso - è venuta fuori dallo studio attento di 10 mila pagine di verbali. Un po’ di paura? Un po’ sì. Certo, avevamo paura soprattutto di non riuscire nel nostro intento di fare un film giusto, non giudicante né partigiano. Perché non ce n’era bisogno, volevamo solo raccontare i fatti. E i fatti sono, come dice Alessandro Borghi/Stefano Cucchi nel film, che “le scale continuano a menacce”. Sì, naturalmente Stefano Cucchi non è caduto dalle scale. Ma soprattutto volevamo raccontare l’indifferenza, l’abbandono che ha dovuto subire. E tutto questo perché era “un tossico di merda”, quindi considerato un cittadino di serie B. Chiunque ha diritto a un giusto processo, nessuno può essere trattato così. Perché, dopo aver deciso di produrlo, ha accettato di vendere i diritti anche a Netflix? Siamo una società che sta sul mercato, in contatto con tutti gli operatori del settore. Netflix ci ha chiesto di vedere il film e ne sono rimasti molto impressionati. Non è un film qualsiasi, lo hanno ritenuto adatto e lo hanno comperato per programmarlo in tutto il mondo. Abbiamo chiesto in tutti i modi di rispettare una finestra temporale per non dover limitare l’uscita in sala, ma non hanno accettato. Per voi è stato un guadagno sicuro. Certo. In più Netflix ha fatto un investimento importante sulla promozione, e questo è già di per sé un bel risparmio. Ma soprattutto, di solito è molto difficile esportare i film italiani nel mondo, anche se sta cambiando il panorama e attualmente se ne vendono di più. Però rifiutare un’occasione che si presenta così all’improvviso e che mette a disposizione la potenzialità di una platea mondiale, sarebbe stato un delitto. È la prima volta che produciamo un film e poi lo vendiamo a Netflix, a parte alcuni titoli di “library”. Però ci ha fatto piacere che questa decisione sia stata molto apprezzata dalla famiglia Cucchi. “La tua sofferenza verrà mostrata in 190 Paesi diversi. Non siamo riusciti a salvarti ma te lo avevo promesso che non sarebbe finita lì. Perché non accada mai più”, ha detto Ilaria Cucchi rivolgendosi idealmente a suo fratello, in una delle tante proiezioni del film nelle sale. Gli esercenti però non l’hanno presa bene e hanno rinvigorito le tensioni contro Netflix scoppiate al Festival di Venezia, quando David Cronenberg disse: “Tutte queste polemiche sulle trasformazioni che il cinema sta subendo sono solo effetto di una nostalgia, è invece importante guardare avanti”. Lei cosa ne pensa: nella realtà del home cinema on demand, le sale hanno vita breve? Netflix non è il problema principale, in particolare in Italia. Credo che non solo la sala non muore, ma può diventare più attraente di ora. A certe condizioni: che sia un luogo piacevole, tecnologicamente avanzato, un luogo di ritrovo, un’esperienza da condividere. A Roma, per esempio, abbiamo trasformato il Giulio Cesare e l’Eurcine che hanno così raddoppiato gli spettatori. Si noti che negli Stati uniti e nel resto d’Europa la platea di spettatori non cresce come in Cina ma neppure diminuisce come in Italia. Solo da noi c’è un problema di questo tipo, e ha una ragione specifica: la stagionalità. Siamo l’unico Paese dove non escono i film d’estate. Ma non ci sono anche problematiche insite nel sistema? Per esempio: la penalizzazione delle piccole distribuzioni o delle sale che non aderiscono al “Circuito Cinema” (di cui lei è amministratore delegato), o il problema delle versioni originali rifiutate a priori…. Il tema è molto complesso, ma in Italia non c’è un problema di accesso al prodotto, al di là di alcuni singoli casi specifici. Sento spesso piccoli operatori lamentarsi ma in realtà, sintetizzando, tutto si riduce ad un fatto di appetibilità del film. Il mercato della sala è selettivo, è estremamente difficile, non c’è spazio per tutti. Ecco perché una piattaforma come Netflix può essere invece un’occasione per quei film che non reggono molto nelle sale. Non è il caso di “Sulla mia pelle”. Eppure gli esercenti non hanno risposto con entusiasmo, perché? Il film è ora in 60 sale di tutta Italia, e ha avuto un picco massimo di 91 sale in contemporanea. Ha incassato fino ad oggi 327 mila euro, con 51 mila spettatori. La migliore media per copia. Perciò chi lo ha programmato è ora strafelice. Ma chi non lo ha fatto - la maggior parte - ha preso una posizione politica contro l’uscita simultanea su Netflix, nella convinzione che il pubblico preferisca, se può, stare a casa piuttosto che andare al cinema. Sulla mia pelle ha dimostrato che non è così: nonostante Netflix e nonostante le proiezioni pirata, il film ha bruciato tutte le tappe. La sera in cui è stato proiettato gratuitamente all’università La Sapienza, con più di due mila spettatori, nei sei cinema di Roma abbiamo avuto il miglior incasso della città. Però, esattamente allo stesso modo, si può dire che le proiezioni pirata non vi arrecano alcun danno, anzi forse amplificano l’attenzione attorno al film. Non si tratta infatti di vere e proprie proiezioni - si perde molto del film e si rimane con la voglia di tornare a vederlo - ma piuttosto di un rito collettivo. Perché dunque vi siete opposti, anche a colpi di diffida, a questo tipo di iniziative? È molto importante che ci sia interesse attorno ad un film come questo, ma non credo che la fruizione debba perciò essere libera e gratuita. Se noi abbiamo potuto produrre questo film su Stefano Cucchi, e se è importante averlo fatto, è perché noi siamo un’impresa che produce film che hanno una remunerazione. Quelle proiezioni hanno prodotto un danno e continuano a farlo: molte sale infatti hanno deciso all’ultimo minuto di non montare più il film perché nelle vicinanze era in programma una di queste iniziative. I cinema chiudono anche perché c’è la pirateria. “Nostos”, il cortometraggio scritto dai detenuti al Napoli Film Festival edizionecaserta.it, 22 settembre 2018 Ulisse ritorna ad Itaca dopo un lunghissimo viaggio pieno di vicissitudini, e al rientro a casa, non trova i propri cari ad abbracciarlo, ma i proci che vogliono usurpare il suo trono. “Il ritorno a casa”, il “nostos” dell’opera omerica, è il tema su cui i Ristretti della Casa Circondariale di Arienzo hanno lavorato per realizzare il cortometraggio che prende proprio il titolo del “tema”. Perché Ulisse ritorna a casa “cambiato”, così diverso che la moglie e il figlio non lo riconoscono. Il cambiamento è alla base del viaggio. Questo è il messaggio su cui i Ristretti della Casa Circondariale di Arienzo si sono ispirati per scrivere la sceneggiatura del cortometraggio, perché presto saranno restituiti alla società civile. Il cortometraggio è il risultato finale di due laboratori (sceneggiatura e regia cinematografica) condotti da Gaetano Ippolito. La sinossi dell’opera è la seguente: “Una strada statale di periferia. Arriva un autobus. Un uomo scende. Dietro le spalle uno zainetto blu. Si avvia verso un distributore abbandonato. Ma qualcosa non funziona, perché all’appuntamento trova una donna che attende qualcun altro. Su quell’area di servizio uno di loro è di troppo. Quell’incontro sbagliato cambierà per sempre le loro vite. Ci sarà il ritorno a casa?” Il cortometraggio è stato realizzato grazie all’Odv Athena attraverso il Bando della Microprogettazione Sociale 2016 del CSV Asso.Vo.Ce., con la fotografia di Marica Crisci e Domenico Ruggiero, il montaggio di Luca Ruggiero, le musiche di Venovan, la produzione di Monica Ippolito e il coordinamento e la comunicazione di Alessandra D’Ottone. Il racconto è interpretato dagli attori Ciro D’Aniello e Caterina Di Matteo. La regia è di Gaetano Ippolito, che ha ideato il progetto e ha condotto il laboratorio di scrittura cinematografica con i detenuti. L’associazione Athena è impegnata da diversi anni a favore dell’inclusione sociale dei detenuti, anche con progetti teatrali, come “Aspettando San Gennaro”, lo spettacolo realizzato dai detenuti nel 2016. L’associazione Athena ringrazia il direttore della Casa Circondariale di Arienzo, Maria Rosaria Casaburo e le educatrici Rosaria Romano e Francesca Pacelli. Costituzione, in difesa dei diritti di Domenico Gallo Quotidiano del Sud, 22 settembre 2018 Questa settimana vogliamo mettere in evidenza due eventi che, andando in controtendenza rispetto alle miserie del nostro tempo, ci comunicano due buone notizie. Il primo evento si è verificato mercoledì quando il presidente della Corte costituzionale Giorgio Lattanzi ha incontrato il Presidente della Repubblica per esporgli il progetto “Viaggio in Italia: la Corte costituzionale nelle carceri”, che prenderà il via il 4 ottobre nel carcere romano di Rebibbia. Nel corso dell’incontro il presidente Lattanzi ha illustrato al Capo dello Stato i contenuti e le finalità del progetto, che, come per il “Viaggio in Italia nelle scuole”, risponde anzitutto all’esigenza della Corte di incontrare fisicamente alcune realtà sociali del Paese per diffondere la conoscenza della Costituzione e farne condividere i valori, allo scopo di costruire una solida “cultura costituzionale”. Con la scelta del carcere, la Corte vuole testimoniare che la Costituzione “appartiene a tutti”, anche a chi è detenuto, con i doveri e le relative responsabilità ma anche con i diritti e le relative tutele. Garantendone i diritti, la Costituzione impone che la detenzione non sia senza regole e che le regole, a loro volta, non siano in contrasto con la Costituzione. La Costituzione e la Corte costituzionale non conoscono muri e non si fermano davanti alle porte del carcere. Pur con le limitazioni connaturate alla detenzione, costituiscono una garanzia di legalità per tutti i detenuti, che siano cittadini o stranieri, immigrati regolari o irregolari. La Costituzione è una “legge suprema”, uno scudo nei confronti dei poteri dello Stato, che neppure il legislatore con le sue mutevoli maggioranze può violare. La Corte costituzionale ha il compito di farla rispettare e di risolvere gli eventuali conflitti tra i diversi poteri dello Stato, in modo che ciascuno di essi possa svolgere senza impedimenti o limitazioni le proprie funzioni. Infine, il Presidente Lattanzi ha ricordato le varie iniziative assunte dalla Corte e l’impegno di ciascun giudice per diffondere la cultura della Costituzione, nella convinzione che sono le Carte e le Corti costituzionali, insieme con i giudici comuni, che ci difendono dai vecchi fantasmi che hanno ripreso ad agitarsi in Europa e a mettere in discussione le regole della democrazia, della libertà e dell’eguaglianza, e i diritti fondamentali che le accompagnano. Il Presidente della Repubblica Mattarella - precisa la nota diffusa alla stampa - ha pienamente condiviso i contenuti, lo spirito e le finalità di questa “significativa iniziativa della Corte costituzionale”. La buona notizia è che le istituzioni di garanzia, sono in piedi e sono fermamente intenzionate a difenderci, ciascuno nel proprio ruolo, dai fantasmi che in tutt’Europa, mettono in discussione le regole della democrazia, della libertà e dell’eguaglianza. Il più esposto su questo fronte è proprio il Presidente della Repubblica che in queste ore deve maneggiare le proposte di decreti legge su immigrazione e sicurezza. La seconda buona notizia è il discorso che ha fatto papa Francesco giovedì scorso ai partecipanti, ricevuti in udienza, alla Conferenza internazionale su “Xenofobia, razzismo e nazionalismo populista nel contesto delle migrazioni mondiali” promossa a Roma dal Dicastero vaticano per lo Sviluppo umano integrale con il quale il Pontefice ha definitivamente delegittimato le politiche che producono quei fantasmi a cui facevano riferimento Lattanzi e Mattarella, ribadendo la dignità di tutti gli uomini, e l’unità fondamentale del genere umano. Mettendo da parte il testo preparato, il Papa ha parlato interamente a braccio. Ecco i punti principali: “Viviamo tempi in cui sembrano riprendere vita e diffondersi sentimenti che a molti parevano superati. Sentimenti di sospetto, di timore, di disprezzo e perfino di odio nei confronti di individui o gruppi giudicati diversi in ragione della loro appartenenza etnica, nazionale o religiosa e, in quanto tali, ritenuti non abbastanza degni di partecipare pienamente alla vita della società. Questi sentimenti, poi - ha aggiunto, troppo spesso ispirano veri e propri atti di intolleranza, discriminazione o esclusione. Purtroppo accade pure che nel mondo della politica si ceda alla tentazione di strumentalizzare le paure o le oggettive difficoltà di alcuni gruppi e di servirsi di promesse illusorie per miopi interessi elettorali”. Da questi due eventi, attraverso linguaggi differenti, vengono fuori parole di speranza che ci danno ristoro come l’acqua per un viaggiatore che attraversa il deserto. Il populismo non è un meteorite arrivato dal nulla (ed è il momento di rendersene conto) di Antonio Funiciello L’Espresso, 22 settembre 2018 Una delle interpretazioni più diffuse per cercare di comprendere i recenti fenomeni politici è illudersi che ci troviamo di fronte a un evento inaspettato e improvviso. Ma le radici si sono sviluppate in quegli anni considerati da molti, erroneamente, perfetti. C’è un’interpretazione molto diffusa dei tempi che viviamo. Si può riassumere più o meno così: un nuovo meteorite è precipitato sulla terra. Quello di 65 milioni di anni fa provocò l’estinzione dei dinosauri. Il nuovo meteorite del populismo, piombato sull’Italia il 4 marzo scorso, ha soppresso la ragionevolezza ed esiliato i ragionevoli nelle foreste, portando le belve delle foreste al governo. È la teoria del meteorite. Un’interpretazione che ormai si lascia generalizzare e, ad esempio, è molto in voga per quel che riguarda Donald Trump. C’era una volta Obama. Era buono. Era cool. Piaceva agli attori di Hollywood. Piaceva a quei cuori d’oro di Oslo, che gli assegnarono il Nobel per la pace sulla fiducia. Poi, all’altezza del 1600 di Pennsylvania Ave a Washington D.C., qualcuno aprì il vaso di Pandora e ne uscirono il ciuffo giallo di Trump e tutti i mali della terra. E la bestia entrò con le sue zampe lorde alla Casa Bianca. Ancora l’effetto meteorite. Naturalmente lo sviluppo della teoria del meteorite è che gli uomini esiliati nelle foreste devono riunirsi e, in nome del bene, ricacciare le bestie nei boschi per riprendersi città e palazzi. Pena il crollo definitivo della civiltà, le cavallette e la morte dei primogeniti maschi. Con una postilla, a suo modo, classica. Chiunque non impugni l’armi contro le bestie è un disgraziato, è finanziato dai russi ed è, ovviamente, complice delle bestie. La teoria del meteorite ha molte virtù. È una spiegazione semplice e immediata per un fenomeno, il populismo, diversamente molto complesso. È un’idea fragile sul piano teorico, ma è un’ipotesi molto scenografica, da vendere bene sui social network per chi copia le tecniche di comunicazione dei populisti. È anche un alibi morale formidabile, perché disinnesca ogni tipo di ricerca delle cause che hanno generato questa stagione. Tutti politicamente innocenti: nessuna responsabilità politica individuale può difatti essere richiamata per un evento così eclatante, un meteorite, che letteralmente irrompe sulla scena. A guardar bene, l’effetto meteorite piace molto poiché azzera la storia e ci catapulta in un eterno presente per effetto di uno shock potente, non già per conseguenza di complessi processi storici. La categoria dei politici (sedicenti) non-populisti si trova a suo agio in una simile lettura anti-storica del populismo, dacché si sente assolta da ogni verifica del proprio lavoro. Meno si capisce, invece, perché altri non vogliano cimentarsi in una vera e propria genealogia storica del recente populismo. Prendiamo l’America. Qualsiasi persona ragionevolmente laica (e laicamente ragionevole) fatica a tenere insieme queste due affermazioni: la prima, Barack Obama è stato il più grande presidente americano; la seconda, Donald Trump è il demonio. Una lettura nemmeno troppo approfondita delle dinamiche del consenso elettorale americano, dimostra che negli anni di Obama si è registrato un poderoso arretramento in termini di consenso per i Democratici. In molti stati, alcuni dei quali hanno clamorosamente voltato le spalle ai democratici, le ricette economiche dell’amministrazione Obama sono parse inadeguate. Durante i suoi otto anni alla Casa Bianca, il clima sociale è peggiorato: c’è stata, ad esempio, una paurosa recrudescenza dei crimini razziali. La polarizzazione politica, già cresciuta ai tempi di Bush figlio, è salita alle stelle. Tanto che nella patria della rincorsa al voto centrista, oggi vince le elezioni chi più motiva (e più incattivisce) i suoi elettori tradizionali. Anche per l’occhio più distratto, le connessioni tra ciò che è accaduto negli anni di Obama e ciò che avviene oggi, dovrebbero apparire evidenti. Il che non vuol dire che sia colpa di Obama. Ma che quegli anni di governo vanno studiati criticamente. Nelle vicende umane, d’altronde, è difficile si passi dall’Eldorado all’Inferno in cinque minuti. E dovrebbe apparire utile una revisione critica di ciò ch’è stato, per disinnescare i meccanismi di funzione che hanno prodotto la stagione del populismo. Continuare a rincorrere i presunti colpevoli dei fenomeni, senza applicarsi a capire le cause (ideali, sociali, economiche, politiche) che quei fenomeni hanno prodotto, è l’ennesimo adeguamento al metodo del populismo. Testimonia una drammatica subalternità culturale. E un cedimento a quella emotivizzazione ideologica della politica, entro cui la dinamica populista della ricerca del colpevole è vincente contro ogni sua imitazione. Anche in Europa, nei paesi dove forze populiste hanno mietuto successi, si dovrebbe applicare lo stesso atteggiamento critico e revisionista sugli anni che sono alle nostre spalle. Anche qui, difatti, la teoria del meteorite è molto in voga. E già tanti la utilizzano per vaticinare la vittoria dei partiti populisti alle prossime elezioni europee. Alla critica storica si preferisce, così, un atteggiamento intellettuale di mera denuncia e una reazione moralista di negazione e censura. Il ricorso alla teoria del meteorite, come detto, può assolvere i dinosauri dalla responsabilità della loro estinzione. Tuttavia per chi voglia provare a definire un universo simbolico alternativo al populismo, non c’è che indugiare molto su ciò che non ha funzionato negli anni in cui il populismo era solo una minaccia. Il populismo si nutre delle imperfezioni della democrazia, contesta i difetti della delega democratica ed esaspera ogni mancata corrispondenza tra gli obiettivi dichiarati di chi riceve la delega, nel momento in cui la riceve, e i risultati dell’azione di governo. I risultati possono essere lontani dagli obiettivi dichiarati o perché mal comunicati, o perché realmente lontani. Capire a fondo dove si è sbagliato è la premessa per ogni ribaltamento politico dei rapporti di forza tra populisti e anti-populisti. All’inizio del Novecento negli Stati Uniti il populismo produsse un terzo partito, il Progressive Party di Teddy Roosevelt, che per la prima e unica volta arrivò secondo alle elezioni del 1918. Per la prima e unica volta, il populismo minacciò di far saltare il più solido sistema dei partiti d’Occidente. Di lì a poco, però, il populismo fu asciugato e sparì dai riflettori non già perché un meteorite cadde su Washington. Ma perché i presidenti Wilson (democratico) e Coolidge (repubblicano) compresero le ragioni del populismo e le assorbirono nel loro ingaggio di governo. E dopo che il crollo di Wall Street investì l’America, Franklin Roosevelt fu oggetto di una seconda violenta campagna populista che lo accusava di voler distruggere, con le sue riforme, la democrazia in America. Ma le sue riforme funzionarono e, anche in quel caso, il meteorite si disintegrò al contatto con l’atmosfera del buon governo. Stretta sui migranti, ma il Colle potrebbe non firmare di Ugo Magri La Stampa, 22 settembre 2018 Al Quirinale lo stupore per le prime versioni del provvedimento. Si tratta per smorzare i nuovi limiti per la richiesta della cittadinanza. Il Colle è in attesa. Ha fatto giungere a Salvini un certo numero di rilievi che sono adesso all’esame dei tecnici ministeriali. Se l’uomo forte del governo ne terrà conto, apportando al decreto immigrazione tutte le modifiche richieste, spariranno perlomeno le norme palesemente incostituzionali. E il presidente della Repubblica, a quel punto, non avrà più motivo per bloccare il provvedimento. I segnali sembrano incoraggianti. Per ragioni di propaganda politica, ieri sera il Viminale ammetteva solo “piccole limature”, rese necessarie dall’accorpamento con il decreto sicurezza, suggerito a sua volta da ragioni di opportunità procedurale che sono spuntate come funghi giusto ieri pomeriggio. In realtà le limature pare coincidano proprio con le correzioni pretese dal Quirinale. Ai piani altissimi si conferma che ci sono lavori in corso, e che non sta mancando da ambedue le parti la giusta collaborazione istituzionale. Naturalmente, per sapere se il pressing presidenziale sarà stato efficace, bisognerà prima leggere il testo definitivo. Dunque bisognerà aspettare che venga approvato nel Consiglio dei ministri di lunedì. E se il ministro dell’Interno puntasse i piedi, rifiutando anche una sola delle tre-quattro modifiche richieste? In quel caso è sicuro che Sergio Mattarella rifiuterebbe di mettere la firma al decreto-legge. Lo boccerebbe anche a costo di aprire un conflitto politico molto duro con il governo: questo risulta lassù, dove nessuno vuole fare dispetti a Salvini ma si pretende che le regole vengano rispettate. In caso di scontro Qualora per disgrazia si arrivasse allo scontro, nessuno potrebbe accusare Mattarella di travalicare le sue funzioni. Rifiutare la firma a un decreto rientra senza alcun dubbio tra le prerogative presidenziali. Fa testo una sentenza della Corte costituzionale (la numero 406 del 1989), e soprattutto lo confermano alcuni clamorosi precedenti. L’ultimo nel 2009, quando l’allora presidente Giorgio Napolitano rifiutò di emanare il provvedimento per Luana Englaro, già approvato in Consiglio dei ministri dal governo Berlusconi. A torto o ragione, Napolitano eccepì che a suo parere non sussistevano i motivi di straordinarietà, necessità e urgenza richiesti per qualunque decreto. Nel caso del decreto immigrazione e sicurezza, le contestazioni dal Colle sono perfino più sostanziali. Le criticità riguardano, in particolare, il diritto d’asilo garantito all’articolo 10 terzo comma della nostra Costituzione, la lista lunghissima dei reati che d’ora in avanti potrebbero farlo perdere, i nuovi criteri adottati per negare la cittadinanza agli stranieri o per revocarla a quanti già l’hanno ottenuta. Da giurista, Mattarella è convinto che la versione attuale del decreto, senza le correzioni sollecitate ieri, mai reggerebbe il vaglio della Consulta. Grossolane violazioni - Al primo ricorso di qualunque giudice, il decreto verrebbe fatto a pezzi dalla Corte costituzionale, in quanto le bozze circolate finora pare contengano, secondo chi ha potuto prenderne visione, violazioni dei diritti fondamentali così macroscopiche, talmente grossolane, che nel leggerle certi frequentatori del Colle si sono stropicciati gli occhi dallo stupore. Non potevano credere che fossero state prodotte dalle mani, solitamente esperte, dei funzionari ministeriali. Qualche dietrologo si è perfino domandato, con buona dose di malizia, se l’obiettivo vero di Salvini non fosse quello di cercare a tutti i costi la rissa istituzionale. Il leader della Lega ha l’occasione per dimostrare che non è nei suoi piani. Il decreto immigrazione cancellerà lo Sprar, “sistema modello” di accoglienza di Vladimiro Polchi La Repubblica, 22 settembre 2018 Le scelte del governo: stretta su rifugiati e nuove cittadinanze. Vie accelerate per costruire nuovi centri per i rimpatri. Permessi umanitari cancellati. Hotspot chiusi per 30 giorni anche i richiedenti asilo. Permessi umanitari cancellati. Stretta su rifugiati e nuove cittadinanze. Vie accelerate per costruire nuovi centri per i rimpatri. Possibilità di chiudere negli hotspot per 30 giorni anche i richiedenti asilo. Trattenimento massimo nei centri prolungato da 90 a 180 giorni. E poi addio alla rete Sprar. I 17 articoli e 4 capi dell’ultima bozza del decreto migranti, che il governo si prepara a varare, promettono di ridisegnare il volto del “pianeta immigrazione”. Soprattutto sul fronte accoglienza, abrogando di fatto un modello, quello dello Sprar, che coinvolge oggi oltre 400 comuni ed è considerato un modello in Europa. A denunciarlo è l’Associazione studi giuridici sull’immigrazione (Asgi): “Cancellare l’unico sistema pubblico di accoglienza che funziona appare come uno dei più folli obiettivi politici degli ultimi anni, destinato in caso di attuazione a produrre enormi conseguenze negative in tutta Italia, tanto nelle grandi città che nei piccoli centri, al Nord come al Sud”. Ventitremila migranti accolti. “Lo Sprar - spiega a Repubblica Gianfranco Schiavone, vicepresidente dell’Asgi - è un sistema di accoglienza e protezione sia dei richiedenti asilo che dei titolari di protezione internazionale e umanitaria nato nel lontano 2002 con le modifiche al testo unico immigrazione della cosiddetta Bossi-Fini. Nei sedici anni della sua esistenza lo Sprar si è enormemente rafforzato passando da alcune decine di comuni coinvolti e meno di duemila posti di accoglienza nel 2002, ai circa ventitremila posti attuali con coinvolgimento di oltre 400 comuni”. Un modello in Europa. “In ragione dei suoi successi nel gestire l’accoglienza dei richiedenti asilo e dei rifugiati in modo ordinato con capacità di coinvolgimento dei territori, lo Sprar è sempre stato considerato da tutti i governi di qualunque colore politico il fiore all’occhiello del sistema italiano, da presentare in Europa in tutti gli incontri istituzionali, anche per attenuare agli occhi degli interlocutori, le gravi carenze generali dell’Italia nella gestione dei migranti”. Il ruolo centrale dei comuni. “Il presupposto giuridico su cui si fonda lo Sprar è tanto chiaro quanto aderente al nostro impianto costituzionale: nella gestione degli arrivi e dell’accoglienza dei migranti allo Stato spettano gli aspetti che richiedono una gestione unitaria (salvataggio, arrivi e prima accoglienza, piano di distribuzione, definizione di standard uniformi), ma una volta che il migrante ha formalizzato la sua domanda di asilo la gestione effettiva dei servizi di accoglienza, protezione sociale, orientamento legale e integrazione non spetta più allo Stato, che non ha le competenze e l’articolazione amministrativa per farlo in modo adeguato, ma va assicurata (con finanziamenti statali) dalle amministrazioni locali, alle quali spettano in generale tutte le funzioni amministrative in materia di servizi socio-assistenziali nei confronti tanto della popolazione italiana che di quella straniera”. Il business dei grandi centri. “Lo Sprar (gestito oggi da Comuni di centrosinistra come di centrodestra) ha assicurato ovunque una gestione dell’accoglienza concertata con i territori, con numeri contenuti e assenza di grandi concentrazioni, secondo il principio dell’accoglienza diffusa, di buona qualità e orientata ad inserire quanto prima il richiedente asilo nel tessuto sociale. Inoltre lo Sprar ha assicurato un ferreo controllo della spesa pubblica grazie a una struttura amministrativa centrale di coordinamento e all’applicazione del principio della rendicontazione in base alla quale non sono ammessi margini di guadagno per gli enti (associazioni e cooperative) che gestiscono i servizi loro affidati. Invece, da oltre un decennio, il parallelo sistema di accoglienza a diretta gestione statale-prefettizia, salvo isolati casi virtuosi, sprofonda nel caos producendo un’accoglienza di bassa o persino bassissima qualità con costi elevati, scarsi controlli e profonde infiltrazioni della malavita organizzata che ha ben fiutato il potenziale business rappresentato dalla gestione delle grandi strutture (come caserme dismesse, ex aeroporti militari) al riparo dai fastidiosi controlli sulla spesa e sulla qualità presenti nello Sprar”. La fine dello Sprar. “Cancellare l’unico sistema pubblico di accoglienza che funziona appare come uno dei più folli obiettivi politici degli ultimi anni. Che ne sarà di quelle piccole e funzionanti strutture di accoglienza già esistenti e delle migliaia di operatori sociali, quasi tutti giovani, che con professionalità, lavorano nello Sprar? Qualcuno potrebbe furbescamente sostenere che in fondo lo Sprar non verrebbe interamente abrogato ma trasformato in un sistema di accoglienza dei soli rifugiati e non più anche dei richiedenti asilo i quali rimarrebbero confinati nei centri governativi. È una spiegazione falsa, che omette di dire che proprio la sua caratteristica di sistema unico di accoglienza sia dei richiedenti che dei rifugiati dentro un’unica logica di gestione territoriale è ciò che ha reso lo Sprar un sistema efficiente e razionale. Senza questa unità non rimane più nulla”. La svolta necessaria sulla Libia di Franco Venturini Corriere della Sera, 22 settembre 2018 Occorre un nuovo metodo, con meno conferenze di grande effetto e più pragmatismo. Il pericolo, mentre l’Italia organizza per novembre la “sua” maxi-conferenza sulla Libia, è che la consolidata inimicizia politica tra il vicepremier Salvini e il presidente Macron si estenda irresistibilmente a Tripoli e dintorni. Se ciò accadesse, non si tratterebbe soltanto di un riflesso della campagna per le elezioni europee di maggio, che vede Salvini tra i condottieri nazional-sovranisti e Macron aspirante leader dei loro più fermi oppositori. Si tratterebbe, piuttosto, di una manifestazione di irresponsabilità, di un tradimento degli interessi nazionali e del probabile abbandono della Libia ad un cupo destino di guerra civile. Con la conseguenza tra l’altro di nutrire ulteriormente i flussi migratori, proprio mentre su questo tema va crescendo l’isolamento europeo del governo gialloverde. Come far prevalere, allora, le ragioni del buonsenso e del pragmatismo, come far ragionare insieme Roma e Parigi, come partire da lì per disegnare una strategia vincente che in Libia nessuno sembra ancora avere? Il problema è che un programma tanto saggio e tanto rispondente agli interessi di entrambi esige che il primo passo, per i francesi come per noi italiani, sia quello di riconoscere i molti errori compiuti in Libia. Tanto da Roma quanto da Parigi. In passato e ancora oggi. Cominciamo dalla Francia, dalla guerra per abbattere Gheddafi nel 2011 che fu Nicolas Sarkozy a volere salvo poi disinteressarsi di una Libia ingovernabile a guerra finita. Quell’impresa, cui anche l’Italia malvolentieri partecipò, servì sì ad eliminare un dittatore, ma fece anche emergere quanto egli fosse stato abile nel creare uno stabile equilibrio interno fatto di privilegi e di castighi, di carote e di bastoni: esattamente quel che manca oggi in Libia. Il presidente Macron ha condannato le scelte di Sarkozy, ma il 2011 non può non pesare sul piatto francese degli errori storici. Anche perché di sbagli ce ne sono stati e ce ne sono altri, che ci riguardano. È noto che la Francia ha in Libia interessi soprattutto energetici in competizione con i nostri, ed è perfettamente lecito che Parigi coltivi questi interessi, scelga i suoi alleati locali, abbia insomma quella strategia nazionale (in mancanza di una strategia europea) che a noi è talvolta mancata. Ma era davvero necessario convocare a Parigi una maxi-conferenza libica mentre l’Italia era ancora (per tre giorni) senza governo? E oggi, non è irragionevole l’insistenza di Macron sull’intesa allora raggiunta di tenere elezioni generali in Libia il 10 dicembre, mentre a Tripoli vige una fragile tregua dopo aspri combattimenti, mentre sono saltate le scadenze istituzionali previste dall’accordo (ultima quella del 16 settembre), mentre a favore delle elezioni si pronuncia soltanto il generale Haftar e l’Onu non parla di date ma chiede “condizioni di sicurezza, legislative e politiche”, condizioni che non ci sono? E l’Italia, è messa forse meglio della Francia? No davvero, e a dimostrarlo basterebbe il fatto che una politica sbagliata di appiattimento sulle strategie dell’Onu ci ha portati, oggi, a sostenere con marcata partigianeria quel Fayez al-Sarraj che è sì riconosciuto dalla comunità internazionale, ma è anche la parte più debole e più disarmata in un Paese dove si spara molto e si parla poco. Certo, Sarraj ha il merito di stare a Tripoli, capitale della regione dove sono concentrati i nostri interessi energetici e non soltanto quelli. Ma quanto è accaduto di recente, quando la Settima Brigata e altre milizie hanno sferrato una offensiva contro le formazioni filo-Sarraj accusandole di non dividere equamente il bottino derivante dalla loro protezione, dovrebbe raccontarci la Libia meglio di ogni altro episodio. Ed è preoccupante che in Italia, in un clima strumentale oppure di perfetta incompetenza, siano subito partite accuse alla Francia di aver ordito lei un complotto contro Sarraj. L’Italia, proprio perché ha deciso di prendere l’iniziativa, dovrebbe tenere conto di tre punti importanti. Primo, in Libia resta improbabile una vittoria militare se la milizia di Misurata (sin qui a noi vicina, e questo è stato un successo) non cambierà campo o si spaccherà. Secondo, non si può contare troppo sull’interesse alla pace dei libici. Oggi essi hanno piuttosto interesse alla difesa della frammentazione, alle lotte intestine ben remunerate, ai traffici di varia natura migranti compresi. La pace deve diventare un pacchetto attraente, e conveniente. Terzo, alte cariche statunitensi dovrebbero essere presenti alla “nostra” maxi-conferenza, ma la “cabina di regia” promessa da Trump a Conte è una illusione dialettica già sperimentata con Obama (ricordate il “ruolo dirigente”?). Gli Usa continueranno a intervenire, ma soltanto contro il tentativo di ricreare cellule dell’Isis. E noi alle belle formule dovremmo essere in grado di dare un seguito concreto. Alla luce di un realismo sin qui troppo trascurato, la miriade di inviti partita da Roma per l’evento di novembre rischia di rivelarsi fatica sprecata. Proprio come accadde a Parigi in maggio. Le “parti” libiche, soprattutto quando sono numerose, non si impegnano più di tanto e appena tornate in patria riprendono le vecchie abitudini in assenza di prospettive sicure. Sono proprio queste prospettive sicure che vanno create, con un metodo diverso e progressivo: prima un chiarimento strategico tra Italia e Francia, che non può più aspettare anche perché nessuno dei due è in grado di far prevalere i propri interessi senza la collaborazione dell’altro. Poi il coinvolgimento permanente di potenze garanti come Usa e Russia, e dei “finanziatori esterni” della Cirenaica e della Tripolitania: l’Egitto e gli Emirati con Haftar, la Turchia e il Qatar con Serraj. Infine una proposta articolata (e ricca) da presentare ai libici, ai soliti due ma forse anche ad Ahmed Maitig, vicepresidente del Consiglio presidenziale ed esponente moderato di Misurata. L’adozione di questo metodo politico non garantirebbe il successo. Ma ci permetterebbe di dire che in Libia ci abbiamo provato, davvero e non soltanto con assemblee di grande effetto ma poco promettenti. Libia. Tra i cento fuochi di Tripoli, così avanza la marcia di Haftar di Lorenzo Cremonesi Corriere della Sera, 22 settembre 2018 Guerriglia e alleanze tra milizie che cambiano ogni giorno: la capitale è nel caos. Non è una vera guerra. Almeno, non lo è ancora. Si tratta piuttosto di una caotica guerriglia fatta di milizie che si muovono in ordine sparso, senza comandi centrali, senza disciplina, senza piani precisi, se non quelli di approfittare di un momento di debolezza nell’altro campo per guadagnare una strada, un edificio più alto, un’area di viuzze strette dove dispiegare posti di blocco temporanei. Non c’è un fronte definito, le linee mutano di continuo. Da una parte della città la gente muore sotto le bombe, chiede aiuto alla Croce Rossa per uscire con corridoi umanitari dalle cantine delle abitazioni assediate, ma nei quartieri vicini si va a fare la spesa come se nulla fosse e i caffè sono frequentati quasi come al solito. Anche ieri c’erano tante famiglie a godersi il sole sulla spiaggia di Tripoli e insistevano nel fare il bagno nelle acque inquinate dalle fogne a cielo aperto, che ormai da anni senza più filtri ammorbano le coste. Una delle tante conseguenze dello sfascio dello Stato. Non esistono postazioni fisse, se non le caserme sporche e disordinate delle milizie che dal 2011 occupano quelle che furono degli uomini di Gheddafi, senza peraltro aver mai portato modifiche significative. I guerriglieri della rivoluzione assistita da “mamma” Nato oggi hanno sette anni di più. Erano ventenni allora. Adesso sono quasi trentenni. Tanti sono andati a casa, stanchi della trasandatezza e della precarietà che comporta la vita del soldato di ventura da queste parti. Qualcuno però è rimasto, visto che il ministero dell’Interno del governo di Fayez Sarraj ancora li paga e per molti resta l’unica possibilità di reddito in questa Libia sempre più povera e disoccupata. Ma le nuove leve non sembrano molto diverse da quelle vecchie. Dormono quando hanno sonno, rubano ai posti di blocco se devono pagarsi il caffè o comprarsi le sigarette. Si prendono le auto di chi, a loro dire, non ha i documenti in regola e poi minacciano con i mitra dal colpo in canna quelli che tornano per protestare. Giovedì sera siamo andati a vedere la battaglia da vicino e abbiamo trascorso la notte con la famiglia Mabruk nel quartiere di Ain Zara, 15 chilometri dal centro città e molto vicino ai cinque punti di maggior scontro: Abu Selim, Salahaddin, Khaled Farjan, Wadi Rabia e Trigmatar. È una zona di abitazioni di cemento grezzo, squadrate, al massimo alte tre piani, quasi tutte circondate da orti e giardini inverditi con alberi da frutto, olivi, limoni, datteri. “Prima la Settima Brigata di Tarhuna legata al campo del generale Khalifa Haftar pone fine al caos anarchico delle milizie e meglio è. Noi siamo stanchi e offesi dall’anarchia violenta che investe la Libia. Ma dopo, quando finalmente Sarraj e il suo codazzo di soldataglie corrotte se ne sarà andato, inevitabilmente dovremo far fronte alle aspirazioni dittatoriali di Haftar. Lui e i suoi figli devono sapere che in Libia non c’è più posto per un nuovo Gheddafi”, diceva il capofamiglia Adel, un 72enne ex funzionario del regime che ormai come tanti non nasconde più il desiderio di ordine e di un forte governo centrale. Si cena come sempre divisi tra maschi e femmine. Uno dei figli ha trascorso sei ore in coda per riempire il serbatoio dell’auto e trovare una bombola per gas da cucina. Loro ancora non fanno incetta di cibo. Ma sono pronti ad evacuare verso il centro in pochi minuti. Quando finalmente arriva la corrente elettrica dopo 12 ore di black out la pompa riesce a riempire la cisterna dell’acqua sul tetto di casa dal pozzo che hanno in giardino. Alle sette e mezza di sera si vede il cielo illuminato dalle esplosioni verso l’aeroporto e l’area del vecchio carcere di Abu Selim. Per telefono parlo con Osama Alì, un medico che sta in prima linea con le milizie. “Abbiamo già nove morti e una ventina di feriti. Il problema è che le ambulanze vengono fermate da gruppi armati che poi le usano per i loro spostamenti. Stiamo cercando di fare evacuare 400 famiglie intrappolate. Ma nessuno replica agli appelli di cessate il fuoco”, dice di fretta. Con un’aggiunta: “Abbiamo le medicine necessarie. Ma non riusciamo a raggiungere i feriti”. Alle ventuno improvvisamente tutto si placa. Si sente qualche pianto di bambino, il belare di pecore. In strada transitano soltanto velocissimi i pick-up con le mitragliatrici pesanti montate sui cassoni. Traffico civile zero. Da un’ora è stato anche spento il grosso incendio appiccato dai mortai che avevano colpito una centrale elettrica e alcuni depositi di carburante. Ma attorno a mezzanotte i rombi riprendono più minacciosi che mai. La terra trema di continuo. Sono in azione artiglierie leggere, l’orizzonte stellato si illumina di traccianti. Si ode il ronzare persistente dei droni utilizzati per le osservazioni dal cielo. Emerge così la nuova composizione delle forze in azione. Le due milizie più forti nel campo di Sarraj si stanno facendo la guerra. Quella di Abdel Ghani al Kikli, nota come Ghnewa, sta sparando contro la Sumund, comandata da Salah Badi, uno dei leader più noti di Misurata. La Ghnewa è ben trincerata nella zona dello zoo e del vecchio hotel Rixos, pare riceva ricchi finanziamenti dalla Turchia. Invece in queste ore restano a guardare gli uomini della potente Rada di Abdel Rauf Kara, che controlla sia l’aeroporto che l’adiacente carcere, dove sono rinchiusi centinaia di pericolosi militanti di Isis catturati anche durante la battaglia per Sirte due anni fa. Con loro sono anche quelli della milizia di Tripoli di Heithan Tajuri, uno dei vecchi capi carismatici della rivolta del 2011. Tra i pareri più diffusi domina quello per cui sia Kara che Tajuri, al momento al riparo negli Emirati Arabi Uniti, siano in fondo pronti a un compromesso pur di salvare le ingenti somme personali nelle banche all’estero. Spiega per esempio Adel Taguri, alto funzionario del ministero della Sanità di Tripoli: “Questa è tutto tranne che una guerra tra ideologie. Le milizie si alleano pragmaticamente con chi paga di più. Per questo motivo le alleanze si tessono e sfaldano tanto celermente”. E infatti con le luci dell’alba giunge notizia per cui adesso la Rada sarebbe entrata in campo a fianco delle altre contro quelli di Tarhuna. Ma restano del tutto irrisolte le altre faide. Lasciamo il quartiere nella calma quasi completa alle otto di ieri mattina, mentre le radio diffondono il bilancio degli ultimi scontri: una decina di morti nella notte, almeno la metà civili, che si aggiungono agli oltre 140 dall’inizio di questa ondata di scontri il 28 agosto, quando la Tarhuna si è attestata in periferia. Oltre il doppio i feriti. Nel pomeriggio la Brigata Tripoli annuncia che lancerà un’offensiva “dura e finale” contro la Tarhuna. Gli scontri sono ripresi ieri sera. Ma intanto Haftar avanza ancora. Per la prima volta 4 giorni fa le auto color caffelatte della sua polizia, le stesse del tempo di Gheddafi, hanno fatto comparsa in città con stampigliato in rosso lo stesso simbolo che si legge a Bengasi: “Esercito Nazionale Libico”. Sono attestate nella zona del Centro delle Comunicazioni e nel centralissimo quartiere di Trigasur. Sono scortate dai gipponi delle milizie, che però non si fanno riconoscere. “Haftar sta penetrando lentamente a Tripoli. Approfitta delle divisioni delle milizie vicine a Sarraj. Ma vorrebbe anche evitare di prendere la città con un bagno di sangue. Sa che l’era di Sarraj è ormai al lumicino e che, almeno per ora, il tempo è dalla sua parte”, spiega Sami Khashkusha, docente di Scienze politiche alla facoltà locale. Nel quartiere di Al Ghourgi, sulla strada costiera verso la Tunisia, sono apparsi sui muri manifesti colorati con l’immagine di Haftar: inneggiano al “nuovo capo dell’esercito unito”. Le milizie neppure provano a strapparli. Camerun. Nella regione anglofona è l’inferno di Riccardo Noury Corriere della Sera, 22 settembre 2018 Video con scene di fucilazioni e decapitazioni, 260 episodi di violenza con 400 civili e 160 membri delle forze di sicurezza assassinati. Il 2018 sarà ricordato come l’anno del terrore nella regione nord-occidentale del Camerun, la cui popolazione anglofona denuncia da due anni di sentirsi discriminata ed emarginata. Ma il tempo delle proteste pacifiche, salvo quelle delle donne per il cessate-il-fuoco, è terminato. Nella regione opera ormai stabilmente un gruppo armato separatista, le Forze di liberazione dell’Ambazonia. Gli scontri con l’esercito camerunense sono all’ordine del giorno. Non si contano i casi di rapimenti, distruzioni di beni pubblici e privati, incendi di villaggi e assalti alle scuole. Gli sfollati interni e quelli che hanno trovato riparo in Nigeria sono migliaia. Dal paese africano arrivano video terrificanti. Alle riprese di un’esecuzione extragiudiziale avvenuta a luglio, ha fatto seguito un video diffuso dai separatisti che mostra la testa decapitata di un agente della gendarmeria lasciata in una pozza di sangue con accanto quelli che paiono gli organi genitali della vittima. Con le elezioni alle porte, è probabile un’ulteriore aumento della violenza: le Forze di liberazione dell’Ambazonia sono disposte a tutto pur di non far votare nella regione anglofona. Myanmar. L’attacco a chi scrive la verità di Stephen J. Adler La Repubblica, 22 settembre 2018 In Myanmar, come in ogni altro posto, i fatti hanno un potere. Sono stati i fatti raccapriccianti scoperti da due dei nostri giornalisti, Wa Lone e Kyaw Soe Oo, che hanno portato ad accusare entrambi ingiustamente, ad arrestarli e processarli e ora a infliggergli una condanna a sette anni di carcere. La settimana scorsa, la leader civile del Myanmar, Aung San Suu Kyi, ha preferito ignorare i fatti e ha difeso energicamente le ingiuste condanne. In vista della imminente riunione dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite è tempo di riprendere in mano i fatti per ottenere la libertà dei nostri giornalisti. I fatti sono questi: i rohingya sono una minoranza musulmana che vive nello Stato di Rakhine, nella zona occidentale del Myanmar, che è una nazione a maggioranza buddista. L’anno scorso, l’inasprimento delle operazioni militari costrinse più di 700.000 rohingya a fuggire verso i campi profughi in Bangladesh. Le Nazioni Unite hanno accusato il governo del Myanmar di pulizia etnica; il Myanmar afferma che le sue operazioni nel Rakhine erano una risposta agli attacchi contro le forze di sicurezza da parte dei ribelli rohingya. Lo scorso dicembre, Wa Lone e Kyaw Soe Oo stavano indagando sul ruolo avuto dall’esercito e dalla polizia nella morte di 10 uomini e ragazzi rohingya in un villaggio del Rakhine; un anziano del villaggio aveva dato ai nostri giornalisti delle fotografie che documentavano l’omicidio di massa. In una, si vedono 10 uomini e ragazzi inginocchiati in un campo; un’altra li mostra in una fossa comune, uccisi a colpi di arma da fuoco e fatti a pezzi. Decine di persone che avevano assistito agli omicidi hanno descritto quello che era successo. Da bravi giornalisti, Wa Lone e Kyaw Soe Oo hanno intervistato tutti quelli che potevano: non solo i musulmani in fuga ma anche i buddisti, la polizia e le altre forze di sicurezza. Le prove scioccanti raccolte erano incontrovertibili. Le autorità del Myanmar, infatti. furono costrette ad ammettere che il massacro era avvenuto, pur rinviando a giudizio i nostri giornalisti per averlo scoperto. Il loro arresto è ovviamente frutto di una montatura volta a scoprire le fonti informative di Reuters e a scoraggiarci dal pubblicare il resoconto del massacro. L’intimidazione è stata pesante: i giornalisti sono stati incappucciati e portati in un centro segreto per gli interrogatori dove sono stati interrogati incessantemente, minacciati e privati del sonno. Gli agenti hanno costretto Kyaw Soe Oo a rimanere in ginocchio per ore quando hanno trovato le fotografie degli omicidi sul suo telefono. Ci sono volute due settimane prima che le loro famiglie, gli avvocati e noi della Reuters sapessimo dove si trovavano. Appena ripreso contatto con loro e completato il loro reportage, abbiamo pubblicato questa storia esplosiva, con il pieno appoggio dei giornalisti. Per otto mesi, con i nostri reporter ancora dietro alle sbarre, un tribunale di Yangon ha lavorato su questo procedimento giudiziario. L’agente che li ha arrestati ha testimoniato di aver bruciato i suoi rapporti. Poi è arrivato l’inaspettato, eroico momento in cui un agente di polizia ha testimoniato che un dirigente superiore aveva ordinato a un subordinato di consegnare dei documenti a Wa Lone e di arrestarlo. Nonostante questa testimonianza, il processo è andato avanti; l’agente stesso è stato arrestato e condannato a un anno di carcere. Gli osservatori internazionali hanno visto questo processo-farsa per quello che era: un tentativo di punire i nostri giornalisti e di dissuadere altri giornalisti dal coprire gli eventi nello Stato di Rakhine. I diplomatici di molte nazioni, tra cui Stati Uniti, Gran Bretagna, Canada, Norvegia e Australia, si sono pronunciati contro la mancanza di un giusto processo e la violazione dei principi di uno Stato di diritto, condannando il soffocamento della stampa libera in un paese a cui si era promessa la democrazia. Finora, purtroppo, l’indignazione internazionale non ha cambiato nulla. Aung San Suu Kyi ha affermato che il processo non ha nulla a che fare con la libertà di stampa e che le condanne sono legittime secondo l’Official Secrets Act, una legge dell’epoca coloniale che vieta la raccolta di documenti segreti per aiutare un nemico. Ma abbiamo la prova schiacciante che è stata la polizia a mettere quei documenti nelle mani dei nostri giornalisti, la cui unica intenzione era quella di raccontare le cose in modo conforme alla verità. E ora? Le nazioni del mondo si preparano all’apertura, questa settimana, dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite: è tempo di affermare, quindi, non solo i fatti di questo caso, ma anche il valore dei fatti stessi, di dichiarare la nostra certezza che alcune cose sono vere e altre non lo sono. Dobbiamo respingere l’idea cinica e pericolosa secondo cui ognuno ha diritto a una propria versione dei fatti. Possiamo vedere dove questo ci ha portato in Myanmar e altrove. E dobbiamo riaffermare il ruolo essenziale di una stampa libera per scoprire la verità dei fatti. I giornalisti, in quanto persone, sono imperfetti. Ma il giornalismo, fatto bene, ha una funzione pubblica importante. Produce trasparenza nei mercati, chiama a rispondere i governi e le imprese del loro operato, fornisce alle persone degli strumenti per prendere decisioni informate, scopre i comportamenti illeciti, ispira le riforme e racconta storie vere e importanti che commuovono e ispirano ad agire. Le Nazioni Unite devono insistere sul fatto che la soppressione di una stampa libera contraddice la natura stessa della democrazia e non può essere tollerata. E anche altre istituzioni multinazionali, assieme ai governi, devono far capire con forza ai leader del Myanmar che Wa Lone e Kyaw Soe Oo devono essere liberati.