Basta bambini in carcere? La riforma Orlando lo prevedeva di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 21 settembre 2018 La legge non approvata conteneva la revisione delle norme sulle misure alternative. Si dava “anche all’imputata sottoposta a misura cautelare la possibilità di sospendere la carcerazione fino al momento in cui la prole avesse compiuto il primo anno di età”. “Non so su che basi il Ministro della Giustizia abbia sospeso la vicedirettrice di Rebibbia, mi auguro abbia avuto sufficienti elementi per farlo. È sicuro che per non avere più bambini in carcere basta approvare la nostra riforma dell’ordinamento penitenziario”, ha scritto su twitter l’ex ministro della Giustizia Andrea Orlando riferendosi alla tragedia avvenuta all’asilo nido del carcere di Rebibbia. A fare da eco a Orlando è stata Rita Bernardini del Partito Radicale: “La mancata riforma dell’ordinamento penitenziario - ha spiegato su Libero l’esponente radicale - conteneva un capitolo intero sull’affettività in carcere, che comprende anche questo odiosissimo problema della detenzione dei bambini”. Ma è vero? La risposta è sì. La riforma prevedeva la “revisione delle norme vigenti in materia di misure alternative alla detenzione al fine di assicurare la tutela del rapporto tra detenute e figli minori e di garantire anche all’imputata sottoposta a misura cautelare la possibilità che la detenzione sia sospesa fino al momento in cui la prole abbia compiuto il primo anno di età” (art. 1 comma 85 lettera S della legge 23 giugno 2017, n. 103). La direzione è quella di un avanzamento della normativa oltre le tappe segnate - nella salvaguardia del rapporto tra detenute madri e figli minori - dalle leggi Gozzini, Simeone, Finocchiaro e, infine, dalla legge del 21 aprile 2011, n. 62. Quest’ultima - come si ricorderà - consacrò un circuito penitenziario a custodia attenuata, indicato con l’acronimo di Icam e appositamente rivolto alle madri con figli al seguito (in linea teorica anche ai padri, sebbene in via residuale). Furono previste anche le case famiglia protette, destinate a supportare l’esternalizzazione della detenzione dei genitori con prole fino ai dieci anni d’età, ma di fatto rimasti poco attuati per carenza di adeguati finanziamenti da parte degli enti sia privati che pubblici. Come abbiamo ampiamente scritto su Il Dubbio, a proposito di case protette, Roma ne ha una sola, la “Casa di Leda”, dove attualmente ci sono ancora due posti liberi per madri con figli. Ma qual è il corpo principale della riforma sulla situazione delle detenute madri con figli a seguito? È quello riguardante la detenzione domiciliare speciale, che corrisponde all’articolo 47 quinquies. Attualmente, per le madri condannate, è prevista la possibilità di accedere a misure alternative alla detenzione in carcere, solo ove ciò non comporti minacce per la sicurezza pubblica. L’art. 47 quinquies comma 1, infatti, così recita: “Quando non ricorrono le condizioni di cui all’articolo 47 ter, le condannate madri di prole di età non superiore ad anni dieci, se non sussiste un concreto pericolo di commissione di ulteriori delitti e se vi è la possibilità di ripristinare la convivenza con i figli, possono essere ammesse ad espiare la pena nella propria abitazione, o in altro luogo di privata dimora, ovvero in luogo di cura, assistenza o accoglienza, al fine di provvedere alla cura e alla assistenza dei figli, dopo l’espiazione di almeno un terzo della pena ovvero dopo l’espiazione di almeno quindici anni nel caso di condanna all’ergastolo”. La riforma dell’ordinamento penitenziario avrebbe cambiato questo comma rendendo più fruibile l’accesso alla detenzione domiciliare attraverso una casa famiglia protetta. In questo caso, la giurisprudenza arriva prima della politica. Una sentenza della Corte di Cassazione del 6 febbraio scorso dice che “nella valutazione delle richiesta della detenuta di detenzione domiciliare, il giudice deve fare una concreta valutazione degli interessi in gioco, bilanciando l’interesse dello Stato all’esecuzione in forma carceraria della sanzione penale con le esigenze familiari della richiedente”. La vicenda, oggetto del ricorso in Cassazione, traeva origine dalla decisione del Tribunale di Sorveglianza di Salerno, che aveva respinto le richiesta di detenzione domiciliare avanzata da una detenuta con prole di età inferiore ai 10 anni. La detenzione domiciliare, di cui all’art. 47 ter comma 1 dell’ordinamento penitenziario, è un istituto teso alla tutela di interessi costituzionalmente garantiti, quali la protezione della maternità, dell’infanzia e del rapporto tra figlio e genitore in una fase delicata dello sviluppo psico- fisico del minore. Ma il cambiamento epocale sarebbe stato l’eliminazione dell’ostacolo del 4bis. Attualmente le donne con prole condannate che rientrato nei delitti del 4bis, non possono espiare la pena presso strutture non carcerarie e quindi i bambini sono condannati a stare dietro le sbarre. La riforma avrebbe tolto questo ostacolo. In questo caso intervenne più volte la Corte Costituzionale. La più recente è la sentenza numero 76 del 2017: la Consulta ha ribadito l’orientamento di evitare la “carcerizzazione” degli infanti. Si tratta per la Corte di dare tutela alle garanzie dell’art. 31 della Costituzione, ma anche di non tralasciare le norme sovranazionali come l’art. 24 della Carta di Nizza, per cui è considerazione preminente l’interesse superiore del fanciullo in tutte le decisione dell’autorità pubblica che lo riguardino. La riforma dell’ordinamento penitenziario, in sostanza, recepisce tali sentenze e va a modificare il 4bis, anche in merito alla detenzione domiciliari per chi ha figli minori di 10 anni. Punto che fu molto contestato dall’attuale procuratore antimafia Federico Cafiero de Raho. Per il procuratore “non sono madri “normali” ma mafiose o terroriste, ovvero “soggetti pericolosi”“. C’è da precisare che il 4bis non comprende solo reati legati alla mafia, ma con il tempo ha attirato diversi reati. Anche per questo, la riforma prevedeva una modifica sostanziale del 4bis e farla ritornare nella sua forma originale. Nell’ultima relazione annuale, il Garante nazionale ha dedicato un capitolo alla presenza di bambini all’interno degli Istituti di pena. Viene ricordato che nel 2011 è stata varata la legge 21 aprile 2011 dal titolo “Modifiche al codice di procedura penale e alla legge 26 luglio 1975, n. 354, e altre disposizioni a tutela del rapporto tra detenute madri e figli minori”. Una normativa importante che indica l’eccezionalità della custodia cautelare e, in caso di necessità la previsione dell’arresto domiciliare o presso specifiche Case famiglia protette. Solo come istanza di ripiego compare la previsione della sistemazione in Istituti a custodia attenuata per detenute madri (Icam) - che è bene ricordare sono pur sempre strutture penitenziarie - al fine proprio di eliminare la presenza di bambini all’interno degli Istituti penitenziari. Il quadro è del tutto analogo per l’espiazione della pena e, sia l’intenzione del legislatore, sia la lettura formale del provvedimento lascerebbero pensare che non si possano più trovare bambini dentro un normale carcere. La situazione però non è così. Riferendosi alla data del 30 aprile del 2018 i bambini sotto i tre anni ristretti all’interno di Istituti di pena - in aree denominate “sezioni nido” - erano 27 (con 24 mamme); i bimbi possono restare con le madri fino all’età di 3 anni. Nei cinque Icam attivi ve ne erano 39 (con 32 mamme); qui si può restare fino ai 6 anni. Poi ci sono le case protette - soluzione auspicata dal Garante - che però sono insufficienti e viene denunciato che non esiste una mappa di tali strutture, né un dato sulle presenze. Rimane il fatto che la presenza di infanti che trascorrono i primi mesi se non anni della propria vita, proprio i più decisivi per la formazione, in un contesto come quello del carcere rappresenta di per sé un grave vulnus. Il Garante nazionale crede che, dopo sette anni dall’approvazione dell’ultimo provvedimento legislativo sul tema, occorra dare un maggiore impulso, a livello sia della Magistratura che dell’Amministrazione, alla sua piena attuazione. I bimbi di Rebibbia e la riforma mai fatta per paura di perdere consensi di Roberto Saviano La Repubblica, 21 settembre 2018 Per la detenuta che ha ucciso i suoi figli, e soprattutto per i piccoli, il carcere era il luogo meno adatto. Un problema che la riforma dell’ordinamento penitenziario avrebbe affrontato. Ma Bonafede l’ha bloccata. Mentre il Pd e l’ex ministro Orlando non hanno difeso quel lavoro per non perdere consensi. Articolo 31, comma 2, della Costituzione italiana: “La Repubblica protegge la maternità, l’infanzia e la gioventù, favorendo gli istituti necessari a tale scopo”. Articolo 3, comma 1, della Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti del fanciullo: “In tutte le decisioni relative ai fanciulli, di competenza delle istituzioni pubbliche o private di assistenza sociale, dei tribunali, delle autorità amministrative o degli organi legislativi, l’interesse superiore del fanciullo deve essere una considerazione preminente”. Articolo 24, comma 2, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea: “In tutti gli atti relativi ai bambini, siano essi compiuti da autorità pubbliche o da istituzioni private, l’interesse superiore del bambino deve essere considerato preminente”. 18 settembre 2018, carcere di Rebibbia. Una detenuta, nata in Germania ma con cittadinanza georgiana, getta dalle scale i suoi due figli. La bimba di 6 mesi muore subito, il bimbo, di poco più grande, morirà in ospedale. Questa è la premessa. Esattamente un anno fa, il 18 settembre 2017, sull’Espresso scrissi del tragico caso della bambina di tre anni che aveva rischiato di morire nel carcere Gazzi di Messina per aver ingerito del veleno per topi. La domanda - per niente retorica - fu: perché è in galera se ha solo tre anni? Era con sua madre, una donna nigeriana in carcere per immigrazione clandestina. Per l’Italia, Paese che non concede visti agli Stati africani, l’unica via d’accesso è quella illegale e l’immigrazione clandestina è un reato punito con il carcere anche se hai figli piccoli che non hanno nessuno oltre te. Ovviamente della notizia ci occupammo in pochi (diedi conto dell’interesse di Radio Radicale), anche perché uscivamo da un’estate tragica. La caccia all’immigrato si era ufficialmente aperta grazie alle politiche dell’ex ministro dell’Interno, Marco Minniti. Devastanti per il Paese, per il Pd e per l’idea stessa di sinistra. Ogni giorno aumentava il senso di insicurezza e la percezione che fosse necessario autodifendersi (Salvini non ha inventato nulla!), nonostante il Viminale, in palese controtendenza rispetto alle dichiarazioni dei suoi vertici, diffondesse cifre rassicuranti sul calo delle denunce. E se a un calo nelle denunce non corrisponde necessariamente la diminuzione dei reati, possiamo stare certi, con il clima che si respira, che agli stranieri non si fanno sconti. Inoltre fa più presa dire “abbi paura e armati” piuttosto che “i reati sono in diminuzione”, perché il ragionamento perde terreno di fronte alla percezione di insicurezza che siamo indotti a provare per convenienza altrui. Ma forse è proprio da qui che dovremmo partire, da una politica abituata a criminalizzare, a considerare il carcere la soluzione per tutto, una discarica sociale. Dovremmo partire da qui perché la detenuta che ha ucciso i suoi figli a Rebibbia stava per essere scarcerata ed evidentemente non era il carcere il luogo adatto alla sua detenzione. Era detenuta per concorso in detenzione di stupefacenti, un reato su cui, con un’altra politica, diversa da quella attuale ma anche da quella che l’ha preceduta, si aprirebbe una riflessione seria sulla necessità di legalizzare le droghe. Ma per le cose serie non c’è mai tempo: comunicare e non fare, cercare consenso e non lavorare seriamente per una società più sicura e più democratica. La donna era in carcere con due bambini di sei e 18 mesi. Entrambi minori di tre, età minima che consente la detenzione con il genitore. Sotto i tre anni i bambini devono essere affidati ai servizi sociali. E invece erano in carcere con la madre e non dove sarebbe stato umano ospitare tutto il nucleo familiare, ovvero in una casa famiglia protetta. Ma qui si apre l’annoso capitolo delle misure alternative al carcere e dei mancati finanziamenti per queste strutture. “Ma siamo pazzi!”, già sento i commenti, “investire soldi per i detenuti, per i delinquenti?”. “Non ci sono soldi per le persone perbene, figuriamoci trovarne per loro”. Ma “loro” sono bambini, non hanno commesso reati e, quando possibile, devono stare con i genitori in ambienti che siano di supporto al nucleo familiare. Di fronte a questa tragedia immane non so davvero da dove iniziare per raccontare la strage di diritto, che è strage di vite umane, che si consuma ogni giorno nelle carceri italiane. Alfonso Bonafede sospende la direttrice della sezione femminile di Rebibbia, sospende anche la sua vice e la vicecomandante della polizia penitenziaria perché dice: “Deve essere chiaro, nel mondo della detenzione non si può sbagliare”. Ma che ne sa Bonafede del mondo della detenzione, mi verrebbe da dire, se ha bloccato la riforma dell’ordinamento penitenziario uscita dalla scorsa legislatura? E poi leggo la comunicazione che fa sui social l’ex ministro Andrea Orlando, ex Guardasigilli; è lui che ha lavorato per anni alla complessa e articolata riforma, che Bonafede ha liquidato appena arrivato negli uffici di via Arenula, ed è lui che purtroppo (ci avevo sperato) non ha difeso quel lavoro. È lui che avrebbe dovuto azzannare il Pd e dissociarsi dai fragili compagni di partito che hanno preferito temporeggiare per timore di perdere consenso sotto elezioni. Tanto che quelle misure sono state varate dal governo Gentiloni a tempo ormai scaduto, dopo il voto del 4 marzo. “Un regalo ai delinquenti”, “un decreto svuota carceri”, chi ha rivolto queste accuse alla riforma dell’ordinamento penitenziario non ha interesse nella giustizia e nel rispetto dei diritti. Ma diciamoci la verità, non ha interesse nemmeno chi teme di riceverle queste accuse e archivia una riforma necessaria, vitale, che si aspettava da anni. Inutile che Andrea Orlando chieda a questo governo ciò che non ha preteso da quello di cui era parte. Inutile cercare fuori dal Pd le cause della fine del Pd. E il Pd accetti un consiglio non richiesto: non pensi a congressi o a cambiare nome, quello che deve augurarsi, piuttosto, è di essere al più presto dimenticato. Perché un partito riformista - o che si crede tale - che non mette in discussione i frutti avvelenati del berlusconismo, come le leggi Bossi-Fini e Fini-Giovanardi in materia di immigrazione e stupefacenti, merita per il bene del Paese solo una cosa: di essere al più presto dimenticato. I figli della detenuta di Rebibbia sono morti. Del più grande i medici hanno appena decretato la morte cerebrale. È banale dire che con quei due bambini il Pd è definitivamente scomparso. È banale perché la fine era arrivata molto prima, il colpo di grazia sono stati la dottrina Minniti e la codardia nel non sostenere a pieni polmoni la riforma dell’ordinamento penitenziario. Ciò che davvero resta di un percorso politico si misura nella quantità di diritti che è in grado di difendere. La via della sinistra non è altro che questo: avere il diritto di non uccidere (non solo il dovere), il diritto di non spacciare (non solo il dovere), il diritto a non impantanarsi nell’ignoranza (non solo il merito della conoscenza). Tutto il resto è amministrazione, ordine, meccanismo di gestione. Non ci si senta orfani di un soggetto politico che non merita rimpianti, viviamoci questa stagione “nera” provando a fare argine con le armi che abbiamo, che sono e resteranno lo studio, l’approfondimento, i dati, l’ascolto, l’empatia, il racconto. E speriamo che si riesca a ricostruire qualcosa non partendo, come molti ancora auspicano, da un figura carismatica, da chi ha più ambizione personale che coraggio, ma da quello che oggi in politica tragicamente manca: le idee. Magari liberando il campo definitivamente da leaderini che al governo sembrano conservatori di destra e all’opposizione rivoluzionari. La riforma delle carceri si è arenata per paura di perdere consenso, sulle politiche migratorie ci si è alleati con la Libia finanziando trafficanti di esseri umani e torturatori per rincorrere chi parlava di invasione. E quel che è peggio è non aver mai rinnegato tutto questo. I bambini nelle carceri non ci devono stare e questa, per esempio, è un’idea, un’idea da difendere. Nella riforma dell’ordinamento penitenziario cestinata da Bonafede e orfana di Orlando c’era anche questo: sessantadue bambini di cui nessuno si è voluto occupare. Bambini in carcere: come vivono di Barbara Rachetti Donna Moderna, 21 settembre 2018 Dopo la vicenda di Rebibbia, in cui una madre detenuta ha causato la morte dei suoi bambini, torna alla ribalta il tema di mamme e figli in carcere: come e dove vivono i piccoli, cosa succede tra le sbarre, dove andranno “dopo”. Come vive un bambino in carcere? Come si disegnano il suo orizzonte, il suo linguaggio, la sua capacità di movimento negli spazi ristretti della cella? Di chi impara a fidarsi, oltre alla madre, alle altre detenute e al personale penitenziario? La vicenda dolorosa accaduta nel carcere di Rebibbia, dove una detenuta ha lanciato dalle scale i suoi due bambini (la piccola è morta e per il fratellino di neanche due anni è stata dichiarata la “morte cerebrale”), ha riportato all’improvviso alla ribalta la condizione dei bimbi tra le mura della prigione. Le carceri per mamme e bambini - Bambini sui quali ricadono inevitabilmente le scelte delle madri, iper-protetti dalle madri stesse, oppresse dal senso di colpa di doverseli tenerli con sé, spesso obbligate dalla povertà o dalla solitudine. “I piccoli che restano in carcere con le madri vivono in strutture obsolete, poco ariose, create per gli uomini e che non sempre hanno la sezione nido, dove le donne rappresentano appena il 5 per cento dei detenuti e dove i bambini fino ai tre anni possono stare per legge quando è la mamma stessa a chiederlo, nel caso in cui non si voglia separare dai figli, oppure non abbia familiari o una casa disposti ad accoglierli” spiega Ornella Favero, direttore della rivista Ristretti Orizzonti. “Sono 12 gli istituti carcerari italiani che ospitano i piccoli - alcuni con veri nidi, cioè spazi attrezzati ad hoc - e in cinque casi si stratta di Icam (Istituti a custodia attenuata per detenute madri), cioè carceri più simili a case che a luoghi di detenzione, previsti dalla legge ma finora realizzati solo in parte” prosegue. “Qui la convivenza tra donne e bambini è comunque forzata e con ritmi imposti dalle regole del carcere, ma resta più umana che nel carcere vero e proprio, dove mamme e detenute comuni sono mischiate e dove i tempi degli adulti, il rumore e la tensione dovuta al poco spazio condizionano pesantemente la crescita dei bambini”. Cortili e cancelli, orari e chiavi - Colpevoli di nulla, questi bambini trascorrono i primi anni della loro vita tra porte blindate e sbarre, in una sezione dove il cancello della cella resta aperto ma da cui, per uscire, si devono attraversare altre porte blindate e cancelli con altre sbarre. “Di solito c’è un cortile o un giardino interno attrezzato con i giochi per i bambini, ma vi si accede a orari determinati e sempre con chiavi e cancelli, delimitato da muri spesso grigi, in cemento. Dove ci sono solo donne e gli unici maschi sono agenti in divisa, dove mancano figure maschili di riferimento e gli scambi sociali sono limitati alle detenute e ai loro figli, al personale penitenziario e ai volontari, se ci sono. Dove spesso le stesse mamme soffrono di gravi disturbi o arrivano da situazioni di disagio e disperazione” dice Ornella Favero. Un legame strettissimo - Il tempo per queste mamme è un tiranno, non perché ne abbiano poco, ma perché è tutto ciò che hanno da offrire ai loro bambini. Ed ecco che il legame tra loro diventa strettissimo, fino al compimento del terzo anno, quando all’improvviso si deve recidere. E purtroppo i tempi e i modi di questa lacerazione sono frettolosi: la mamma viene allontanata con un pretesto e al suo ritorno il bambino non c’è più. “Ho visto scene di disperazione, donne che si sono ferite e tagliate” racconta Luigi Gariglio, sociologo e fotografo, autore della mostra Che ci faccio qui? I bambini nelle carceri italiane, ora esposta al Crvg di Torino. “Come ho visto bambini incapaci di capire perché vengono portati via dall’ambiente in cui hanno sempre vissuto, l’unico che conoscono, per entrare in una vita “normale”, ma aliena per loro, cresciuti in prigione”. I fratelli fuori - Anche il colloquio con i fratelli arrivati da fuori con un familiare apre ferite sempre fresche, che si rinnovano a ogni visita: i piccoli non capiscono perché a un centro punto devono restare dentro mentre gli altri familiari se ne vanno. L’arrivo dei volontari, preziosissimi, offre ai piccoli uno spiraglio di libertà e di normalità. Gariglio racconta che ogni volta in cui entra nel carcere, i bambini lo prendono per mano per uscire: “Portami fuori” gli dicono. Ma fuori non si può andare. “Frequento le carceri da 28 anni - racconta - e il ricordo che più ho impresso, è un bambino che a poco meno di tre anni diceva solo: “Chiudi il blindo” e per lui i maschi erano tutti agenti. Oppure quel bambino che per gioco spezzava le sigarette, mentre la mamma lo guardava sorridendo, senza riuscire a sgridarlo”. Perché crescere un bimbo tra le mura del carcere vuol dire tirarlo su a sensi di colpa e non poter essere autorevole: la madre perde la sua credibilità, in balìa lei stessa delle regole del carcere, incapace di stabilirne di proprie e soprattutto invasa dal senso di inadeguatezza. Il momento della separazione a tre anni - La cella con la mamma non è una soluzione al problema dei bambini delle detenute. “Anzi, la separazione dopo i tre anni crea disagi psicologici e problemi di crescita: i bambini, affidati a famiglie adottive o in carico ai servizi sociali, sono spesso deprivati di tutto il contatto fisico di cui avrebbero bisogno per conquistare fiducia e sicurezza e tendono a vivere la separazione come un abbandono. Ricerche dimostrano come si ammalino, arrivando spesso anche a morire” racconta Ornella Favero. Le case famiglia protette, gestite da associazioni, volontari, parrocchie, sembrano invece l’alternativa più adatta, anche se a tutt’oggi insufficienti a ospitare tutti i bambini con le loro mamme. “La mamma resta dentro a espiare la sua pena, ma il bambino può uscire, andare al nido o a scuola, accompagnato dai volontari” spiega l’avvocato Mario Marcuz dell’associazione Antigone Emilia Romagna. “Anche se i volontari sono figure esterne, diverse dalla mamma, che quindi agli occhi del bambino conserva un raggio d’azione sempre limitato, offrono un’accoglienza e un sostegno che possono far crescere i piccoli in un clima più equilibrato e familiare. La realtà dei bimbi in carcere non deve indurci al pietismo, ma è un fenomeno risolvibile ampliando il ricorso a misure alternative che permettano alle detenute madri di scontare la pena insieme ai propri figli in contesti familiari, salvaguardando il proprio ruolo genitoriale e lo sviluppo del bambino nei primi anni della sua vita”. La pena, dunque, seppur imprescindibile, dev’essere considerata secondaria rispetto ai diritti del minore. Bimbi in carcere, dopo il dramma servono alternative più umane di Antonio Mattone Il Mattino, 21 settembre 2018 Altre due morti nelle carceri italiane. Ma questa volta si è trattato di due bambini, Faith di sei mesi e Divine di un anno e mezzo, uccisi dalla madre in un raptus di follia nella sezione nido di Rebibbia. Che ci facevano due bambini così piccoli in una cella? E che colpa hanno avuto per meritare una pena detentiva? La Riforma del 1975 aveva previsto che le mamme potevano tenere con sé i propri figli fino al compimento del terzo anno di età. E così i due bimbi erano stati incarcerati con la madre, una georgiana di origine tedesca, arrestata per detenzione di stupefacenti, con problemi legati alla droga e che aveva manifestato dei segnali di instabilità psicologica. Ma Faith e Divine erano innocenti, perché tutti i bambini sono innocenti. Hanno avuto solo la colpa di nascere in un momento e in un contesto sbagliato. Queste morti racchiudono tutte le contraddizioni e i problemi della realtà carceraria: la detenzione di tossicodipendenti, la difficile comunicazione con gli stranieri, la scarsa attenzione a persone con problemi psichiatrici per cui manca una vera e propria presa in carico. E soprattutto la presenza di minori all’interno dei reparti detentivi. La carcerazione dei bambini con le madri è frutto di norme che paradossalmente erano nate per favorire la realizzazione di un principio umanitario, quello di evitare il trauma del distacco dalla figura materna. Tuttavia, nonostante alcune modifiche e tanti proclami dei Guardasigilli che si sono succeduti in questi anni e che promettevano “mai più bambini in cella”,i minori continuano a vivere in carcere. Crescono con i ritmi, i suoni e gli odori delle prigioni: la conta giornaliera, le porte blindate e il tanfo che si respira nelle galere. Apprendono subito i termini del gergo carcerario e se si ammalano e devono andare in ospedale sono accompagnati da un agente, perché non possono avere la mamma accanto a loro. Diventano presto aggressivi e nevrotici, piangono per ogni contrarietà e non sorridono mai. Invece di andare a giocare nei parchi possono solo godere di un’ora d’aria in un cortile angusto e malsano. Un anno fa, nel carcere di Messina infestato da ratti, un bimbo di un anno ingerì un topicida che era stato collocato da una guardia carceraria e finì al pronto soccorso. Di fronte a questa ingiustizia, sembra quasi più umana la scelta di Adelina Sbaratti, la contrabbandiera di Forcella, interpretata da Sophia Loren nel film di Vittorio De Sica “Ieri, oggi e domani”, che restava continuamente incinta per evitare di finire dietro alle sbarre. Al 31 agosto scorso erano 62, figli di 52 mamme, rinchiusi in 15 istituti di pena. Meno della metà stanno negli Icam, gli Istituti a custodia attenuata per madri con la prole al seguito, istituiti grazie ad una legge del 2011. Si tratta di strutture senza sbarre dove il personale non ha la divisa e si vive in condizioni penitenziarie più aperte. Eppure si tratta sempre di prigioni, dove si vive lo stress e le restrizioni proprie di un ambiente piccolo e contenuto. In Campania c’è un Icam a Lauro di Nola, una realtà che per alcuni rappresenta un modello positivo dove attualmente sono rinchiusi dodici minori. Alcuni anni fa era una struttura per tossicodipendenti, molto apprezzata dove potevano scontare la pena circa 60 carcerati. Poi c’è la stata la riconversione, con una spesa di 600mila euro, ma secondo alcuni è costato di più, ci si è privati di un istituto di cui c’era molto bisogno visto che circa un terzo dei detenuti italiani ha problemi legati all’uso di sostanze stupefacenti. Solo per fare un esempio dello spreco dei soldi spesi, è stata realizzata una grande cucina che non viene mai utilizzata perché le detenute cucinano e scaldano il latte per i propri piccoli sui fornellini nelle loro celle. Ce n’era proprio bisogno? Non è stato un grande sciupio di denaro pubblico? In ogni caso le prigioni, attenuate o meno, non sono luoghi per bambini, la detenzione dei minori in strutture carcerarie è una pratica contraria ai diritti umani. Oggi ci possono essere alternative praticabili, anche per i piccoli numeri a cui ci troviamo di fronte. Le case famiglia previste dalla stessa legge del 2011 che fu fatta senza coperture finanziarie, ma anche delle esperienze di affido a strutture religiose messe in campo dal referente nazionali dei cappellani, possono essere delle valide e concrete soluzioni. Il Ministro Bonafede ha sospeso i vertici del carcere romano, tuttavia nell’attesa che vengano accertate le responsabilità di funzionari molto stimati, emerge una colpa collettiva di una società intera che, per esorcizzare le proprie paure, non si fa alcun problema di relegare 62 bambini in prigione. La morte di Faith e Divine chiede oggi alle nostre coscienze di cancellare questa vergogna. E di farlo senza perdere altro tempo. Mai più bambini dietro le sbarre di Orsola Vetri Famiglia Cristiana, 21 settembre 2018 Un volo giù per le scale. Così sono morti due fratellini di sei mesi e due anni a Roma nel carcere di Rebibbia. Uccisi dalla madre, ora ricoverata in psichiatria. Per le donne detenute con bambini piccoli, il luogo in cui scontare la pena, non è il carcere, ma la Case famiglia. Ora è ricoverata in psichiatria la madre detenuta nel carcere di Rebibbia che lo scorso 18 settembre ha lanciato i suoi figli dalle scale all’interno della struttura detentiva per mamme con figli minori di tre anni. La piccola di sei mesi è morta sul colpo, il fratello maggiore, due anni, alcune ore dopo in ospedale. “Adesso i miei figli sono liberi, gli ho dato la libertà”. Sono le parole che la donna 33 anni, tedesca, ricoverata nel reparto psichiatrico dell’ospedale Pertini di Roma, ha pronunciato davanti al suo avvocato difensore per spiegare quanto compiuto ieri nel nido del carcere di dove si trovava detenuta per traffico di sostanze stupefacenti. Si parla di “tragedia annunciata” e come spesso capita solo a dramma avvenuto si ritorna a ribadire una certezza e cioè che i bambini non devono stare in carcere. Anche se si tratta di strutture all’avanguardia, per loro e le mamme detenute la soluzione non può essere il nido penitenziario. “Sono troppo poche in Italia le strutture per madri detenute con figli piccoli: solo cinque gli istituti a custodia attenuata e addirittura solo due le case famiglia protette. Non possiamo attendere che si ripetano episodi drammatici come quello accaduto ieri a Rebibbia, né possiamo accettare l’ idea che dei bambini continuino a vivere dietro le sbarre, in ambienti che non sono adatti a una crescita sana e a un armonioso sviluppo. Bisogna aprire quanto prima altre case famiglia protette: basta bambini in carcere”. Così l’ Autorità garante per l’infanzia e l’adolescenza, Filomena Albano, che questa mattina ha incontrato Fulvio Baldi, capo di Gabinetto del Ministro della Giustizia e tra due giorni vedrà il capo Dipartimento dell’ amministrazione penitenziaria Francesco Basentini. Al centro degli incontri il rinnovo del protocollo “Carta dei figli dei genitori detenuti”. “Le case famiglia protette - prosegue Filomena Albano - rappresentano un contesto più adatto degli istituti di detenzione ad accogliere bambini in fase di crescita. Occorre comunque investire nel sostegno delle competenze genitoriali e nell’ aggiornamento professionale del personale. Vanno monitorate le situazioni di maggiore fragilità e sostenute le madri attraverso percorsi di educazione alla genitorialità: questo è più semplice in un contesto circoscritto e controllato come quello della casa famiglia”. “In attesa di raggiungere l’obiettivo di evitare la permanenza di persone di minore età negli istituti penitenziari - conclude la Garante Albano - mettiamo al centro le esigenze specifiche dei figli di persone in stato di detenzione. In particolare, assicurando ai bambini che vivono con i genitori in una struttura detentiva libero accesso alle aree all’ aperto, ai nidi, alle scuole, ad adeguate strutture educative e di assistenza, preferibilmente esterne. Il superiore interesse dei minori prima di tutto”. “Sono troppi i bambini che continuano a vivere dietro le sbarre con le loro mamme. Gli Icam, istituti a custodia attenuata, sono una soluzione intermedia ma non rispondono al bisogno fondamentale di un bambino di crescere in un ambiente familiare, con le stesse opportunità di crescita dei coetanei. Esistono case famiglia adeguate per accogliere i bambini con le loro mamme”. Afferma Giovanni Paolo Ramonda presidente della Comunità Papa Giovanni XXIII in merito al tragico episodio ricordando che la comunità di Don Benzi ha in questi anni accolto numerose mamme con bambini nelle sue case famiglia. “Anche nell’ultima campagna elettorale abbiamo proposto ai politici di togliere questi piccoli senza alcuna colpa dal carcere. Tutti gli psicologi concordano che i primi tre anni di vita del bambino sono fondamentali per la sua crescita equilibrata. Non occorre essere esperti per comprendere che il carcere non è il luogo idoneo in cui crescere i bambini, dunque chiediamo che le mamme con bambini più piccoli di 3 anni siano accolti presso le case famiglia”. Morte di due bambini detenuti di Riccardo Arena ilpost.it, 21 settembre 2018 Roma, 18 settembre. Carcere di Rebibbia, sezione femminile. Una donna detenuta uccide i suoi due figli detenuti. Una bambina di 6 mesi e un bambino di un anno e mezzo. Due bambini detenuti che ora, purtroppo, hanno diritto a essere aggiunti a pieno titolo nella triste statistica delle persone che in carcere perdono la vita o rinunciano a vivere. E il motivo è semplice. Noi tolleriamo, e lo Stato acconsente, che dei bambini di età inferiore ai tre anni siano messi in carcere con le loro madri. Bambini detenuti senza colpa che respirano la puzza del carcere e che vivono tutto il degrado del carcere. Bambini detenuti che resteranno marchiati a vita da quella inaccettabile carcerazione. Una vergogna. Eppure, in questa terribile vicenda che non ha precedenti, c’è dell’altro. La morte di questi due bambini detenuti innocenti si poteva e si doveva evitare. Infatti, nell’ultima puntata di Radio Carcere su Radio Radicale, il Garante dei detenuti del Lazio, Stefano Anastasia, ha affermato che quella donna era stata segnalata per una visita psichiatrica. Visita che pare non sia stata mai fatta. E Anastasia non è l’unico a riferire questa grave circostanza. In particolare, pare che nei giorni scorsi questa donna avesse manifestato segni di squilibrio mentale e sembra che avesse avuto comportamenti anomali con i suoi due figli. Ma non risulta che sia stata preso alcun provvedimento. C’è da chiedersi: se si fosse intervenuto in modo tempestivo, quei bambini sarebbero ancora vivi? Ancora. Quella donna non parlava e non capiva l’italiano, perché parlava solo il tedesco. Lingua ovviamente sconosciuta nella sezione femminile del carcere di Rebibbia. Di conseguenza quella donna viveva una doppia prigione, anzi un tunnel. Non solo si è trovata catapultata dalla Germania in Italia, non solo si è trovata detenuta con i suoi bambini, ma era nell’impossibilità di comunicare qualsiasi esigenza, anche la più banale. Figuriamoci un malessere più profondo. Provate a immedesimarvi e chiedetevi. È o no questa una carcerazione che porta all’esasperazione o alla follia? E ancora. Quella donna a fine agosto è stata estradata in Italia dalla Germania perché accusata di spaccio di sostanze stupefacenti. Quindi era sottoposta a misura cautelare in carcere ed era una presunta non colpevole in attesa di giudizio. Ebbene, visto che non si tratta di una pericolosa camorrista o di una terrorista, rimane davvero difficile capire perché il Giudice, sapendo che c’erano di mezzo due bambini, non abbia scelto nella sua ordinanza una misura cautelare meno gravosa. D’altra parte a Roma esiste una casa protetta per le donne detenute madri: “Casa di Leda”. Una struttura capace di coniugare le esigenze di sicurezza, con le esigenze dei bambini. Una struttura che poteva accogliere quella donna e i suoi due bambini. Una Casa protetta che, come afferma Lillo Di Mauro, conta oggi ben tre posti liberi. Tre posti liberi che potevano salvare la vita a quegli innocenti. E invece no. Carcere per lei e per quei bambini. Esattamente come ribadito il 7 settembre dal G.i.p. di Roma, Laura Alessandrelli, che ha rigettato per quella donna e per quei bambini la possibilità di essere ristretti in un luogo diverso dal carcere. Una decisione che non solo appare quanto mai discutibile, ma che è anche sintomo di un deficit culturale presente nella magistratura. Sta di fatto che ora, per la donna impazzita, si apre un’indagine per omicidio. Ma in verità altri dovrebbero essere messi sotto accusa per la morte di quei due bambini detenuti. Lo Stato, che consente la vergognosa carcerazione di questi bambini detenuti. La magistratura che sembra avere un deficit culturale nell’applicazione di misure diverse da quella carceraria. La politica di destra e di sinistra che in questi anni non ha saputo porre rimedio all’inaccettabile carcerazione di piccoli innocenti. E un sistema carcerario che non solo provoca la follia, ma che è del tutto folle. Ecco la banalità della nostra politica. Fino a quando non succede la tragedia, non si fa nulla. Si lascia correre i bambini nei corridoi delle carceri, come le macchine sul ponte di Genova. Ma i politici evitino processi sommari di Marco Patarnello La Repubblica, 21 settembre 2018 Caro direttore, faccio il magistrato penale da quasi trent’anni, ho visto da vicino tante terribili vicende umane e da due anni sono il magistrato di sorveglianza per Rebibbia Femminile, sebbene solo per le detenute definitive. Osservo i numerosi interventi mediatici di queste ore successive alla tragedia accaduta lunedì, che ha visto due bimbi uccisi in carcere dalla loro mamma e sento il bisogno di dire alcune cose. Davanti a tragedie così, che ci costringono a guardare il buio senza fine che può esserci nell’animo umano penso che la reazione più giusta e matura dovrebbe essere il silenzio o per lo meno una rigorosa misura: pensare di avere la chiave per comprendere a caldo eventi come questi, le loro cause, le loro ragioni o addirittura la convinzione del senno di poi di poterli prevenire, individuando le responsabilità che li hanno prodotti, più che velleitario credo che sia superficiale e alluda al bisogno di cercare un responsabile per consentire a ciascuno di noi di scrollarsi di dosso quella parte di responsabilità collettive che ci appartengono, per le inadeguatezze e la fallibilità delle nostre pur sofisticate dinamiche sociali, civili, giuridiche. Soprattutto da parte di chi ha alte responsabilità istituzionali, cercare o addirittura additare in chi ha operato ogni giorno da decenni a questa parte in prima linea nel luogo della sofferenza e della esecuzione della pena - cui nessuno rivolge uno sguardo se non per puntare il dito, dove tutte le contraddizioni di un ordinamento ricco di aspirazioni ideali e privo di ogni risorsa vengono a collidere sui corpi e nelle menti di persone in carne ed ossa, conservando la massima attenzione ai diritti dei detenuti, con enorme sacrificio personale - mi sembra un modo piccolo, ma antico, di guardare e affrontare i problemi. Raramente nel corso della mia vita professionale ho trovato professionisti più attenti e sensibili di quelli che finora hanno retto, a diverso titolo, la direzione di quel carcere. E so di non essere l’unico. *Magistrato di sorveglianza per il carcere femminile di Rebibbia Signor Ministro, di che cosa dovete occuparvi se non dei bambini? di Annalena Benini Il Foglio, 21 settembre 2018 Il fallimento di una giustizia che manda i neonati in galera e se muoiono dice: state zitti. Chiedo al ministro della Giustizia, che davanti alla tragedia dei due bambini uccisi a Rebibbia ha detto che “i tuttologi gli fanno schifo”, ma anche a tutti gli altri ministri: di che cosa dovete occuparvi se non dei bambini? Su che cosa dovete fare decreti, fare casino, scandalizzarvi, fare la rivoluzione, se non sui bambini che non devono stare in carcere? Il ministro Bonafede ha detto, di fronte al trattamento abominevole verso una madre georgiana che non parla una parola d’italiano, con i suoi due figli di sei e venti mesi (morti, lanciati giù dalla tromba delle scale, in carcere), che “c’è solo da stare zitti”. Zitti, e continuare a credere che sia normale che i bambini stiano in carcere in braccio a una madre probabilmente devastata che non sa nemmeno come dire: bisogna scaldare il latte. Che si trova in carcerazione preventiva (in attesa di giudizio, quindi presunta innocente), perché l’hanno fermata ed era su un’auto con i suoi figli e altri due uomini, e su quell’auto c’era molta marijuana, e allora l’hanno arrestata. Lei che parla solo tedesco ha detto che non ne sapeva niente, ma con una bambina in braccio di cinque mesi (l’hanno arrestata a fine agosto) e un altro di un anno e mezzo è andata lo stesso in galera. Il ministro ha detto, per far tacere i tuttologi che appunto gli fanno schifo, che questa madre andava sorvegliata “acca ventiquattro”. Per la sicurezza degli altri cittadini? Che cosa poteva farmi questa madre, chiedermi due euro, provare a vendermi una canna? Andava sorvegliata non in carcere, proprio perché aveva (aveva, perché adesso sono morti) due bambini così piccoli. In carcere in base a quale principio, in base a quale studio, poteva stare meglio, riprendersi, rasserenarsi, riuscire a occuparsi dei suoi figli? Appunto: il carcere. È come se il carcere non ci riguardasse, come se quello che accade in carcere non succedesse davvero. Due bambini piccolissimi muoiono in carcere, e “c’è solo da stare zitti”. Signor ministro, a me non importa niente delle sue misure a tempo di record, del licenziamento della direttrice e vicedirettrice della sezione femminile, e anzi sono sicura che loro facevano tutto quello che potevano. Che cosa cambia adesso? Non erano loro a mandare in galera i bambini. Una società la valuti per quello che riesce a fare per gli ultimi, e questa donna con i suoi figli era proprio l’ultima fra gli ultimi, e questa nostra società allora ha completamente fallito: è stata disumana nella sua totale indifferenza. Quella giovane donna avrà avuto un avvocato d’ufficio che ha chiesto la scarcerazione, e la scarcerazione è stata negata, e questo avvocato dovrebbe incatenarsi da qualche parte e urlare che lui aveva sbattuto i pugni sul tavolo e poi si era inginocchiato per evitare la carcerazione preventiva a una piccola, debolissima, famiglia. Ma nessuno si è incatenato, e quasi nessuno si pone il problema, che non è di tuttologia ma costituzionale, che le mamme con bambini piccoli non devono stare in carcere. Che i bambini non hanno nessuna colpa e vanno protetti. C’è una legge complicata, c’è il diritto alla salute, c’era un pacchetto di misure dell’ex ministro Orlando, che diceva fra le altre cose: fuori i bambini dalle carceri, che è stato buttato via per paura di perdere voti. Meglio far morire i bambini che perdere voti. Va bene. Ma c’era una possibilità per questa madre con i suoi due figli: l’unica casa protetta di Roma, prevista dalla legge del 2011, ha posto per sei madri con i figli e ne ospita adesso soltanto quattro, mentre a Rebibbia sono tredici. Signor ministro, lei lo sa che una bambina di sei mesi sta sempre in braccio a sua madre o le sembra una tuttologia? E che un bambino di venti mesi sa dire quasi solo: mamma? “Quella madre stava male da tempo: non doveva stare in carcere” di Simona Musco Il Dubbio, 21 settembre 2018 Intervista all’avvocato della donna detenuta che ha ucciso i suoi due bambini. Non avrebbe dovuto stare in carcere, Alice Sebesta, la 33enne di origini tedesche che martedì, a Rebibbia, ha scaraventato violentemente i figli giù per le scale del nido del carcere, uccidendo sul colpo la più piccola, Faith, di 4 mesi, e ferendo in modo gravissimo Divine, di 19 mesi, per il quale è stata decretata la morte cerebrale. La madre, attualmente sottoposta a trattamento sanitario obbligatorio e piantonata nel reparto di psichiatria dell’ospedale Pertini, non ha potuto dare l’ok all’intervento per l’espianto degli organi. La donna, dicono oggi le cronache, “era stata più volte segnalata per alcuni comportamenti, sintomatici di una preoccupante intolleranza nei confronti dei due piccoli”, tanto che il personale del carcere aveva segnalato “la necessità di accertamenti anche di tipo psichiatrico”, secondo quanto contenuto in un documento firmato dal capo del Dipartimento di amministrazione penitenziaria, Francesco Basentini, visionato dall’Ansa. Informazioni che al suo legale, Andrea Palmiero, non sono state, però, mai comunicate. “L’istanza per farle avere i domiciliari spiega al Dubbio l’avvocato, che ieri ha parlato di nuovo con la donna in ospedale - è stata rigettata dal giudice per le indagini preliminari come fosse acqua fresca. Se il ministro della Giustizia vuole capire davvero come sono andate le cose allora lo invito a leggere questi documenti”. Avvocato, cosa sapeva dello stato di salute di Alice prima che avvenisse la tragedia? No, in questi 20 giorni nessuno mi ha mai segnalato nulla. Non mi sono stati comunicati episodi che lasciassero anche solo immaginare un epilogo del genere e non ho mai letto la nota del Dap di cui si parla in queste ore. Se queste informazioni dovessero rivelarsi vere, la cosa sarebbe davvero molto grave: avrei dovuto certamente essere informato di certe circostanze. Invece non ho mai saputo nulla. Lei aveva presentato istanza affinché la donna andasse ai domiciliari. Come sono andate le cose? La mia richiesta è stata rigettata per ben due volte. Nel primo caso si poneva un problema effettivo: la donna, che non si trovava nel proprio paese, non aveva una casa in cui poter eleggere domicilio, così la prima volta la mia istanza è stata respinta. Mi sono impegnato per trovare una casa in cui potesse passare questo periodo di custodia cautelare ai domiciliari e alla fine ci sono riuscito. Così ho presentato per la seconda volta istanza, ad un nuovo giudice, in quanto nel frattempo era cambiato. Ma, inspiegabilmente, è stata rigettata una seconda volta, senza alcuna giustificazione a mio avviso plausibile: secondo il gip, la difesa non aveva portato alcun elemento nuovo. In realtà, però, l’elemento nuovo c’era: la casa, appunto. Non so davvero spiegarmelo. Parliamo di com’è finita in carcere il 26 agosto scorso, quando è stata arrestata in flagranza. È possibile che per spaccio di marijuana, con due figli piccolissimi dietro, si trovasse lì? Sicuramente non possiamo parlare di un reato minore, per via dell’ingente quantitativo di sostanza stupefacente che aveva con sé (10 chili nascosti in macchina tra i pannolini dei bambini, ndr). Ma comunque parliamo di marijuana, in un periodo storico in cui si sta andando verso la liberalizzazione... Non si tratta certo di droghe pesanti, di cocaina o eroina. Ritengo che non potesse stare in carcere. Io il domicilio alternativo l’avevo proposto, ma non è comunque servito. Ma al di là di questo, nel caso in cui si fosse arrivati ad una condanna definitiva, per questo reato la scarcerazione sarebbe stata obbligatoria. In ogni caso, dunque, non avrebbe dovuto trovarsi lì. Aveva già commesso altri reati? No, questo era il suo primo arresto. Non stiamo parlando, quindi, di una persona recidiva, ma di una persona che affrontava questa esperienza per la prima volta, in un paese straniero, che non le apparteneva, per giunta. L’ho vista molto spaesata, com’è comprensibile. Ma nulla poteva farmi pensare che le cose sarebbero andate a finire in questo modo. E dopo la tragedia come l’ha vista? L’ho vista insofferente, depressa. Oggi (ieri per chi legge, ndr) sono andata a trovarla in ospedale, ma di quanto ci siamo detti preferisco non dire nulla, perché domani (oggi, ndr) ci sarà l’udienza di convalida e riferirò tutto al giudice. Di sicuro, prima che si verificassero questi eventi non mi era stato fatto presente nulla circa il suo stato di salute. Durante i vostri colloqui non era emerso nessun elemento che potesse anche solo lasciare immaginare, dunque? Lei non mi ha mai detto nulla. Ero io a vederla sempre un po’ sofferente, ma in un colloquio di dieci minuti sono poche le cose di cui si può parlare. Avevo notato che si presentava sempre un po’ più trascurata, ma da qui a pensare che potesse accadere una cosa del genere. Il ministro della giustizia ha sospeso i vertici del carcere… Non so chi abbia responsabilità, non tocca a me dirlo. So soltanto che questi bambini li abbiamo pianti soltanto noi. Chi lavora in carcere vive gomito a gomito con queste persone, con i detenuti, e non credo che le responsabilità si debbano cercare lì o che non avessero a cuore queste persone. Invito, piuttosto, il ministro ad andare a visionare il fascicolo con il rigetto dell’istanza di carcerazione domiciliare. Vada a vedere lì se c’è qualcosa che non quadra. Rebibbia, la donna era malata. Il Dap chiede la testa dei medici di Eleonora Martini Il Manifesto, 21 settembre 2018 La detenuta tedesca che ha ucciso i suoi due figli era stata segnalata dal personale penitenziario. Ma i servizi psichiatrici sono molto carenti, in carcere. Md e sindacati: non capri espiatori, si affrontino i nodi reali. A.S., la detenuta tedesca di 33 anni che martedì mattina nel “nido” di Rebibbia ha ucciso i suoi due figlioletti di sei mesi e due anni gettandoli dalle scale, “era stata più volte segnalata per alcuni comportamenti, sintomatici di una preoccupante intolleranza nei confronti dei due piccoli”. A comunicarlo al direttore generale dell’Asl Roma 2 e per conoscenza al capo di gabinetto del ministero della Giustizia, in una lettera scritta dopo che la tragedia si era consumata, è stato il capo del Dap, Francesco Basentini. Il documento riferisce che lo stesso personale del carcere aveva segnalato “la necessità di accertamenti anche di tipo psichiatrico”. Perciò Basentini aveva chiesto ai vertici del Ssn nel quale rientra la Sanità penitenziaria, di “voler valutare l’opportunità di adottare tutte le più adeguate iniziative relative al personale medico impiegato presso la suddetta Casa circondariale, anche provvedendo - ove lo riterrà opportuno - alla sostituzione dello stesso”. Al momento invece il governo, per mano del Guardasigilli Alfonso Bonafede, come è noto ha rimosso la direttrice della sezione femminile di Rebibbia, Ida Del Grosso, la sua vice Gabriella Pedote e la vicecomandante del reparto di Polizia Penitenziaria Antonella Proietti. Un provvedimento che è apparso subito piuttosto come un diversivo per non affrontare i nodi reali della questione. Protestano i sindacati di categoria, Sappe, Uilpa, Osapp, Uil, Fns Cisl, Sinappe, e l’Fp Cgil Nazionale che parla di “scappatoie” e “capri espiatori” invece di “cambiamenti necessari al sistema carcerario”. “Il ministro e il capo del Dap pensano di assolvere ai loro doveri punendo funzionari e dirigenti, con motivazioni ancora in queste ore sconosciute ai più”, scrivono in una nota i sindacalisti della Cgil che elencano invece le urgenze per risolvere il problema dei bambini detenuti con le loro madri. A cominciare dal “rafforzamento, anche con decreto d’urgenza, della legge 62/2011 che impedisce la reclusione negli istituti di pena di donne con prole in tenera età; una accurata e tempestiva indagine sull’operato dei magistrati; un provvedimento immediato che realizzi case protette, un potenziamento dei servizi sanitari, soprattutto di supporto e assistenza psicologica e psichiatrica”. Particolarmente necessari, questi ultimi, da quando sono stati chiusi gli Ospedali psichiatrici giudiziari e le misure di sicurezza per gli autori di reato affetti da disturbi mentali vengono eseguite solo in alcuni casi nelle residenze alternative chiamate Rems. La maggior parte dei detenuti con problemi psichici, precedenti o comparsi in seguito alla detenzione, rimane in carcere, dove i servizi psichiatrici non sono stati potenziati. E infatti soltanto ora A. S. si trova piantonata presso il reparto di psichiatria dell’ospedale Sandro Pertini, sottoposta a Trattamento sanitario obbligatorio. Oggi sarà interrogata dal Gip per la convalida dell’arresto. Difesa dall’avvocato Andrea Palmiero, è accusata di duplice omicidio ma ieri è stata ritenuta dal giudice in condizioni mentali tali da non poter neppure decidere sull’espianto degli organi del bambino più grande, Divine, deceduto all’ospedale Bambin Gesù ventiquattr’ore dopo sua sorella Faith, morta sul colpo. Il padre dei due bimbi, il nigeriano Ehis E., è stato infine rintracciato dopo due giorni di ricerca da parte dell’Interpol e dei carabinieri: si trova in carcere in Germania. Intanto si levano altre voci contro i provvedimenti ad effetto di Bonafede adottati dal Dap. Magistratura democratica auspica che in questo modo non si voglia attaccare “un modello di carcere che costituisce un’eccellenza nel panorama penitenziario italiano”, e che attraverso una semplicistica “identificazione” dei “colpevoli”, “si rinvii invece il confronto con i problemi reali”. E il Pd, dimenticando forse di essere il principale responsabile dell’affossamento - durante la scorsa legislatura - della riforma carceraria targata Orlando che affrontava anche il nodo delle detenute madri, chiede ora al governo di ritirare “il decreto legislativo sull’ordinamento penitenziario perché privo di importanti norme sul diritto all’affettività, sulle misure alternative, sulla sanità penitenziaria”. E di agire “in modo serio, responsabile, senza cedere ai richiami della propaganda”. Nelle celle-nido carenze per chi ha problemi psichiatrici di Roberta Benvenuto Il Fatto Quotidiano, 21 settembre 2018 Nei reparti speciali i figli vivono con le madri che stanno scontando la pena. In uno di questi, a Rebibbia, una straniera ha ucciso i suoi due bambini scaraventandoli dalle scale. Ma secondo il Garante dei detenuti e l’associazione Antigone le “celle-nido” dovrebbero essere “l’ultima soluzione”. Prima ce ne sono altre. Ma tra coperture finanziarie e carenza di strutture si stenta ad applicare la legge. “Dalla carenza di strutture di case famiglia protette”, che esistono ma in numero limitatissimo quando dovrebbero essere “la soluzione prioritaria”, alle comunità locali che “spesso non gradiscono le presenze delle detenute madri nel loro territorio”. E c’è anche la difficoltà di seguire “una legge - quella del 2011 che regola e tutela il rapporto tra madri detenute e figli e prevede anche gli Istituti di custodia attenuata - che ha ormai sette anni e che stenta ad essere applicata nei suoi aspetti più significativi”. Tanto che si ricorre alle “celle nido”, reparti speciali all’interno delle carceri dove i bambini - di fatto “detenuti” - possono vivere con la madre. In un luogo come questo alle 12 del 18 settembre una donna di origine tedesca di 31 anni, detenuta a Rebibbia per traffico di sostanze stupefacenti, ha scaraventato i suoi due figli dalla tromba delle scale della sezione nido. La bambina di pochi mesi è morta sul colpo, mentre il bimbo di poco più di due anni è stato dichiarato clinicamente morto all’ospedale Bambino Gesù. “Adesso sono liberi”, ha detto la donna al suo avvocato. Quella delle sezioni nido “dovrebbe essere l’ultima soluzione a cui ricorrere per le madri e i loro bambini”, spiega Maurizio Palma, Garante nazionale dei detenuti a ilfattoquotidiano.it. Se secondo l’ordinamento penitenziario del 1975 le donne che manifestano tale volontà, possono portare con sé in carcere i figli fino al terzo anno di vita, questa soluzione, a detta degli operatori del settore, non è la migliore. “La prima è quella delle Case famiglia protette - previste dalla legge n. 62/2011 - ma in Italia ne esistono solo due”, una a Milano e una a Roma. In seconda battuta ci sono gli Icam, Istituti a custodia attenuata per detenute madri, “reparti detentivi fuori dalla mura carcerarie. Formalmente luoghi di detenzione ma senza le sbarre”. Solo in ultima istanza si dovrebbe ricorrere alle sezioni nido, luoghi all’interno delle carceri dedicati al nucleo donna-bambino. Bambini in carcere: i numeri - Ma quanti sono i minori che vivono con le madri detenute? Al 31 agosto, secondo gli ultimi dati messi a disposizione dal Ministero della Giustizia, dietro le sbarre con i loro figli ci sono 52 madri con al seguito 62 minori. Poi diventati 60. “Di questi, una trentina sono negli Icam. Degli agli altri 30, solo la metà sono a Rebibbia. La restante parte sono dislocati in diversi istituti italiani”, racconta Palma. Su un totale di 58.163 detenuti presenti nelle carceri italiane, le donne sono 2.402, pari al 4,12% della popolazione carceraria. In Italia gli istituti esclusivamente femminili sono appena 5 (Empoli, Pozzuoli, Roma “Rebibbia”, Trani, Venezia “Giudecca”). Poi esistono tantissime sezioni femminili ospitate in carceri maschili, 52 in tutto. Tra le diverse sezioni nido, quella di Roma, dove sono morti i due fratellini, è la più grande. La “Germana Stefanini” di Rebibbia al 31 agosto 2018 ospitava 16 bambini e 13 madri. Nell’ultimo rapporto Antigone si legge che proprio qui la criticità segnalata è quella della “mancanza di mediatori culturali per straniere, soprattutto per quelle con problemi psichiatrici”. Per Palma “la sezione nido di Rebibbia, paragonata ad altre è avanti anni luce: un luogo in cui c’è attenzione e cura per il nucleo madre-figlio. Ma i problemi di tipo generale si riflettono anche su questo reparto. La scarsità di operatori psichiatrici, di mediatori culturali, di personale penitenziario, è ovunque”. Ma un dato per Rebibbia è certo: se altrove i numeri delle madri sono troppo bassi per aprire un Icam, “nel Lazio questi numeri ci sono”. Oggi in tutta Italia esistono solo 5 Icam: sono Torino “Lorusso e Cutugno” con 7 donne e 10 bambini, Milano “San Vittore”, 4 madri e 4 figli, Venezia “Giudecca” 5 detenute e 6 minori, Lauro, 10 madri per 12 figli e Cagliari dove non ci sono persone. A questi numeri vanno contrapposti gli 8 posti disponibili della casa di Leda di Roma, dei quali sono occupati solo 6. E alle 4 madri accolte dall’associazione C.i.a.o di Milano, su una capienza di 6. Antigone: “Il problema è la mancanza di volontà politica” - Se gli Icam sono una soluzione intermedia, “il carcere dovrebbe essere veramente la soluzione estrema”. Ricordando che “il bisogno e il diritto di un bambino che deve evolvere e sviluppare la sua vita deve essere prevalente anche alle nostre esigenze di punizione rispetto al genitore”, la risposta migliore a tale esigenza è quella delle Case famiglia protette, “una soluzione che impegna anche le comunità locali”, fa notare Palma. E infatti il punto “spesso è politico” sottolinea Susanna Marietti, coordinatrice nazionale dell’associazione Antigone. Il fenomeno dei bambini in carcere “è abbastanza residuale se si guarda ai numeri”. Ci sono solo queste 52 madri, le altre “evidentemente non vogliono che i loro bambini stiano in carcere o che hanno migliori possibilità di crescita all’esterno nella rete familiare”. Al netto del fatto che a volte, invece, interrompere il rapporto madre-figlio, pur dietro le sbarre, è una decisione controproducente, o che le realtà familiari spesso sono peggiori. “Purtroppo - continua Marietti - con questi numeri così bassi, oltre delle cicliche polemiche sullo scandalo dei bambini in carcere, il tema non si pone e finisce sempre su un binario morto. Ci vorrebbe una pura volontà politica e la possibilità di affrontare singolarmente i casi che sono tanto diversi tra loro”. Nella legge del 2011 - che viene dopo la legge “legge 8 marzo” del 2001 in cui si istituiva la detenzione domiciliare speciale - tra le altre cose, si apriva alle Case famiglie protette. Un’esigenza nata dal fatto che spesso le donne con prole erano straniere o senza dimora, ad esempio le Rom, e per queste i domiciliari non erano prevedibili. “Il punto è che invece di dare una copertura finanziaria per questi istituti, si demanda l’onere agli enti locali sia per la costituzione sia per il mantenimento. Ed è per questo che ce ne sono così pochi”, chiarisce Marietti. Insomma, “le leggi ci sono e vanno bene”, ma vengono applicate al ribasso. Senza contare che “le comunità locali spesso non gradiscono le presenze delle detenute madri nel loro territorio, così si antepongono le necessarie esigenze di giustizia a quelle della tutela del bambino”, sottolinea Palma ricordando come per la Casa di Leda di Roma- edificio sequestrato alla mafia - “ci furono delle firme per evitarne la presenza”. Un “equilibrio difficile” tra diritto del bambino, sicurezza della società ed esecuzione della pena per la madre. Insomma, a “guardare i fatti di cronaca risulta difficile assegnare colpe univoche”, avverte Alessio Scandurra coordinatore scientifico dell’osservatorio Antigone, mentre è “troppo facile puntare il dito contro l’istituto penitenziario, quando le cose sono più complesse”. Per il Garante nazionale dei detenuti, la tragedia di Rebibbia richiama a una “responsabilità collettiva”, dove l’opinione pubblica “volge il suo sguardo al carcere solo in occasione di tragedie e non anche ai molti aspetti di cura e tutela che vi si svolgono ogni giorno”. “Certamente - dice Palma in riferimento ai primi provvedimenti presi dal ministro della giustizia che ha sospeso i vertici della sezione femminile - pur astenendomi da giudizi, la responsabilità non è del punto terminale di chi si trova a dirimere tale intrico di conflitti e di problema aperti e che, nel caso della Direzione dell’Istituto femminile di Roma, lo ha sempre fatto con la massima attenzione a tutte le diverse esigenze”. Carcere e bambini: perché quello che si fa non basta di Barbara Massaro Panorama, 21 settembre 2018 “Ora almeno loro sono finalmente liberi”. Lo ha detto Alice S., 33 anni, di nazionalità tedesca, detenuta da agosto presso il carcere di Rebibbia per essere stata colta in flagranza di reato con 14 chili di marijuana. Lo ha detto a proposito della morte dei suoi due figli, un bimbo di meno di due anni e una neonata. A ucciderli è stata lei, la madre Medea di questa tragedia greca drammaticamente contemporanea. La donna, interrogata dagli psichiatri del carcere, con fredda lucidità ha dichiarato: “Sapevo che era in programma l’udienza davanti ai giudici del Riesame che dovevano discutere della mia posizione. I miei figli intanto li ho liberati, adesso sono in Paradiso”. Per questa donna donare la vita è stato meno importante che concedere la morte e piuttosto che trattenere i suoi figli, nati liberi, in prigione ha preferito ucciderli gettandoli dalle scale del nido carcerario in cui vivevano. Per il gravissimo episodio il Ministro per la Giustizia Alfonso Bonafede ha sospeso la direttrice della sezione femminile del penitenziario e la sua vice responsabili di non aver fatto abbastanza per prevedere la tragedia. La donna - si legge in un documento firmato dal capo del Dap, Francesco Basentini e riportato da Ansa “Era stata più volte segnalata per alcuni comportamenti sintomatici di una preoccupante intolleranza nei confronti dei due piccoli” e il personale in servizio presso il carcere aveva segnalato “La necessità di accertamenti anche di tipo psichiatrico”. Ad appurare responsabilità ed eventuali omissioni ci penserà l’inchiesta giudiziaria già avviata, quel che resta alla fine di questa storia è il dramma sempre attuale dei bambini tra gli zero e i tre anni che, pur nati liberi, vivono i propri primi mille giorni da detenuti. I bimbi uccisi dalla madre, meno di due anni in due, dal 28 agosto alloggiavano all’interno del nido di Rebibbia, uno dei 15 asili nido che si trovano nelle sezioni femminili delle carceri italiane. A Rebibbia il nido si trova in una sezione distaccata. Ogni cella ha una culla in legno per i bambini e in reparto ci sono una ludoteca e una piccola cucina. I bambini sono assistiti da pediatri e terapeuti e anche le madri sono sostenute dal supporto psicologico, o per lo meno dovrebbero esserlo, ma comunque sempre di carcere si parla. In Italia al momento dietro le sbarre ci sono 62 bambini figli di 52 madri detenute. La legge prevede che una donna madre di bimbi molto piccoli venga tutelata nel suo diritto a mantenere la genitorialità e per questo in Italia esistono 15 nidi all’interno delle strutture carcerarie. Molto meglio delle ludoteche dietro le sbarre, però, sarebbero di Icam, istituti a custodia attenuata per madri. Il problema è che in tutto il territorio nazionale sono solo 5. Si tratta di luoghi che assomigliano più a una casa che a un carcere (pur essendolo a tutti gli effetti) dove le madri sono sottoposte a una sorta di custodia domiciliare sotto tutela dell’istituzione carceraria. Pur non potendo uscire dagli Icam e pur essendoci sbarre alle finestre e guardie fino a fine pena le madri possono condurre un’esistenza tutto sommato normale e i bambini vivono in maniera meno intensa il trauma del carcere. Il problema è che per gestire questi istituti servono fondi che non ci sono e quindi restano nel ridicolo numero di 5 su territorio nazionale. Ci sarebbe anche l’opzione delle case famiglia protette, ma in questo caso va anche peggio visto che in Italia ce ne sono solo due. Mancano strutture, investimenti e soprattutto volontà politico istituzionale di costruirle. Cosa dice la legge - Va precisato che una madre non ha l’obbligo di portare il figlio in carcere con sé, ma spesso coloro che scelgono questa opzione è perché sono sole al mondo e non saprebbero dove lasciare le proprie creature. Si tratta di un problema non solo logistico, ma anche etico ed educativo a proposito del quale esiste un’ampia giurisprudenza e che coinvolge un intero nucleo famigliare che il carcere avrebbe il compito di rieducare alla vita. Il problema è capire come. L’episodio di Rebibbia pone l’accento, tra l’altro, sul dramma della depressione tra le neo-madri già violenta per donne libere e ancora più drammatica con l’aggravante della prigione. Perché si tratta di donne che hanno problemi con la giustizia penale, ma che non perdono le prerogative genitoriali e lo Stato ha l’obbligo di preservare il diritto del minore a vivere con la propria madre. “Non siamo carcere”: come funziona una casa famiglia per madri detenute di Francesco Floris Redattore Sociale, 21 settembre 2018 Parlano Andrea Tollis e Elisabetta Fontana, i fondatori della prima casa protetta d’Italia nata a Milano. “Rebibbia obbliga a guardare in faccia la realtà. Il reato non è il primo dei problemi, i bambini devono stare fuori dal carcere”. La prima madre accolta nel 2010: “Una corsa al parco con suo figlio dopo tre anni, qualcosa di straordinario”. La descrizione più efficace l’ha data un bambino: “Lavorano in un posto dove vengono persone che hanno fatto cose brutte ma sono lì per fare una vita nuova”. Lui è il figlio più piccolo di Elisabetta Fontana e Andrea Tollis e spiega così alle maestre la professione dei genitori. Loro sono rispettivamente la presidente e il direttore dell’associazione Ciao Onlus, che gestisce la casa-famiglia per madri detenute di Milano, la prima d’Italia, a cui se n’è aggiunta una inaugurata a Roma, e che quest’anno festeggia il suo secondo compleanno in città, dalla firma della Convenzione stipulata nel 2016 con Comune, Provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria, Tribunale di sorveglianza e Tribunale ordinario di Milano. Un lavoro che i due coniugi portano avanti nel campo della detenzione già dal 1995 e dal 2010 sull’accoglienza delle madri detenute, prima del riconoscimento formale. “La prima mamma che abbiamo avuto non era mai uscita in tre anni assieme alla figlia - racconta Elisabetta Fontana -. Una corsa nel parco, un pacchetto di caramelle comprato al negozio, per loro era qualcosa di straordinario e da lì siamo partiti”. L’ultimo piano di una vecchia scuola, tre appartamenti autonomi abitati in condivisione da due mamme e i relativi figli, sullo stesso piano l’ufficio della onlus, una sala giochi e un altro spazio comune. Questi i luoghi che ospitano sei donne e sette bambini ma che dal 2010 hanno visto passare i volti e le storie di 22 madri e 27 minori. Spesso straniere. Ragazze che accedono a istituti alternativi alla pena in carcere, o alla custodia cautelare ai domiciliari in attesa di processo ma che non hanno riferimenti abitativi sul territorio. “L’avvocato, l’educatore, la polizia su indicazione del magistrato di sorveglianza chiama - spiega la presidente - per conoscere la nostra disponibilità e viene fatto il percorso”. Percorsi che sono sempre “lunghi” perché “nessuno viene mandato via al fine pena se non ha una soluzione alternativa, che può essere anche l’espulsione, la scelta di ritornare volontariamente nel proprio Paese, un ricongiungimento con il compagno o c’è chi ottiene la casa popolare”. Sempre e comunque con lo stesso spirito: “Noi non siamo carcere - afferma Fontana - ma l’ultimo passaggio di questa filiera. Alla stregua di una casa privata, ma con tutta una serie di garanzie e sostegni che la casa privata non può offrire, né alla madre né al magistrato”. Per esempio, pochi minuti dopo essere intervistata la donna si reca a prendere a scuola una delle bambine che vivono lì: “Oggi la mamma aveva il permesso di andare a prenderla dalle 16, ma sono andata io perché nella prima settimana di scuola gli orari si fermano alle 14:30”. Per tutto il resto “garantiamo accoglienza abitativa, rifornimento di beni, la regolarizzazione dei documenti, l’accompagnamento socio-educativo, all’essere madre nel rapporto con i figli, l’obbligatorietà dell’accesso scolastico e ai servizi sanitari, attraverso operatori e uno psicoterapeuta”. Non sempre è facile: “Sui percorsi scolastici, laddove non si riesce con l’iscrizione al nido però c’è la necessità, si paga qualcosa in più per far accedere i bimbi ai Centri per la prima infanzia”. “È forse la cosa migliore che ho fatto in questi anni”, ha detto l’avvocato e consigliere comunale di Milano, Alessandro Giungi, che nel 2016 da presidente della sottocommissione carceri sponsorizzò il riconoscimento della casa famiglia dopo un sopralluogo proprio nei locali di via Magliocco. Lo dice in relazione a quanto accaduto nel carcere di Rebibbia, dove una donna in custodia nella sezione “Nido” ha ucciso i suoi due figli, uno di quattro mesi, gettandoli dalle scale. Erano due dei 62 bambini che ancora nell’Italia del 2018 vivono in carcere. Un fatto di cronaca che ha riacceso i riflettori su un tema scottante e ignorato. “I bambini non devo stare in carcere - aggiunge il consigliere -. Le case famiglia protette per madri detenute sono il passaggio ulteriore per dare seguito alla legge 62 del 2011 che parla di superare addirittura gli Icam”. Parla degli Istituti di custodia attenuata per madri detenute istituiti proprio da quella norma mentre si apriva alle case famiglia, seppur in maniera vaga. Gli Icam sono cinque lungo la penisola e il primo fu aperto proprio a Milano nel 2007, spostando all’esterno di San Vittore la sezione nido, per volontà dell’allora direttore del carcere Luigi Pagano. Si trova in un ex struttura della provincia, le operatrici sono pagate dal comune ed è integrato con tutta una serie di servizi circostanti. Ma nonostante gli addetti ai lavori in città lo definiscano “un’eccellenza” rimane carcere, anche se attenuato, con all’interno dei bambini. Perché le case-famiglia sono solo due in tutta Italia e sostenute da donazioni private? “C’è la contraddizione di una legge che apre alla case-famiglia ma non garantisce copertura finanziaria - spiega Andrea Tollis, direttore di Ciao Onlus -. Mentre per gli Icam erano stati stanziati milioni di euro. Noi abbiamo aperto perché già lo facevamo in precedenza”. Si tratta di “una crepa che si vuole sottacere: gli ultimi eventi eclatanti come quello di Rebibbia la mostrano tutta e dispiace perché proprio queste tragedie mettono i ministri davanti alla realtà. I bambini in carcere non possono stare e contemporaneamente hanno diritto a stare con la propria madre”. “Le madri e i bambini - conclude Tollis - sono l’occasione per riflettere sul senso della pena: queste donne hanno spesso disturbi psicologici, bisogna farsi carico di questo aspetto. Il reato non è il principale problema mentre lo sono le situazioni psichiche, le violenze e gli abusi subito in passato. È preminente l’interesse del fanciullo e scontare la pena all’esterno”. Dopo Rebibbia, pensando a Venezia di Carla Forcolin* Ristretti Orizzonti, 21 settembre 2018 Due bimbetti piccolissimi uccisi dalla madre nell’ICam di Rebibbia, una madre che soffrirà finché vivrà, per il suo raptus omicida; una direttrice che paga le conseguenze di un momento di follia di una detenuta di cui poco si può sapere, ma che era in fase post partum ed aveva avuto a che fare con droghe. Ed ora tutti parlano dei bambini che crescono in carcere. Ben prima che la tragedia avvenisse, l’associazione “La gabbianella” aveva deciso di organizzare, nell’ambito della rassegna del Comune di Venezia “Dritti sui diritti”, un convegno sulla necessità di proteggere, con una rete di interventi mirati, i bambini che crescono con le madri nell’Istituto a Custodia Attenuata che si trova presso il Carcere Femminile. Convegno scomodo, perché avviene proprio quando l’Associazione sta per lasciare il suo più che decennale lavoro di cura per questi bimbi. La Gabbianella lascia perché, dopo aver ottenuto, in seguito a faticose riunioni interistituzionali due accordi: un “Protocollo d’intesa” interistituzionale e una Convenzione con Carcere e Ufficio di Esecuzione Penale Esterna, nel 2015, per la cura dei bambini, ha constatato che non li si voleva attuare. Dando le sue dimissioni credeva che sarebbe stato riunito il Tavolo per discutere i problemi emersi, ma invece il Tavolo è stato riunito proprio da chi non voleva applicare gli accordi ed escludendone “La gabbianella” a cui nessuna istituzione ha più parlato. Come se l’acquisizione del consenso “esplicito e sottoscritto della madre” per fare i progetti per il bambino (uno degli elementi del contendere) fosse una pretesa dell’Associazione e non una frase del “Protocollo d’Intesa” e simili. In realtà, per motivi non esplicitati, non si voleva coinvolgere in una progettazione sulla vita dei bambini proprio chi da 15 anni li porta all’asilo nido e alla scuola materna, dai medici specialisti, in spiaggia per tutta l’estate, a spasso nei fine settimana. Nessuno ha fatto presente che il Tavolo, secondo il Protocollo d’Intesa, deve essere convocato dalla Garante e non da altri soggetti, nessuno ha fatto presente che il lavoro fatto non andava buttato alle ortiche ma reso operativo. Così viene trattato il volontariato! Per questo, soprattutto ora in cui il supporto della Gabbianella viene meno, è giunto il momento di chiedersi se non è il caso di preoccuparsi di dare condizioni di vita sopportabili a madri e figli. Non che “dentro” essi siano privati di qualcosa o vivano in brutte celle, vivono anzi, almeno a Venezia, in ambienti belli, ma la pena è invisibile: oltre alla privazione della libertà, è pena per le madri stare insieme ai figli sempre, senza un attimo di respiro, non potendo contare sul padre dei loro figli, sui fratelli, sui nonni, che possano accudirli un momento. Solo le uscite dei bambini e l’asilo permettono alle donne, spesso giovanissime, di lavorare o frequentare la scuola a loro volta. I padri e gli uomini in genere ovviamente non ci sono e questo è causa di sofferenza sia per le donne che per i bambini. Le madri sono nervose, tristi, preoccupate, sempre in attesa di provvedimenti dei magistrati e i bambini ne pagano le conseguenze. Spesso le donne litigano tra di loro, le agenti sono senza divisa ma devono farsi ascoltare e anche questo sminuisce la madri agli occhi dei bambini… i giocattoli sono pochi, perché vengono privatizzati o perché, se tutti i bambini vogliono lo stesso giocattolo, fanno nascere litigi … L’istituto di pena non si chiama così per nulla. E poi, finché i piccoli uscivano a tre anni ancora potevano appropriarsi della loro infanzia, a sei rischiano di pagare il frutto della deprivazione di affetti, stimoli ed esperienze per il resto della vita. Che sciagurata idea quella di pensare che la vicinanza della madre avrebbe risolto tutto! Pare che la soluzione a tutto siano le case-famiglia: io non lo credo affatto. I bambini hanno bisogno di famiglia vera e le madri talora potrebbero scappare dalle case famiglia - talora ottime e spesso disponibili - e tornare a compiere reati. Solo il magistrato può decidere se la pena deve essere scontata in istituti a custodia attenuata, carceri, case famiglia, agli arresti domiciliari, ecc. Di conseguenza ciò che deve fare lo stato è utilizzare tutti i suoi strumenti per fare in modo che i bambini vengano tutelati dovunque si trovino. Negli Icam e nei nidi ad esempio che essi possano godere di uscite regolari e regolari incontri con chi sta fuori ed è da essi amato. Scuola, salute, continuità di affetti, integrazione nel mondo, anche attraverso documenti regolari per gli stranieri, sono le cose di cui i bambini hanno bisogno. Forme di affidamento, anche solo diurno, o solidarietà familiare, con il ritorno dalla madre verso sera, ad esempio, potrebbero conciliare, per i bambini, la famiglia d’origine ed una buona educazione. Le madri non possono che essere contente se i loro figli tornano a sera di buon umore. Io spero che lo si possa capire. *Presidente Associazione “La gabbianella” Imbarazzo M5S e dubbi giuridici, decreti Salvini costretti allo stop di Andrea Fabozzi Il Manifesto, 21 settembre 2018 L’imbarazzo dei 5 Stelle sulla stretta alle richieste di asilo, i dubbi dei tecnici in vista del controllo del Quirinale. Il ministro dell’interno: Incostituzionali? Non credo. Ma non potevo votarmeli da solo. “Incostituzionale? No, ci hanno lavorato seimila uffici… è venuto fuori un bel prodotto”. Salvini non può che mostrarsi tranquillo, ma il percorso dei suoi decreti sicurezza non è in discesa. Che il rinvio del Consiglio dei ministri che doveva approvarli sia tutt’altro che “tecnico” vista l’assenza del presidente del Consiglio e di Di Maio (del resto Conte ieri sera era tornato a Roma) in fondo lo mette in chiaro lo stesso Salvini, quando dice “poteva sembrare che me li votassi da solo, i decreti”. Si rende conto che il via libera del Consiglio dei ministri è solo l’inizio del percorso. Il passaggio al Quirinale, la conversione in parlamento con le probabili modifiche, e infine i ricorsi (ma questi sempre lontani nel tempo) alla Consulta: sono tanti gli ostacoli davanti ai decreti sicurezza e immigrazione. Ma intanto Salvini è interessato più che al tavolo del Consiglio dei ministri alla successiva conferenza stampa, per segnare un altro punto nella gara mediatica con i 5 Stelle. Le ripetute rassicurazioni che non ci sono “tensioni né malumori” sui decreti - prima di Salvini, poi di Conte, mai di fonte grillina - non fanno che confermare i problemi. La cancellazione dei permessi di soggiorno per motivi umanitari, la riduzione da due anni a uno della durata dei permessi “speciali”, le restrizioni sulla cittadinanza, l’aumento esponenziale dei casi in cui la domanda di asilo dev’essere respinta, il limite al gratuito patrocinio, la norma inutilmente crudele in base alla quale i richiedenti asilo non potranno più iscriversi all’anagrafe, sono solo alcune delle misure che molti parlamentari M5S potrebbero avere difficoltà a votare. E magari, prima, il Quirinale a lasciar passare. Così secondo copione, i decreti potranno ugualmente essere annunciati come cosa fatta lunedì prossimo, al termine del Consiglio dei ministri convocato al mattino, ma con quella formula che ne consente la riscrittura integrale: “Salvo intese”. Intanto le riscritture sono già in corso, come ha ammesso lo stesso Conte ieri a Salisburgo: “Fino all’ultimo momento prima della deliberazione i testi possono essere rivisti”. Anche l’Associazione nazionale dei comuni ha fatto pervenire al Viminale le preoccupazioni di tutte le amministrazioni comunali, comprese quelle grilline di Torino e Roma, per un decreto che riporta in auge “l’accoglienza dei migranti in grandi strutture che genera problemi di integrazione”. Se i 5 Stelle hanno cominciato a fare resistenza non è solo per ragioni di merito. I decreti di Salvini arrivano in Consiglio dei ministri dopo che due iniziative di marca grillina, il disegno di legge anticorruzione del ministro Bonafede e il decreto Genova del ministro Toninelli, sono state ostacolate dalla componente leghista. I 5 Stelle renderanno la pariglia, tantopiù che la stretta sull’immigrazione arriva in parlamento proprio nel pieno della sessione di bilancio, quando le tensioni tra alleati sono al massimo e non c’è spazio per approvare più di uno o due provvedimenti diversi dalla finanziaria. Quanto agli aspetti del decreto sull’immigrazione che possono prima o poi finire sotto la lente della Corte costituzionale, c’è solo l’imbarazzo della scelta. Oltre a quelli già citati, ci sono vari esempi di “doppio registro”: solo per i migranti vengono considerate definitive condanne che ancora non lo sono, o viene penalizzato il semplice fatto di essere indagati. E la Costituzione, come ha ricordato appena due giorni fa il presidente della Consulta, “è uno scudo nei confronti dei poteri dello stato che neppure il legislatore può violare”. La “soluzione finale” del Csm sui minori di Nicola Quatrano* Il Fatto Quotidiano, 21 settembre 2018 Il laido personaggio del film di Vittorio De Sica “Il giudizio universale” interpretato da Alberto Sordi, che comprava bambini poveri per conto di famiglie ricche, convinceva le sue vittime dicendo che era nell’interesse dei minori. E anche i generali argentini, che negli anni Settanta si appropriavano dei figli degli oppositori politici ammazzati dal Plan Condor, forse placavano qualche soprassalto di coscienza con la rassicurante idea che, in fondo, i piccoli sarebbero vissuti tra gli agi dovuti alle persone per bene, evitando l’orrido destino di diventare comunisti. E “comunista”, per quei generali, non era un concetto troppo diverso da quello di “mafioso” che ossessiona gli ex consiglieri del Consiglio superiore della magistratura, auto-prorogatisi ad hoc per completare la tournée di propaganda della loro “soluzione finale” al problema della criminalità giovanile. È un topos letterario quello della mamma povera che cede il figlio ad altri, rinuncia alla sua creatura per amore, per offrirle un’alternativa a un altrimenti inesorabile destino di miseria e ignoranza. Funziona sempre, perché suscita inevitabilmente commozione, e anche un moto di ribellione contro una simile ingiustizia estrema. Ma certi amministratori della Giustizia sembrano avere una strana idea di Giustizia. Di fronte alla disperata scelta di alcune mamme di privarsi dei figli, per assicurare loro condizioni di vita e opportunità altrimenti negate, ci si aspetterebbe che il dottor Roberto Di Bella, presidente del Tribunale per i minorenni di Reggio Calabria, chinasse il capo oppresso da tanto dolore, e si ribellasse addirittura a una tale irreparabile ingiustizia. Invece no, sembra piuttosto rallegrarsene e in tutta serenità, dopo averci assicurato che non si tratta di una “deportazione” (qui ci ricorda il “Ceci n’est pas une pipe” di René Magritte sotto l’immagine di una pipa), finisce con l’esaltarla come una “piccola grande rivoluzione” (e qui ci ricorda la rivoluzione di Pol Pot). Continueranno quindi i blitz alle 6 di mattina, i piccoli svegliati dagli uomini in divisa, vestiti in fretta e portati via in lacrime... le grida dei parenti, il terrore... Non ci convinceranno, però, che tutto questo sia “nell’interesse dei minori”, per “aiutarli” a crescere meglio. Puzza piuttosto di “sanzione”. E nemmeno del reato, piuttosto del contesto, della famiglia in cui si è nati, una “sanzione” aggiuntiva per la criminalità della plebe. E se ne colgono gli indizi proprio nelle parole del dottor Di Bella, quando assicura che il suo Tribunale “fa di tutto” per mantenere i rapporti dei bambini con i genitori, ma solo quelli “che manifestano segni di ravvedimento”. Fa meglio il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede quando afferma invece la centralità di “quella primaria agenzia sociale che è la scuola”, e guarda sbigottito ai dati spaventosi sull’abbandono scolastico nel Meridione. Ma non è solo l’abbandono, caro Ministro. Al Sud la scuola ha rinunciato da tempo alla sua funzione. È una scuola che boccia, e boccia proprio i ragazzi che più hanno bisogno di scuola, dimenticando del tutto la lezione di don Milani. Al Sud lo Stato continua ancora e sempre a mostrare soltanto il volto truce dell’esattore delle tasse o dei Carabinieri. Che adesso, in aggiunta, si portano via anche i bambini. *Ex magistrato, oggi avvocato “Basta sconti per i reati puniti con l’ergastolo” di Antonio Pitoni La Notizia, 21 settembre 2018 Porta la firma del Sottosegretario Molteni la proposta di legge che vieta il rito abbreviato con sconti di pena per i reati puniti con l’ergastolo. Un regalo ai peggiori criminali, come racconta la madre di una giovane vittima di mafia. La Lega non fa sconti. Specie quando si tratta di regolare i conti in sospeso tra i criminali e la giustizia. L’ultimo giro di vite, all’esame della commissione Giustizia di Montecitorio, porta l’impronta del sottosegretario agli Interni, Nicola Molteni. Primo firmatario di una proposta di legge che punta a rendere inapplicabile il giudizio abbreviato - e il conseguente sconto di un terzo della pena in caso di condanna - nei procedimenti relativi a tutti i reati punibili con l’ergastolo. Come l’omicidio volontario o la strage. Ma cosa prevede, nel dettaglio, il testo del Carroccio all’esame della commissione Giustizia di Montecitorio? L’obiettivo è quello di riscrivere la disciplina del rito abbreviato introdotta nel 1999 dalla cosiddetta Legge Carotti, dal nome del penalista ed ex deputato della Margherita, Pietro Carotti, autore dell’ultima riforma organica del codice di procedura penale. E a norma della quale, il rito alternativo in questione “può essere chiesto anche per i delitti più gravi puniti con la pena dell’ergastolo”, si legge nella relazione illustrativa della proposta di legge Molteni. Con la conseguenza, prosegue il testo, che, “in virtù di una mera scelta processuale insindacabile dalle altre parti (la richiesta spetta all’imputato, ndr), la pena in genere è automaticamente ridotta di un terzo”. Più in particolare, la pena dell’ergastolo è sostituita, per effetto dello sconto conseguente all’applicazione del rito abbreviato, dalla reclusione di anni trenta. Quella dell’ergastolo con isolamento diurno dal solo ergastolo. Insomma, un trattamento di particolare favore che si giustifica, da un lato, per “esigenze deflative”. Un premio, in altre parole, per aver evitato di appesantire la macchina processuale con un processo ordinario che può durare, in molti casi, anche diversi anni. Dall’altro, compensa, la rinuncia da parte dell’imputato “alla garanzia del vaglio preventivo dell’accusa nell’udienza preliminare” consentendo “l’utilizzazione degli atti investigativi come prova”. Un trattamento, secondo la Lega, inaccettabile quando il procedimento riguarda “reati che, in ragione della loro gravità, il codice penale punisce tanto severamente e che creano un grave allarme sociale nell’opinione pubblica”. Senza contare che, con la disciplina attualmente vigente, “è venuto a sparire qualsiasi limite di natura oggettiva per l’applicabilità di questo rito speciale, definendosi così anticipatamente anche processi aventi ad oggetto imputazioni per reati molto gravi”. Resta in ogni caso ferma la possibilità, chiarisce la relazione, di chiedere il rito abbreviato nei procedimenti per delitti puniti con l’ergastolo, “subordinatamente a una diversa qualificazione dei fatti o all’individuazione di un reato diverso allo stato degli atti”. Qualora cioè, per esempio, l’iniziale reato contestato sia derubricato in un reato meno grave non punito con il carcere a vita. Piccola curiosità. Non è escluso che il testo della Lega possa incontrare il favore del Pd. In commissione Giustizia, infatti, l’esame della proposta Molteni è stato abbinato a quella presentata dalla deputata dem, Alessia Morani, che, di fatto, persegue lo stesso obiettivo: “L’esclusione dell’applicabilità del rito abbreviato, qualora si proceda per delitti, di particolare gravità, per i quali la legge preveda la pena dell’ergastolo”. “Assolti 4 imputati su 10. Troppi” di Alberto Zorzi Corriere del Veneto, 21 settembre 2018 La presidente della Corte d’appello di Venezia, Ines Marini, detta le nuove linee guida sui processi. Nella relazione della presidente di Corte d’Appello Ines Marini si legge che in media vengono assolti quattro imputati su dieci. Troppi. Secondo la Corte, che ne parlerà con le procure, significa che vengono rinviate a giudizio e processati troppi indagati senza basi investigative consistenti. Non c’è solo il problema che un processo penale su due - il 54 per cento due anni fa, il 47 l’anno scorso - si chiude in appello con la prescrizione. Quasi un processo su due, di fronte ai tribunali monocratici del Veneto, finisce con un’assoluzione. “Un tasso molto elevato”, scrive la presidente della Corte d’appello Ines Marini nelle premesse alle linee guida sulla priorità dei processi penali, il nuovo strumento approvato mercoledì dal consiglio giudiziario con l’obiettivo di ottimizzare le risorse del sistema ed evitare sprechi di tempo e forze. “Il pubblico ministero dovrebbe evitare di far approdare a giudizio processi in cui l’ipotesi accusatoria non poggia su solide basi”, continua Marini, che poi chiede anche ai gip di limitare l’uso dell’imputazione coatta, che spesso dà il via a processi dall’esito incerto. “È un dato meritevole di grande attenzione che dovrò affrontare con i procuratori capo del distretto - ammette il procuratore generale Antonio Mura. Cercheremo di capire se dipenda dalla qualità delle indagini, dallo sviluppo dei processi o da altri motivi, per poi intraprendere le azioni conseguenti”. Anche perché va osservato che ovviamente arrivano alla fase dibattimentale soprattutto quei processi controversi, dove l’avvocato ritiene di aver un margine di successo: altrimenti si sceglie il patteggiamento o il rito abbreviato per ridurre la pena. Ma si tratta comunque, stando ai dati dello scorso anno giudiziario, di oltre 15 mila nuovi procedimenti all’anno, mentre solo poche centinaia vanno ai tribunali collegiali. Il fulcro delle nuove linee guida, che aggiornano e “aggravano” quelle già emesse dalla Corte veneta nel 2014, è il rischio prescrizione, appunto. La Corte “invita” (l’atto non è vincolante: “si ritiene assai utile”, è scritto) tutte le varie parti in causa a evitare lo spreco di energie: le procure lasciando andare in prescrizione quei fascicoli per i quali il termine scade nei 12 mesi successivi; i giudici a collocare in ultima fascia di priorità - che significa, di fatto, non trattarli - processi che hanno ancora solo 24 (per il primo grado) o 12 (per l’appello), mesi di vita. Si invita anche a un maggiore uso dell’archiviazione per tenuità del fatto. Sono salvaguardati i reati più gravi, il cui elenco è lungo. Da un lato quelli a cosiddetta “priorità legale” (maltrattamenti, stalking e violenze sessuali, criminalità e terrorismo, infortuni sul lavoro e omicidi stradali, processi con arrestati e detenuti o nei confronti di recidivi), dall’altro alcune fattispecie elencate: per esempio, reati ambientali e urbanistici, corruzione e concussione, colpe mediche, gravi reati tributari o fallimentari, furti o rapine a soggetti “deboli”. Le parti offese saranno sempre salvaguardate, anche perché se anche un reato si prescrive, non decade la decisione sugli effetti civili. In realtà si chiede al giudice di interpretare di volta in volta questi criteri, perché ci possono essere reati prioritari sulla carta i quali però riguardano fatti concreti di poco conto, o viceversa fatti gravi non inquadrati in questi reati. La presidente spiega inoltre che il sistema della Corte d’appello allo stato attuale non può garantire più di 3 mila sentenze l’anno e dunque auspica che l’intero distretto non produca più di 10 mila condanne, visto che sono un terzo, in media, quelle impugnate. “Il problema affrontato dalla presidente Marini non può essere ignorato - commenta ancora Mura - Io ho condiviso queste linee guida perché mi sembrano una saggia interpretazione nel rispetto dei principi costituzionali”. Il tema è ovviamente quello dell’obbligatorietà dell’azione penale, prevista dall’articolo 112 della Costituzione. “Un principio che andrebbe cancellato, perché non si è più in grado di fare tutto - dice Pierantonio Zanettin, deputato di Forza Italia ed ex membro del Csm Ben venga questo tentativo di creare una cultura dell’organizzazione per non disperdere energie”. Mette in guardia però Annamaria Marin, presidente della Camera penale veneziana: “Finché vige quel principio, crea perplessità un sistema per cui certi reati si perseguono e altri no”. “Liberiamo il Csm dalle correnti”. L’appello dei magistrati per il sorteggio di Antonella Mascali Il Fatto Quotidiano, 21 settembre 2018 Durante la campagna elettorale per il rinnovo a luglio del Csm, avevano lanciato l’appello “Liberate il Csm dalle correnti”. Martedì scorso alcuni di quei magistrati, in rappresentanza dei firmatari (diverse decine) sono stati in via Arenula a perorare la causa di una legge che istituisca il sorteggio per eleggere i componenti togati del Consiglio. Hanno incontrato Fulvio Baldi, capo di Gabinetto del ministro Alfonso Bonafede. In realtà avrebbero dovuto parlare anche con il Guardasigilli ma proprio quel giorno è accaduta la tragedia della detenuta a Rebibbia che ha gettato dalle scale i propri figli uccidendoli. Milena Balsamo, Andrea Reale e Carmen Giuffrida, faccia a faccia con Baldi (magistrato di Unicost) hanno premesso che i firmatari sono “assolutamente favorevoli al libero associazionismo”, dunque alle correnti, ma il problema è “l’invadenza lottizzatoria delle stesse e l’influenza che questa ha sulle decisioni adottate dal Csm, nonché il conseguente potere in grado di condizionare i magistrati e vanificarne le garanzia di indipendenza”. Pertanto, l’unico strumento per bloccare il correntismo, a loro avviso, è il “sorteggio secco” dei candidati al Csm. Hanno, però, prospettato una sec onda soluzione qualora il sorteggio risultasse incostituzionale, come hanno sostenuto diversi giuristi: “L’adozione del sorteggio preliminare di un numero multiplo di candidati rispetto al numero dei consiglieri e successiva elezione dei magistrati sorteggiati tra i disponibili e gli eleggibili”. Per i magistrati di “Liberate il Csm dalle correnti” si dovrebbe modificare la legge elettorale per i consiglieri “con un sistema maggioritario uninominale su base territoriale (con collegi geograficamente coincidenti con uno o più distretti di Corti di Appello) tale da permettere l’emersione di candidature indipendenti nel contesto territoriale nel quale esse esercitano funzioni”. Anche la durata degli incarichi direttivi deve cambiare perché favorisce la correntocrazia: da quattro anni, rinnovabili per altri quattro, devono passare a “due-tre”. In questo modo “oltre che diminuire il potere torrentizio nel Csm” ci sarebbe “un coinvolgimento di tutti i magistrati nell’organizzazione del proprio ufficio, nonché l’eliminazione dell’ormai imperversante carrierismo in violazione dell’art. 107 della Costituzione” per cui i magistrati si distinguono fra loro soltanto per diversità di funzioni. Corte di cassazione. Oblio, vince la polizia di Stefano Manzelli Italia Oggi, 21 settembre 2018 Sulla banca dati del Viminale le annotazioni di indagine delle forze di polizia possono essere conservate per un periodo di tempo anche ventennale. La normativa sulla tutela dei dati personali in questo caso deve infatti cedere il passo alle priorità investigative della polizia giudiziaria. Lo ha evidenziato la Corte di cassazione, sez. I civ., con l’ordinanza n. 21362 del 29 agosto 2018. Un professionista è stato sottoposto ad una indagine penale che si è conclusa con l’archiviazione del procedimento. Contro il conseguente rifiuto alla richiesta di cancellazione del suo nome dal ced del ministero dell’interno l’interessato ha proposto censure sia al tribunale che agli ermellini. Ma senza successo. La conservazione dei dati personali sul centro elaborazione dati interforze è stata appena regolata dal dpr 15/2018, ai sensi del codice della privacy. Questo regolamento speciale che si applica ai dati conservati per motivi di indagine ammette una conservazione temporale molto allungata anche delle annotazioni di polizia giudiziaria. Senza applicazione diretta, in questo caso, del nuovo diritto all’oblio introdotto dal regolamento europeo sulla privacy. Campania: violenza inaudita crescere i figli in cella… ma anche rinunciare a farlo di Samuele Ciambriello* Metropolis, 21 settembre 2018 In Campania sono attualmente 376 le donne detenute, non solo in uno dei quattro istituti italiani esclusivamente femminili, quello di Pozzuoli, ma anche nelle sezioni a loro destinate negli altri penitenziari della regione, Santa Maria Capua Vetere, Avellino, Salerno e Benevento. Per le detenute con figli piccoli - fino a sei anni di età - che hanno scelto di non separarsi dai propri bambini, esiste poi a Lauro, in provincia di Avellino, uno dei pochi Icam, gli Istituti a Custodia Attenuata per Madri detenute. Può ospitare fino a 35 persone, ma attualmente vi si trovano dieci detenute con i loro dodici figli. Tra loro, solo due sono straniere, mentre le altre otto sono italiane (quattro) o rom che vivono da molti anni in Italia. Altro dato rilevante, è quello che riguarda i mariti di queste dieci detenuti: tre di essi, a loro volta sono in carcere, e questo ha o ha avuto un peso notevole nella scelta di tenere con sé i propri figli, nonostante la prospettiva di vederli crescere in condizioni di libertà attenuata, se non addirittura tra le mura di una cella. In realtà quelle di Lauro non sono celle, ma ambienti bilocali per ciascuna detenuta e la propria prole, con una zona notte con letto e culla e una con angolo cottura. Certo non una reggia, ma nemmeno le condizioni inumane che spesso si vivono a causa del sovraffollamento delle carceri italiane, con pochi metri quadrati a disposizione per un numero di detenuti che arriva a toccare anche le dieci unità. Alla persona che sbaglia può essere temporaneamente tolto il diritto alla libertà, ma non può in nessun caso essere tolta la dignità. Ci sono alcune situazioni che nel corso della mia attività negli istituti di pena campani ho potuto quasi toccare con mano, e non nego che mi hanno molto colpito. Come quella di una detenuta rom che ha voluto a tutti i costi che il figlio stesse insieme a lei, e oggi si trovano nell’Icam di Lauro: ha preferito non lasciarlo al gruppo di nomadi con cui vivevano a Casoria. In un altro caso, invece, una detenuta di Pozzuoli che aveva appena partorito all’ospedale civile, aveva già deciso di tornare in carcere e di rinunciare anche ad allattare suo figlio, pur di non portarselo tra le mura di una cella. Pochissimi giorni dopo ha ottenuto i domiciliari, ma non tutte hanno avuto o hanno la sua fortuna”. *Garante regionale dei diritti dei detenuti Emilia Romagna: “perché la Regione ha tagliato le cure psichiatriche ai detenuti?” ravennatoday.it, 21 settembre 2018 È quanto chiede il Sottosegretario alla Giustizia Morrone a pochi giorni dalla visita alla Casa circondariale di Ravenna, ritornando su alcune criticità emerse dal confronto con gli addetti ai lavori. “La Regione Emilia-Romagna chiarisca i motivi dei tagli alle cure psichiatriche ai detenuti non residenti”. È quanto chiede il segretario alla giustizia Jacopo Morrone, a pochi giorni dalla visita alla casa circondariale di Ravenna, ritornando su alcune criticità emerse dal confronto con gli addetti ai lavori. “L’auspicio è che l’assessore alle Politiche per la salute della Giunta Bonaccini, Sergio Venturi, chiarisca i motivi per cui sia stato deciso, sembra unilateralmente e senza alcuna concertazione interistituzionale, un taglio lineare delle risorse e delle strutture dedicate al ricovero e all’assistenza psichiatrica dei detenuti non residenti affetti da questi problemi, dando un preavviso brevissimo rispetto alla scadenza del provvedimento previsto per il 31 ottobre prossimo. La Regione avrebbe quindi deciso di ridurre le risorse destinate ai detenuti che sono ricoverati nelle articolazioni di tutela della salute mentale annesse alla casa circondariale di Reggio Emilia, con una drastica riduzione dei posti da 50 a 25, che sarebbero destinati ai soli detenuti residenti in regione. Per i restanti detenuti già ricoverati, la Giunta prevede un trasferimento nelle regioni di provenienza anche se prive di strutture adeguate. Una decisione, questa, che non solo contravverrebbe al principio costituzionale del diritto alla salute, ma anche al fatto che questi ricoveri sono effettuati per disposizione dell’autorità giudiziaria. Vorremmo quindi capire cosa succederà dal primo di novembre, visto che, di fatto, si dovrebbero interrompere i percorsi di cura già in atto dei detenuti non residenti. Attiverò quindi i miei uffici perché interpellino la Regione in modo da avere risposte certe e esaustive su questo tema che potrebbe avere ripercussioni gravi sull’organizzazione carceraria regionale”. La replica dell’assessore Venturi - “La cosa è molto semplice, e il sottosegretario Morrone dovrebbe saperlo bene: la legge prevede che le persone detenute con disturbi mentali debbano essere prese in carico dalle strutture preposte nelle regioni di residenza. Per solidarietà istituzionale, abbiamo accettato per alcuni anni di farci carico anche di chi non risiedeva in Emilia-Romagna. Ora pensiamo che sia giunto il momento che la legge venga rispettata, tutto qua”. Così replica l’assessore alla Salute della Regione Emilia-Romagna, Sergio Venturi, alle accuse lanciate dal sottosegretario alla Giustizia Jacopo Morrone. “La Regione Emilia-Romagna - che finora ha garantito un’offerta di 50 posti a fronte di soli 17 ricoverati residenti in Emilia-Romagna - secondo Morrone starebbe creando problemi al sistema giustizia - prosegue Venturi. Non che ci aspettassimo ringraziamenti da parte del Governo per esserci fatti carico di un problema di altri per anni, ma l’uscita del sottosegretario è un po’ fuori luogo. Tra l’altro, lo scorso mese di agosto abbiamo scritto al Ministero per informarli che, semplicemente, abbiamo deciso di applicare la norma nella sua interezza. Detto che siamo come sempre pronti a collaborare, mi chiedo: dov’è l’errore?”. Salerno: nel carcere di Fuorni cinque detenuti morti in cinque mesi puntoagronews.it, 21 settembre 2018 Parole dure del Radicale Donato Salzano dopo l’ennesima violenza che si è consumata nella Casa circondariale di Salerno. “Il carcere dev’essere per legge l’estrema ratio, invece si utilizza spesso come strumento d’indagine. A Fuorni prevale la violenza sia da parte dei detenuti che di chi ci lavora, è ormai una costante. Il carcere è ormai lo specchio dei tribunali italiani, in modo particolare della procura della Repubblica di Salerno”. Donato Salzano si è espresso sulla vicenda senza peli sulla lingua: “Non ho letto le carte ma conosco gli ambienti. Mi spiace, sono vicino alla famiglia per quanto accaduto. C’è necessità che queste cose non accadano una volta per sempre. Dal punto di vista legale consiglio ai familiari di rivolgersi agli organi sovranazionali”. Secondo l’esponente radicale il problema principale è il sovraffollamento, dato soprattutto dall’alto numero di detenuti in attesa di giudizio: “Una persona dovrebbe essere giudicata a piede libero, a meno che non se ne dimostri la pericolosità. A Fuorni parliamo di numeri altissimi di detenuti in attesa di giudizio: su circa 500 siamo ben oltre il 50%”. Numeri che scandalizzano Salzano. “Significa che dello strumento di custodia cautelare in carcere se ne fa un uso spropositato. Se abbiamo la percentuale più alta dei tempi dei processi in sede di consiglio d’Europa è chiaro che le nostre carceri sono dei lager”. La definizione è stata data dagli stessi organi sovranazionali. “Devo constatare che a Fuorni la violenza prevale sempre più spesso. Chi è responsabile di questo guarda e passa. Quanto parlo di responsabilità, davanti a certi fatti di cronaca, non parlo soltanto di chi lavora a Fuorni ma anche di chi emette ordinanze di custodia cautelare senza criterio”. Salzano chiama in causa il procuratore pro tempore Luca Masini: “Parliamo di un carcere che negli ultimi 5 mesi ha prodotto 5 morti. Stiamo ancora aspettando che la Procura ci indichi i responsabili. Il procuratore della Repubblica ci metta a conoscenza sullo stato delle indagini a beneficio dei familiari. I responsabili dell’esecuzione penale ci diano notizie in merito a queste morti”. Teramo: carcere di Castrogno, sezione per madri detenute a rischio chiusura di Diana Pompetti Il Centro, 21 settembre 2018 “Vorrebbero farci delle nuove celle, un paradosso dopo la tragedia che è accaduta a Roma”. Succede in questo Paese sempre più saturo di paradossi. Succede che in un carcere romano una mamma detenuta lanci dalle scale i due figli piccoli uccidendoli e che in quello teramano rischi di chiudere la sezione all’avanguardia per madri detenute, quella senza sbarre alle finestre e con i cartoni animati. L’ex caserma vigilatrici, recuperata, trasformata e inaugurata nel 2015 con un progetto fortemente voluto dal direttore Stefano Liberatore e sostenuto dal mondo del volontariato: quattro camere da letto per mamme e figli, una sala giochi, una cucina. Tutto quello che serve, anche se vivi in un carcere, per respirare aria di casa. È quella che la legge chiama una sezione a custodia attenuata femminile (una delle poche in Italia) e che ora rischia di essere cancellata. A lanciare l’allarme è il Sappe provinciale che, proprio partendo dalla drammatica cronaca dei recenti fatti romani, denuncia il rischio. Dice il segretario provinciale Giuseppe Pallini: “A Teramo abbiamo una struttura all’avanguardia creata a suo tempo proprio per ospitare mamme detenute con i figli in un ambiente il più possibile familiare ma che in questi anni ha visto arrivare solo tre detenute. Ora abbiamo saputo che il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria avrebbe intenzione di chiudere questa struttura per ricavarne altre celle di sicurezza per detenuti. Se pensiamo a quello che è successo nel carcere di Rebibbia, allora è veramente paradossale quello che potrebbe accadere nel carcere teramano”. Perché se la Carta Onu sui diritti del fanciullo stabilisce “che il bambino ha il diritto di intrattenere regolarmente rapporti personali e diretti con i genitori detenuti” il carcere resta un luogo chiuso dove il tempo è sospeso e spesso non esiste più, dove sconosciuti dividono ore e spazio in balia del panico, del vuoto, della rabbia propria e altrui. E quando infanzia e sbarre s’intersecano tutto diventa più difficile. Eppure anche in quest’Italia condannata dalla Corte Europea “per il trattamento inumano e degradante dei detenuti” si possono fare percorsi diversi. Come tre anni fa è successo a Teramo, in uno dei penitenziari più sovraffollati d’Abruzzo. “Ci auguriamo che il rischio non diventi una certezza”, conclude Pallini, “perché sarebbe veramente l’ennesimo paradosso per le strutture carcerarie italiane. È assurdo che una struttura così all’avanguardia, tra l’altro una delle poche esistenti n Italia, venga cancellata per far posto a nuove celle per i reclusi. Sarebbe veramente un tornare indietro”. Torino: il pane prodotto dai detenuti verrà venduto nel bar del Palagiustizia di Emanuele Granelli La Stampa, 21 settembre 2018 “Farina nel Sacco” cambia casa. A metà ottobre la panetteria aprirà presso la caffetteria del tribunale, chiusa da due anni per varie vicende giudiziarie. “E non finisce qui”. La scritta sulla torta con panna, cioccolato e pan di spagna spicca tra i filoni e le focacce di “Farina nel Sacco”, la panetteria legata con un filo invisibile e indissolubile alla Casa Circondariale Lorusso e Cutugno. Dopo quattro anni, il panificio “alimentato” dai detenuti delle Vallette si trasferisce da via San Secondo, a due passi dalla stazione Porta Nuova, alla caffetteria del Palagiustizia. “Un po’ mi spiace lasciare questo posto - ammette la responsabile Emilia Luisolo, nascondendo solo per un attimo il suo sorriso genuino - ma continueremo a rimanere in zona con alcuni punti di rivendita. In tanti si sono affezionati a noi”. Una signora, entrando al negozio, chiede “Ma allora è proprio l’ultimo giorno?!”, quasi augurandosi di ottenere una risposta negativa. “Le persone che vengono qui rispecchiano l’anima sociale del negozio - spiega Emilia - qui gira solo gente simpatica”. Il trasloco al Palagiustizia ha un forte valore simbolico, proprio nel bar del tribunale chiuso da due anni per le vicende giudiziarie che portarono all’arresto di sette persone accusate di corruzione e turbativa d’asta. “Abbiamo vinto il bando quest’estate, ma riusciremo ad aprire solo per metà ottobre - chiarisce ancora Emilia - lo spazio sarà più piccolo, lo spirito sarà quello di sempre”. Lo stesso spirito che accompagnerà la “festa svuota tutto” di oggi (fino alle 19), con sconti sui prodotti fino al 30%. Da anni “Farina nel Sacco”, gestito dalla cooperativa Liberamensa, si impegna nelle carceri torinesi per il reinserimento sociale dei detenuti: affiancati da panettieri professionisti, sono regolarmente assunti con contratti di apprendistato e vengono inseriti in un percorso di formazione professionale finalizzato a garantire uno sbocco occupazionale. “Spero che in tanti vogliano continuare a lavorare con noi - si augura Emilia - anche una volta scontata la pena in carcere”. Non finisce lì. Roma: 17 biblioteche carcerarie, con 50mila libri e 1.500 prestiti al mese di Chiara Ludovisi Redattore Sociale, 21 settembre 2018 Secondo Antigone, su 89 istituti penitenziari visitati in tutta Italia, solo 2 non hanno uno spazio adibito a biblioteca. La Capitale è pioniera in questa esperienza. Oltre 30 persone l’anno inserite nel circuito delle Biblioteche del comune di Roma per l’esecuzione penale esterna. Diciassette biblioteche (di reparto e di sezione) nei 5 plessi penitenziari (Regina Coeli, Rebibbia nuovo complesso. Rebibbia Casa di reclusione, Rebibbia femminile, Rebibbia Terza casa), un patrimonio complessivo di quasi 50mila libri, oltre 1.500 prestiti al mese: sono i numeri delle biblioteche carcerarie a Roma, una realtà pulsante e “di importanza fondamentale”, come è stato più volte rimarcato questa mattina, durante l’incontro “Biblioteche in carcere: una riflessione tra esperienza e futuro”, promosso da Biblioteche di Roma e Aib, nell’ambito delle iniziative del “Biblio Pride”. Roma è pioniera, in questo campo: era il 1999 quando fu siglata la Convenzione tra il comune di Roma e il dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, finalizzato proprio a rendere organica e ampliare, rafforzandola, un’esperienza partita già alcuni anni prima, all’interno del carcere di Rebibbia. “Era il 1990, quando due operatrici bibliotecarie offrirono la propria disponibilità a lavorare all’interno del penitenziario - ha ricordato Cinzia Calandrino, provveditora dell’Amministrazione penitenziaria per Lazio, Abruzzo e Molise - Iniziò così un’esperienza che, con la nascita di Biblioteche di Roma nel 1996 e la firma della Convenzione nel 1999, ha riconosciuto e formalizzato l’importanza fondamentale delle biblioteche all’interno degli istituti penitenziari, come antidoto all’appiattimento e occasione di apertura e di piena libertà nella scelta, ma anche come eventuale attività lavorativa, sia all’interno che all’esterno del carcere”. Attualmente, infatti, oltre 30 persone l’anno vengono inserite nel circuito delle Biblioteche del comune di Roma per l’esecuzione penale esterna. Proprio sulla traccia della Convezione siglata tra Campidoglio e Dap si è arrivati, nel 2013, al Protocollo d’intesa nazionale, che ha portato alla crescita - quantitativa ma anche qualitativa - delle biblioteche penitenziarie in tutta Italia. “Secondo i dati forniti dall’associazione Antigone, su 89 istituti visitati, solo 2 non hanno uno spazio adibito a biblioteca - ha riferito Francesca Cadeddu, dell’Associazione italiana biblioteche (Comitato esecutivo nazionale - referente Gruppod i studio sulle biblioteche carcerarie) - Mancano però, purtroppo, dati sul funzionamento delle biblioteche stesse, che sarebbero fondamentali anche per stimolare e incoraggiare sponsor e quindi finanziamenti, oggi quanto mai necessari. Molte biblioteche penitenziarie sono gestite dal volontariato - ha precisato - mentre poche sono ancora quelle frutto di convenzione tra istituti penitenziari e istituzioni bibliotecarie. Una differenza sostanziale - ha spiegato Cadeddu - perché solo la convenzione permette un servizio qualificato e professionalità del personale”. Un elemento, quest’ultimo, evidenziato anche da Fabio De Grossi, responsabile del Servizio Biblioteche in carcere dell’istituzione Biblioteche di Roma, il quale ha rivolto anche un “pensiero alla tragedia che si è consumata in questi giorni a Rebibbia”. È proprio in contesti così complessi e spesso drammatici, che la qualità dei servizi e la professionalità del personale fanno la differenza. “Numerosi studi hanno dimostrato che tutte le istituzioni totali, il carcere in prima linea, producono deresponsabilizzazione e una sorta di regressione infantile, proprio per lo scarso esercizio della facoltà decisionale. La biblioteca in carcere ha una funzione in questo senso unica, tanto da somigliare alla realtà esterna: qui infatti il detenuto diventa utente e come tale viene trattato dagli operatori. Ed è chiamato a decidere: decidere di entrare in biblioteca, innanzitutto, ma anche decidere quale libro leggere, confrontandosi e consigliandosi con gli operatori e con gli altri detenuti. La biblioteca in carcere è uno spazio libero e adulto, che risponde non solo a un’esigenza di svago, ma anche un bisogno di formazione, come dimostra la frequente richiesta di testi giuridici. È vero che non abbiamo dati sul funzionamento - ha precisato - ma abbiamo un dato significativo sul gradimento: i detenuti a Roma erano, al 31 agosto scorso, 3.188. I prestiti mensili registrati oscillano tra 1.300 e 1.500: una circolazione di volumi che non ha eguali nel sistema bibliotecario comunale. Certamente molto si può ancora fare, per potenziare questo servizio: non solo aumentare gli spazi e il tempo, realizzando anche sale per la lettura, oltre che per la consultazione e il prestito. È poi urgente che in carcere arrivi finalmente internet, tramite un accesso controllato almeno ad alcuni siti, come quello, appunto, del sistema bibliotecario. A tal proposito - ha concluso De Grossi - sollecito l’amministrazione penitenziaria ad approvare il progetto che abbiamo presentato tempo fa e per il quale attendiamo una risposta”. Un piccolo “assaggio” di ciò che la biblioteca rappresenta all’interno del carcere è offerto dal video “Le biblioteche in carcere a Roma”, presentato in occasione dell’incontro e realizzato da Biblioteche di Roma. Qui la parola è data a diversi utenti, oltre che ad alcuni operatori del servizio. “Qui non c’è l’odore della, c’è il profumo dei libri e delle scaffalature in legno. Sembra di stare fuori”, assicura un utente. “Le ragazze si vestono bene per venire in biblioteca - riferisce una detenuta, utente ma anche operatrice all’interno della biblioteca penitenziaria - E arrivano preparate, con appunti e biglietti”. Tra i testi più richiesti, ci sono quelli di Ken Folleth e Wilbur Smith, ma “vanno molto anche le poesie d’amore, che in tanti copiano nelle mail e nei messaggi che inviano a mogli e fidanzate”, da sapere un altro operatore detenuto. “Ci sono detenuti che leggono 5 o 6 ore al giorno - fa sapere un utente. Se leggo, non sto qua”. Perché “siamo rinchiusi - riprende la detenuta che lavora in biblioteca - ma la mente non ce la tiene chiusa nessuno”. Il video si chiude con una poesia, composta da un giovane utente. “Io non sono più le cose che ho fatto e che mi hanno portato qui dentro: sono i mille libri che ho letto. Matricola 1312”. Cremona: incontro per conoscere collaborazione tra carcere e Rete Bibliotecaria Cremona Oggi, 21 settembre 2018 Domenica 23 settembre, alle 10.30, nella Sala Eventi di Spazio Comune, la Rete bibliotecaria cremonese organizza un incontro pubblico dal titolo “Leggere rende liberi. Esperienze di collaborazione tra Rete bibliotecaria cremonese, Casa Circondariale e C.P.I.A. (Centro provinciale per l’istruzione degli adulti)”. “Le grandi potenzialità - sottolineano gli organizzatori - che esprime la virtuosa collaborazione con le due biblioteche della Casa Circondariale di Cremona (progetto avviato a febbraio 2018 con la stipula del Protocollo di intesa tra Comune di Cremona - capofila della Rete bibliotecaria cremonese - la Casa Circondariale di Cremona e il Centro provinciale per l’istruzione degli adulti di Cremona)” verranno approfondite durante l’incontro da Elisabetta Nava (Presidente della Rete bibliotecaria cremonese), Giuseppe Novelli (Responsabile degli educatori presso la Casa Circondariale di Cremona) ed Elena Blasi (Docente del Centro Provinciale per l’istruzione degli adulti di Cremona). Grazie a questo accordo i detenuti hanno l’accesso “a migliaia di libri e documenti accrescendo le possibilità di formazione e di educazione all’interno del carcere”. L’obiettivo del Protocollo, fanno sapere dal Comune, è l’estensione dei servizi di catalogazione e di prestito inter-bibliotecario, “fiore all’occhiello della Rete bibliotecaria cremonese” (in collaborazione con la Rete bibliotecaria bresciana), alle due biblioteche presenti in carcere a beneficio dei detenuti e del personale che opera nella struttura. L’incontro, inserito nelle iniziative della Festa del Volontariato, è un’occasione “per conoscere come le due biblioteche della Casa Circondariale di Cremona sono diventate un centro informativo e di supporto all’apprendimento della comunità penitenziaria, garantendo ai propri utenti un accesso ampio e qualificato alla conoscenza, all’informazione e alla cultura”. “Marcello Ghiringhelli. La mia cattiva strada, memorie di un rapinatore” recensione di Bruna Miorelli radiopopolare.it, 21 settembre 2018 “La mia cattiva strada. Memorie di un rapinatore”, a cura di Davide Ferrario e Marilena Moretti. Le Milieu Edizioni, 229 pagine. Cominciamo a rovescio, dalla frase che conclude il libro: “vengo scarcerato il 25 aprile del 1981. Venti giorni dopo entro nelle Brigate Rosse come rivoluzionario a tempo pieno… Ma questa è un’altra storia”. Che, incuriositi, si vorrebbe leggere presto, viene da dire. Qui, in queste memorie, abbiamo la vita precedente di Marcello Ghiringhelli, ciò che lo porterà comunque in carcere: da ragazzino ribelle a rapinatore, nome conosciuto, temuto, apprezzato nel mondo della malavita italiana e francese. Anche prima della sua svolta politica si avverte in lui un sottofondo di consapevolezza sociale, quella di appartenere alla categoria dei molti maltrattati dalla vita, operai integerrimi e gente che si arrabatta per tirare avanti. O come lui, legionario per un colpo di testa giovanile, poi fuorilegge, piccolo imprenditore, detenuto, rivoluzionario di professione. Un sottoproletario, di fatto, con lunghi anni trascorsi nel lusso però. E molti di più tra le sbarre. Il padre operaio alla Fiat, la madre a servizio nelle case dei signori, a suo tempo attivi entrambi nella Resistenza, non possono capire quello scavezzacollo. In particolare è la madre ad avercela con Marcello, anche perché gli altri figli non hanno tutti quei grilli per la testa. O almeno questa è la sua impressione. Ma il tempo dirà chi è il più generoso tra tutti quanti. Ormai vecchia e relegata in ricovero, dimenticata dalla prole perbene che lì dentro l’ha cacciata, sarà quel bandito che entra ed esce di galera a pensare a lei, riportandola in un appartamento e fornendole di che mantenersi. Niente male, peraltro. Come nessun film è in grado di fare, Memorie di un rapinatore dà l’opportunità di entrare nell’esistenza avventurosa e drammatica di un fuorilegge. Nelle oltre duecento pagine troviamo nei dettagli i colpi fulminei compiuti da solo, oppure assieme a complici che devono garantire intelligenza, freddezza durante l’azione, ed etica di gruppo, dato che stanno mettendo in gioco non soltanto la propria libertà ma la pelle stessa. Prima, c’è da studiare a fondo la situazione, la suspence fa parte del gioco ma quando si agisce bisogna essere padroni di sé, per questo anche chi ama le buone bevute, non deve toccare una goccia d’alcol nella settimana che precede il colpo. Durante, è una botta d’adrenalina. Dopo, quando ti ritrovi con il malloppo conquistato, senza un graffio tu e i tuoi complici, il riposo nei migliori alberghi, ebbene, per Ghiringhelli è qualcosa di esaltante. Piacere puro. Dovuto all’estrema tensione di ogni atomo di corpo e cervello durante l’azione, e dal relax che segue quando ancora l’adrenalina circola nelle vene per un bel po’. In fondo è questo a ricondurlo ogni volta alla sfida, non soltanto il bisogno di soldi. E in affetti le rapine vengono fatte anche quando in banca, in un conto corrente a suo nome, giace una notevole quantità di bei bigliettoni. Vuoi mettere del resto la soddisfazione di arraffare ciò che ti sarebbe stato negato per sempre: champagne, auto potenti, abiti firmati? Il poi il gusto di lasciar cadere gocce di quell’oro sulla tua donna, su tua madre, su tua figlia. Il gioco si era fatto precocemente duro per Ghiringhelli, quando ragazzino, barando sull’età, aveva avuto l’avventatezza di arruolarsi nella Legione Straniera. E lì sperimenta d’un colpo l’abiezione della guerra, dell’assassinio gratuito. In Algeria con gli altri commilitoni partecipa al massacro della popolazione locale, contadini, donne, intere famiglie. Qualcosa lo ferma: farsi disumani a tal punto diventa per lui inaccettabile. Decide di scappare, benché sappia che i legionari disertori non abbiano futuro alcuno. Non c’è che la morte per loro, è notorio, la Legione non perdona. Quella strana fuga viene però notata dai ribelli algerini in armi contro i francesi nella loro lotta di liberazione, che lo catturano. Se dapprima non gli danno credito e lo sottopongano a infiniti interrogatori, alla fine intendono quel tipo di rifiuto e gli offrono la possibilità di salvare la pelle con un passaporto falso, destinazione Parigi. Raggiunta la meta, il fuggiasco, ragazzotto di scarsa cultura, trova accoglienza nel salotto intellettuale di Sartre, De Beauvoir e i loro amici, affamati come sono di notizie sulla guerra d’Algeria che li vede dalla parte degli insorti. A Parigi comincia la sua prima storia d’amore con una giovane prostituta, la più importante anche se breve e tragica. Altre ne seguiranno, a dire come le sue donne e in seguito la figlia restino un punto nevralgico per il rapinatore, quello che può dare la felicità o toglierla. Certo, la famigliola serena non fa per lui. E quelle donne ne pagheranno il conto. Al di qua e al di là del confine francese dove opera, nitido il disegno dell’ambiente malavitoso: le case, i personaggi affidabili, quelli da evitare, le regole vigenti. La serie memorabile dei colpi assume a volte il sapore della leggenda, seppure la galera sia un incidente di percorso inevitabile. Mai ammettere, negare sempre, e questo per qualche decennio gli risparmia detenzioni oltremodo lunghe. Ma non mancano i pestaggi degli agenti, le rivolte in carcere, le fughe rocambolesche. Celle di rigore per periodi tanto prolungati da annichilire chiunque; botte che ti possono portare al creatore, da cui Ghiringhelli una volta si salva per un pelo grazie a un infermiere detenuto che con le sue cure lo riporta in vita; la tubercolosi dovuta alle secchiate d’acqua gelida tre volte al giorno. Lui, al tempo, non è sorpreso dai maltrattamenti, né si appella alla legge che li vieta: la prigione è quella cosa lì, punto. A evitare che il memoir possa ridursi a una noiosa sequela di rapine, a un fuori e dentro le prigioni, è la bellezza della lingua, fatta di diverse parlate popolari - il dialetto del Nord, Torino e Piemonte in particolare, come pure delle zone francesi da lui frequentate - e del gergo della malavita di allora, ormai sparito o trasformato è più che probabile. E merito pure del ritmo e dell’asciuttezza del racconto su un antieroe come lui, tosto, sveglio, che tra le sbarre cerca di stringere i denti mentre sta ideando l’ennesima fuga. Testimonianza, ma anche materiale storico di prima mano per ricostruire un’epoca e le sue lacerazioni. La mia cattiva strada non costituisce l’esordio dello scrittore nato in galera, preceduto com’è da alcuni racconti dal carcere e dal noir L’altra faccia della luna. Un autore più alla mano, meno crudele del geniale e provocatorio Jean Genet nel suo Diario del ladro, riferimento inevitabile. Ma seppur lontano dal grande letterato, la sua narrazione vive comunque di vita propria e possiede il sapore dell’autentico. Non sappiamo se a quest’ultimo lavoro seguirà la storia della sua militanza nelle Brigate Rosse, di come un rapinatore di professione si trasforma in un rivoluzionario di professione. Possibile che alcuni reati ancora in essere e la ricaduta di certe informazioni politiche concorrano a impedirglielo. Tuttavia una testimonianza dal di dentro, con una voce come la sua, e da quella particolare angolazione, sarebbe davvero augurabile. Per ora in queste pagine, un solo assaggio narrato tra il serio e il faceto: di quando a un paio di ingenui giovani inesperti di Lotta Continua insegnò a compiere la loro prima rapina di autofinanziamento. Il Papa: “La politica non strumentalizzi la paura” di Luca Kocci Il Manifesto, 21 settembre 2018 Conferenza internazionale sul razzismo promossa dal Vaticano. Contro il “dilagare di nuove forme di xenofobia e razzismo”. Ma anche contro i politici che “strumentalizzano le paure per interessi elettorali” e contro i padroni che “traggono giovamento economico” dallo “sfruttamento” di chi è costretto a vivere nella “irregolarità”. È un discorso severo quello scritto da papa Francesco e distribuito ai partecipanti, ricevuti ieri in Vaticano, al termine della “World conference on xenophobia, racism, and populist nationalism in the context of global migration”, promossa dal Dicastero per il servizio dello sviluppo umano integrale e dal Consiglio mondiale delle Chiese. “Ho scritto un discorso da leggere ma è un po’ lunghetto”, il consueto esordio del Papa quando preferisce parlare a braccio oppure, come ieri, limitarsi a salutare personalmente e a scambiare qualche parola con ciascuno dei duecento intervenuti alla conferenza internazionale che si è svolta all’hotel Ergife di Roma dal 18 al 20 settembre. “Viviamo tempi in cui sembrano riprendere vita e diffondersi sentimenti che a molti parevano superati”, come “sospetto, timore, disprezzo e perfino odio nei confronti di individui o gruppi giudicati diversi in ragione della loro appartenenza etnica, nazionale o religiosa e, in quanto tali, ritenuti non abbastanza degni di partecipare pienamente alla vita della società”, dice Francesco. Da lì il passo è breve perché poi si verifichino “veri e propri atti di intolleranza, discriminazione o esclusione, che ledono gravemente la dignità delle persone coinvolte e i loro diritti fondamentali, incluso il diritto alla vita e all’integrità fisica e morale”. Fra i vari responsabili, il dito è puntato in particolare verso politici e padroni. Accade, aggiunge il papa, “che nel mondo della politica si ceda alla tentazione di strumentalizzare le paure o le oggettive difficoltà di alcuni gruppi e di servirsi di promesse illusorie per miopi interessi elettorali”. Oppure che altri “traggano giovamento economico dal clima di sfiducia nello straniero, in cui l’irregolarità o l’illegalità del soggiorno favorisce e nutre un sistema di precariato e di sfruttamento”, fino a “vere e proprie forme di schiavitù”. Costoro, avverte Francesco - un monito che richiama alla memoria il grido di papa Wojtyla ai mafiosi nella Valle dei templi di Agrigento di 25 anni fa -, “dovrebbero fare un profondo esame di coscienza, nella consapevolezza che un giorno dovranno rendere conto davanti a Dio delle scelte che hanno operato”. Soprattutto i cristiani, per i quali queste “responsabilità morali assumono un significato ancora più profondo alla luce della fede”. Messaggio indirizzato a chi fa politica brandendo Vangeli e rosari, in nome della difesa delle radici cristiane. Fra gli invitati come relatore anche don Massimo Biancalani, il parroco di Vicofaro (Pistoia) che ospita diversi migranti direttamente in chiesa, dopo che Prefettura e sindaco di Fratelli d’Italia hanno chiuso il suo centro di accoglienza per alcune carenze strutturali, e che ha consegnato al papa un appello firmato dai suoi parrocchiani per la riapertura del centro e “restituire la speranza ai rifugiati di Vicofaro”. Il documento finale della Conferenza internazionale parla chiaro: “Razzismo, xenofobia e nazionalismi populisti sono incompatibili con il Vangelo e la fede cristiana”. M5S contro il decreto migranti: “incostituzionale e discriminante” di Ilario Lombardo La Stampa, 21 settembre 2018 Il messaggio arriva fino a Salisburgo. Matteo Salvini ha dato un pizzicotto dei suoi ai 5 Stelle perché gli vogliono mettere un bel bastone tra le ruote ai suoi due decreti, sicurezza e immigrazione. Dallo staff di Giuseppe Conte, alle prese con la riunione dei capi di Stato e di governo dell’Ue, chiedono spiegazioni a Roma. Poi è Conte stesso a chiarire a Salvini che la strada verso l’approvazione non è così lineare: “Tutti i decreti possono essere modificati fino all’ultimo momento” lo gela il presidente del Consiglio. Già mercoledì sera, il leghista in riunione con i suoi collaboratori al Viminale aveva capito che il giorno dopo il testo non sarebbe finito al Consiglio dei ministri, come da lui anticipato in conferenza stampa. “I 5 Stelle fanno storie, vedrete che rinvieremo”. Così è stato. Se ne riparlerà lunedì. Salvini ha provato a girarla diplomaticamente come una “galanteria istituzionale” per aspettare il ritorno del premier impegnato in Austria e del vicepremier Luigi Di Maio, in viaggio in Cina. Ma dietro le dichiarazioni pubbliche, fatte per salvare il quadro idilliaco del governo, bolle tutta l’irritazione del capo del Carroccio. Un nervosismo alimentato anche dalle voci di forti perplessità del Quirinale e che trova sfogo nella firma impressa accanto ai nomi di Silvio Berlusconi e di Giorgia Meloni alla nota in cui si garantisce che il governo nella manovra avrebbe realizzato il programma del centrodestra. Cioè: un vicepremier firma un comunicato con ex alleati oggi all’opposizione per dire che il loro patto vale più del contratto firmato da chi condivide con lui le fatiche del governo. Salvini si muove d’istinto, e mentre c’è chi gli consiglia di pensarci bene prima di fare una mossa del genere che può essere potenzialmente distruttiva, e tira dritto anche a costo di scatenare le ire dei grillini. Che puntualmente arrivano “Una evidente ritorsione” commentano nel M5S alcuni ministri e sottosegretari che per tutto il giorno si messaggiano con Di Maio. Per i 5 Stelle è una ennesima concessione a Berlusconi, in cambio del via libera a Marcello Foa alla presidenza della Rai. Ma è anche e soprattutto una reazione alle resistenze del Movimento verso i due decreti, soprattutto quello sull’immigrazione. Per i 5 Stelle un testo che in diverse parti “è quasi sicuramente incostituzionale”. Gli uffici tecnici del ministero della Giustizia guidati dal grillino Alfonso Bonafede si stanno confrontando con i colleghi del Viminale e prima di lunedì arriveranno diverse limature. Nel frattempo però, alcuni sottosegretari e i due capigruppo di Camera e Senato assieme ad alcuni deputati della commissione Giustizia spulciano punto per punto i quasi 40 capitoli del testo. Un trattamento dei migranti che definiscono, per molte parti, “inaccettabile”. Così com’è, secondo 5 Stelle, il decreto non passerà l’esame né del Colle né tantomeno della Corte Costituzionale, soprattutto se non verranno giustificati i motivi di urgenza e di necessità previsti per questo tipo di provvedimento. Dall’abrogazione del permesso per motivi umanitari, perno del dl immigrazione, alle norme sulla cittadinanza, sono tante le nuove restrizioni di marca salviniana che non piacciono ai 5 Stelle. Ma affondando gli occhi tra gli articoli della legge è un passaggio ad aver scandalizzato i grillini, come una fonte spiega alla Stampa: “Si parla di vietare la cittadinanza a un migrante se ha un parente indagato. Una discriminazione etnica”. Dal Viminale confermano ma spiegano meglio la declinazione della norma: “Viene introdotta la valutazione delle frequentazioni del migrante, compresa la famiglia. Ma già oggi per la concessione della cittadinanza la decisione è altamente discrezionale e coinvolge tutte le relazioni del migrante”. Ora però la discrezionalità si fa legge. Garante detenuti su rimpatri forzati: difetto informazione può configurare violazione diritti Nova, 21 settembre 2018 Il Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale ha reso pubblico il rapporto sul monitoraggio di un volo di rimpatrio forzato verso la Nigeria, effettuato lo scorso 19 gennaio. “Il volo di rimpatrio monitorato in quest’occasione è stato organizzato in collaborazione con l’Agenzia europea Frontex e ha riguardato l’allontanamento di 38 cittadini nigeriani espulsi dall’Italia, cinque dal Belgio e uno dalla Svizzera, Paesi che hanno partecipato all’operazione con proprio personale di scorta - si legge in una nota. Fra le criticità evidenziate nel rapporto sul rimpatrio in questione la più significativa riguarda la mancanza o la non chiarezza di informazioni fornite ai rimpatriandi sulla destinazione effettiva del viaggio in partenza dal Centro di trattenimento. L’azione delle Autorità dello Stato deve essere sempre improntata ai principi di correttezza e buona fede. A questo proposito, il Garante nazionale rileva che uno dei criteri utilizzati dalla Corte europea dei diritti dell’uomo per valutare la legittimità di una misura restrittiva della libertà personale, a prescindere dalla conformità della stessa alla legge nazionale, è proprio la buona fede adottata nell’applicazione della misura, ovvero l’assenza di malafede da parte delle Autorità”. Il Garante nazionale pertanto “rinnova la raccomandazione al ministero dell’Interno, contenuta in diversi rapporti precedenti, di comunicare preventivamente con chiarezza e trasparenza agli interessati la data esatta del rimpatrio, in modo da consentire loro di organizzarsi per il viaggio, raggruppare per tempo i propri effetti personali, avvisare la famiglia e/o l’avvocato per venire a conoscenza di eventuali aggiornamenti riguardanti la propria posizione giuridica”. Il Garante nazionale nota inoltre che “mai, nel corso dei voli di rimpatrio forzato finora monitorati, è stata riscontrata la presenza di un interprete o di un mediatore culturale, capace di interloquire con la persona soggetta a rimpatrio forzato in una lingua a lei comprensibile. L’abbattimento delle barriere linguistiche oltre a costituire il necessario presupposto dell’effettività di tutti i diritti di cui il cittadino straniero è titolare, è altresì fondamentale per la messa in atto di tecniche verbali di descalation indispensabili per smorzare i momenti di tensione evitando l’uso della forza e dei mezzi di contenimento. Fra le ulteriori criticità evidenziate va segnalato il carente coordinamento fra gli attori coinvolti nelle diverse fasi del rimpatrio forzato, carente coordinamento che è stato riscontrato anche nelle precedenti occasioni. Ciò - prosegue la nota - ha avuto come conseguenza più grave il fatto che ai rimpatriandi provenienti dal CPR di Bari non è stata garantita la somministrazione del pasto per più di quindici ore, così che essi sono rimasti senza bevande e cibo (salvo estemporanee donazioni spontanee da parte del personale di scorta) per tutte le lunghe fasi del viaggio notturno in pullman verso Fiumicino e per l’intera mattinata del giorno successivo. Il Garante nazionale, infine, ribadisce la propria forte perplessità, già espressa nel testo della Relazione al Parlamento 2018, sull’opportunità di organizzare voli di rimpatrio forzato verso Paesi, come la Nigeria, che non hanno istituito un meccanismo nazionale di prevenzione della tortura o di altri trattamenti o pene inumani o degradanti, secondo quanto previsto dal Protocollo opzionale alla Convenzione Onu contro la tortura”. Migranti. L’Ue non trova soluzioni, l’Italia guarda e non si fa problemi di Carlo Fusi Il Dubbio, 21 settembre 2018 L’annuncio che anche il vertice di Salisburgo si sia chiuso senza una decisione formale dei 27 Stati dell’Ue sull’immigrazione, non è sorprendente: è disarmante. In più, ha fatto capolino una proposta avanzata a suo tempo da Juncker, da sempre rifiutata dall’Italia e a cui invece, seppur in forma “solo residuale”, il premier Conte ha aperto. La proposta è questa: chi non vuole i migranti in cambio può pagare una specie di sanzione economica e così si mette l’anima in pace. “Sono esseri umani, non tappeti”, ha tuonato il primo ministro lussemburghese Xavier Bettel rispetto all’ipotesi ventilata nella cena di lavoro di mercoledì: “Sono disgustato, è una vergogna”. Insomma quella che resta la mina capace di far definitivamente deflagrazie l’edificio europeo - appunto l’immigrazione - continua a non essere disinnescata. Al contrario, la miccia si consuma senza che nessuno, né i Paesi pro- Ue né tantomeno quelli del blocco di Visegrad con l’aggiunta di Vienna e Roma, mostri di aver voglia di spegnerla. Continuare a chiedersi perché ciò avvenga, rischia di diventare stucchevole. Piuttosto in queste condizioni la parola d’ordine degli anti-sovranisti di costituire uno schieramento che vada “da Macron a Tsipras” in grado di presentarsi alle elezioni europee e competere con chi la pensa all’opposto, minaccia di diventare un autogol, una toppa peggiore del male: non un freno alla spinte disgregatrici bensì un ulteriore alibi al processo disgregativo. Gli “anti, infati, sono quegli altri: è dai “pro” che ci si aspetta una mossa all’altezza della situazione. Che però rimane un’Araba Fenice. La realtà è che gli egoismi nazionali da un lato, in particolare di Germania e Francia, e la paura di perdere consensi a favore dei partiti populisti dall’altro, impediscono di affrontare in modo coraggioso un fenomeno di stampo epocale che solo chi non lo comprende nella sua pienezza e drammaticità può immaginare di governare con intese di piccolo cabotaggio o meccanismi di tipo protezionistico. “Come si risolve il problema dei migranti? Semplice. Non li facciamo più entrare e chi è qui lo rimandiamo a casa”, spiega Viktor Orbàn. È il disinvolto semplicismo di un piccolo Paese come l’Ungheria: il fatto che sia diventato il faro diciamo pure ideologico di uno schieramento politico che nel prossimo maggio può diventare egemone in Europa, è la riprova di quanta cattiva coscienza e ipocrisia incateni le capitali degli Stati più grandi, quelli che l’Europa l’hanno fondata. Del resto sono un po’ tutti gli organismi sovranazionali del vecchio Continente ad essere investiti dalla bufera populista. Se l’Ocse, nel mentre ne abbassa le previsioni di crescita, avverte l’Italia a non modificare la Fornero, il vicepremier Di Maio non trova di meglio che replicare: si faccia i fatti suoi. Idem se la Bce spiega che non è nei suoi compiti finanziare il debito dei singoli Stati: a Francoforte si sono presi poteri impropri, è l’annotazione di importanti esponenti del governo italiano. Forse è necessario guardare in viso, senza infingimenti, il problema. Che è quello per cui i pilastri politici che hanno retto la Ue stanno crollando sotto i colpi di maglio della dissaffezione degli elettori. Per primi ne hanno fatto le spese i partiti socialisti e socialdemocratici, dovunque ridotti ai minimi termini se non addirittura scomparsi. Adesso è la volta del Ppe, che il morbo nazionalista e sovranista ce l’ha in corpo come Alien; e nello stesso modo del film di Ridley Scott non riesce a contrastarlo e finisce per esserne divorato. Il partito di Orbàn, infatti, è affiliato al Ppe e c’è chi sogna di cooptare in qualche modo anche la Lega di Salvini. “Civilizzare i barbari”, è lo slogan. Più probabilmente avverrà il contrario. La Le Pen, Salvini e Orbàn, infatti, non hanno in animo di squassare Bruxelles e raderla al suolo: piuttosto mirano ad impadronirsene per svellere l’asse franco- tedesco e sostituirlo con nuovi equilibri più consoni ai loro obiettivi. Cosa possa diventare l’Europa in quelle mutate condizioni, che ruolo possa svolgere l’assemblamento di “Piccole Patrie” nel confronto-competizione con giganti del calibro di Usa, Russia e soprattutto Cina, nessuno lo sa. Forse nemmeno quelli che stanno picconando il vecchio sistema. Il che rende la questione ancora più inquietante, non certo meno. Droghe sintetiche, secondo decesso in Italia per fentanil di Valentina Avon La Repubblica, 21 settembre 2018 Dopo il primo caso di una morte per ocfentanil e l’allerta rivelata da Repubblica, stavolta una persona ha perso la vita per furanilfentanil. L’overdose fatale il 10 giugno scorso. Le analisi di una sostanza trovata accanto a una donna morta per overdose lo scorso giugno in provincia di Varese hanno rivelato che si trattava di “furanilfentanil”. Dall’Istituto di sanità un’allerta di grado 3. Questa volta è successo in provincia di Varese. Sono infatti i carabinieri di Ternate ad aver trovato e fatto analizzare una polvere che poi si è rivelata un fentanile. Più precisamente, nella bustina c’era furanilfentanil. Era accanto a una persona morta per overdose lo scorso 10 giugno. “Il Reperto contenente furanilfentanil era costituito da 1 bustina in plastica trasparente recante la scritta 1:10 contenente sostanza solido pulviscolare bianca/beige”, recita l’Allerta di grado 3 (il massimo) diffusa oggi dallo Snap, il Sistema nazionale di allerta precoce dell’Istituto superiore di Sanità. Il reperto è stato inviato il 20 luglio al Laboratorio di analisi dei carabinieri di Milano, che non riuscendo a identificare la sostanza si sono poi rivolti ai Ris di Parma. In quei laboratori il furanilfentanil è stato riconosciuto con un’analisi spettrografica. Nelle cronache riportate dal sito Geoverdose, che traccia e geolocalizza in tempo reale le notizie di overdose riportate dai media, si trova un decesso per overdose da sostanza non identificata risalente al 6 giugno nel comune di Tradate. Che sta a una manciata di chilometri da Ternate, il comune riportato dall’allerta dello Snap dove il 10 giugno è stata ritrovata la bustina contenente il furanilfentanil. Come l’ocfentanil, responsabile del caso precedente di decesso per fentanili in Italia, oggetto di un’altra allerta rivelata da Repubblica, il furanilfentanil non è un farmaco e non ha alcuna applicazione in sanità. Nella bustina sono state trovate tracce di altre due sostanze: mannitolo (spesso presente come “taglio” dell’eroina) e furanilide (un funghicida). A differenza del caso precedente, le analisi sono state fatte direttamente sulla sostanza e non su campioni biologici, e i tempi dell’allerta sono stati decisamente più veloci. In Europa ci sono state allerte sul furanilfentanil dal 2015. Nel 2017 la Commissione Europea ha esortato gli Stati membri a sottoporre la sostanza furanilfentanil a misure di controllo, nella relazione che accompagna la decisione si legge che “la sua presenza è stata rilevata in 16 Stati membri. In cinque Stati membri sono stati registrati 23 decessi correlati al furanilfentanil. In almeno altri 10 casi il furanilfentanil è stato la causa del decesso o vi ha probabilmente contribuito”. L’Italia l’ha inserita nella tabella degli stupefacenti lo scorso maggio. Come nel caso precedente, l’Allerta dello Snap riporta in testa la dicitura “vietate la divulgazione e la pubblicazione su web”, ma come allora tra chi riceve le allerte, sanitari e forze di polizia, c’è chi pensa che vadano invece divulgate anche fra chi non fa parte di queste categorie professionali, l’informazione può infatti interessare anche gli stessi consumatori di stupefacenti. Le allerte europee dell’Osservatorio europeo su droghe e dipendenze, e i sistemi nazionali di allerta di altri Paesi, non riportano divieti di pubblicazione. Droghe. In Colombia il piano di riconversione della cocaina non funziona di Daniele Mastrogiacomo La Repubblica, 21 settembre 2018 E la domanda di Usa ed Europa cresce. Sono pochi i contadini che hanno accettato di sradicare le proprie colture a foglie di coca in cambio di indennizzi e incentivi ad altre semine. Gli sforzi del governo colombiano, soprattutto quello scorso di Manuel Santos, non ottengono gli effetti sperati. Il piano colombiano di riconversione (dalla coca) non funziona. Sono pochi i contadini che hanno accettato di sradicare le proprie colture a foglie di coca in cambio di indennizzi e incentivi ad altre semine. Gli sforzi del governo colombiano, soprattutto quello scorso di Manuel Santos, non ottengono gli effetti sperati. La domanda di cocaina negli Stati Uniti d’America e in Europa cresce. E cresce, di conseguenze, come in tutte le leggi di mercato, anche l’offerta. Secondo il Sistema Integrato di Controllo delle Coltivazioni Illecite delle Nazioni Unite (Simci), nel 2017 l’incremento della produzione è stato del 17 per cento, che equivale a 25 mila ettari in più. L’estensione della superficie coltivata a foglie di coca è cresciuta da 146 mila a 171 mila ettari: si tratta delle cifra più alta registrata da quando l’organismo Onu vigila sull’estensione di questo tipo di coltivazioni. “Il 25 per cento della coca prodotta”, rivela il rapporto presentato a Bogotà, “si trova a meno di 20 chilometri dalle frontiere con l’Ecuador e il Venezuela”. Le regioni più interessate alla coltivazione sono quelle del Nariño e Putumayo - confinanti con l’Ecuador - e del Norte de Santander - vicino al Venezuela. Qui si concentra il 60 per cento della coltivazione. La produzione ha raggiunto nel 2017 un nuovo record: 1.379 tonnellate di cocaina. Il nuovo governo di Iván Duque si trova davanti ad una sfida difficilissima. L’Onu sostiene che la Colombia ha bisogno di un sostegno straordinario. Il ministro della Difesa, Guillermo Botero, ammette che “la curva della coltivazione e produzione ha una salita permanente e non rileva segnali di inflessione”. Non nasconde la sua “immensa” preoccupazione. “È un tema ormai di sicurezza nazionale”. Egitto: una prigione a cielo aperto? di Maria Grazia Rutigliano sicurezzainternazionale.luiss.it, 21 settembre 2018 Da dicembre 2017 ad oggi, in Egitto, sono stati documentati gli arresti di almeno 111 persone dovuti all’espressione di opinioni critiche nei confronti del presidente, Abdel Fattah al-Sisi, e della situazione dei diritti umani nel Paese. Fuori e dentro le carceri, le storie degli egiziani raccontano di enormi privazioni. L’organizzazione per i diritti umani, Amnesty International, ha fatto appello alle autorità egiziane per il rilascio delle persone imprigionate per aver pacificamente espresso le loro opinioni e per aver manifestato a favore della destituzione di al-Sisi. In una nuova campagna, lanciata giovedì 20 settembre, chiamata “Egitto, una prigione a cielo aperto per i critici”, Amnesty denuncia le condizioni di vita degli egiziani, che stanno attraversando un periodo di una “gravità senza precedenti”, dovuta ad una repressione governativa estrema della libertà di espressione. “Oggi è più pericoloso criticare il governo in Egitto di quanto lo sia mai stato nella storia recente del Paese”, ha riferito in una dichiarazione Najia Bounaim, direttore delle campagne per il Nord Africa di Amnesty. “Gli egiziani che vivono sotto il presidente al-Sisi sono trattati come criminali semplicemente perché esprimono pacificamente le loro opinioni”, ha aggiunto. Bounaim ha definito i servizi di sicurezza “spietati” nella loro soppressione degli spazi politici, sociali e culturali indipendenti. “Queste misure, più estreme di quanto visto nel repressivo governo trentennale dell’ex presidente Hosni Mubarak, hanno trasformato l’Egitto in una prigione a cielo aperto per i critici”. Non vi è stato alcun commento immediato da parte del governo egiziano sulle dichiarazioni di Amnesty, ma le autorità del Cairo hanno, in passato, spesso respinto le critiche sulla scarsa tutela diritti umani nel Paese, definendole delle fabbricazioni. L’Egitto ha spesso accusato associazioni come Amnesty o Human Rights Watch di essere poco professionali e di essere strumenti nelle mani dei nemici del Paese. L’Egitto, la nazione più popolosa del mondo arabo, con circa 100 milioni di abitanti, ha lanciato una massiccia repressione nei confronti del dissenso durante i cinque anni trascorsi dalla rimozione militare del presidente islamista liberamente eletto, Mohamed Morsi. Da allora, il governo ha arrestato migliaia di suoi sostenitori insieme ad attivisti laici, ha messo i media sotto stretto controllo e ha represso le libertà di espressione e associazione. La situazione che questi detenuti vivono nelle carceri è, a sua volta, drammatica. La storia di Aayah Hossam, o meglio quella dei suoi genitori, è rappresentativa, oltre a non essere l’unica. In un articolo, pubblicato sul Middle East Eye, Aayah racconta di sua madre e suo padre, Ola al-Qaradawi e Hosam Khalaf, arrestati dalle forze di sicurezza egiziane nel giugno 2017. Tenuti quasi immediatamente in isolamento, sono stati imprigionati senza accuse e sono ancora in attesa di processo, da 410 giorni. Aayah riferisce che le condizioni in cui vivono i suoi genitori sono così atroci che lei stessa teme per la vita della madre, detenuta nella prigione femminile egiziana di al-Qanater, per più di un anno. Dentro la sua piccola cella, senza luce, materasso o toilette, ha vissuto isolata e circondata dagli scarafaggi. Rilegata nella “ala punitiva”, che è isolata dalla prigione principale, Aayah racconta che sua madre è stata abusata fisicamente e verbalmente ed è stata costretta a pulire i bagni degli altri detenuti. Inoltre, le guardie carcerarie non le permettono di usare il bagno per più di cinque minuti al giorno. Il semplice stress psicologico, unito a una miriade di problemi di salute, ha reso la situazione pericolosa per lei, secondo quanto le ha confermato il loro avvocato di famiglia. Amnesty International e Human Rights Watch hanno condannato l’orribile trattamento dei detenuti. Amnesty ha recentemente riferito che il trattamento in carcere della madre di Aayah equivale al reato di tortura, secondo gli standard internazionali. Alla donna è negata ogni comunicazione con la famiglia e qualsiasi assistenza medica “dignitosa”, secondo quanto racconta la figlia, che vive a Seattle, negli Stati Uniti. Le viene dato cibo contaminato, che lei ha rifiutato da quando ha iniziato il suo sciopero della fame. Viene abusata fisicamente e tenuta quasi costantemente in isolamento. Aayah, tuttavia, non ha intenzione di arrendersi. Entrambi i genitori sono residenti permanenti negli Stati Uniti, dove lei e suo fratello sono nati. “La mia famiglia ha lavorato duramente per vivere secondo i valori della libertà individuale, della libertà civile e del rispetto. Invoco questi valori quando sostengo il governo degli Stati Uniti, poiché sia mia madre che mio padre continuano a subire le umiliazioni di un sistema che non si preoccupa della libertà individuale”. Aayah spera che la storia della sua famiglia possa essere simile a quella di altre famiglie americane i cui cari erano detenuti in Corea del Nord e in Venezuela. “Se l’amministrazione Trump può ottenere ostaggi da Paesi che si definiscono nostri nemici, perché non dall’Egitto, con il quale gli Stati Uniti hanno una relazione molto più forte?”, si chiede nell’articolo. Aayah fa appello al proprio Paese, gli Stati Uniti, dove è nata e cresciuta, e chiede che questi esercitino la propria influenza politica e diplomatica in favore della garanzia della tutela dei diritti umani. Nonostante questo sia risultato di complessi equilibri geopolitici, Aayah ha studiato bene il caso. “I contribuenti americani hanno donato all’Egitto più di 76 miliardi di dollari in aiuti dal 1948, compresi 1,3 miliardi all’anno in aiuti militari”, si legge nel suo articolo. “Ma ciò che molti non sanno è che, secondo la legge degli Stati Uniti, una grossa fetta di quei soldi arriva ad una condizione: l’Egitto deve dimostrare che sta prendendo provvedimenti per sostenere i diritti umani dei suoi cittadini ed un modo per farlo è liberare i prigionieri politici”, conclude. L’avvocato internazionale per i diritti umani, Jared Genser, ha portato questi tema davanti al Comitato Esteri della Camera dei Rappresentanti degli Stati Uniti, nel mese di luglio, quando ha presentato il caso di Ola al-Qaradawi e Hosam Khala. La visita del vicepresidente, Mike Pence, al Cairo e la sua volontà di sollevare la situazione di questi prigionieri, è stata una svolta per l’Egitto, insieme alla decisione del Senato degli Stati Uniti di sospendere 300 milioni di dollari in aiuti militari, fino a quando il Paese non migliorerà la tutela interna dei diritti umani. Ma la strada è ancora lunga. Infatti, l’Egitto ha recentemente adottato una legge che autorizza la principale agenzia statale di regolamentazione dei media ad utilizzare l’etichetta di “false notizie” per giustificare la chiusura di account social che abbiano oltre 5.000 followers, senza dover ottenere un ordine del tribunale. Un’altra nuova legge consente di bloccare i siti web con contenuti ritenuti una minaccia per la sicurezza nazionale. Tali misure hanno spinto centinaia di attivisti e membri dell’opposizione a lasciare il Paese per evitare la detenzione arbitraria, secondo quanto riferisce Amnesty. Giornalisti, membri dell’opposizione, artisti e persino commentatori sportivi sono stati tutti incarcerati per aver espresso opinioni politiche. “Nonostante queste sfide senza precedenti alla libertà di espressione” riferisce Amnesty, “e nonostante la paura sia diventata parte della vita quotidiana, molti egiziani continuano a sfidare pacificamente queste restrizioni, mettendo a rischio la loro libertà ad ogni passo”. Stati Uniti. Innocente scarcerato dopo 27 anni grazie ai suoi disegni di campi da golf Corriere della Sera, 21 settembre 2018 Valentino Dixon era stato condannato a 38 anni per un omicidio mai commesso. Le sue opere hanno attirato l’attenzione di associazioni di detenuti che han fatto riaprire le indagini. Per la prima cena in famiglia da uomo libero dopo un quarto di secolo, Valentino Dixon, 48enne dello Stato di New York, ha chiesto di mangiare aragosta. Un sogno coronato, dopo la pena ingiusta inflittagli per un omicidio che non aveva commesso. Nel carcere di Attica, New York, Dixon ha trascorso gli ultimi 27 anni, inchiodato a quella condanna: 39 anni dietro le sbarre. I fatti: una festa rumorosa, una notte dell’agosto 1991, a Buffalo; alcol, la rissa per una ragazza, gli spari, un morto. Ma a commettere l’omicidio non era stato il giovane Valentino. Che non smettendo mai di proclamare la propria innocenza aveva iniziato a disegnare, per ammazzare il tempo. L’ispirazione gli era venuta da una foto della dodicesima buca del campo da golf di Augusta National, procurata da una guardia carceraria. Nell’oscurità, nello squallore della sua cella di pietra, Dixon aveva iniziato a riempire di verde e di azzurro dei fogli bianchi; gli alberi, i bunker, i prati pettinati. Disegni ricchi di talento, che hanno attirato l’attenzione delle guardie, che hanno fatto uscire i lavori dalle mura della prigione, facendoli arrivare alla redazione della rivista specializzata Golf Digest. Nuove indagini - La pubblicazione dei disegni gli ha dato notorietà e ha interessato al suo caso diverse associazioni, tra cui il gruppo “Prisons & Justice Initiative” della Georgetown University. I ragazzi che hanno studiato la vicenda sono riusciti a far riaprire il caso e hanno consentito alla verità di emergere. Si è scoperto, innanzitutto, che nelle indagini erano state commesse gravi violazioni: non erano stati ascoltati testimoni che lo scagionavano, ammissioni del vero killer non erano state prese in considerazione, non aveva piegato la decisione dei giurati l’esito negativo di un test di polvere da sparo sulle mani dell’imputato. Fuori dal carcere - Ore di lavoro investigativo, cui hanno contribuito anche Max Adler, giornalista di Golf Digest, e altri giornalisti e che hanno portato alla riapertura delle indagini. Il vero assassino ha poi formalmente confessato. Ieri, Dixon è uscito dal carcere. Deve ringraziare innanzitutto gli studenti che si sono appassionati alla sua vicenda. Marc Howard, docente di giurisprudenza della Georgetown University e direttore della Prisons & Justice Initiative, ha affermato che i suoi studenti “potrebbero non rendersi nemmeno conto di aver salvato la vita di una persona”. Insieme a Howard e alla collega di corso, Marty Tankleff, a sua volta imprigionata ingiustamente per 18 anni, gli studenti hanno condotto indagini su quattro casi di omicidio e hanno nuovi casi allo studio per il prossimo semestre. “Purtroppo, non c’è carenza di casi di condanna ingiusta negli Stati Uniti”, ha detto Howard alla stampa americana. “Questa è un’epidemia - è un vero problema”. Birmania. Critica Suu Kyi su Facebook, condannato a 7 anni di carcere di Monica Ricci Sargentini Corriere della Sera, 21 settembre 2018 Una corte del Myanmar ha condannato un ex editorialista a sette anni di reclusione e gli ha imposto il pagamento di una sanzione pecuniaria sulla base delle norme contro la sedizione in vigore nel paese, per un post su Facebook in cui contestava la leader Aung San Suu Kyi. La condanna di Ngar Min Swe, noto per la sua posizione critica nei confronti della premio nobel per la pace, giunge in un contesto di forte preoccupazione per la libertà di espressione in Birmania, dopo la condanna a pene detentive analoghe di due inviati della Reuters, che indagavano su un episodio delle violenze ai danni della minoranza musulmana rohingya. Min Swe era stato arrestato lo scorso 12 luglio presso la sua abitazione a Hlaing e incriminato sulla base della Sezione 124A del Codice penale birmano. Questo mese l’Ufficio per i diritti umani delle Nazioni Unite ha accusato Myanmar di condurre una “campagna contro i giornalisti”, ed ha puntato l’indice contro “la strumentalizzazione della legge e delle corti da parte del governo e delle Forze armate (birmani) in quella che costituisce a tutti gli effetti una campagna contro il giornalismo indipendente”. Lunedì 17 settembre anche gli Stati Uniti avevano preso posizione contro l’arresto dei due giornalisti, definendolo “profondamente preoccupante” e sollecitando il loro rilascio immediato. Un comunicato dell’ambasciata Usa a Yangon afferma che il caso “solleva gravi preoccupazioni riguardo la supremazia del diritto e l’indipendenza della Giustizia nel Myanmar”.