La Consulta, il viaggio nelle carceri e i diritti da rispettare di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 20 settembre 2018 Il “viaggio nelle carceri” che i giudici costituzionali cominceranno il 4 ottobre prossimo, per stabilire un contatto diretto con le persone recluse e gli operatori che lavorano in quelle strutture, servirà a ribadire che “la Costituzione impone che la detenzione non sia senza regole - rimessa esclusivamente alla discrezionalità dell’Amministrazione penitenziaria - e che le regole, a loro volta, non siano in contrasto con la Costituzione”. Un rispetto dei diritti, oltre che dei doveri, garantito anche a chi è finito dietro le sbarre, perché “la Costituzione e la Corte costituzionale non conoscono muri e non si fermano davanti alle porte del carcere”. Di questo hanno parlato ieri il presidente della Consulta, Giorgio Lattanzi, e il capo dello Stato Sergio Mattarella (giudice costituzionale prima di salire al Quirinale), che ha “pienamente condiviso i contenuti, lo spirito e le finalità di questa “significativa iniziativa” illustratagli da Lattanzi, come informa un comunicato della Corte. Nel quale sono specificati proprio i contenuti e lo spirito che hanno mosso la Consulta a proseguire l’esperienza di apertura verso l’esterno dopo il “viaggio nelle scuole” dello scorso anno, che stavolta partirà dal penitenziario romano di Rebibbia. Ecco allora la sottolineatura, che suona di particolare attualità, che “pur con le limitazioni connaturate alla detenzione”, i principi costituzionali e la Corte stessa “costituiscono una garanzia di legalità per tutti i detenuti, che siano cittadini o stranieri, immigrati regolari o irregolari”. E ancora: “La Costituzione è una “legge suprema”, uno scudo nei confronti dei poteri dello Stato, che neppure il legislatore con le sue mutevoli maggioranze può violare”. Parole pronunciate in occasione del “viaggio nelle carceri”, certo, ma il cui significato si estende a tutte le materie e le questioni su cui la Consulta è chiamata a pronunciarsi. Attraverso un ruolo che il presidente ha voluto rimarcare nell’incontro con Mattarella, esprimendo “la convinzione che sono le Carte e le Corti costituzionali, insieme con i giudici comuni, che ci difendono dai vecchi fantasmi che hanno ripreso ad agitarsi in Europa e a mettere in discussione le regole della democrazia, della libertà e dell’eguaglianza, e i diritti fondamentali che le accompagnano”. Nelle carceri e fuori. La Commissione: “eliminiamo il regime speciale del 4bis per i minori” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 20 settembre 2018 Novità sulla riforma dell’Ordinamento penitenziario. A sorpresa la commissione Giustizia ha proposto al Governo l’eliminazione del 4 bis per i minori. Si ritorna quindi - con qualche leggera modifica - al testo originale elaborato dalle commissioni speciali presiedute dal giurista Glauco Giostra. Una notizia non da poco visto che la reintroduzione del 4 bis è stata fatta non dal governo gialloverde, ma da quello Gentiloni. Si tratta del decreto della riforma dell’ordinamento penitenziario relativo all’esecuzione penale per i condannati minorenni. Ricordiamo che questo decreto fu trasmesso alle Camere il 24 aprile scorso dal Governo Gentiloni. Un decreto che però lo stesso governo precedente aveva cambiato, modificando il testo originale dove si prevedeva per i detenuti minorenni l’esclusione di qualunque sbarramento all’accesso ai benefici. Si prevedeva che le misure alternative potessero essere concesse dal magistrato qualunque fosse il titolo di reato. Invece il Governo precedente ha inserito nuovamente il 4 bis anche nei confronti dei minori. Eppure, come aveva osservato il Garante Mauro Palma attraverso un parere richiesto dalle commissioni, la previsione dell’articolo 4 bis può “essere facilmente letta come contraria alla delega”. Perché? La legge delega, infatti, all’art. 85 prevede che i decreti sulle modifiche all’ordinamento penitenziario debbano essere adottati, per i singoli temi trattati, nel rispetto dei principi e dei criteri direttivi contenuti nella delega del governo. È al punto 5 lettera p) che si indica, in tema di esecuzione della pena nel processo minorile, come principio di riferimento, “l’ampliamento dei criteri per l’accesso alle misure alternative”, con particolare riferimento ai requisiti per l’ammissione dei minori al l’affidamento in prova ai servizi sociali e alla semilibertà. A leggere il decreto in esame alla commissione, al capitolo dedicato all’”Esecuzione esterna e alle misure penali di comunità”, relativo alle misure alternative alla detenzione per i condannati minorenni e i giovani adulti, si legge, invece che “ai fini della concessione delle misure penali di comunità e dei permessi premio e per l’assegnazione al lavoro esterno trova applicazione l’articolo 4bis, commi 1 e 1bis O. P.”, che fissa le condizioni per l’accesso ai benefici penitenziari per “certe tipologie criminali dalla spiccata pericolosità”. Pertanto, i benefici e le misure alternative sa- vincolati alla collaborazione con la giustizia, anche da parte dei minori, che siano stati condannati per reati di terrorismo o eversione dell’ordine democratico, associazione mafiosa, reati sessuali, favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, associazione per contrabbando e spaccio di stupefacenti. Ma ora la commissione giustizia presieduta dalla deputata del movimento cinque stelle Giulia Sarti ha espresso un parere che vorrebbe togliere questa preclusione. Per dare applicazione alle misure penali di comunità e permessi premio e per concedere l’accesso al lavoro all’esterno, la Commissione si esprime, come proposta di parere, contrariamente alla previsione dell’art 4bis: osserva infatti che sui limiti e gli automatismi occorre riformulare la norma, in quanto cosi come prevista non può ritenersi compatibile con l’orientamento della Corte Costituzionale, la quale si è già espressa sul contrasto con la funzione rieducativa della pena e il principio di individualizzazione del trattamento. Parere di modifica anche per il decreto principale - Qualche piccola modifica anche per quanto riguarda il corpo centrale della riforma. Il Governo ha ricevuto dalla commissione giustizia anche il parere relativo allo schema principale - revisionato e riscritto dal Consiglio dei Ministri - della riforma dell’ordinamento penitenziario. Durante l’ultima seduta di giovedì scorso, i componenti della commissione - in particolar modo Carmelo Miceli e Alessia Morani del PD - avevano chiesto di attendere il parere completo della Conferenza Unificata, visto che i Presidenti delle regioni e delle province autonome hanno espresso parere favorevole, condizionato però all’accoglimento di una serie di emendamenti già portati a conoscenza del Ministro della giustizia. A questo si aggiunge - come aveva sottolineato la presidente della commissione Giulia Sarti - che manca una documentazione integrativa, sempre della Conferenza Unificata, con riferimento allo schema attualmente in esame, che rappresenta un testo diverso dal precedente, sul quale le Commissioni parlamentari di Camera e Senato avevano espresso un parere contrario. Il sottosegretario alla giustizia Jacopo Morrone aveva quindi dichiarato la disponibilità del Governo ad attendere l’espressione del parere da parte della Commissione fino a ieri. Detto, fatto. Il Consiglio dei Ministri, oltre ad approvare ed eventualmente accogliere la proposta di modifica - il decreto relativo all’ordinamento penitenziario minorile, avrà nuovamente sul tavolo anche quello principale. La documentazione della Conferenza Unificata è, infatti, arrivata a destinazione e la commissione giustizia ha ritenuto di accogliere alcune modifiche riguardante l’assistenza sanitaria. Quali sono? Pur apprezzando gli interventi che riguardano l’aspetto meramente organizzativo intra murario, severo è il disappunto della Conferenza delle Regioni e delle Province Autonome sull’assenza di considerazione del tema della salute mentale. Attenzione è data anche alla volontà del detenuto, nel caso l’istituto penitenziario lo voglia trasferire in struttura esterna per le cure mediche, così come all’urgenza delle cure che devono avvenire “nel minor tempo possibile presso una struttura sanitaria esterna adeguata”. Osservazioni sono dedicate anche alla spartizione dei compiti: se i detenuti con patologie croniche saranno in carico al servizio sanitario, le Regioni impongono che sia compito dell’amministrazione penitenziaria assicurare le cure di assistenza sanitaria senza limiti di orario, oltre che garantire lo svolgimento di misure di prevenzione, come ad esempio il diritto allo svolgimento di attività fisica. Ricordiamo come il Governo ha modificato il decreto principale della riforma. Ci sono diversi cambiamenti volti non solo ad eliminare tutto ciò che riguarda fuori dal carcere, ma anche per quanto riguarda la vita interna. Tutto revisionato e riscritto. Tanto da aggiungere delle parole a diversi commi, oppure facendo rimanere così com’è alcuni commi del “vecchio” ordinamento e con il rischio evidente di fuoriuscire dal perimetro delle legge delega che puntava soprattutto a una graduale de carcerizzazione che parte dalla vita detentiva finalizzata alla riabilitazione, fino all’implementazione delle pene alternative concesse dai magistrati di sorveglianza quando accertano che si verificano le condizioni. Il pratica non è stato recepito, come dice il Garante, il “corpus complessivo” della legge delega. Tolto ogni riferimento alle regole penitenziarie europee, tolta la parte dedicata alla sorveglianza dinamica. La perquisizione corporale è stata mantenuta come dal vecchio ordinamento, mentre la riforma originale l’aveva cambiato prendendo in considerazione diverse sentenze della cassazione che sottolineavano il rispetto dei diritti fondamentali dell’uomo e il ricorso a tale metodo “solo nel caso in cui sussistano specifiche e prevalenti esigenze di sicurezza interna o in ragione di una pericolosità del detenuto risultante da fatti concreti”. Così come è stata modificata la concessione dei benefici e, addirittura, quello sui colloqui coi familiari: il nuovo testo riscritto prevede di poter favorire i colloqui coi famigliari “ove possibile”, mentre nel testo della riforma originale al posto del potenziale verbo “potere” si leggeva che era un dovere. Anche l’assistenza sanitaria è stata modificata, prendendo in considerazione solo l’aspetto organizzativo: tolta l’equiparazione tra i detenuti infermi di mente con quelli fisici e cancellato anche l’articolo che prevede sezioni adeguate per i detenuti psichiatrici. Ma qualche leggerissima modifica è stata proposta dalla commissione. La palla passa nuovamente al Governo. Il “fabbisogno” di pene alternative di Francesco Petrelli* camerepenali.it, 20 settembre 2018 Le dichiarazioni del nuovo Capo del Dap: la posizione dell’Unione. Il termine “fabbisogno” riferito ad una moltitudine di cittadini privati della libertà può essere una chiave di lettura dell’intervista sul problema delle carceri, rilasciata dal nuovo capo del Dap, Francesco Basentini. Quella espressione sposta infatti l’attenzione del lettore dal rapporto qualitativo del detenuto con le finalità rieducative della pena, al dato puramente quantitativo. Il “sovraffollamento” produce semplicemente la necessità di uno smaltimento, e di qui l’urgenza di “coprire il fabbisogno”, producendo nuovi luoghi ove collocare i detenuti. Lo spazio della rieducazione e della risocializzazione viene ridotto a semplice spazio di contenimento. Costruire nuove carceri diviene così il passaggio assiomatico più semplice. Un passaggio che, tuttavia, nega a priori l’utilità di politiche volte all’utilizzo del carcere come ultima ratio, sia sotto il profilo cautelare che sotto il profilo dell’esecuzione. Ritenere che non sia “edificante agli occhi della popolazione” consentire a soggetti non pericolosi, che si sono magari macchiati occasionalmente di un reato non particolarmente grave, di non entrare in carcere, ma di scontare la propria pena in maniera alternativa, significa negare l’evidenza dell’esperienza carceraria come moltiplicatore di marginalità, di devianza e di recidiva. In una parola negare che la moltiplicazione dell’uso del carcere e la riduzione delle pene alternative, costituisce per la collettività uno spreco di risorse ed una riduzione di sicurezza. È per questo motivo che definire “svuota-carceri” una riforma seria, complessa e meditata quale è quella elaborata dalla Commissione Giostra, significa affrontare il problema in chiave puramente ideologica, trascurandone del tutto i reali contenuti e travisandone la filosofia di fondo, volta proprio alla eliminazione di ogni automatismo ed alla attribuzione ai magistrati della Sorveglianza di strumenti più efficaci, più rigorosi e più incisivi di conoscenza dei percorsi trattamentali del singolo condannato, connotati da maggiori opportunità di controllo e di conoscenza. Percorsi che non possono essere in alcun modo confusi con quelli che il nuovo capo del Dap stigmatizza come “una libertà incondizionata e trasversale per tutti quanti i detenuti indistintamente”. Il problema del carcere e del sovraffollamento non si risolve con la retorica dei rimpatri e non si risolve certo costruendo nuove carceri, ma costruendo al contrario una nuova cultura della pena. Una cultura diffusa e condivisa che ricominci a riconoscere le “alternative al carcere” come una opportunità sociale di riduzione della recidiva, e la possibilità di lavoro per il condannato come un percorso fondamentale di risocializzazione e di riscatto e di riconoscimento di valori condivisi. Non come uno strumento di oppressione o, peggio ancora, come si legge da qualche parte, come una pubblica gogna. Una cultura che restituisca alla condanna la necessaria dimensione umana ed al recupero dell’affettività il significato della pena come progetto futuro ed effettivo, fatto di condivisione, di procreazione e di famiglia. Uno spazio che non potrà certo essere occupato dall’ampliamento dei contatti virtuali affidati alle nuove “tecnologie digitali”. La chiusura totale verso questa progettualità appare davvero disarmante e si coniuga con un silenzio incomprensibile rispetto al problema perdurante e crescente del numero dei suicidi che hanno raggiunto ancora una volta limiti intollerabili. Perché mai ritenersi soddisfatti, in un paesaggio così desolato, di come la “Torreggiani” ci abbia di fatto “costretti” a “rispettare” quel che stava già scritto a chiare lettere da settant’anni nella nostra Costituzione, e che noi non abbiamo saputo attuare, riducendoci oggi a miseri ragionieri degli spazi residui, a misuratori di letti e comodini. Con l’idea di trasferire l’inutilità della pena in nuovi inutili spazi. Il carcere è certamente un problema e di fronte ai problemi ci sono sempre due modi diversi di reagire. Il tornare indietro è sempre quello sbagliato. Infine un’ultima considerazione. Dovrebbe essere noto a tutti che già ora gli arrestati ed i fermati, per i quali è stata disposta la presentazione davanti al giudice con il rito direttissimo, vengono trattenuti presso le Stazioni ed i Commissariati dotati di celle di sicurezza, con ciò evitandosi il fenomeno delle cosiddette “porte girevoli”, inutili e traumatici passaggi in carcere, per chi probabilmente sarà l’indomani rilasciato. Si tratta di una soluzione di ripiego che non dovrebbe essere affatto presa ad esempio in un paese che ancora non si è dotato di strutture detentive, alternative al carcere, destinate alle sole persone sottoposte a custodia cautelare. Destinare i fondi di quel “piano-carceri” a strutture differenziate sarebbe già un passo verso un vero cambiamento nel segno della civiltà. Ridurre il numero dei detenuti in attesa di giudizio che pesano nel nostro Paese in percentuale molto più alta del numero degli stranieri “rimpatriabili”, sarebbe già un risultato straordinario. Assai più produttivo anche sul piano dei bilanci, tenuto conto di quanto spende ogni anno lo Stato per l’indennizzo delle ingiuste detenzioni. *Segretario dell’Unione Camere Penali Italiane Un carcere “a misura d’uomo” di Bernadette Nicotra* interris.it, 20 settembre 2018 Navigando in rete, casualmente, mi sono imbattuta nel “carcere possibile”, un concorso promosso recentemente da alcuni giovani imprenditori edili di una regione italiana diretto a premiare la migliore idea per un “carcere ideale”. Il premio, in alcune migliaia di euro, era stato assegnato ad un gruppo di architetti che avevano progettato un’avveniristica struttura su cinque livelli a forma di cristallo di ghiaccio. Questa struttura, al suo interno, prevedeva ampi spazi ecosostenibili destinati a officine e laboratori che permettevano una collaborazione sinergica con le vicine imprese tessili e tipografiche le quali si sarebbero avvalse del lavoro dei detenuti al fine di promuoverne il recupero e la rieducazione. Mi sono chiesta, ma se oggi questa idea “utopistica” si fosse concretamente realizzata? Se in qualche luogo ci fosse il “carcere ideale”? Forse avremmo avuto meno suicidi nelle nostre carceri; forse avremmo avuto meno reati consumati nelle nostre carceri; forse non avremmo avuto il 18 settembre del 2018, una bambina di appena quattro mesi morta e il suo piccolo fratellino di soli due anni ridotto in fin di vita, per mano della loro giovane mamma detenuta nel nostro carcere, “Quis Novit?”. Non sapremo mai quali motivi, quali sofferenze e quale esasperazione è culminata nei tragici gesti di questi uomini e donne. Un dato è certo, sappiamo che la condizione carceraria italiana sta vivendo momenti difficili, mai come oggi è necessario concentrare le forze e le competenze per dettare nuove regole, per creare dei modelli dove possano convivere con serenità e tranquillità 24 ore su 24, 365 giorni all’anno, detenuti e lavoratori del pianeta carcere. Dopo l’emanazione della Legge Gozzini (1986) e in seguito a un cambiamento radicale del comune pensare a proposito della condizione detentiva in carcere, sempre di più il legislatore sotto la spinta dalle emergenze connesse al cronico sovraffollamento delle carceri e alla difficoltà di realizzarne delle nuove, il più delle volte a causa dell’esiguità degli stanziamenti per l’edilizia carceraria, ha tentato di modificare in meglio la vivibilità e la condizione generale dei detenuti. Si sono susseguite una moltitudine di norme, che, in questi ultimi decenni, in attuazione alle raccomandazioni internazionali, ha concesso ai detenuti non solo la fruizione di pene alternative al carcere (cd. extramoenia), come l’affidamento ai servizi sociali o la concessione degli arresti domiciliari anche con strumenti di controllo a distanza come il cd. braccialetto elettronico, ma ha ampliato soprattutto la possibilità per il detenuto condannato in carcere, di poter accedere al trattamento volontario (con il suo assenso) finalizzato al suo recupero e reintegro nella società, anche attraverso lo studio e il lavoro in carcere e di poter ottenere la tanto ambita semi-libertà. Tutto ciò, ferme restando, naturalmente e in primis, le esigenze di sicurezza e il rispetto dell’Ordinamento penitenziario. Non basta, prevedere, ideare, progettare e realizzare una costruzione sicura, ovvero un’area protetta da un muro di cinta perimetrale e da un filo spinato, al cui interno vivono i detenuti; bisogna anche fornire tale struttura di tutti i servizi e gli spazi necessari per le finalità relative sia alla detenzione (espiazione della pena) che al trattamento del detenuto/condannato, prevedendo locali e siti idonei alla ricreazione (ora d’aria), allo studio, al lavoro, alla socialità. Il futuro è ripensare ad un carcere a “misura d’uomo” dove l’espiazione della pena non si traduca in una segregazione, in un abbandono del detenuto a se stesso, ma che sia “esigenza necessaria” che accompagni gradualmente al pentimento e alla rieducazione, in piena sintonia con un importante passo biblico che ci ricorda “Ravvedetevi dunque e convertitevi, perché i vostri peccati siano cancellati e affinché vengano dalla presenza del Signore dei tempi di ristoro.” (Atti degli Apostoli 3:19-20) Il carcere serve dunque al ravvedimento e alla conversione del detenuto. Di carcere non si può morire e nel carcere non si deve morire. Infatti, secondo una solida letteratura scientifica, si rileva, che l’inserimento continuativo in carcere, può avere ricadute negative sul piano psicofisico dei soggetti sottoposti, che può esprimersi anche in forme patologiche e in genere in un danno alla persona, nella maggior parte dei casi di carattere permanente, quindi, pericoloso anche per la società (il carcere come l’ultima pena corporale). Nel prendere atto di tali risultati negativi, di recente si è andata sviluppando una maggiore sensibilità ed attenzione nel non esasperare le situazioni di rischio (tentativi di suicidio o di autolesionismo) evitando la prassi molto diffusa, delle prolungate chiusure in cella. Da ciò, la tendenza sempre più frequente, da parte di tutti gli operatori giudiziari (dal magistrato al direttore del carcere) a coinvolgere il sevizio sanitario interno al circuito penitenziario in modo che lo stesso possa dare indicazioni adeguate, affinché gli operatori giudiziari e penitenziari abbiano contezza delle situazioni di rischio per i detenuti e quindi si attivino per prevenirle. Se però da una parte è forte l’esigenza di una gestione ottimale delle nostre carceri e degli “ospiti” detenuti, attraverso spazi e servizi ideali e inalienabili, dall’altra vi sono due punti fissi, però, che bisogna sempre ricordare: la sicurezza e il rispetto dei lavoratori penitenziari. Quindi in un modello ideale di carcere, in un giorno prossimo, potrà non essere più un’utopia ma una realtà costruita su una struttura a cinque livelli a forma di cristallo, dove le giovani mamme e i loro piccoli bambini (esseri che nessuna colpa devono espiare ma che sono costretti a vivere come reclusi e che come reclusi finiscono per morirvi) possano davvero sentirsi “accolti”; una realtà costruita non più ai margini del territorio e della società, ma nell’immediata periferia delle nostre città e, ove possibile, vicina ai tribunali, alle scuole, agli ospedali e alle caserme. Una realtà al centro del nostro vivere quotidiano per non essere più quel lontano e dimenticato pianeta. *Magistrato del Tribunale penale di Roma Psichiatria e carceri, tutti i pericoli di una riforma a metà di Massimo Lensi* Corriere Fiorentino, 20 settembre 2018 Caro direttore, l’interessante inchiesta pubblicata ieri sul suo quotidiano riguardo all’abolizione degli ospedali psichiatrici giudiziari mi obbliga ad alcune riflessioni. Mi sono occupato per anni di questo problema e ho ben conosciuto la realtà dell’Ospedale psichiatrico giudiziario di Montelupo e la problematica gestione della sofferenza psichiatrica in carcere. La riforma non ha certo abolito il problema, ha solo soppresso i malfamati Opg, che del problema facevano parte. Al posto dei sei Opg sul territorio nazionale sono state create, non senza difficoltà, una trentina di residenze per l’applicazione delle misure di sicurezza (le Rems), migliorando la tutela del diritto alla salute degli internati giudiziari. Se dovessimo sommare gli internati in Opg di un tempo, vedremmo che le Rems in funzione hanno sufficiente capacità. Il problema che si manifesta oggi non viene dalla carenza di posti letto ma dalla incompleta applicazione della legge di riforma. Negli Opg non venivano infatti trasferiti solo gli internati, e cioè le persone assolte dal reato per incapacità di intendere e di volere, ma anche i detenuti che durante l’esecuzione di pena in carcere mostravano segni di sofferenza psichiatrica, i cosiddetti osservandi, o persone che pericolose non sarebbero state se i servizi territoriali fossero riusciti a farsene carico. Per costoro la legge prevede livelli differenziati di cura e strutture di secondo livello. Simili strutture esistono anche in Toscana. I numeri dei posti letto, insomma, tornano, anche se si attende ancora di capire cosa accadrà all’ex carcere femminile di Empoli che potrebbe essere trasformato in Rems. Il fenomeno delle liste di attesa è certamente un problema aperto, ma, per essere risolto, necessita di maggiore attenzione nell’interpretazione della legge da parte dei collegi giudicanti in modo da individuare, caso per caso, una differente modalità di cura, senza continuare a intasare le Rems di casi non di loro competenza. Rimane aperto, invece, il grave problema della sofferenza psichiatrica in carcere che secondo i rilevamenti dell’Agenzia regionale di sanità colpisce il 35% della popolazione carceraria. Per queste persone non è previsto il trasferimento in Rems, ma è oggettivamente pericoloso il loro mantenimento sia in strutture psichiatriche interne al carcere, i cosiddetti “repartini”, sia il mantenimento nelle normali celle. In questi casi molto si potrebbe fare riportando l’attenzione sulla vivibilità dei nostri istituti carcerari e iniziando a guardare con più oggettività alle pene alternative. Una struttura che crea disagio psichico non è certo in sintonia con i principi di rieducazione e reinserimento sociale, né con le esigenze di sicurezza della società. Se, per esempio, fossero stati attivi gli istituti a custodia attenuata per madri detenute si sarebbe forse evitata la tragedia di Rebibbia, dove due giorni fa una detenuta ha ucciso i due figli di sei mesi e due anni. Gli elementi critici sono sempre gli stessi: l’applicazione delle leggi e le tutele dello Stato di Diritto nel nostro Paese. Senza porre questi al centro della riflessione si possono creare migliaia di letti, ma serviranno solo a rigettarci in un passato drammatico che faticosamente si sta cercando di superare. *Associazione Progetto Firenze Madri e bimbi vanno accolti in case famiglia Redattore Sociale, 20 settembre 2018 Il dramma di Rebibbia deve far riflettere. Il garante Palma: “Necessario poter vivere in un ambiente non detentivo”. Isola solidale: “Puntare sulle pene alternative”. “Mai più bambini in carcere”. È unanime il coro delle reazioni dopo la tragedia di ieri a Rebibbia in cui una mamma ha ucciso il figlio e ferito l’altro gravemente. “Sono troppi i bambini che continuano a vivere dietro le sbarre con le loro mamme. Gli Icam, istituti a custodia attenuata, sono una soluzione intermedia ma non rispondono al bisogno fondamentale di un bambino di crescere in un ambiente familiare, con le stesse opportunità di crescita dei coetanei. Esistono case famiglia adeguate per accogliere i bambini con le loro mamme”. Questo il commento di Giovanni Paolo Ramonda presidente della Comunità Papa Giovanni XXIII. La comunità di Don Benzi ha in questi anni accolto numerose mamme con bambini nelle sue case famiglia. “Anche nell’ultima campagna elettorale abbiamo proposto ai politici di togliere questi piccoli senza alcuna colpa dal carcere. Tutti gli psicologi concordano che i primi tre anni di vita del bambino sono fondamentali per la sua crescita equilibrata. Non occorre essere esperti per comprendere che il carcere non è il luogo idoneo in cui crescere i bambini, dunque chiediamo che le mamme con bambini più piccoli di 3 anni siano accolti presso le case famiglia”. Sulla tragedia interviene anche il garante dei detenuti Mauro Palma: “È successo un dramma imprevedibile”, ha detto in un’intervista del Tg2000. “Una detenuta in carcere da poco meno di un mese - ha spiegato Palma - nel rientrare dal giardino nella sezione nido ha buttato giù i due bambini piccolissimi provocando la morte di uno e il ferimento grave dell’altro. È stata una situazione imprevedibile, non c’erano elementi relativi a questa persona che lasciassero supporre un comportamento del genere. Non è un caso in cui si possono individuare responsabilità se non il fatto che rimane sempre il problema dei bambini dietro le sbarre”. “La legge ci dice - ha proseguito Palma - che il carcere dovrebbe essere veramente la soluzione estrema. Ci si chiede se sia realmente necessario, soprattutto quando parliamo di custodia cautelare, se non si possano trovare altre soluzioni che impegnino anche le comunità locali”. “Dobbiamo partire dall’idea - ha concluso il Garante - che il bisogno e il diritto di un bambino che deve evolvere e sviluppare la sua vita deve essere prevalente anche alle nostre esigenze di punizione rispetto al genitore. A partire da questo le amministrazioni locali devono predisporre le strutture che garantendo la sicurezza all’esterno offrano case famiglia protette e la possibilità di vivere in un ambiente non detentivo”. “Una tragedia che ci coinvolge tutti. Due piccoli innocenti ai quali è stata offerta solo una vita in carcere. Sabato celebreremo la santa messa in memoria del piccolo che non c’è più e per il suo fratellino che lotta per la vita. I nostri stessi ospiti ci hanno chiesto di fermarci a pregare per questi due piccoli angeli”. È quanto dichiara Alessandro Pinna, presidente dell’Isola solidale, una struttura nata oltre 50 anni fa a Roma e che accoglie i detenuti (grazie alle leggi 266/91, 460/97 e 328/2000) che hanno commesso reati per i quali sono stati condannati, che si trovano agli arresti domiciliari, in permesso premio o che, giunti a fine pena, si ritrovano privi di riferimenti familiari e in stato di difficoltà economica. “Occorre - aggiunge - puntare di più sulle pene alternative soprattutto in presenza di minori innocenti. Il carcere ha valore solo in un’ottica di riabilitazione e di formazione senza le quali non si può pensare ad una riscatto umano e sociale per i detenuti”. Garante detenuti: tragedia di Rebibbia, serve silenzio per capire Askanews, 20 settembre 2018 La tragedia di Rebibbia, dove una detenuta ha ucciso i due figlioletti gettandoli dalle scale, fa scoppiare lo scandalo. Ma il problema è a monte: ce lo dice Daniela de Robert, giornalista e componente del Collegio del Garante per i detenuti. “Ieri è successa una tragedia, perché una detenuta della sezione nido con i suoi due bambini, una di pochi mesi e uno di un anno e mezzo, li ha uccisi scaraventandoli per terra. Il più piccolo è morto subito, l’altro è morto oggi. “Il ministro ha preso un provvedimento nei confronti della direzione dell’istituto. Noi come garanti abbiamo fatto un comunicato proprio oggi in cui invitiamo al silenzio per capire. Semplificare non aiuta. Capisco che l’esigenza del giornalismo è di semplificare ma non si può semplificare la soluzione di un problema così complesso. “Noi crediamo che il problema sia molto complesso e che non si possa far ricadere le colpe sull’ultimo anello della catena, c’è un insieme di problemi che si incrociano in una situazione di questo tipo, di maternità, vulnerabilità, esigenze di sicurezza, di leggi poco applicate. Il nido di Rebibbia è un nido molto grande, c’erano sedici bambini fino a ieri, ora quattordici. È molto ben attrezzato, ben collegato col territorio, con l’asilo nido fuori e coi volontari; sono bambini e madri molto seguiti. È un’eccellenza, e non è così comune sul territorio. “Nelle carceri italiane ci sono una sessantina di bambini; in parte ospitati con le madri nelle cosiddette sezioni detentive, in parte in istituti a custodia attenuata per detenute madri che sono sempre delle carceri ma molto più a misura di bambino. “Nelle sezioni nido i bambini possono rimanere fino a tre anni; negli istituti a custodia attenuata essendo meno carceri in qualche modo possono restare fino all’età scolare; nelle case famiglia o in detenzione domiciliare, le donne possono stare coi bambini fino a 10 anni. I problemi sono quelli dei bambini 0-3 anni che crescono in un ambiente che certamente non è idoneo. D’altra parte si risponde all’esigenza di mantenere la relazione madre-figlio. Ci piace sottolineare che in realtà la legge prevede delle possibilità per cui il carcere è sempre l’ultima scelta, non la prima. “Roma si è aperta una delle poche case-famiglia protette. Il territorio ha fatto una battaglia perché le donne poi non le vogliono: tutti gridano allo scandalo oggi, ma poi nessuno vuole queste donne vicino, sei madri con sei o sette bambini, in un territorio che sarebbe molto più tutelato con la polizia più presente. Non si toglie nulla al territorio, si dà molto ai bambini e forse si aiutano le donne a trovare una strada diversa”. Quei colloqui con lo psicologo mai tradotti di Sara Menafra e Adelaide Pierucci Il Messaggero, 20 settembre 2018 Potrebbe esserci una catena di sottovalutazioni piccole e grandi, a partire dalla decisione di tenere in carcere una donna che si è rivelata gravemente instabile, dietro il tragico gesto con cui due giorni fa, Alice ha buttato giù dalle scale entrambi i figli che erano con lei nel carcere di Rebibbia dalla fine di agosto. Il primo problema riguarda la decisione di mandarla in carcere: il primo gip che si è espresso sulla detenzione ha dato parere contrario alla carcerazione, solo in un secondo momento un altro giudice decide che dovrebbe stare dentro. A Rebibbia, Alice Sebasta viene sottoposta ad un primo colloquio psicologico con i medici della Asl Roma 2, che si occupa dell’istituto. All’incontro, però, non è presente un interprete - come spesso accade, specie per lingue come il tedesco - e la ragazza si sarebbe espressa quasi a gesti. Alla fine, gli operatori sanitari non la segnalano come soggetto a rischio, non mettono nella relazione che è già stata in strutture psichiatriche fin dall’adolescenza (ma non è chiaro se sia riuscita a dirlo o l’abbia omesso). Segnalano però che, a loro giudizio, la donna deve essere sottoposta a controlli più approfonditi, con un altro psicologo e con uno psichiatra e specificano che si esprime quasi solo in tedesco. Entrambe le visite non sono mai avvenute. Chi abbia visto la cartella sanitaria di Alice Sebasta e se la richiesta di ulteriori accertamenti sia un elemento che avrebbe dovuto allertare le dirigenti dell’ala femminile di Rebibbia, è quello che dovranno chiarire tanto l’indagine penale quanto quella disciplinare nei confronti della direttrice Ida Del Grosso, la sua vice, Gabriella Pedote, e del vicecomandante del reparto di Polizia penitenziaria, Antonella Proietti. Intanto tra il ministro Bonafede, che le ha sospese, e il dipartimento del Dap, che sta dando il via all’ispezione, è già tensione: le dirigenti sono state “congelate” senza nessuna verifica preventiva, protestano i funzionari. “Bisognerà valutare con maggiore certezza cosa sia accaduto - dice Stefano Anastasia Giani, garante dei detenuti del Lazio - ma ritengo ci si debba interrogare anche sul perché in un caso come questo, per una donna incensurata con due bambini piccoli, si sia scelta la custodia in carcere”. Carceri e madri, nodo da risolvere di Lucia Scozzoli La Croce Quotidiano, 20 settembre 2018 Nel carcere di Rebibbia una detenuta di nazionalità tedesca, Alice S., di 33 anni, ha spinto giù dalle scale della sezione “nido” all’interno del carcere romano i suoi due figli: il piccolo di sette mesi è morto, l’altro bimbo, di due anni, è in codice rosso ricoverato al Bambin Gesù. La donna è in carcere da agosto per detenzione e spaccio di stupefacenti. Secondo quanto dichiarato dal dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, la donna in giornata avrebbe dovuto incontrare alcuni parenti e qualche giorno fa aveva parlato con il suo avvocato, affermando di soffrire di depressione e di non reggere la situazione carceraria. Dopo la divulgazione della notizia, si sono susseguite le dichiarazioni ufficiali di molti esponenti politici, del governo e non: il ministero della Giustizia ha aperto un’inchiesta sulla vicenda, che Bonafede ha definito “una tragedia”. Per Mara Carfagna, vice presidente della Camera e deputato di Forza Italia, “la tragedia di Rebibbia ci ricorda il dramma dei tanti, troppi bambini che crescono e vivono dietro le sbarre senza aver commesso alcun reato, da innocenti”. Per la consigliera regionale del Pd Michela Di Biase, quanto avvenuto a Rebibbia “è un fatto gravissimo e scioccante. Ho chiesto di ascoltare al più presto in VII Commissione - Sanità, politiche sociali, integrazione sociosanitaria, welfare - il Garante dei detenuti e il Garante dell’infanzia e dell’adolescenza del Lazio. Mi auguro si apra presto un dibattito serio sulla presenza dei minori nelle carceri. Le istituzioni hanno il dovere di difendere e tutelare la vita dei minori”. A parole tutte le forze politiche stigmatizzano come fatto grave, da evitare, la presenza di minori innocenti dietro le sbarre, a scontare le pene delle loro madri, ma in concreto cosa si può fare e cosa si è fatto? In Italia sono 62 i bimbi, con 52 mamme, metà italiane e metà straniere, attualmente presenti non in prigioni comuni, ma in appositi Icam (Istituti a custodia attenuata per detenute madri), creati nel 2007, che somigliano molto come aspetto ad un asilo, per ridurre al minimo i traumi dei più piccoli: ci sono celle dotate di culle, ludoteca, cucina per preparare i pasti ai propri bimbi e un giardini con giochi. Negli Icam i bambini possono restare fino a 6 anni, poi devono uscire e lasciare la madre a finire di scontare la sua pena. In Italia ci sono 5 istituti esclusivamente femminili (Empoli, Pozzuoli, Roma “Rebibbia”, Trani e Venezia “Giudecca”) e 52 reparti appositi ricavati all’interno di carceri maschili. Con la legge 62 del 2011 è stata introdotta, salvo i casi di eccezionali esigenze cautelari dovute a gravi reati, la possibilità di scontare la pena in una Casa famiglia protetta, dove le donne possono trascorrere la detenzione domiciliare portando con sé i bambini fino a 10 anni. La permanenza in una casa famiglia permette alle madri di occuparsi dei piccoli anche fuori dalle mura della casa, portando ad esempio i figli a scuola o dal medico. C’è da aggiungere a questo la sentenza della Corte Costituzionale n. 239 del 22 ottobre 2014, che ha dichiarato l’illegittimità della preclusione al regime domiciliare per madri condannate a reati gravi, ribadendo con forza che, se è vero che l’interesse del minore a godere delle cure materne in modo continuativo non è un diritto assoluto, esso comunque va bilanciato con l’esigenza di protezione della società dal crimine, attraverso una verifica concreta caso per caso. Non è dunque sufficiente invocare la tutela della collettività dal crimine ancorandola a meri indici presuntivi, quali ad esempio la tipologia di reati commessi, per non concedere i domiciliari. L’associazione Papa Giovanni XXIII da subito si è proposta per l’accoglienza delle detenute con bambini e Giovanni Paolo Ramonda, il presidente della Apg23, ha commentato la tragedia di Rebibbia definendola “annunciata” e ribadendo il proprio impegno per togliere le madri dalle carceri: “Mai più bambini in carcere: sono troppi i bambini che continuano a vivere dietro le sbarre con le loro mamme - sostiene Ramonda. Gli Icam, istituti a custodia attenuata, sono una soluzione intermedia ma non rispondono al bisogno fondamentale di un bambino di crescere in un ambiente familiare, con le stesse opportunità di crescita dei coetanei. Esistono case famiglia adeguate per accogliere i bambini con le loro mamme”. La politica ha fatto promesse, è ora di mantenerle: “Anche nell’ultima campagna elettorale abbiamo proposto ai politici di togliere questi piccoli senza alcuna colpa dal carcere. Tutti gli psicologi concordano che i primi tre anni di vita del bambino sono fondamentali per la sua crescita equilibrata. Non occorre essere esperti per comprendere che il carcere non è il luogo idoneo in cui crescere i bambini, dunque chiediamo che le mamme con bambini più piccoli di 3 anni siano accolti presso le case famiglia”. L’accesso delle donne con figli alle misure cautelari alternative, come la detenzione speciale domiciliare, è applicabile solo se le donne hanno un domicilio e per questo non possono usufruirne quelle senza fissa dimora. Per loro la casa famiglia è l’unica soluzione possibile, ma da quando nel 2011 la legge ha introdotto le Case famiglia protette, nessun governo ha previsto lo stanziamento di fondi per la loro realizzazione, per cui quelle che sono disponibili attualmente sono tutte opere di carità privata. A settembre 2017 l’associazione Possibile (area PD) ha calcolato che sul territorio nazionale basterebbero 6 strutture, da sei nuclei ciascuna, per risolvere il problema ed ha avanzato una proposta di legge per destinare per la gestione delle 6 strutture 900mila euro l’anno prelevandoli dalle ingenti risorse del Fondo unico giustizia (FUG). I vari ministri della giustizia che si sono succeduti dal 2011 hanno fatto promesse, ma nessuno ha stanziato fondi: ci sono sempre altre priorità. Ora è ovvio che la tragedia di Rebibbia abbia riacceso i riflettori sull’annosa questione dei bambini nelle carceri, ma non c’è da dimenticare un fatto: un bambino è morto e un altro è in pericolo di vita perché una donna, arrestata per detenzione e spaccio, probabilmente dedita all’uso di droghe quando era in libertà, e cioè un mese fa, li ha spinti giù per le scale. Questo non è come il caso del bambino di 3 anni che a settembre 2017 ingerì veleno per topi in carcere: in quel frangente si poteva incolpare la struttura carente, qui è più difficile. O vogliamo invocare una mancanza di sorveglianza continua? Dunque, la tragedia è dovuta al fatto che la donna era troppo strettamente detenuta o che era poco sorvegliata? Le due ipotesi sono in opposizione, evidentemente. O forse il carcere rende le donne rabbiose e pericolose per i propri figli? Non mi pare di aver mai sentito una simile teoria. Quindi il dramma si è consumato perché una donna ha perso lucidità e il carcere è solo l’ambientazione. In tutte le questioni che coinvolgono innocenti, come questi poveri bambini incarcerati, siamo alla disperata ricerca della soluzione perfetta che liberi dal male chi non se lo merita, ma le colpe dei genitori ricadono inevitabilmente sui figli, almeno finché i figli sono piccoli e bisognosi dell’affetto e della guida dei genitori, e queste donne stanno dietro le sbarre perché sono colpevoli. Vorremmo assolvere, cancellare con un colpo di spugna gli effetti disastrosi di scelte sciagurate, ma le alternative hanno tutte qualcosa di pessimo: bambini in carcere o delinquenti in libertà. Crediamo forse che l’innocenza pura di un bambino allontani il rischio di reiterazione del reato del genitore? Crediamo che una donna, in quanto madre, sia buona? Alice ha cercato di uccidere i suoi figli, in parte c’è riuscita. Il cattivo della vicenda è l’Icam? Al di là degli schieramenti politici (e davvero in questo caso c’è trasversalità assoluta), la soluzione per 62 bambini non può essere una ricetta monocolore: servono 62 soluzioni, una per ogni caso, in cui un giudice dovrà assumersi l’onere (che non gli invidio) di valutare quale sia non il bene (perché in queste storiacce ormai se n’è andato da un pezzo) bensì il male minore per il bambino, la madre, la società. L’Apg23, in prima linea in tutte le situazioni di periferia sociale, dalla prostituzione, alla droga, dagli handicap alla detenzione, ha fatto talmente propria questa filosofia del guardare alla singola persona, che si è diffusa in tutto il territorio nazionale e mondiale in 26 entità giuridiche, per adattarsi alle esigenze del momento, dell’ambiente, del bisogno da colmare. Io sono certa che una detenuta coi suoi figli, affidata alle comunità di don Benzi, sarà accolta e curata soprattutto in quelle voragini di male che l’hanno condotta sulla brutta china in cui è stata raccolta. Non sono altrettanto sicura che accadrebbe questo in una casa famiglia statale. C’è tanto bene da fare, ma bisogna farlo bene. Quei 60 bambini che vivono in carcere in Italia di Chiara Pizzimenti vanityfair.it, 20 settembre 2018 Sono i piccoli entro i sei anni che vivono con le madri nelle strutture carcerarie. Il numero più alto a Rebibbia dove una donna ha ucciso uno dei suoi figli e ferito gravemente l’altro Il carcere non è mai bello e nessuno ci sta bene, ma il reparto nido di Rebibbia è ottimo come tutto l’istituto di Rebibbia femminile. A me dispiace per la sospensione di direttrice e vicedirettrice perché sono brave nella gestione e dal punto di vista umano”. Susanna Marietti coordinatrice nazionale dell’Associazione Antigone ha visitato più volte la sezione del carcere romano dove ieri una donna ha ucciso la figlia di 4 mesi e ferito gravemente il figlio di due anni lanciandoli dalle scale. La struttura è a suo parere ineccepibile. Il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede ha comunque deciso la sospensione di direttrice e vicedirettrice e aperto un’inchiesta interna. Secondo le ricostruzioni la donna stava facendo le scale che portano da un punto all’altro della sezione nido del carcere. All’altezza della seconda rampa ha gettato, sembra volontariamente, nel vuoto i due bambini. Per la piccola non c’è stato scampo. Il fratellino è in coma irreversibile. Sembra che la madre trentenne, tedesca, soffrisse di depressione. Era in carcere da agosto per droga. In mattinata avrebbe avuto un colloquio con i parenti. I magistrati cercano il padre dei bambini per poter autorizzare l’espianto degli organi. La madre non ha dato informazioni su di lui. Sarebbe di nazionalità nigeriana. L’uomo può contattare direttamente la direzione sanitaria del Bambino Gesù al numero 0668592424 o i carabinieri del nucleo investigativo al numero 0648942931 o al 112. La donna ha detto al suo avvocato che ora i bambini sono liberi: “Sapevo che ieri era in programma l’udienza davanti ai giudici del Riesame che dovevano discutere della mia posizione. I miei figli intanto li ho liberati, adesso sono in Paradiso”. Non si poteva immaginare? Non si poteva fare nulla? Non si potevano allontanare i figli se la madre era a rischio? “Io sono certa”, dice Susanna Marietti, “che sarà stata presa in carico al colloquio di ingresso, appena un mese fa, che il sostegno le sarà stato dato. Ci sono psicologi e psichiatri in istituto. Non è però che se una persona ha bisogno di un sostegno psicologico vuol dire che automaticamente i figli sono a rischio e che vengono tolti alla madre e mandati ai servizi sociali. Se qualcuno avesse anche potuto solo vagamente immaginare la tragedia lo avrebbe fatto”. Sono 12 in tutto i penitenziari italiani che ospitano bambini. In 5 casi, Milano San Vittore, Venezia Giudecca, Torino “Lorusso e Cutugno”, Avellino Lauro e Cagliari ci sono “Istituti a custodia attenuata per detenute madri”, Icam. Non sono istituti di pena classici. “Anchel’Icam è un carcere”, spiega Susanna Marietti, “sgombriamo il campo da questo equivoco. All’interno la giurisdizione è del ministero della giustizia, non dei servizi sociali. Da nessuna parte però è scritto che il carcere debba essere grigio, tetro e con le sbarre. L’Icam è un carcere costruito in maniera meno opprimente affinché i bambini soffrano meno la situazione della detenzione”. Proprio gli Icam devono essere la soluzione per il Garante dei detenuti della Regione Piemonte Bruno Mellano. “Il corridoio di un carcere abbellito non può essere la soluzione, servono istituti a custodia attenuata con tutela del bambino anche piccolissimo che introietta atmosfera e sensazioni, le modalità di vita. I primi mille giorni di vita sono decisivi per la formazione e in questo caso conosce le dinamiche penitenziarie”. Milano ha un alloggio che non ha niente a che non ha niente a che fare con il penitenziario, a Torino è all’interno del primo muro di cinta. Negli altri esistono le sezioni Nido. È il caso di Rebibbia dove la sezione è una struttura distaccata dal resto dei padiglioni. In ogni cella c’è un letto con una culla in legno. All’interno del reparto ci sono una ludoteca e una piccola cucina. La scala porta al giardino dove ci sono i giochi. Il carcere romano ospita 16 bambini con 13 mamme, il numero più alto in Italia. Secondo i dati del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria al 31 agosto 2018 erano 62 i bambini nelle carceri della penisola, 33 italiani e 29 stranieri. Non è un obbligo portare i figli in carcere, ma una possibilità che la legge prevede per le donne con piccoli fra 0 e 3 anni perché non ci sia distacco dalla madre. “Dipende dai casi”, spiega la coordinatrice di Antigone, “ci sono donne che preferiscono lasciarli fuori ai padri o ai nonni, donne che preferiscono portarseli in carcere nonostante abbiano padri e nonni all’esterno, donne che hanno qualcuno fuori dal carcere, ma questa persona lavora e non potrebbe comunque tenere il bambino. Valutano come qualunque donna se tenere il bambino soprattutto se piccolo o in allattamento”. Dopo i tre anni si devono valutare soluzioni alternative di permanenza in carcere o l’affido ai servizi sociali. Nel 2011 è stata approvata una nuova normativa che consente la possibilità di scontare la pena in una Casa famiglia protetta, veri appartamenti con al massimo sei famiglie per struttura. Così si evitano ai bambini limitazioni e alle madri viene data la possibilità di seguirli per la scuola o assisterli in caso di malattie. Ci sono però cose che si potrebbero fare anche con i bambini carcere perché la loro vita non sia limitata all’interno dell’istituto. “Si potrebbero organizzare servizi di collegamento che portino i bambini all’esterno, per esempio all’asilo nido perché giochino con altri piccoli. Il comune di Roma ha in passato messo a disposizione un pulmino per questo servizio. Era guidato da volontari dell’Associazione A Roma, insieme - Leda Colombini e li portavano a scuola, ma anche al mare il sabato. Dall’amministrazione Alemanno in poi non è più esistito”. Mancano organizzazione e fondi. “Quei bambini sono liberi”, spiega ancora Susanna Marietti, “non sono detenuti, possono uscire con i padri e potrebbero farlo con un servizio organizzato, ma è iniziativa che deve venire da fuori, non da dentro il carcere”. Questo fa l’Icam secondo il racconto di Mellano che parla dell’esperienza torinese in cui l’Icam vede la presenza di assistenti sociali e i bambini frequentano un nido esterno. “L’intera concezione del carcere”, aggiunge Mellano, “andrebbe rivista perché creata per gli uomini. Dovrebbero crearsi strutture diverse per la gestione di maternità e affettività”. Arriva un no ai bambini in carcere dall’Associazione A Roma, insieme: “Questa tragedia ci induce a ribadire, senza la minima volontà di strumentalizzare un evento così doloroso, quanto dalla nostra associazione da anni sostenuto “che nessun bambino varchi più la soglia di un carcere” risponde tanto più ora ad una necessità morale e di civiltà”. La stessa associazione ha organizzato una raccolta di immagini per raccontare come vivono i bambini figli delle detenute all’interno delle carceri italiane. “Che ci faccio io qui? I bambini nelle carceri italiane” è il titolo dell’esposizione ed è preso in prestito dal libro di Bruce Chatwin. La mostra è allestita fino al 16 ottobre alla Regione Piemonte dal Crvg, Conferenza Regionale dei Volontari della Giustizia di Piemonte e Valle d’Aosta. Le foto sono state scattate in 5 Istituti penitenziari femminili italiani: Roma Rebibbia, Avellino Bellizzi Irpino-Pozzuoli, Milano San Vittore, Torino Lorusso e Cutugno e Venezia Giudecca, da cinque differenti artisti di fama internazionale: Marcello Bonfanti, Francesco Cocco, Mikhael Subotzky, Riccardo Venturi e Luigi Gariglio. Rebibbia, sospesi i vertici. Morto il secondo bambino di Eleonora Martini Il Manifesto, 20 settembre 2018 Il ministro di Giustizia Alfonso Bonafede rimuove la direttrice, la vice e il capo delle agenti di polizia penitenziaria. “Ho liberato i miei figli. Ora sono in paradiso”, ha affermato la donna piantonata in psichiatria. Il giorno dopo della tragedia di Rebibbia, mentre i medici ospedalieri dichiaravano la morte cerebrale anche del secondo bambino della detenuta tedesca che martedì mattina ha gettato giù dalla rampa delle scale del “nido” del carcere i suoi due figli, con una misura che a memoria non ha precedenti, ieri il ministro di Giustizia Alfonso Bonafede ha sospeso Ida Del Grosso, la direttrice della casa circondariale femminile romana, la sua vice, Gabriella Pedote, e la vice comandante della Polizia penitenziaria, Antonella Proietti. Una misura, questa, “affrettata e controproducente”, l’hanno bollata in molti, dentro e fuori il mondo della giustizia e delle carceri, dai Radicali di +Europa a Leu e al Pd, dai sindacati di polizia penitenziaria ai garanti dei detenuti. Un provvedimento ad effetto, che si vorrebbe ispirato dall’assoluta intransigenza e si presta bene a spostare l’attenzione sull’ultima ruota di un carro - il carcere - che non funziona perché mal congeniato e continuamente boicottato. E assolve un ministro e un governo che, solo per fare un esempio, non hanno esitato un istante ad affossare, ad un passo dall’approvazione definitiva, la riforma penitenziaria che, tra gli altri nodi, si occupava del problema irrisolto dei troppi bambini costretti alla detenzione in carcere con le loro madri (come fa notare l’ex Guardasigilli Andrea Orlando, non certo esente da responsabilità in merito). “Se ho preso questi provvedimenti - ha spiegato Bonafede, intervenendo a “L’Aria che tira” su La7 - vuol dire che ho ritenuto che sono stati fatti errori. Il messaggio deve essere chiaro: nel mondo della detenzione non si può sbagliare”. E commentando chi sottolinea l’incompatibilità con il carcere di una detenuta straniera tossicodipendente, con due bambini piccoli e problemi psichici, il ministro ha risposto: “Se c’è una cosa che mi fa schifo - parole testuali - è che quando c’è una tragedia tutti si improvvisano tuttologi, commentano la legge e parlano. C’è solo da stare zitti e da attendere gli accertamenti. Io come ministro ho già preso i miei provvedimenti a tempo di record”. In effetti auspicava il silenzio anche il Garante nazionale dei detenuti, Mauro Palma, che ieri ha però voluto precisare in una nota che la responsabilità di quanto accaduto a Rebibbia, oltre che personale della detenuta, “è responsabilità collettiva: della carenza di strutture di casa famiglia protette, che esistono in numero limitatissimo e che dovrebbero costituire la soluzione prioritaria; delle comunità locali che spesso non gradiscono le presenze delle detenute madri nel loro territorio; della pretesa volontà di anteporre le necessarie esigenze di giustizia a quelle due tutele a cui si faceva riferimento prima; di un’opinione pubblica che volge il suo sguardo al carcere solo in occasione di tragedie e non anche ai molti aspetti di cura e tutela che vi si svolgono ogni giorno. Certamente - conclude Palma - la responsabilità non è del punto terminale di chi si trova a dirimere tale intrico di conflitti e di problema aperti e che, nel caso della direzione dell’Istituto femminile di Roma, lo ha sempre fatto con la massima attenzione a tutte le diverse esigenze”. Intanto ieri la procura ha diramato un appello per cercare il padre dei due bambini uccisi a Rebibbia, Ehis E., di nazionalità nigeriana, al fine di ottenere l’autorizzazione per l’espianto degli organi del bimbo più grande del quale ieri è stata dichiarata la morte cerebrale (nato a Monaco di Baviera il 2 febbraio 2017, mentre la sorellina morta sul colpo era nata nella stessa città tedesca il 7 marzo scorso). “I miei bambini adesso sono liberi”, avrebbe detto la detenuta 33enne al suo avvocato, Andrea Palmiero. Tedesca di nascita, georgiana di origine, arrestata in flagranza di reato il 26 agosto per concorso in possesso di 10 kg di marijuana, A.S. è tossicodipendente e in passato avrebbe tentato il suicidio, secondo quanto appreso dagli inquirenti nelle ultime ore. “Sapevo che ieri (martedì stesso, ndr) era in programma l’udienza davanti ai giudici del Riesame che dovevano discutere della mia posizione. I miei figli li ho liberati, adesso sono in Paradiso”, ha spiegato al suo legale la donna che si trova piantonata nel reparto di psichiatria dell’ospedale Sandro Pertini. Una donna che forse avrebbe avuto bisogno di un aiuto psichiatrico assai prima di commettere il reato, di essere aiutata a crescere quei due figli che aveva chiamato - significativamente - Faith (Fede) e Divine. Rebibbia: il silenzio necessario, Bonafede e la politica del capro espiatorio di Patrizio Gonnella Il Manifesto, 20 settembre 2018 Di fronte a due bimbi morti e alla tragedia immane avvenuta nel carcere femminile di Rebibbia avremmo tutti dovuto chiuderci in un rispettoso silenzio. Di fronte a un fatto di cronaca così terribile il silenzio ha una forza etica imparagonabilmente superiore a chi spreca parole per spiegare, strumentalizzare, sentenziare. Una rottura del silenzio, anche da parte mia, è però necessaria per svelare il gioco del capro espiatorio e per restituire dignità a persone che la meritano. Mario Gozzini, cattolico, eletto negli anni ‘80 in Parlamento nelle liste del Pci, è stato il padre della riforma penitenziaria del 1986. Negli anni successivi all’approvazione della legge Gozzini era diventato il capro espiatorio di tutti i crimini commessi o impuniti nel nostro Paese. Lui stesso scriveva come spesso gli fosse detto in modo superficiale che lui era tanto sensibile al tema soltanto perché era cattolico. A costoro Gozzini rispondeva che la professione di fede non c’entrava nulla e che per lui la questione penitenziaria era una questione sociale, civile, naturale, politica, economica. Infine, con il sorriso, spiegava che era ben lieto che il suo impegno si incrociava con un’esortazione di Cristo che aveva identificato se stesso con in carcerati (Matteo 25, 36). Gozzini funzionava bene come capro espiatorio ogniqualvolta un detenuto in misura alternativa commetteva un delitto. E ieri bene ha funzionato nella comunicazione pubblica un altro capro espiatorio. Il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede ha sospeso dalle loro funzioni la direttrice, la vice-direttrice e la vice-comandante del carcere femminile romano. Il capro espiatorio è servito con una tempestività che non lascia spazio a dubbi, difese, ragionamenti, biografie. Di fronte a un crimine che dovrebbe lasciare sbigottiti, un crimine che rimanda alla mitologia greca, si puniscono con la sospensione dal servizio, con severità raramente vista nelle istituzioni penitenziarie (di certo non vista in quelle galere dove si tollerano violenze), tre persone per bene. Conosco personalmente la direttrice e la vice-direttrice di quel carcere e so che sono tra le dirigenti più brave, aperte, attente ai bisogni delle donne recluse presenti nel nostro sistema penitenziario. Le ho viste al lavoro mostrando grande rispetto e cura nei confronti delle detenute. Non so di quale errore siano responsabili. So però che non meritavano, alla luce della loro preziosa carriera, tale sospensione dall’incarico. Di certo, da oggi le detenute del carcere romano non staranno meglio di prima. Una volta che il capro espiatorio è servito dovremo affrontare un altro tema, ossia cosa vogliamo che accada quando una madre di un bimbo piccolo finisce in carcere. Sono molti i Paesi dove i bambini sono destinati all’istituzionalizzazione. Se dalla tragedia della follia avvenuta a Roma dovessimo uscirne con un ritorno a un passato di separazione forzata, violenta e dannosa dei figli dalle mamme allora vorrà dire che il capolavoro è drammaticamente compiuto. Aprite le celle dei bambini di Emanuele Macaluso Il Dubbio, 20 settembre 2018 I grandi giornali non hanno dato rilievo alla terribile notizia venuta dal carcere di Rebibbia dove una donna detenuta ha lanciato i suoi due figli per le scale: il più piccolo è morto, l’altro è in fin di vita in ospedale. È chiaro che questa donna in carcere per un discutibile reato (concorso in detenzione di stupefacenti), era ormai, come si usa dire, “fuori di testa”. Succede spesso in carcere. Come ieri ha giustamente detto Rita Bernardini, anche questi due bambini - di due anni e di quattro mesi - erano da considerarsi dei detenuti. E ciò in violazione della legge in vigore che non consente ai bambini che non hanno compiuto tre anni di stare in carcere: dovrebbero essere ospiti di una casa- famiglia. Questo caso riapre il discorso su un tema più generale che riguarda le condizioni dei carcerati, non solo per il persistente affollamento ma per le condizioni di vita e di possibile riabilitazione, come vuole la Costituzione. Tema affrontato nella scorsa legislatura dal ministro della Giustizia, Andrea Orlando, con la legge sulla riforma carceraria. Una legge che, dopo un complesso iter, aveva ottenuto tutti i voti necessari, tranne l’ultimo. Si tratta di un voto non dato dal Parlamento perché la legge subì rinvii in vista della fine della legislatura, ad opera delle opposizioni ma con il consenso passivo del governo che ebbe paura della campagna che la destra avrebbe scatenato in vista delle elezioni con lo slogan bugiardo: “legge svuota carceri”. Questa campagna venne fatta egualmente. E, dopo la formazione del governo cosiddetto giallo- verde, il ministro di Giustizia grillino, Bonafede, ha subito dichiarato che quella legge, che pure aveva ottenuto un largo consenso tra i magistrati e gli uomini di cultura, sarebbe stata cancellata. E l’aspetto più grave di questi giorni è la dichiarazione del capo del Dap (dipartimento giustizia), Francesco Basentini il quale ha definito la legge di riforma utilizzando esattamente con lo slogan bugiardo della destra (legge “svuota carceri”). Una vergogna. Ma proprio in quella riforma era previsto che non avrebbero potuto più stare in carcere i bambini di qualunque età. La verità è che l’arretramento generale sul terreno della giustizia è il segnale più evidente che questo governo si identifica con la cultura illiberale degli Orbàn. Ho più volte detto, e ripeto, che la qualità della giustizia connota la qualità della democrazia di un Paese. In questi giorni è in corso lo scontro tra Salvini e l’Associazione dei magistrati che critica la legge sulla cosiddetta autodifesa. Cioè si vuol sottrarre alla magistratura il giudizio su fatti in cui un ladro o un presunto tale viene ucciso da chi subisce un furto o una rapina. È il giudice che dovrebbe sentenziare sulla legittimità di un fatto che non connoti un omicidio. Mi pare che ci sia materia per una riflessione più generale sui temi della giustizia, anche nella magistratura. Due bimbi e un condono di Mattia Feltri La Stampa, 20 settembre 2018 Il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, è compiaciuto della propria solerzia. Ventiquattro ore dopo che una povera sciagurata detenuta a Rebibbia aveva lanciato giù dalle scale i due figli di sei mesi e un anno e mezzo, uccidendoli, il ministro ha encomiato se stesso e i “tempi record” con cui è intervenuto a punire i colpevoli. Ha sospeso i vertici della sezione femminile, col massimo del rigore che il governo vanta a ogni occasione (tranne che con gli evasori fiscali: con loro si fa la pace). Tocca aggiungere qualche dettaglio. La povera sciagurata è una georgiana di 33 anni nata in Germania. È stata arrestata il 27 agosto perché viaggiava con due uomini in un’auto che trasportava dieci chili di marijuana, di cui lei diceva (in tedesco, non conosce una parola di italiano) di non sapere nulla. Forse mentiva, forse no. L’hanno portata subito in galera coi bambini. Il codice di procedura penale, il ministro lo sa di sicuro, prescrive che le madri con figli inferiori ai sei anni non devono andare in custodia cautelare in carcere (prima del processo), a meno che non ci siano “esigenze eccezionali”. Quali fossero, le esigenze eccezionali, quale fosse il terribile rischio che la donna rappresentava per tutti noi, è piuttosto oscuro. La Corte Costituzionale ha spesso sottolineato i diritti dei bambini, non inferiori al diritto alla sicurezza. I governi, di destra e di sinistra, hanno ripetuto alla noia, senza poi fare nulla, “i bambini in prigione mai più”, e invece i bambini in prigione sempre, ancora. E sarà così domani e dopodomani, sotto il condono tombale della nostra crudele indifferenza. Bonafede sospende la direttrice di Rebibbia, 60 bimbi restano in cella di Simona Musco Il Dubbio, 20 settembre 2018 La madre dei bimbi morti ai pm: “ora sono finalmente liberi”. Via i vertici del penitenziario femminile. Il giorno dopo la morte della piccola Faith, di soli quattro mesi, e il ferimento grave del fratellino Divine, di 19 mesi, scaraventati giù per le scale del nido del carcere di Rebibbia dalla madre, il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede sceglie il pugno duro. E pronuncia parole pesanti: “sono stati fatti errori. Il messaggio deve essere chiaro: nel mondo della detenzione non si può sbagliare”. Per ora, a pagare sono il direttore della casa circondariale femminile, Ida Del Grosso, la sua vice, Gabriella Pedote, e il vicecomandante del reparto di Polizia penitenziaria, Antonella Proietti, persone molto apprezzate negli ambienti dell’associazionismo carcerario. I provvedimenti di sospensione sono stati subito adottati dal capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, Francesco Basentini, che ha avviato un accertamento ispettivo all’interno del carcere. E intanto la tragedia si aggrava: per Divine, ricoverato subito in condizioni disperate al “Bambin Gesù”, è stata dichiarata la morte cerebrale. “Le ultime indagini - si legge nel bollettino medico diramato ieri dall’ospedale - hanno confermato la condizione di coma areflessico con elettroencefalogramma isoelettrico”. Una notizia che non ha sconvolto la madre del piccolo, Alice, di 33 anni: “i miei bambini adesso sono liberi in Paradiso”, ha confidato al suo legale, Andrea Palmiero, nel reparto di psichiatria dell’ospedale Pertini, dove si trova piantonata da martedì. Le polemiche, nelle ore immediatamente successive, si sono concentrate sull’opportunità di tenere in carcere una madre arrestata in flagranza per spaccio il 26 agosto scorso - con due bambini piccoli. Tema sul quale Bonafede non accetta, però, lezioni. “Se c’è una cosa che proprio mi fa schifo è che quando c’è una tragedia tutti si improvvisano tuttologi e parlano e commentano la legge. Qui c’è solo da stare zitti e aspettare che ci siano gli accertamenti dei fatti - ha dichiarato a “L’aria che tira”, su La7 -. Quando si può fare la detenzione domiciliare si fa”, ha chiarito, ma in alcuni si opta per “strutture specializzate. Parliamo - ha spiegato - di veri veri e propri asili nido in cui i bambini devono essere controllati h24”. E anche a casa, insiste il ministro, i bambini non sarebbero stati al sicuro. Quel che è certo è che Rebibbia non rientra tra i cosiddetti Icam, gli istituti a custodia attenuata per detenute madri, previsti dalla legge 62/ 2011. Una legge pensata per valorizzare il rapporto tra madri e figli all’interno del penitenziario, in ambienti pensati come una casa- famiglia. Sette dopo quella legge, però, sono soltanto cinque gli Icam attivati. E dove non esistono, come nel caso di Rebibbia, i bambini finiscono “reclusi”, fino ai 3 anni, nelle sezioni nido nei penitenziari femminili. Secondo le statistiche del ministero, sono 62 attualmente i bambini in cella assieme alle proprie madri. Sessanta da martedì, dopo la tragedia di Rebibbia, che conta ora 14 bambini, il numero più alto in Italia. Il sindacato di polizia, che ha annunciato manifestazioni in tutta Italia, critica intanto la decisione di Bonafede, definita “assurda e irragionevole”. Al punto da chiedere le dimissioni del ministro e del capo del Dap. “La scelta ministeriale di dimostrarsi forte con i deboli è davvero senza alcuna logica - dichiara Donato Capece, leader del Sappe. Ci si dovrebbe chiedere perché a Roma non c’è un istituto a custodia attenuata per mamme detenute con figli come invece esiste in altre parti d’Italia. I bambini in carcere non devono stare, mai. E allora bisogna dare le colpe a chi le ha: a chi non ha realizzato una analoga struttura nella Capitale d’Italia, ossia ministero della Giustizia e Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, e non invece a chi dirige e gestisce con mille difficoltà quotidiane ma con sacrifici continui e professionalità un carcere complicato come quello di Rebibbia”. Secondo Capece, quanto accaduto a Rebibbia è stato un evento improvviso, senza alcuna avvisaglia. E toccherebbe a Bonafede “fare in modo che i bimbi delle donne detenute in carcere non entrino ma stiano in strutture ad hoc come gli Icam”. La Procura di Roma ora cera il padre dei bambini, Ehis E., nigeriano, del quale da tempo non si hanno più notizie. È infatti necessario il consenso dell’uomo affinché si proceda all’espianto degli organi di Divine. La madre, sottoposta ad arresto in stato di flagranza, che il gip convaliderà nelle prossime ore, non è stata in grado di riferire ieri al procuratore aggiunto Maria Monteleone e al pm Eleonora Fini dove l’uomo si trovi attualmente. Icam vs “Sezioni Nido”. Che cosa è cambiato? di Cesare Burdese Ristretti Orizzonti, 20 settembre 2018 Nel 2103 è comparso un mio scritto su La Collina, rivista della Comunità la Collina - Serdiana, dal titolo Uno spazio dove nascere e crescere in carcere. Valori architettonici a sostegno dell’infanzia reclusa. Lo scrissi con uno stato d’animo molto diverso da quello con cui mi accingo oggi a scrivere le cose che avrete la pazienza di leggere. Allora ero pieno di entusiasmo, per le nuove prospettive che, anche in termini architettonici, la nuova norma da un paio d’anni emanata in materia di disposizioni in tema di detenute madri (L. 21 aprile 2011 n. 62), che aveva istituito gli Istituti a Custodia Attenuata per Madri (Icam), lasciava intravedere per la realtà carceraria nazionale. A ciò si aggiungeva il fatto che stavano per partire nella Casa Circondariale di Torino i lavori per la costruzione dell’Icam, che io stesso avevo progettato con passione ed impegno. Oggi, seppur confortato dal fatto che l’Icam torinese funzioni bene, secondo la ratio della norma e secondo le mie intenzioni progettuali, grazie e soprattutto al merito di uno staff molto qualificato ed impegnato, scrivo con tutta l’amarezza ed il disagio che mi deriva dal dover prendere atto di come nel nostro paese prevalgano in tema di architettura carceraria, le parole sui fatti. La mia sensazione è che le parole siano più finalizzate a perseguire obiettivi elettorali e di puro potere, e non per addivenire a soluzioni fattuali che risolvano i problemi; i muri carcerari restano quelli di sempre nei fatti e nei pensieri, incoerenti e incostituzionali. Ho vissuto i recenti fallimenti che hanno caratterizzato nel nostro paese in questi ultimi anni lo scenario architettonico penitenziario: dal nulla di fatto del Piano carceri varato nel 2011, alle inattuate indicazioni della Commissione Palma per una nuova quotidianità detentiva, dall’inadeguatezza dei contenuti del Tavolo tematico n.1: Architettura e Carcere Gli spazi della pena degli Stati Generali dell’Esecuzione penale al naufragio della Riforma Orlando dell’Ordinamento penitenziario. L’attualità di cose scritte cinque anni fa resta viva in materia di “infanzia reclusa” (ma cosa sono cinque anni rispetto ai quarant’anni del fallimento dell’Ordinamento Penitenziario del 1975?). Anche se i numeri delle presenze sono limitate, ma comunque superiori a cinque anni fa, i bambini continuano da innocenti a scontare la galera, in ambienti inadatti a loro ed alle loro mamme, disumani ed inadeguati, salvo rarissime eccezioni. La cosa che più sconcerta è che non si intravedono all’orizzonte, da parte di chi ne ha la responsabilità istituzionale, per la questione delle mamme detenute con i loro bambini, segnali di una programmazione certa (fatta di strategie edificatorie, progetti architettonici, risorse economiche utilizzabili) auspicabilmente alternativa al carcere. Riporto di seguito il testo citato, per comprendere alcune delle problematiche in atto in merito alla questione degli spazi detentivi delle mamme detenute con i loro bambini, dal punto di vista architettonico. Valori architettonici a sostegno dell’infanzia reclusa. “Non potremo mentire a noi stessi, non potremo dire che non sapevamo. C’è il dovere di sapere e di voler sapere.” Giuliano Palladino - 1960 Freedom è un bambino di quasi tre anni, ristretto con la sua mamma detenuta nella Casa circondariale Lorusso e Cutugno di Torino (2013). Ho fatto la sua conoscenza nella sezione detentiva dove vive, che fra qualche tempo sarà dismessa, in quanto è prevista la realizzazione, fuori dell’area detentiva, di una struttura alternativa, della quale sono il progettista. Nelle carceri italiane al 30 giugno 2012 risultavano presenti 60 bambini, insieme alle loro madri (57), cui dovevano aggiungersi 13 detenute in gravidanza; a l 31 dicembre di quest’anno i bambini si erano ridotti a 41.Le sezioni che ospitano queste mamme e bambini, a loro esclusivamente riservate, sono denominate “Sezioni nido”, presenti in alcune carceri sparse per la penisola. Dal 1° gennaio 2014, bambini e bambine potranno vivere con la propria madre detenuta in carcere da 0 sino a sei anni; attualmente sino a 3 anni. La nuova norma (L. 21 aprile 2011 n.62) ha introdotto importanti modifiche al codice di procedura penale ed all’ordinamento penitenziario, con la finalità di agevolare il mantenimento ed il ripristino della relazione genitoriale dei detenuti ed affrontare - attraverso la realizzazione di strutture adeguate - il problema della permanenza dei bambini ristretti con le madri negli Istituti Penitenziari. Posto il divieto di custodia cautelare in carcere - fatte salve le esigenze cautelari di eccezionale rilevanza - la legge citata ha previsto infatti l’istituzione di nuove strutture, le Case famiglia protette, non appartenenti all’Amministrazione Penitenziaria, per l’esecuzione degli arresti domiciliari o della detenzione domiciliare per donne incinte, madri e/o padri con prole convivente, nonché il ricorso agli Istituti a Custodia Attenuata per detenute madri (I.C.A.M.) Con riferimento agli I.C.A.M., si rammenta che all’interno di tali strutture, potranno essere ospitati sia bambini sino a dieci anni, che genitori di sesso maschile in custodia cautelare od esecuzione di pena, nel caso di mancanza od impossibilità della madre. Risulta chiaro come - almeno in linea di principio - il legislatore si sia impegnato per scongiurare ai bambini ristretti, l’esperienza traumatizzante del carcere e abbia fatto prevalere le esigenze genitoriali e di educazione su quelle cautelari. Ad oggi non sono state realizzate Case famiglia protette, così come la norma prescrive. Nel 2006, ancora prima del varo della legge n. 62, è stata realizzata a Milano una struttura sperimentale I.C.A.M., senza però il corredo di una elaborazione progettuale adeguata, cosa che ha contribuito a determinare problemi sul fronte della sicurezza alle evasioni e di natura logistica. Nel corso del 2012 il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria ha tratteggiato alcune linee guida relative alle caratteristiche tecniche delle sedi da adibire ad I.C.A.M., e ciò al fine di evitare l’emersione di criticità successivamente alla realizzazione dei progetti. Nel 2012 è stato inaugurato un I.C.A.M. a Venezia. Attualmente risultano allo studio, fra l’altro, i progetti degli I.C.A.M. di Catanzaro, Roma, Firenze e Padova. A Torino stanno per essere appaltati i lavori per la costruzione della struttura I.C.A.M. citata. Anche se il legislatore ha saputo fornire, con la legge n.62, strumenti giuridici di indiscussa civiltà, resta il timore/convinzione che la realtà non sarà tale, vista l’attuale incapacità dello Stato a superare la “miseria” delle nostre carceri. In futuro, i bambini ristretti, anche se potranno procrastinare sino al sesto/decimo anno di età il drammatico momento del distacco dalla propria madre detenuta, difficilmente potranno evitare il trauma del carcere, per la mancanza di strutture adeguate. Cosciente delle numerose criticità del nostro sistema penitenziario/amministrativo, sostengo che la qualità architettonica degli spazi carcerari, debba essere posta tra le priorità assolute da affrontare e risolvere. L’incarico di progettazione che mi è stato affidato, mi ha consentito di fornire soluzioni inedite nella realtà progettuale carceraria e di tracciare una via. Il progetto elaborato è coerente con la ratio della norma, rispettoso della dovuta qualità ambientale che deve appartenere ad ogni ambiente di vita e di lavoro ed è attento ai bisogni fisici e psicologici-relazionali di quanti, indipendentemente dall’età, a vario titolo sono costretti a subire la dura realtà del carcere. La mia proposta progettuale, certamente perfettibile, si è sviluppata a partire dalle criticità architettoniche riscontrate nella “Sezione nido”, dove Freedom sta crescendo, e in sintesi si risolve nel superamento delle stesse. Fondamentale il fatto che la nuova struttura sia stata prevista fuori dell ‘area detentiva, e che, pur ospitando persone private della libertà personale, possa consentire, pur senza venir meno alle esigenze di sicurezza, soluzioni edilizie non carcerarie ma domestiche. L’attuale “Sezione nido” - dal punto di vista architettonico - altro non è che una sezione detentiva tradizionale, dove è possibile muoversi con un minimo di autonomia in più. Essa è collocata nell’edificio che ospita la sezione femminile, nella Casa Circondariale edificata alla estrema periferia della città, sulla fine degli anni 70 del secolo scorso, secondo principi architettonici improntati esclusivamente alla sicurezza, per ospitare c.ca mille detenuti, che oggi sono oltre il 50% in più. Come nei restanti casi, la “Sezione nido” è stata realizzata adattando, per quanto possibile, una sezione detentiva esistente per una generica tipologia di detenuti; per questo motivo essa continua ad essere fortemente connotata nel senso di un ambiente carcerario. Permangono pesanti e rumorosi cancelli a sbarre, i “blindati” con lo spioncino per le porte delle camere, massicce inferriate alle finestre sempre uguali per forma e dimensioni ovunque, improbabili porte esterne in lamiera anziché a vetri, ambienti poco illuminati ed areati, ecc. Le camere, per il riposo notturno, come i restanti ambienti, sono molto essenziali, spoglie e poco arredate. La sua organizzazione spaziale è oltremodo schematica ed elementare, non dovutamente articolata, essendo concepita originariamente per contenere ed incapacitare individui adulti e non per consentire la crescita armonica di un bambino con la propria madre. Sarebbe opportuno che una simile struttura avesse innanzi tutto la zona per la notte distinta da quella per il giorno, per consentire un modello di vita scandita da ritmi e orari più simili a quelli della vita libera. La “Sezione nido” utilizza alcuni locali (lavanderia, stireria, infermeria, laboratori, locale colloqui, ecc.), in comunione con le restanti sezioni, nella struttura femminile che la ospita. Questa circostanza determina un ambiente disomogeneo e non esclusivo, che non permette di sentire un’atmosfera familiare, di casa nella quale ritrovarsi. Le madri detenute ed i loro bambini, non dispongono autonomamente degli spazi dove vivono, rimanendo a lungo segregate ed inattive tra le camere per il riposo notturno e l’unico corridoio della sezione, anche causa la carenza di personale di custodia, che è addetto alla loro movimentazione all’interno della struttura. Si osserva come il modello di vita delle donne detenute e dei bambini sia fortemente condizionato da come è concepito architettonicamente il loro spazio detentivo, “infantilizzante” anziché, come sarebbe auspicabile, di tipo comunitario autogestito e responsabilizzante. Freedom ha una possibilità limitata di movimento, da solo od accompagnato, e non solo per motivi di sicurezza. In questo modo è minato negli stimoli sensoriali esterni, essendogli impedita l’esperienza della varietà degli ambienti che normalmente l’individuo libero sperimenta, sia al chiuso che all’aperto. L’ambiente uniforme e monotono nel quale è costretto, gli preclude la pluralità di esperienze tattili, visive, olfattive e uditive. Quando Freedom viene portato saltuariamente all’aperto è per andare a giocare su di un prato, che sorge nel recinto carcerario e sul quale incombono i sinistri edifici del carcere, oppure per raggiungere l ‘asilo pubblico in città. Suo malgrado, nel tragitto da dento a fuori, egli deve subire le mura del carcere che lo circonda e le procedure di sicurezza; realtà fatte di vaste aree cementificate e prive di verde, edifici fatiscenti, lunghi corridoi, rumori dei cancelli che si aprono e che si chiudono e segnali di allarmi improvvisi, urla, odori sgradevoli, uomini in divisa e lunghi tempi di attesa prima dell’aperture delle porte ecc. È bene ricordare come l’esagerato utilizzo di porte che si aprono e si chiudono nel carcere, spaventino questi bambini; in questi casi si possono osservare situazioni di disagio, irrequietezza, facilità al pianto, difficoltà di sonno, inappetenza e una certa correlazione tra ritmo sonno/veglia e porte chiuse per periodi prolungati. Daniel Gonin ci ha illustrato gli effetti devastanti - materiali e morali - della privazione della libertà sul “corpo incarcerato” adulto, tanto più se in un ambiente impoverito dal punto di vista degli stimoli e delle sollecitazioni sensoriali; per quello che abbiamo appreso, possiamo affermare che questi bambini ristretti hanno a subire la stessa sorte. Per questo è doveroso prodigare l’impegno, per concorrere a realizzare al più presto quanto la norma consente e la coscienza civile impone. Torino lì, 2013 Politica e magistratura. La separazione dei poteri è un bene assoluto di Martino Loiacono Italia Oggi, 20 settembre 2018 Il popolo venne usato ai tempi di Mani pulite per consentire ai magistrati di allargarsi. Matteo Salvini, invocando il popolo, rischia adesso di ripetere lo stesso errore. Dopo la diretta Facebook in cui apriva la lettera contenente l’avviso di garanzia per il caso Diciotti, Matteo Salvini è di nuovo al centro delle polemiche. Giustamente, diranno alcuni. Certo, perché contrapporre due corpi dello Stato sulla base della legittimazione popolare lede i princìpi costituzionali. Aprire un conflitto tra magistratura non elettiva e potere esecutivo elettivo è sicuramente una forzatura. Non a caso, Mattarella ha ricordato che i politici non sono mai al di sopra della legge, evidenziando che i giudici traggono la propria legittimità dalla Costituzione. Singolare coincidenza ha voluto che questo discorso di Mattarella fosse pronunciato durante la cerimonia per il centenario della nascita di Scalfaro. Un presidente della Repubblica, quest’ultimo, che nel corso di Mani Pulite usò l’enorme consenso popolare nei confronti del Pool di Milano per sostenere apertamente le inchieste della magistratura. Anche quando erano in conflitto con la carta costituzionale. Basti pensare alla violazione sistematica dell’articolo 27, relativo alla presunzione di non colpevolezza, e all’utilizzo della carcerazione preventiva al fine di estorcere confessioni. La questione, dunque, non è semplice come sembra. E, d’altra parte, il leader della Lega non è l’inventore dell’uso strumentale della cosiddetta volontà popolare. Basti ricordare cosa accadde tra il 1992 e il 1994 per capire che la legittimazione popolare venne utilizzata per giustificare un’azione giudiziaria fuori dal comune, volta a scardinare e distruggere l’intero sistema dei partiti (ad eccezione del Pci-Pds). Ovviamente, all’inizio degli anni Novanta, la corruzione era massicciamente diffusa e i partiti erano agonizzanti. Serviva una scossa per innovare un sistema istituzionale ormai sulla via del tramonto. E dove la politica non arrivò, arrivò la magistratura. Un’azione giudiziaria straordinaria fu possibile grazie al sostegno della stragrande maggioranza degli italiani. Con Di Pietro paragonato a Maradona, a cui si chiedeva di arrestare, senza distinzione alcuna, tutta la classe politica. Un articolo di Giulio Anselmi, pubblicato sulCorriere della Seranel maggio del 1992, aiuta a ricordare il clima di quel periodo e la forza travolgente del consenso popolare: “Sembra di assistere ad una straordinaria partita. Ad ogni arresto, fragorosi olé di entusiasmo si levano dall’arena metropolitana. Un tifo da stadio circonda l’inchiesta giudiziaria condotta forse con maggiore rigore. Il sostituto procuratore Di Pietro, che ne regge le fila, a dispetto delle sue cautele e delle esigenze stesse del processo, viene trasformato dall’immaginario collettivo in goleador, torero, gladiatore solo in campo contro i cattivi. I cattivi, manco a dirlo, sono i politici, senza eccezione, colpevoli di aver saccheggiato Milano e il Paese per i loro interessi di partito e di famiglia, incapaci, come i sovrani assoluti di una volta, di distinguere cassa pubblica e denaro privato. Contro di loro [ ] si sbizzarrisce la fantasia della gente, nelle conversazioni di salotto, nelle chiacchiere dei bar, nelle poche parole scambiate sul tram e in metropolitana: taglio della mano come in Arabia, o gogna in piazza come nel Medio Evo?”. E così le tante forzature del Pool di Milano furono più o meno accettate perché la gente (il popolo a cui si appella il leader della Lega) apprezzava il Dipietrismo. Quel che sta accadendo oggi con Salvini non è un processo dissimile, anzi. Si sta rovesciando quel che accadde 25 anni fa. Il ministro degli interni è in grado di attaccare la magistratura perché sente il sostegno popolare. Buona parte degli italiani, infatti, ritiene ingiusta l’inchiesta e appoggia l’operato del Viminale. Dal supporto ai magistrati si è passati al sostegno della politica, forse a causa dell’Odissea berlusconiana. E in tutto questo processo il Paese perde. Perde perché la separazione dei poteri è stata messa in discussione più volte e da più parti, perde perché questo rapporto patologico non permette l’equilibrio fondato sul sistema liberale del check and balance. E finché non sarà ristabilita la normale dialettica tra potere esecutivo e giudiziario l’Italia sarà schiava dell’ambiguo concetto di volontà popolare: come può esistere un’unica volontà per 60 milioni di italiani? Mistero. Corte Costituzionale: rispetto dei diritti di profughi e detenuti di Ugo Magri La Stampa, 20 settembre 2018 Il presidente Lattanzi annuncia a Mattarella un “viaggio” nelle carceri. E ribadisce che la legalità va rispettata. Anche nei confronti dei migranti. La Corte costituzionale non si piegherà al vento autoritario che spazza l’Europa e difenderà, controcorrente, i valori della civiltà giuridica. Questo è andato a dire ieri a Sergio Mattarella il presidente della Consulta, Giorgio Lattanzi. L’occasione era rappresentata dal “viaggio” che i giudici della Corte inizieranno il 4 ottobre nelle carceri, prima tappa Rebibbia. La finalità è diffondere perfino in quel contesto la conoscenza dei principi che ispirano la Carta repubblicana. Ma dal resoconto del colloquio sul Colle si capisce che in gioco c’è ben altro. La Consulta vuole rammentare, a chi esercita il potere, come sia lì apposta per far rispettare le regole. Tutte, comprese quelle che parte della politica cancellerebbe. Sugli immigrati, ad esempio. L’eco della “Diciotti” La Costituzione e la Corte, avverte il suo presidente, “costituiscono una garanzia di legalità per tutti i detenuti, che siano cittadini o stranieri, immigrati regolari o irregolari”. La sottolineatura fa venire in mente quanto è accaduto a Catania, con gli stranieri irregolari della nave Diciotti trattenuti a bordo. Se mai se ne occupasse la Consulta, già si può intuire il metro con cui verrebbe giudicata. Il criterio è quello dei diritti fondamentali che valgono sempre e per chiunque. “La Costituzione impone”, segnala Lattanzi, “che la detenzione non sia senza regole e che le regole, a loro volta, non siano in contrasto con la Costituzione”: un principio di cui Matteo Salvini (ovviamente mai citato, ci mancherebbe) farà bene a tener conto pure sui decreti sicurezza e immigrazione: se le espulsioni venissero estese a discapito delle garanzie minime, non supererebbero l’esame di costituzionalità. Contro i “vecchi fantasmi” - La Corte non fa politica, ma nemmeno intende subirla. Lattanzi, galantuomo garantista, fa filtrare un concetto del suo colloquio col presidente della Repubblica: “La Costituzione è una legge suprema, uno scudo nei confronti dei poteri dello Stato, che neppure il legislatore con le sue mutevoli maggioranze può violare”. In altre parole, nessun personaggio politico può sentirsi al di sopra della legge, e il consenso elettorale non è motivo sufficiente per calpestarla. Se qualcuno ci provasse, troverebbe pane per i suoi denti, avverte Lattanzi: “Sono le Carte e le Corti costituzionali, insieme con i giudici comuni, che ci difendono dai vecchi fantasmi che hanno ripreso ad agitarsi in Europa e a mettere in discussione le regole della democrazia, della libertà, dell’uguaglianza e i diritti fondamentali che le accompagnano”. Mattarella, a quanto si apprende, ha pienamente sottoscritto, dalla prima all’ultima parola. Consulta: “il legislatore non può sottrarsi ai vincoli della Carta” di Liana Milella La Repubblica, 20 settembre 2018 La Costituzione, una “legge suprema” che vale per tutti, anche per gli “ultimi”, come i detenuti e i migranti. Ma la Carta è soprattutto “uno scudo nei confronti dei poteri dello Stato, che neppure il legislatore con le sue mutevoli maggioranze può violare”. A scriverlo, in una nota condivisa dal capo dello Stato Sergio Mattarella dopo un incontro a due, è il presidente della Consulta Giorgio Lattanzi, un giudice tra i giudici. Quando è ormai sera non si registrano reazioni del leader leghista Matteo Salvini, anche se molti passaggi del testo che alle 12 parte dalla Corte, fanno venire in mente proprio lui, il ministro dell’Interno che ogni giorno sfida i giudici, lancia invettive contro i migranti, è stato il protagonista del caso Diciotti, pretende un carcere duro e senza sconti. Lattanzi, un giudice “mite” giunto all’apice della sua carriera, al vertice del giudice delle leggi da marzo, deve aver visto nella cronaca degli ultimi mesi - il caso Diciotti per esempio - cattivi segnali, spie di crisi profonda per la democrazia italiana. La sua battaglia per il rispetto dei diritti è antica, basta leggere le pagine della rivista Cassazione penale, di cui è stato direttore per anni, la sua preoccupazione di oggi - che Mattarella anticipa quando chiede a tutti il rispetto dei giudici - si fonda sui segnali in arrivo dalla cronaca in Italia e all’estero. Ecco Lattanzi allarmarsi per “i vecchi fantasmi che hanno ripreso ad agitarsi in Europa e a mettere in discussione le regole della democrazia, della libertà e dell’eguaglianza, e i diritti fondamentali che le accompagnano”. Quei “vecchi fantasmi” hanno nomi noti, razzismo, fascismo, ma anche sovranismo e populismo. Rispuntano da un passato che pareva sepolto. Ma Lattanzi è convinto che “le Carte e le Corti costituzionali, insieme con i giudici comuni, ci difendono dai vecchi fantasmi”. Sono lo scudo che nessuno può ignorare. Uno “scudo” che copre pure i detenuti. Perché proprio da qui parte Lattanzi, lanciando il viaggio della Consulta nelle carceri, che ha come prima tappa Rebibbia il 4 ottobre, simile a quello già fatto in 36 scuole. Nell’annunciarlo il presidente non usa parole a caso quando scrive che “la Costituzione e la Corte non conoscono muri e non si fermano davanti alle porte del carcere”. Dove “costituiscono una garanzia di legalità per tutti i detenuti, che siano cittadini o stranieri, immigrati regolari o irregolari”. Lattanzi, che a giugno in un’intervista al Corriere si definiva “una sentinella dell’ordine costituzionale”, deve aver visto all’orizzonte segnali che lo hanno portato al suo odierno altolà. Legittima difesa. Bonafede a Salvini: “non decidi tu” di Giovanni Maria Jacobazzi Il Dubbio, 20 settembre 2018 Il ministro respinge le critiche di Minisci ma anche gli aut aut del vicepremier. “La riforma della legittima difesa è un provvedimento molto atteso da tempo. E non abbiamo intenzione di fare passi indietro proprio ora”, dichiara al Dubbio il presidente della Commissione giustizia del Senato, il leghista Andrea Ostellari. “Vedo invece tante persone preoccupate del lavoro che stiamo facendo. Inviterei al rispetto delle prerogative del Parlamento e a non esprimere giudizi affrettati”, aggiunge. Il dibattito sulla modifica dell’articolo 52 del codice penale si infiamma ogni giorno di più. “Si rischia di legittimare l’omicidio” e di “fondare una giustizia fai da te”, aveva avvertito lo scorso lunedì il presidente dell’Associazione nazionale magistrati, Francesco Minisci. Immediata la replica di Matteo Savini: “È un’invasione di campo da parte delle toghe”. Ieri a far sentire la propria voce è stato il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede: “Il presidente dell’Anm ha tutto il diritto di esprimere perplessità, ci mancherebbe, ma la frase è generica e non dice nulla del testo”. Ma poi il guardasigilli indirizza una stoccata anche al ministro dell’Interno: “La competenza sulla legittima difesa non è di Salvini”. Non è finita qui, perché a intervenire in una discussione che rischia di diventare complicata è stata, sempre ieri, anche il ministro della Pubblica amministrazione, Giulia Bongiorno, della Lega: “Dentro casa è giusto difendersi”, ha detto. Certo è che, ancor prima di quest’ultima impennata del dibattito nella maggioranza, sulla riforma della legittima difesa si sono sollevate in questi mesi molte voci contrarie. Magistrati, avvocati, rappresentanti dell’accademia, hanno evidenziato diversi profili di criticità nella riforma in discussione. In particolare, rispetto all’ipotesi di eliminare l’attuale requisito della proporzionalità tra offesa e difesa, rendendo di fatto la difesa “sempre legittima”. “Ricevo quotidianamente segnalazioni da parte di persone che reclamano un intervento su questa norma. E fra queste ci sono anche esperti del mondo del diritto. Non è vero quindi che esistano solo contrari alla riforma. L’esigenza da parte di tutti è quella di avere un testo chiaro che non si presti a dubbi interpretativi”, dice ancora Ostellari. In commissione Giustizia a Palazzo Madama sono attualmente depositati cinque disegni di legge: uno d’iniziativa popolare, due presentati da Forza Italia, uno dalla Lega ed uno da Fratelli D’Italia. “Entro il prossimo 25 settembre termineremo le audizioni. I suggerimenti sono ben accolti. Prima di procedere con la discussione abbiamo infatti ritenuto opportuno ascoltare tutti. Non solo gli operatori del diritto ma anche le vittime che per avere reagito alle aggressioni si sono viste accusate di eccesso nella legittima difesa subendo lunghi e complessi iter giudiziari da parte di uno Stato che non si è dimostrato in grado di difendere i propri cittadini”, precisa poi Ostellari, illustrando quella che sarà la road map del provvedimento: “Dopo le audizioni, il passo successivo sarà quello di arrivare ad un unico testo condiviso su cui lavorare. Il mese di ottobre pensiamo quindi di dedicarlo alla discussione in Commissione in modo di arrivare in aula a novembre”. Il desiderio è quello di chiudere rapidamente. “Entro l’anno la riforma della legittima difesa deve essere legge. Vorrei invece evidenziare come su questa riforma la disinformazione stia dilagando”, puntualizza poi il presidente della commissione Giustizia. “Si sta diffondendo ad arte una serie di fake news. In particolare che vorremmo favorire la vendita delle armi. Nei testi in discussione non ci sono riferimenti alla liberalizzazione del loro commercio. Dalle lettura dei resoconti giornalistici sembra invece il contrario e che saremmo favorevoli al Far west. Ripeto: le modifiche sono esclusivamente sulle norme sulla legittima difesa, non su quelle per ottenere il porto d’arma. Non ci dovranno essere più casi come quello di Franco Birolo”, conclude Ostellari, ricordando l’odissea del tabaccaio di Padova che era stato condannato a due anni e 8 mesi e a un risarcimento di 300mila euro per avere ucciso un rapinatore nel suo negozio. Birolo era stato poi assolto in appello dopo sei anni di processo. Nel frattempo era stato però costretto a chiudere l’attività. Da una parte Salvini, dall’altra l’Anm: il doppio bombardamento sulle istituzioni di Astolfo Di Amato Il Dubbio, 20 settembre 2018 La diretta Facebook del ministro Salvini, che apre la busta contenente l’avviso di garanzia speditogli dalla Procura di Palermo resterà, nella storia dell’Italia, a segnare uno dei punti più bassi della situazione di degrado istituzionale, che ormai da oltre vent’anni segna la vita dell’Italia. Le parole pronunciate da Salvini in quella diretta Facebook sono le parole di un ministro della Repubblica che addirittura schernisce l’istituzione giudiziaria: “Mi è arrivata al ministero una busta chiusa dal Tribunale di Palermo. Chissà per cosa sarò indagato oggi. Che dite, la apriamo insieme?... Qui c’è un organo dello Stato che indaga un altro organo dello Stato, con la piccolissima differenza che questo organo dello Stato è stato eletto da voi… A questo ministro avete chiesto di controllare i confini, contrastare gli sbarchi clandestini. Non sono preoccupato né terrorizzato, continuerò a farlo oggi, domani e in futuro. Non mi toglie il sonno; ecco, lo appendo qua, una medaglietta”. Dall’altra parte, tuttavia, gli esponenti dell’Associazione nazionale magistrati non sono da meno. Il presidente Francesco Minisci, in una intervista al Corriere della Sera, ha affermato che bisogna “evitare che si arrivi alla prescrizione, che andrebbe riformata bloccandola definitivamente dopo la condanna di primo grado”. Lo stesso Minisci, poi, ha affermato che andrebbe abolito il divieto di reformatio in peius, perché “oggi i condannati, senza rischiare nulla, fanno appello sempre e comunque” ed andrebbe estesa ai reati di corruzione la norma che consente di non ripetere il dibattimento nel caso di mutamento del giudice. Il presidente dell’Associazione nazionale magistrati, cioè, non si limita affatto ad individuare profili tecnici su cui intervenire, ma prende posizione su questioni interamente riservate alla politica, quali quelle relative alla durata del tempo per prescrivere, all’esistenza di limiti e condizioni alla appellabilità delle sentenze o alla stessa struttura del processo penale, relativamente al principio di oralità. Il medesimo Minisci è intervenuto nuovamente su una questione squisitamente politica, quale quella relativa alle condizioni affinché la difesa possa essere considerata legittima e come tale scriminante. Ha rivendicato, di fatto, come compito esclusivo del giudice quello di valutare la proporzionalità, caso per caso, tra offesa e difesa, negando un potere del Parlamento di precostituire una valutazione normativa di tale rapporto. D’altra parte, illuminante circa l’atteggiamento dell’Associazione nazionale magistrati è la lunga intervista, rilasciata a Errico Novi e pubblicata su questo giornale, dal segretario di Unicost, Carrelli Palombi. L’intervistato, tra le altre cose, afferma: “Sono sicuro però che oggi noi magistrati non abbiamo alcun interesse a uno scontro con la politica. Almeno, io personalmente ne sono convinto ma credo si tratti di un dato generale. Oggi non è questo che i cittadini chiedono. Ed è chiaro che non vogliamo una guerra con altri poteri dello Stato, ciò anche quando evochiamo i sacri princìpi dell’autonomia e indipendenza della magistratura”. Il quadro che emerge dalle dichiarazioni sopra riportate è quello di una magistratura che, nel suo insieme, si fa potere dello Stato e si autolegittima ad indicare al legislatore entro quali limiti può esercitare i suoi poteri discrezionali. Una magistratura, dunque, che sente di potersi contrapporre sia all’esecutivo e sia al Parlamento come potere avente pari dignità e che può decidere, in base alle opportunità del momento ed alle richieste dei cittadini, se entrare in lotta o no con la politica. In questa contrapposizione brilla per incoerenza e fragilità la debolezza della opposizione e, in particolare, della opposizione di sinistra. La quale, ancora una volta, come è accaduto già molte volte in passato, è ben felice di potersi nascondere dietro i carrarmati della magistratura, non rendendosi conto che così facendo non solo perde ulteriormente la sua già bassa credibilità, ma reca pregiudizio al sistema delle istituzioni nel suo insieme. Chi immaginava che lo scadimento istituzionale avesse toccato il punto più basso nel ventennio berlusconiano è platealmente smentito. Uno dei fondamenti dello stato di diritto è il rispetto delle istituzioni e delle loro prerogative, al di là degli uomini che, in modo contingente, le ricoprono. Pessima, perciò, la condotta di un ministro che ridicolizza e ritiene di poter prevaricare, forte del consenso popolare, la istituzione giudiziaria. Altrettanto pessima la condotta di una Associazione privata, quale è l’Anm, la quale facendosi forte delle guarentigie e dei poteri dei propri associati, attacca frontalmente i campi di pertinenza della politica pretendendo di dettarne l’agenda e i contenuti, riservandosi, quando lo ritenga opportuno o ne venga richiesta dai cittadini, di entrare in guerra. L’unica speranza è che, una volta raggiunto un punto così basso di degrado istituzionale, non possa che esservi un futuro migliore. Tolmezzo (Ud): morto in carcere Salvatore Profeta, boss storico di Cosa Nostra rainews.it, 20 settembre 2018 Profeta stava scontando una condanna a otto anni e due mesi per associazione mafiosa, estorsione e rapina. Uomo d’onore storico, Profeta, secondo alcuni pentiti, era tra gli uomini più vicini a Stefano Bontade, il capomafia che reggeva la Cupola prima dell’avvento dei corleonesi Tweet 19 settembre 2018 Se ne va un pezzo di storia di Cosa nostra, portandosi dietro tanti segreti dell’organizzazione mafiosa. Salvatore Profeta, 69 anni, è morto in ospedale. Stroncato, probabilmente, da un infarto. Era stato ricoverato da una decina di giorni per un malessere. Si trovava in Friuli, a Tolmezzo, in provincia di Udine. Nel carcere di massima sicurezza, tra le montagne verdi poco fuori il comune dove abitano 10mila persone, Profeta stava scontando una condanna a otto anni e due mesi per associazione mafiosa, estorsione e rapina. Uomo d’onore storico, Profeta, secondo alcuni pentiti, era tra gli uomini più vicini a Stefano Bontade, il capomafia che reggeva la Cupola prima dell’avvento dei corleonesi. Tant’è che fu lui, dopo l’assassinio di Bontade, ucciso in un agguato nel 1981 durante la guerra di mafia scatenata da Totò Riina contro i cosiddetti “clan perdenti”, a prendere le redini della famiglia di Santa Maria di Gesù, tra le più potenti a Palermo. Da Bontade a Riina il passaggio fu immediato per il boss, che aveva il suo quartier generale alla Guadagna, tra le piazze maggiori dello spaccio di droga in città. Fu coinvolto nella strage di via D’Amelio, dove nel ‘92 furono uccisi con un’ autobomba imbottita di tritolo il magistrato Paolo Borsellino e gli agenti di scorta. A tirarlo in ballo fu suo cognato, Vincenzo Scarantino che lo accusò di avergli commissionato il furto della 126 che venne imbottita di esplosivo per la strage. Il boss fu condannato all’ergastolo, assieme ad altri sei imputati, per l’eccidio. Per tutti, nel 2011, scattò la revisione quando il pentito Gaspare Spatuzza aiutò i magistrati, con le sue rivelazioni, a smentire la versione di Scarantino che ammetterà di essersi inventato tutto perché messo sotto pressione da alcuni investigatori, aprendo il velo sui cosiddetti depistaggi. Spatuzza rivelò di essere stato lui a rubare l’auto su mandato del boss Giuseppe Graviano, facendo chiarezza su tutte le fasi successive al furto e alla preparazione dell’auto usata come autobomba. Tornato alla Guadagna, Salvatore Profeta riprese subito in mano le redini del clan, col suo vecchio stile da “padrino” d’altri tempi. Parlando di lui, l’ex procuratore aggiunto di Palermo, Leonardo Agueci, disse: “Profeta non solo era il boss riconosciuto ma si atteggiava anche come tale”. Aveva scelto come “ufficio” un bar nella piazza principale del quartiere e ogni giorno riceveva persone, dispensava aiuti e favori per rafforzare il controllo del territorio”. Il boss fu arrestato tre anni fa. Quella notte tante persone si riversano in strada per salutare il vecchio boss che tornare in prigione. Teramo: detenuti al lavoro per la città, l’apertura del sindaco cityrumors.it, 20 settembre 2018 Questa mattina il Sindaco Gianguido D’Alberto e il Vicesindaco Maria Cristina Marroni hanno partecipato, come ospiti, alla sezione della manifestazione Lectus che si è svolta nel Carcere circondariale di Teramo. Si è trattata anche della prima visita che la nuova amministrazione comunale ha compiuto nell’Istituto Penitenziario ed è stata pertanto l’occasione per conoscere i direttori sia delle dell’Istituto che del Corpo di guardie carcerarie. La partecipazione all’evento è stata particolarmente emozionante, con il Vicesindaco Marroni che nel saluto portato a fine dell’incontro, ha sottolineato l’importanza di eventi di questa natura, rilevando l’efficacia della Cultura e del lavoro collettivo, in ambiti nei quali il principio della rigenerazione e ricostruzione individuale, è fondante. Il sindaco invece ha sottolineato la ferma volontà dell’amministrazione di collaborare con le istituzioni carcerarie per favorire le attività delle stesse, nel condiviso intento di rendere sia la detenzione che le attività di custodia ad essa indotte, conformi il più possibile alle finalità istituzionalmente da perseguire. In questo senso, il Sindaco ha aperto alla possibilità di individuare forme di coinvolgimento degli stessi detenuti per attività da realizzare a favore della città. Ravenna: carcere più vecchio e piccolo della regione, necessari ampliamenti ravennaedintorni.it, 20 settembre 2018 Il sindaco Michele de Pascale è entrato nella casa circondariale di Port’Aurea in occasione della visita del sottosegretario Jacopo Morrone: “Confido che si faccia portavoce delle nostre richieste e possa dare una risposta positiva alle esigenze legittime del nostro territorio”. “È la strutture detentiva più piccola e vecchia dell’Emilia-Romagna, sono necessari ampliamenti”. Il sindaco di Ravenna, Michele de Pascale, parla così della casa circondariale di via Port’Aurea all’indomani della visita nell’istituto con il sottosegretario alla Giustizia, Jacopo Morrone. Il primo cittadino ringrazia il senatore leghista della visita e apprezza le sue considerazioni positive sulla buona organizzazione dell’istituto e sulla capacità da parte della direzione di averlo saputo rendere parte attiva della vita della comunità “attraverso le tante iniziative e i laboratori per i detenuti anche in collaborazione con associazioni esterne”. La visita ha permesso di constatare anche i limiti infrastrutturali dell’istituto “ed è una novità molto importante la sua disponibilità ad aprire una riflessione su un nuovo carcere a Ravenna”. De Pascale nei primi giorni di agosto aveva scritto al Governo per aprire un confronto su questo tema: “La necessità di un ampliamento degli spazi della struttura detentiva, la più vetusta e piccola della regione, al fine di garantire ai detenuti trattamento, attività formative e rieducative, sempre più in linea con quanto previsto dalla Costituzione italiana. Confido che, avendo potuto verificare di persona la situazione, il sottosegretario si faccia portavoce delle nostre richieste e possa dare una risposta positiva alle esigenze legittime del nostro territorio e delle tante persone detenute e che lavorano nella nostra casa circondariale”. Milano: carcere di Bollate, i detenuti ne escono da attori di Roberta Rampini Il Giorno, 20 settembre 2018 In cartellone al Piccolo di Milano la pièce nata tra le mura della casa circondariale. Dal carcere di Bollate al prestigioso palcoscenico del Piccolo Teatro Studio Melato di Milano. Questa volta non è il pubblico a varcare i cancelli del carcere per vedere lo spettacolo, ma i detenuti ad uscire per portare in scena lo spettacolo “Ci avete rotto il caos”, drammaturgia e regia collettiva degli attori-detenuti del IV reparto del carcere di Bollate. Uno spettacolo scritto, ideato e portato in scena dai detenuti e promosso dal Consorzio VialedeiMille di Milano che promuove l’economia carceraria con prodotti realizzati negli istituti penitenziari e sostiene percorsi professionali di integrazione sociale, combattendo pregiudizi e recidive. L’appuntamento è per martedì alle 19.30 e mercoledì alle 20.30. “Uno degli obiettivi del nostro Consorzio è quello di promuovere e valorizzare i percorsi di reinserimento sociale avviati all’interno delle carceri - dichiara Elisabetta Ponzone, voce del Consorzio e ideatrice di Borseggi, la sartoria del carcere di Milano Opera - Nell’ambito di un nostro evento di promozione dell’economia carceraria ho conosciuto il progetto del teatro avviato nel carcere di Bollate e ho pensato che sarebbe stato bello portare il loro ultimo spettacolo fuori dal carcere. Ho scritto una mail a Sergio Escobar, direttore del Piccolo, e mi ha risposto che era interessato a questa produzione teatrale e disponibile ad ospitare i detenuti-attori. E così ci hanno inserito nel loro cartellone”. Uno spettacolo duro e toccante. Storie di bullismo, guerre di quartiere, omofobie che si intrecciano e obbligano a una riflessione sul significato dell’umanità. Tra la violenza e i sogni infranti, tra un ladro gentiluomo e baby gang nel parco, lo spettacolo teatrale. ““Ci avete rotto il caos” è una storia come tante, tante storie come se fosse una. Ma soprattutto, è tanto caos che qualcuno dovrà pur decidere di rompere e risolvere”, si legge nella presentazione. Il teatro è entrato in carcere a Bollate nel 2003 grazie alla Cooperativa Estia, associazione culturale che ha come obbiettivo ultimo quello di “favorire il reinserimento sociale e professionale di persone detenute ed ex detenute”. Dopo ore ed ore di prove, gli attori hanno portato in scena nel loro teatro questo spettacolo e molti altri. Ora il debutto su un palcoscenico e davanti ad un pubblico differente. La Spezia: gli scritti in carcere e in libertà di Andrea Ruiu diventano un libro cittadellaspezia.com, 20 settembre 2018 “Da crisalide a farfalla”, un titolo evocativo per il primo libro di Andrea Ruiu, che racconta l’evoluzione degli scritti dell’autore, dentro e fuori dal carcere. “La crisalide è nata cercando di descrivere le mie emozioni all’interno di una struttura penitenziaria, l’evoluzione in farfalla - ha spiegato questa mattina Ruiu nella conferenza stampa che si è svolta al Distrò - è avvenuta nel momento in cui ho concluso la mia pena. Un periodo evidentemente diverso, ricco di speranze e delusioni. Ma nel libro c’è anche spazio per scritti che parlano dell’orrore della violenza sulle donne e sui bambini e dei viaggi della speranza, temi che mi toccano profondamente. E poi c’è la dedica di questo lavoro a mio figlio Thomas, di 19 anni”. La presentazione del libro avverrà sabato 22 settembre alle 18 nella Mediatica regionale “Sergio Fregoso”, con uno spettacolo a metà tra la musica e il teatro all’interno del quale saranno presentati anche alcuni brani inediti. Spezzino, di 56 anni, Ruiu ha scontato 5 anni e mezzo di prigione tra i carceri di Lucca e La Spezia e tra le sbarre ha riscoperto la vecchia passione per la scrittura e la poesia, facendone una missione. “Mi sono presentato al primo incontro senza particolari aspettative - ha ricordato Massimo Lombardi, legale di Ruiu, ma ho incontrato una persona con una energia vitale incredibile. Mi ha sommerso di parole, impressioni e carta. Da quel momento il nostro rapporto è diventato sempre più forte e ho visto una persona che investiva nella parola per trovare la libertà. Una passione che è proseguita crescendo sempre di più. Da lì sono nati spettacoli teatrali che hanno emozionato decine di detenuti e operatori del sistema giudiziario e che hanno avuto anche una grande risposta da parte della città, quando è stato portato in scena al Dialma Ruggiero. Sarebbe importante andare oltre, la storia di Andrea Ruiu deve contaminare il sistema carcerario italiano”. Alla presentazione dell’evento di sabato 22 c’era anche Roberto Sbrana, psicologo e consulente del ministero della Giustizia. “Andrea definisce il carcere come un inferno. Non è solamente l’opinione di un ex detenuto. Da 41 anni giro queste strutture e credo che così come sono oggi non servano a niente e anzi, siano dannose. Ma la vicenda di Ruiu ci insegna che il corpo e rinchiudibile, ma la nostra anima no, nemmeno dentro una cella. Ora suo impegno è quello di mantenere ad alto livello questa nuova vita”. Migranti. Via la tutela umanitaria per i richiedenti asilo di Vincenzo R. Spagnolo Avvenire, 20 settembre 2018 Oggi il decreto di Salvini su protezione umanitaria, Sprar e accoglienza dei rifugiati al al Cdm. Il ministro è già in difesa: accetterò consigli, tutto è migliorabile. “Non sono pessimista... Confido che si possa uscire da questo vertice con uno scambio costruttivo”. Resta fiducioso, il presidente del Consiglio Giuseppe Conte, che il vertice informale dei capi di Stato e di governo, riuniti da ieri sera a oggi a Salisburgo, possa produrre qualche lieve passo in avanti sulla questione migranti. Sul piano interno, al rientro a Roma (previsto nel pomeriggio) il premier presiederà il Consiglio dei ministri, nel quale dovrebbero essere esaminati i due schemi di decreti legge, uno in materia di sicurezza e l’altro di immigrazione, proposti dal titolare del Viminale Matteo Salvini. “Ritengo che, per il decreto sull’immigrazione, non ci siano rilievi di incostituzionalità, fascismo, razzismo, cattivismo”, ha detto ieri il ministro e vicepremier, mettendo le mani avanti e precisando che “tutto è migliorabile” e “per suggerimenti e possibili miglioramenti ai testi, c’è il Parlamento”. L’altra componente del governo, M5s, attraverso il Guardasigilli Alfonso Bonafede osserva come “finora non ci sono stati problemi costituzionali e i due decreti sono al vaglio degli uffici legislativi. Non risultano particolari criticità”. In ogni caso, dopo il possibile via libera del Cdm, prima di andare in gazzetta ufficiale e diventare operative, le norme dovranno essere emanate dal presidente della Repubblica. Ed è immaginabile che gli esperti di legislazione del Quirinale vaglino con attenzione i contenuti dei due decreti, a partire dalla sussistenza dei requisiti di “necessità e urgenza” previsti dall’articolo 77 della Costituzione. Anche l’Alto commissario Onu per i rifugiati intende monitorare il provvedimento: “Faremo osservazioni”. Dubbi sono già stati espressi dall’Anci, che rappresenta gli ottomila comuni italiani: “Centri d’accoglienza troppo grandi potrebbero creare disagi ai cittadini. Attendiamo la versione definitiva”. Conte in Austria. A cena con gli altri leader europei, ieri Conte ha iniziato a mettere a fuoco i temi di oggi. L’Italia continua a chiedere una riforma del regolamento di Dublino sui richiedenti asilo e la ridefinizione della missione Sophia e dei compiti dell’agenzia Frontex. Ma il muro opposto da alcuni Stati membri non si smuove. Il premier italiano non si arrende e continua a dissodare il terreno, pur sapendo che quello odierno “è un vertice informale”, ma puntando sul “Consiglio che si terrà a ottobre. Nel frattempo, al monito lanciato agli Stati dal presidente del Consiglio europeo Donald Tusk a non usare il dossier migranti per tornaconto politico, Conte ribatte: “Non è una questione elettorale, l’immigrazione è un tema importante” sul quale “la politica con la P maiuscola deve assumersi responsabilità”. Ma dall’Italia, il vicepremier e segretario della Lega Salvini incalza: “Dall’Europa mi aspetto poco. Se si ripresentasse un caso nave Di- ciotti, farei esattamente quello che ho fatto. Se l’Europa dimostrerà di essere inesistente, ci muoveremo per conto nostro. Io ho già in programma una serie di missioni nei Paesi africani”. Abrogati i permessi umanitari. Nella bozza del decreto legge, composta da 16 articoli e visionata ieri da Avvenire (ma non sono escluse correzioni dell’ultima ora) è contenuto un vero e proprio giro di vite in materia di immigrazione. “Togliere il diritto a fare domanda di asilo a chi aggredisce un agente mi sembra il minimo - valuta Salvini. Parlare di tutela di diritti umani, in riferimento a qualcuno che ha in tasca un foglietto che dice che scappa dalla guerra e a tempo perso prende a pugni un poliziotto, è assurdo. A casa mia non lo fai”. Nel testo, è previsto dunque un ampliamento dei reati che portano alla revoca del permesso di rifugiato (violenza sessuale, rapina, traffico di droga, ma anche resistenza a pubblico ufficiale). Ma soprattutto, il decreto abroga i permessi di soggiorno per motivi umanitari (che sono la gran parte di quelli concessi dalle autorità italiane) e li rimpiazza con permessi speciali concessi solo per cure mediche in caso di gravi condizioni di salute; provenienza da Paesi colpiti da calamità naturali; atti di valore civile. Inoltre, se si rientra nel Paese d’origine per vacanze (al Viminale parlano di “profughi vacanzieri”), la protezione è revocata. Sul piano legale, viene escluso il gratuito patrocinio nei casi in cui il ricorso contro il diniego della protezione è dichiarato improcedibile o inammissibile. Sei mesi nei Cpr. Il tempo di trattenimento dei migranti irregolari nei Centri per i rimpatri raddoppia: da 3 a 6 mesi. E i posti nei centri aumenteranno: “Ne serve almeno uno per regione e contiamo di raddoppiare la capienza”, fa sapere il ministro. In attesa della convalida dell’espulsione, il migrante potrà essere tenuto non solo nei Cpr, ma anche in locali nella disponibilità delle questure. I richiedenti asilo potranno ricevere accoglienza solo nei centri ad essi dedicati (i Cara). E il decreto limita i progetti di integrazione solo ai titolari di protezione internazionale e ai minori stranieri non accompagnati. Intervistato su Retequattro, il ministro Salvini si spinge a fare calcoli: “Stiamo raddoppiando i centri e riducendo i costi: queste operazioni e i minori sbarchi significano un risparmio di almeno un miliardo e mezzo di euro all’anno. E 400 milioni li reinvestiremo in assunzioni di poliziotti, carabinieri e vigili del fuoco”. Giro di vite sulla cittadinanza. Altro capitolo che farà discutere è il raddoppio (da 24 a 48 mesi) del termine per la conclusione dei procedimenti per la concessione della cittadinanza per matrimonio e per residenza (mentre per i condannati per terrorismo, la cittadinanza è prevista la revoca). Al momento, sono in istruttoria presso il Viminale circa 300mila richieste di cittadinanza. Migranti. Ecco perché crimine e detenuti stranieri non spiegano l’intolleranza di Davide Mancino Il Sole 24 Ore, 20 settembre 2018 Nel primo articolo di questa serie abbiamo mostrato una serie di ricerche secondo cui il popolo italiano risulta, da parecchi anni, come uno dei meno tolleranti d’Europa - in effetti di gran lunga il più intollerante verso immigrati e minoranze fra le nazioni sviluppate. Chiedendo per esempio alle persone se accetterebbero un ebreo come membro della propria famiglia - oppure quante ne hanno in generale un’opinione negativa - gli italiani risultano avere sentimenti di rifiuto molto più spesso rispetto a spagnoli, inglesi, tedeschi o francesi, e non da oggi. Si tratta infatti di un atteggiamento di cui troviamo traccia anche tornando indietro nel tempo, e che per questo non sembra avere legami con eventi più o meno vicini come l’arrivo di stranieri in Italia, la recessione economica o - ancora più di recente - la crisi dei richiedenti asilo. Questo, è bene chiarirlo, non significa in alcun modo che tutti gli italiani siano intolleranti; solo che rispetto ad altri popolo tendono a esserlo meno. Si tratta di una differenza sottile, ma che è utile sottolineare per evitare generalizzazioni improprie. Un’altra giustificazione addotta spesso, in particolare quando si parla di immigrazione, riguarda il rapporto fra stranieri e crimine. Secondo alcuni gli immigrati commetterebbero più reati degli italiani, e questa potrebbe essere una ragione che spiega l’atteggiamento negativo nei loro confronti. Prova sarebbe il fatto che da un lato le denunce di reato riguardano più spesso stranieri che italiani - considerato il loro peso reciproco nella popolazione italiana, dall’altro che sempre considerando quanti sono i non nativi essi rappresentano una fetta importante dei detenuti in carcere. A sostegno della prima tesi viene citato spesso uno studio della fondazione Hume, che mostra appunto come per diversi reati la percentuale di denunciati e poi di imputati stranieri ha un peso maggiore rispetto a quanti fra loro vivono in Italia: o per dirla in altri termini, gli stranieri avrebbero in media una maggiore tendenza ad essere denunciati e poi processati. Questo approccio è però estremamente limitato da un punto di vista scientifico, e in effetti risulta più fuorviante che altro. Le ragioni sono diverse: la principale è che stiamo confrontando gruppi estremamente diversi per età, sesso, condizioni socio-economiche: in genere la popolazione straniera presente è più giovane e parecchio più povera rispetto alla media degli italiani, e queste sono due caratteristiche legate a una maggiore propensione a commettere crimini a prescindere dalla nazionalità. Se per ipotesi i ruoli si invertissero troveremmo probabilmente un risultato opposto, il che ci dice che stiamo usando lo strumento sbagliato per rispondere alla nostra domanda. Per fare un confronto corretto dobbiamo invece considerare gruppi almeno più omogenei fra loro: in caso contrario sarebbe come sorprendersi nello scoprire che il 18enne di un quartiere povero di Napoli borseggia e un’anziana signora del milanese no. Lo studio della fondazione Hume, d’altra parte, non è stato sottoposto a peer-review e quindi al vaglio della comunità scientifica, né pubblicato in una rivista specializzata - cosa che naturalmente non ne garantirebbe in sé la veridicità, ma la renderebbe almeno più probabile. Analisi più sofisticate e pubblicate invece su riviste scientifiche internazionali mostrano invece che almeno nel periodo 1990-2003 “l’immigrazione aumenta soltanto l’incidenza delle rapine lasciando inalterati tutti gli altri reati. Poiché le rapine rappresentano soltanto una piccola frazione di tutte le attività criminali, l’effetto sul tasso complessivo di criminalità non è significativamente diverso da zero”. Altri indizi che indicano come questa non sia la via giusta per capire come stanno le cose arrivano, per esempio, dal rapporto su criminalità e sicurezza a cura di Marzio Barbagli e Asher Colombo del 2010, in cui gli autori hanno ricostruito con i dati la storia della criminalità in Italia tornando indietro di parecchi anni. Prendiamo gli omicidi: lì gli autori scrivono che “dopo il picco raggiunto nei primi anni Novanta […] l’incidenza di questo reato è continuamente scesa. Il calo è stato particolarmente forte nella seconda metà degli anni Novanta, ma anche in seguito la tendenza è stata quella di una diminuzione piuttosto accentuata”. Nel caso dei reati contro il patrimonio come le rapine troviamo “un marcato incremento a partire dagli anni ‘70. Nel complesso, ricordano i ricercatori, il volume totale delle rapine è quasi raddoppiato in 25 anni passando da un media di 36 rapine per centomila abitanti del 1984 a un tasso medio nazionale che nel 2009 si è attestato sulle 59 rapine ogni 100.000 abitanti. Tra questi due punti temporali l’andamento del fenomeno è stato altalenante. Analogamente a quanto evidenziato per i furti, il numero delle rapine ha iniziato ad aumentare a partire dalla metà degli anni Ottanta sino a toccare il picco più alto agli inizi degli anni Novanta”. I furti hanno invece “mostrato un andamento che - sebbene erratico specialmente nelle regioni del Centro-Nord - è stato mediamente decrescente, le rapine hanno visto dopo una repentina contrazione nel corso del primo quinquennio degli anni Novanta, una progressiva espansione, seguita da una brusca flessione negli ultimi tre anni [dal 2007 al 2009]”. Quest’ultimo è stato anche, curiosamente, il singolo periodo con il maggior numero di nuovi ingressi in Italia, a seguito dell’ingresso della Romania in Europa. Se reati come omicidi, furti e rapine calano persino quando l’intensità dell’immigrazione è al suo massimo storico ipotizzare un legame fra le due cose diventa molto difficile. In maniera simile, risulta impossibile associare un aumento del crimine con l’arrivo dei richiedenti asilo che ha raggiunto il suo picco negli anni 2014-2016. In questi tre anni risultano sbarcate circa 335mila persone, con un forte calo poi dal 2017 a oggi. Associare più reati agli sbarchi non è possibile perché in realtà non c’è stato proprio alcun alcun aumento: al contrario, nello stesso periodo tutti i principali reati come omicidi, furti e rapine risultano stabili quando non proprio in calo. L’unica eccezione a questa variazione è costituita da truffe e frodi informatiche - reato però che per essere associato ai richiedenti asilo richiede una certa dose di fantasia. Se non i reati, che siano allora i detenuti? Come mai così tanti di loro sono stranieri? I problemi di questa tesi sono in buona parte simili a quelli che valgono per la questione reati: ha poco senso confrontare ricchi e poveri, giovani e vecchi come se si comportassero allo stesso modo - che siano italiani o meno. E infatti, come ha spiegato il docente di economia Pinotti a Famiglia Cristiana, la differenza nel numero di detenuti “riflette anche il minor accesso degli stranieri agli istituti alternativi alla detenzione, come gli arresti domiciliari. In particolare, tali opzioni sono sostanzialmente precluse agli stranieri irregolari”. Nel 2011, ricorda Pinotti, “il 30,7% degli italiani condannati a pene detentive ha beneficiato di misure alternative, mentre per gli immigrati questa percentuale scende al 12,7%. Questo perché spesso gli immigrati spesso non soddisfano le condizioni richieste per le misure alternative al carcere, come avere un lavoro regolare, un domicilio, una famiglia in grado di ospitare l’individuo”. L’articolo ricorda poi che “gli stranieri hanno una condizione socioeconomica mediamente più bassa: pagarsi un buon avvocato o avere quello di ufficio fa, in alcuni casi, la differenza. È la stessa ragione per cui, negli Stati Uniti, i poveri e gli afroamericani sono in percentuale particolarmente alta tra i condannati a morte”. Anche gli argomenti su reati e detenuti, dunque, non sembrano in grado di spiegare come mai gli italiani hanno in media un atteggiamento più negativo verso immigrati e minoranze. Né d’altronde potrebbero: non è che gli immigrati siano tutti santi o non commettono mai crimini - lo fanno in Italia come altrove. Quello che non si capisce è come mai solo nel nostro paese dovrebbero arrivare a un livello tale da generare una reazione tanto estrema. Se parlassimo della Germania potrebbe forse la cosa potrebbe avere un qualche minimo fondamento, ma come mai allora in Spagna non succede nulla del genere? Eliminate allora queste cause, la domanda resta: come si spiega la poca tolleranza degli italiani, anche rispetto a paesi a noi tutto sommato molto simili come appunto la Spagna? La domanda è difficile è non esiste una risposta ovvia. In parte potrebbe essere un problema di come essi vedono il mondo: secondo una ricerca Ipsos fra le nazioni sviluppate gli italiani sono il popolo con la maggiore distanza fra percezione e realtà. Essi tendono a sopravvalutare molto il numero di stranieri o la presenza di musulmani, per esempio, al contrario di tedeschi o svedesi la cui visione della realtà si avvicina molto di più al vero. Se questo sia dovuto all’istruzione, ai media, o a chissà che altro resta tutto da capire: ma certo il problema resta fondamentale. Migranti. La partita si deve giocare sul lavoro di Goffredo Buccini Corriere della Sera, 20 settembre 2018 Il decreto che il ministro Salvini prepara sta suscitando attacchi per alcune durezze forse necessarie e scarsa attenzione sulle sue vere criticità. La farsa dei tunisini liberati a Fiumicino e mandati a zonzo per l’Italia - causa guasto all’aereo che doveva rimpatriarli - è solo l’ultima, grottesca prova d’un sistema allo sbando. Forte di sondaggi netti (almeno un italiano su due vuole i porti chiusi) Matteo Salvini si prepara a stringerne i bulloni, con un decreto sui migranti che, prima ancora d’essere emanato, sta suscitando attacchi per alcune durezze forse necessarie e scarsa attenzione sulle sue vere criticità. La novità più indigesta per l’opposizione di sinistra è la fine della protezione umanitaria così come la conosciamo: in effetti, un unicum italiano, che l’anno scorso ha concesso la permanenza sul territorio nel 28% dei casi a fronte del 7% di asili politici e del 15% di protezione sussidiaria. È piuttosto evidente che l’istituto sia stato assai dilatato da commissioni e questure; può apparire perciò ragionevole la tipizzazione dei casi prefigurata dal decreto: permessi di soggiorno particolari per vittime di violenza domestica o grave sfruttamento lavorativo, per chi ha bisogno di cure mediche, per chi proviene da Paesi sotto calamità naturale. Nei Cie, oggi Cpr, i centri di permanenza per il rimpatrio, si resterà più a lungo: da 90 giorni si passa a 180, per dare tempo a accertamenti e valutazioni (anche la Francia non certo sovranista di Macron si è mossa del resto verso il prolungamento delle detenzioni amministrative). Se ne faranno di nuovi o si amplieranno i Cpr esistenti: Marco Minniti ne chiedeva uno per Regione prima di essere ostracizzato dalla sua stessa parte politica. Difficile negare anche da questo punto di vista la necessità dell’intervento se, solo restando ai tunisini, di 3.515 irregolari rintracciati quest’anno ben 1.703 hanno ignorato il foglio di via come carta straccia. Quanto alla pur osteggiata ipotesi di tenere gli stranieri in attesa del volo di rimpatrio anche in strutture diverse dai Cpr, negli aeroporti, basti dire che se questa norma fosse stata in vigore la farsa di Fiumicino si sarebbe evitata. Il decreto presenta però non pochi problemi seri. In Italia abbiamo 600 mila irregolari (di cui con molta leggerezza Salvini ha promesso l’espulsione)e servono senza dubbio luoghi dove contenerli fino a chiarirne identità e status. Ma puntare “sulla interlocuzione con le Regioni” per aumentare il numero dei Cpr, già sapendo che quelle risponderanno picche come fecero con Minniti, è prepararsi un alibi per il fallimento (oggi la capienza dei Cpr è risibile, i tunisini di Fiumicino sono stati liberati anche per mancanza di posti). Inoltre la riduzione dell’accoglienza negli Sprar solo a chi è già titolare di protezione internazionale o ai minori non accompagnati (dunque neppure per i casi tipizzati della ex umanitaria) renderà residuali gli Sprar, finora dimostratisi il miglior sistema d’integrazione, basandosi su piccoli insediamenti gestiti dai Comuni, e finirà per gonfiare i Cas, proprio quei centri straordinari delle cooperative di cui Salvini stesso dice tutto il male possibile. Andrebbe specificato il destino di chi dagli Spar dovesse fuoriuscire violando il contratto d’accoglienza (il caso di Innocent Oseghale a Macerata per capirci): non a spasso per la città ma in un centro di rimpatrio. E reso obbligatorio il sistema Sprar per i nostri ottomila Comuni. La vera partita però si gioca (si dovrebbe) sul lavoro. E sulla trasformazione, in presenza di contratti verificati, di qualsiasi forma di protezione in permesso di lavoro (dunque anche la ex umanitaria). Sarebbe necessario (ma non se ne parla) per sanare casi di palese ingiustizia. E utile: per non sprecare risorse. Abbiamo bisogno di lavoratori stranieri(sbagliano i sovranisti a negarlo o a immaginare le donne italiane come nuove fattrici di prole in stile Ventennio) e di qualità: quella dei nostri immigrati è la seconda peggiore d’Europa e c’è un perché. Entrare per via legale in Italia è praticamente impossibile. Come gli americani col proibizionismo consegnarono il mercato degli alcolici ai bootleggers, così noi sbarrando gli accessi al nostro mercato del lavoro abbiamo consegnato le migrazioni agli scafisti. Stefano Allievi (“Immigrazione, cambiare tutto”, Laterza) sostiene, crediamo a ragione, che vadano riaperti i canali regolari d’accesso. Tramite accordi con i Paesi di partenza; accordi, aggiungeremmo, che potrebbero collegarsi a quelli per il rimpatrio, visto che darebbero a quei Paesi sollievo in termini di crescita per la loro gioventù migliore, soldi e commesse che tornerebbero poi in patria, coinvolgendoli nel filtro dei flussi. Si confondono ancora emergenza con struttura, rifugiati con lavoratori. Un’opposizione viva e non ideologica avrebbe un’autostrada per sfidare il governo nel concreto. Per Salvini la migrazione resta solo un problema di polizia. Si dirà: ovvio, è il ministro dell’Interno. Occorrerebbe allora, per inquadrarla in una più ampia prospettiva politica ed economica, un presidente del Consiglio portatore di una visione meno angusta: quella generale dell’esecutivo. Ma, come sappiamo, questa è un’altra storia. Belgio. Bimbi detenuti per essere espulsi: “abbiamo paura di morire” di Dario Prestigiacomo today.it, 20 settembre 2018 È polemica sui “Centre fermé”, le strutture create dal governo di Bruxelles per espellere i migranti irregolari e le loro famiglie. Un bambino è stato liberato dopo che i servizi sociali hanno riscontrato “traumi psicologici” provocati dalla detenzione. Il governo lo chiama “Centre fermé 127bis”, centro chiuso. Ma per molti quello di Steenokkerzeel, piccolo comune alle porte di Bruxelles, è una vera e propria prigione in cui vengono rinchiusi i migranti irregolari in attesa di espulsione. E con loro le famiglie, minori compresi. Una situazione che ricorda da vicino i centri di detenzione creati in Texas da Donald Trump. Belgio come il Texas - In Belgio come negli Usa, vi sono casi di danni psicologici arrecati ai bambini detenuti. L’ultimo ha riguardato uno dei cinque figli di una donna dell’Azerbaijan, tutti rinchiusi a Steenokkerzeel, almeno fino a ieri: già, perché in seguito a un’ispezione dei servizi sociali è emerso che il minore aveva sviluppato seri traumi psicologici. E per questo, le autorità sono state costrette a rimettere l’intera famiglia in libertà. Nel centro, fino a fine agosto, c’erano anche i figli di una coppia serba. La famiglia è stata rimpatriata, ma prima di lasciare il Belgio una pediatra che li aveva visitati aveva denunciato le gravi condizioni psicologiche in cui versavano questi bambini: “La detenzione potrebbe avere effetti negativi sul loro sviluppo cognitivo, sulle capacità di apprendimento e di socializzazione”, aveva detto Paulene De Backer. Uno di questi bambini, ha raccontato un assistente sociale, aveva espresso le sue paure legate alla detenzione, tra cui quella di morire. Il piano di Francken - Per queste ragioni, diversi cittadini e organizzazioni, tra cui Amnesty International, chiedono al governo belga di evitare la detenzione dei bambini. Ma il ministro per l’Immigrazione, Theo Francken, tira dritto e invita le famiglie “a cooperare alle procedure di rimpatrio per il bene dei loro figli”. Non contento, nei prossimi giorni, Francken proporrà al governo di aumentare il numero di posti disponibili nei centri chiusi (a quello di Steenokkerzeel se ne aggiunto uno a Bruges), portandoli a 160 in tutto. L’obiettivo è di rimpatriare 40 irregolari al giorno. Myanmar. La Corte penale internazionale indagherà sul “genocidio” dei Rohingya di Stefano Vecchia Avvenire, 20 settembre 2018 Dopo il rapporto delle Nazioni Unite, la Cpi apre una procedura contro l’esercito birmano per “inconcepibili livelli di violenza” contro la minoranza musulmana. L’esercito birmano, noto con il nome di Tadmadaw, deve “essere rinviato al giudizio di un tribunale internazionale” perché responsabile di utilizzare “inconcepibili livelli di violenza” contro la minoranza musulmana dei Rohingya nel tentativo di espellerla dal Myanmar che non ne riconosce la cittadinanza. Una responsabilità sottolineata da almeno 10mila morti che, ha indicato lunedì Marzuki Darusman, presidente della Missione di indagine sul Myanmar davanti al Consiglio Onu per i Diritti umani, non può essere giustificato dalle contromisure contro gruppi insurrezionali di etnia Rohingya. Le affermazioni di Darusman hanno preceduto la presentazione allo stesso Consiglio del Rapporto completo della missione durata 15 mesi: 440 pagine che indicano con chiarezza la volontà dei militari di “attuare il genocidio dei Rohingya” ma non solo, dato che, insieme al caso dello Stato occidentale di Rakhine, dove si situa la persecuzione dei Rohingya costretti alla fuga in 700mila verso il Bangladsh dall’agosto 2017, il Rapporto presenta anche quelli delle aree orientali abitate dalle minoranze Shan e Karen. Popolazioni assimilate da una persecuzione feroce che ha metodi comuni e un comune denominatore negli interessi delle forze armate. Un elemento sottolineato da Christopher Sidoti, uno degli investigatori autori del Rapporto: “Non ci potrà essere alcuna transizione democratica in Myanmar fino a quando il Tadmadaw non allenterà il controllo sulla politica, sull’economia e sulla Costituzione”. La diffusione del rapporto Onu ha preceduto solo di poche ore l’annuncio del procuratore-capo della Corte di giustizia internazionale, Fatou Bensouda, dell’avvio dell’indagine preliminare sulla deportazione dei Rohingya in Bangladesh. Unico capo di imputazione possibile, dato che il Myanmar non aderisce allo Statuto di Roma del 1998 che riconosce la giurisdizione della Corte internazionale in reati come genocidio, crimini contro l’umanità e crimini di guerra.