A chi serve lo Stato padrone di Luca Ricolfi Il Messaggero, 1 settembre 2018 La parola d’ordine è quella: nazionalizzare tutto. La agitano i Cinque Stelle, e pare aver fatto breccia anche in alcuni esponenti della Lega, se è vero che il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Giorgetti ritiene che si debbano rivedere tutte le concessioni. Quanto all’opposizione, la sinistra e Forza Italia paiono contrarie, ma Fratelli d’Italia, per bocca di Giorgia Meloni, pare sottoscriverla senza riserve, almeno per quanto riguarda le infrastrutture strategiche. Una buona idea? Credo che dare una risposta generale, univoca, pro o contro le nazionalizzazioni, sia impossibile, anche da un punto di vista politico o ideologico. Contrariamente a quanto molti credono, le nazionalizzazioni e il loro opposto (le privatizzazioni) non dividono la destra e la sinistra, ma spaccano al loro interno i due schieramenti che - fino a ieri - si sono contesi il governo, in Italia come altrove. Le nazionalizzazioni sono piaciute al fascismo (negli anni 30) ma anche ai socialisti (negli anni 60), le privatizzazioni sono piaciute alla sinistra riformista, ma anche alla destra berlusconiana, a partire dalla metà degli anni 90 del secolo scorso. La posizione verso le nazionalizzazioni, insomma, ha ben poco a che fare con la divisione fra destra e sinistra. Se prendere posizione sulle nazionalizzazioni in base all’ideologia è impossibile, ancor meno facile è farlo sulla base dell’esperienza, almeno in Italia. Il guaio del nostro paese è che, se guardiamo agli ultimi decenni, sono innumerevoli sia i casi di fallimento dei privati, sia quelli di fallimento dello Stato. Alitalia è stata un disastro sia come impresa pubblica sia come impresa privata. Lo stesso caso del ponte Morandi è emblematico: Atlantia e la società Autostrade per l’Italia hanno fallito, su questo non vi sono dubbi, ma lo Stato ha fallito per certi versi ancora di più: doveva solo controllare il rispetto della convenzione, e non è stato capace di fare neppure quello. Come si possa, a questo punto, immaginare che la nostra elefantiaca ed inefficiente Amministrazione Pubblica, di cui si conoscono gli innumerevoli sprechi e malversazioni, possa sobbarcarsi il compito di gestire tutta la rete autostradale, resta per me un mistero. Posto che sia i monopoli di Stato sia le società private spesso non sono state all’altezza dei loro compiti, resta comunque il problema di scegliere una via: puntare sulle nazionalizzazioni, proseguire nelle privatizzazioni iniziate negli anni 90, decidere caso per caso, concessione per concessione, come saggiamente pare suggerire Giorgetti. L’impressione è che si punterà sulle nazionalizzazioni, capovolgendo la politica messa in atto negli anni 90, che puntava a ridurre il perimetro dell’intervento pubblico. È vero che la Lega sembra opporre qualche resistenza, ma ritengo più probabile che alla fine a riportare qualche vittoria siano i nazionalizzatori: il controllo pubblico dell’economia, con la possibilità di governare la spesa pubblica, gli investimenti, le commesse pubbliche, le nomine, le elargizioni e i favori, è qualcosa che interessa ai politici di governo in quanto tali, indipendentemente dalla loro ideologia. Resta il dubbio che una politica che punta sull’allargamento del perimetro dell’intervento pubblico sia, fondamentalmente, più nell’interesse dei governanti che in quello dei cittadini. E questo per almeno tre buoni motivi. Il primo è che non è affatto detto che un controllo e una gestione diretta (statale) delle infrastrutture sia, per i cittadini, più sicuro di una seria sorveglianza sui concessionari. Da questo punto di vista è davvero curiosa l’idea del ministro Toninelli che il ministero delle Infrastrutture possa costituirsi parte civile conto la società Autostrade: tutto lascia pensare che, nel processo per il ponte Morandi, sul banco degli accusati saranno chiamati sia Atlantia sia il Ministero di Toninelli, magari nella persona di qualche ex ministro delle infrastrutture. Il secondo motivo di perplessità sulle nazionalizzazioni è che, anche in regime di monopolio statale, è prevedibile che i lavori di ricostruzione dei ponti, manutenzione delle autostrade, costruzione di nuove arterie sarebbero in gran parte affidati a società private, ossia a chi ha le competenze e l’esperienza per realizzare le opere. La nazionalizzazione, in altre parole, potrebbe risultare più nominale che sostanziale. L’incapacità italiana di distinguere la fuffa dalla realtà spiega la fine dell’opinione pubblica di Claudio Cerasa Il Foglio, 1 settembre 2018 Se l’Italia fosse un paese dotato di un’opinione pubblica con la testa sulle spalle, l’incredibile sondaggio pubblicato due giorni fa sulla prima pagina del Financial Times, relativo all’incapacità del nostro elettorato di avere una percezione dei problemi del paese basata su dati reali e non su dati farlocchi, avrebbe dovuto costringere i principali soggetti dell’informazione italiana a guardarsi allo specchio, ad accendere il computer e a rivolgersi ai propri lettori o ai propri telespettatori con un messaggio composto da tre semplici parole: vi chiediamo scusa. Il sondaggio in questione è quello con cui l’Ipsos ha fotografato un dramma che riguarda una peculiarità del nostro paese, che coincide con un problema che ha avuto una sua centralità nell’ultima campagna elettorale. L’Italia, tra i grandi del mondo, è il paese che più distorce i fatti e dall’immigrazione alla disoccupazione passando per l’economia non c’è un solo ambito della nostra vita in cui vi sia una distanza tra la percezione e la realtà minore rispetto a quella delle altre grandi potenze del pianeta. Rispetto a questi dati, ci si potrebbe interrogare su cosa rischi un paese i cui eletti sono stati scelti sulla base di una programma elettorale tarato più sulle priorità farlocche che su quelle reali - di questi tempi, meglio non avere un mutuo a tasso variabile. Ma così come in economia non si può capire la ragione per cui un prodotto ha un determinato prezzo senza studiare le dinamiche della domanda e dell’offerta, allo stesso modo in politica non si può capire l’origine di un’offerta senza studiare il modo in cui è maturata una domanda. E se in Italia esiste una maggioranza di elettori che ha una visione distorta dei problemi e delle priorità di un paese, la responsabilità non è solo della classe dirigente politica ma è anche, se non prima di tutto, della classe dirigente giornalistica. La stessa che da anni ha rinunciato a combattere una battaglia cruciale per la vita democratica di un paese: spiegare con pazienza ai propri lettori e ai propri telespettatori la differenza tra la fuffa e la realtà. Per spiegare questa differenza, sarebbe stato necessario capire per tempo che cavalcare lo tsunami anti casta avrebbe contribuito solo ad alimentare l’anti parlamentarismo, e non a rafforzare l’identità di un paese. Sarebbe stato necessario capire per tempo che trasformare la battaglia contro i costi della politica nella battaglia centrale di un paese avrebbe contribuito solo ad alimentare l’idea farlocca che all’Italia per risolvere i suoi guai serve in fondo qualche auto blu in meno e non un po’ di efficienza in più. Sarebbe stato necessario capire per tempo che trasformare ogni problema risolvibile in un allarme non risolvibile avrebbe solo contribuito ad alimentare l’industria politica dominata dai professionisti della paura. Sarebbe stato infine necessario capire per tempo che educare un paese a considerare anti democratico ogni politico intenzionato a prendere decisioni impopolari avrebbe contribuito, come nella favola “Al lupo al lupo”, a far perdere di vista i veri valori non negoziabili di una democrazia e di uno stato di diritto. Coltivare una domanda di rancore, si sa, produce un’offerta di rancore e non ci vuole molto a capire che un mercato politico la cui offerta è tarata su una domanda che riflette false priorità è destinato non a risolvere ma a peggiorare i problemi di un paese. Da mesi, i grandi giornali e i grandi programmi televisivi dedicano molta attenzione al fenomeno delle fake news, dando spesso l’intenzione di voler trasformare solo la rete nel principale generatore di notizie farlocche. Ma in un paese come l’Italia in cui tv e giornali costituiscono la principale fonte di informazione per il 65,3 per cento dei cittadini (Agcom 2018) per capire chi ha educato gli elettori a considerare prioritaria l’agenda della fuffa potrebbe non essere sufficiente denunciare la propaganda di un troll russo. La verità è che l’opinione pubblica italiana ha scelto di suicidarsi nel momento in cui ha deciso di non sfidare l’agenda della fuffa. E prima o poi qualcuno dovrà avere il coraggio di ammettere che in un grande paese i mostri di solito nascono quando chi dovrebbe denunciarli decide di fermarsi un attimo lì, a schiacciare un pisolino con i compagni dell’anti casta. Le retate di Marco Travaglio rese impossibili dal Nazareno di Piero Sansonetti Il Dubbio, 1 settembre 2018 Il direttore del Fatto Quotidiano dice che non si riescono più a fare arresti cautelari. le statistiche, che sono un po’ “dissidenti”, sostengono che un terzo dei detenuti è in attesa di giudizio. L’altro giorno Marco Travaglio aveva scritto un articolo sul “Fatto Quotidiano” nel quale consigliava caldamente ai suoi amici dei 5 Stelle di abbandonare al più presto l’alleanza con Salvini. Uscire dal governo. Altrimenti, avvertiva, sarà lui, il capo leghista, a lasciare molto presto l’alleanza coi 5 Stelle, appena avrà la sensazione di avere conquistato tutto quel che si può conquistare dell’elettorato grillino. Siccome è abbastanza noto che Travaglio conta parecchio nel cielo cinquestellato, ho avuto l’impressione che quell’articolo potesse essere un segnale di burrasca. Sebbene le osservazioni del direttore del Fatto riguardassero essenzialmente aspetti tattici, di opportunità, non le grandi scelte. Del resto bisogna dire che, almeno finora, l’alleanza tra Lega e M5S è sembrata soprattutto tattica: al momento le scelte strategiche non si vedono. Ieri però Travaglio ha corretto il tiro. Ha proposto a Di Maio di restare ancora un po’ al governo e di utilizzare il tempo rimasto per cancellare la prescrizione e per allargare le maglie del carcere preventivo. È partito, come fa spesso anche Salvini, dai casi di stupro addebitati a cittadini africani, per invocare più carcere, più carcere, più carcere. Sostenendo la antica tesi secondo la quale questi stupratori commettono i reati perché nessuno li ha arrestati prima. Non è una novità l’abitudine giornalistica e politica a prendere uno o due casi di cronaca per invocare drastiche misure. E anche per chiedere - spesso tra gli appalusi della folla - che i colpevoli (o anche i sospetti) siano arrestati prima che il reato sia commesso. Chessò, i giornali raccontano di alcuni furti in appartamento e si pretende il raddoppio delle pene per furto. Oppure ci sono incidenti stradali e si vara il reato di omicidio stradale con pene pari a quelle per l’assassinio volontario. Recentemente ci furono alcuni raggiri ai danni di anziani, e un deputato presentò un disegno di legge che prevedeva il reato specifico di truffa ai danni degli ultrasessantacinquenni. Stavolta Travaglio protesta perché quelli del Pd, in combutta con Forza Italia - il solito potentissimo “Nazareno” che gli ingenui credono sciolto nel 2015, ma i veri politologi sanno che ancora esiste e governa, seppur clandestinamente, un po’ come la Spectre - hanno reso impossibile l’arresto di una persona (in questo caso lo stupratore africano) che in passato ha ricevuto varie denunce. Come ha fatto il Pd ad evitare l’arresto? Con la scusa banale che questa persona non aveva subìto alcuna condanna. Travaglio si sbaglia, su questo: non è stato il Pd alleato con Berlusconi a impedire che siano messe in prigione persone che non hanno subìto una condanna. È stato Beccaria. E poi i nostri padri costituenti, guidati da Calamandrei e De Gasperi, gli sono andati appresso come allocchi. Comunque, ognuno fa polemica giornalistica come gli pare più opportuno. Prendere dei casi di stupro - reato odioso, e che indigna, e che tuttavia non è particolarmente raro: si calcola che ogni anno ci siano in Italia tra i 1.000 e i 10.000 stupri, cioè fra i 3 e i 30 al giorno, dei quali solo una parte infinitamente piccola finisce sui giornali e in politica - e usarli per una campagna giustizialista è cosa discutibile - sul piano intellettuale - ma certamente lecita. Quello che però non si capisce bene è cosa c’entri tutto ciò con il problema della carcerazione preventiva e della prescrizione, e cioè con le due questioni che sono al centro dell’articolo di Travaglio. La prescrizione non riguarda nessuno dei casi di stupro dei quali parlano Travaglio e Salvini. La carcerazione preventiva, che secondo Travaglio sarebbe stata cancellata dopo il 1992 per evitare l’arresto della “casta”, in realtà esiste ancora ed è piuttosto consistente. Non so se lo sanno Ardita& Davigo - i due magistrati che il direttore del Fatto anche in questo ultimo articolo, come sua abitudine, cita come si cita il Vangelo ma un terzo delle persone attualmente in prigione sono in attesa di giudizio. Cioè sono in custodia cautelare. Tra loro ci sono diecimila detenuti che non hanno ancora subìto neppure il processo di primo grado. Di queste quasi 20 mila persone, secondo le statistiche, la metà alla fine otterrà l’assoluzione e dunque avrà scontato mesi, o anni di carcere ingiustamente. Possibile che di fronte a queste cifre si possa sostenere che il problema in Italia è l’uso scarso della carcerazione preventiva, e si rafforzi questa denuncia appellandosi all’indignazione per uno stupro? “È la stampa, bellezza - diceva Humphrey Bogart - e tu non puoi farci niente”. È vero. Però è una cosa un po’ triste. Taser per le forze di polizia. L’arma che non è arma di Ferdinando Camon Avvenire, 1 settembre 2018 Arriva in dotazione alle forze dell’ordine un’arma che non è un’arma: non vuole uccidere, vuol mettere fuori combattimento. Parlare di quest’arma vuol dire parlare contro il crimine, contro i criminali, che vanno fermati, ma nello stesso tempo contro la pena di morte: non vanno uccisi, vanno soltanto presi, imprigionati e processati. Di recente, il Papa si è pronunciato contro la condanna a morte, definendola “inammissibile in ogni caso”. Commentando il suo pensiero, avevo scritto che le forze dell’ordine possono uccidere, la polizia può uccidere un killer che sta per eliminare cinque ostaggi, ma la magistratura non può pronunciare una condanna a morte, perché la condanna la pronunci su un criminale che hai catturato e tieni in prigione, dunque non può più far del male a nessuno. L’uso delle armi da fuoco per le forze dell’ordine è un male inevitabile, dicevo. Non è più così. Se la pistola d’ordinanza viene sostituita dal taser, questo vale la salvezza di vite umane, dunque è un bene, di chiunque siano quelle vite. Qual è la differenza tra un poliziotto che spara un proiettile con una Beretta calibro 9 e un poliziotto che spara un dardo con il taser? Il primo deve colpire per non essere ucciso, ed è un guaio se colui al quale spara non viene ucciso ma soltanto ferito, perché da ferito è indotto a sparare a sua volta, subito, più colpi che può, e uccidere per salvarsi. Per questo il bilancio degli scontri a fuoco tra poliziotti e criminali vede spesso morti sia da una parte sia dall’altra. Con l’avvento del taser non dovrebbe più essere così. Il taser stordisce, paralizza, ottunde, per un tempo di alcuni secondi, cinque-sei, pochi, ma sufficienti perché tu, poliziotto, possa avvicinarti al bandito, levargli l’arma di mano, mettergli le manette e portarlo via. Quando si scontrano forze criminali e forze dello Stato è sempre una brutta situazione, ma se si risolve senza che nessuno muoia è la soluzione migliore. Purtroppo, che nessuno muoia non è una garanzia, se il bandito ha qualche gracilità può essergli fatale. Per questo è previsto che chi usa il taser chiami subito dopo un’ambulanza. Il taser è una pistola goffa e vistosa, e spara un dardo, un uncino, che si pianta nella carne del nemico ma resta collegato all’arma che lo ha sparato da un filo metallico sottile, per quel filo arriva una scarica elettrica potente ma breve, in quel tempo breve tramortisce. Dunque il taser è un’arma che rende il nemico inerte, docile e innocuo. In questa settimana lo abbiamo visto usato per la sperimentazione da squadre scelte di polizia. La polizia deve a volte affrontare nemici particolarmente pericolosi perché alterati da droghe: sragionano, sono in delirio, se hanno un coltello in mano la vita tua e di tutti è in pericolo. Il taser li mette ko tenendoti in sicurezza. Non è un’altra pistola, è spesso un’alternativa alla pistola. È già in uso in Francia, Inghilterra, Olanda, adesso noi lo proviamo per tre mesi, poi tireremo le somme. La sua efficacia e convenienza risulterà dai crimini che impedisce e dalle vite che salva. Non è l’equivalente dello spray urticante, perché con lo spray urticante il bandito in azione, se è sotto cocaina, non si placa ma si scatena, e se ha un coltello in mano fa una strage alla cieca. Il taser ‘ferma’ l’aggressore, lo immobilizza. E per questo che è migliore delle armi, eticamente parlando. Ne parliamo per questo. Il problema è che non abbiamo ancora statistiche, sappiamo che paralizza i nervi ma non siamo sicuri che non paralizzi anche il cuore. La soluzione sta nello scagliare il dardo lontano dal cuore, sulle gambe o sulla schiena. Ma che si parli di un nuovo strumento per difendersi dagli aggressori, studiato per salvare la vita anche agli aggressori, è un nuovo modo per impostare la difesa, e questo modo è migliore del precedente. Stalking: finalmente aumenta la prevenzione di Fiorenza Sarzanini Corriere della Sera, 1 settembre 2018 Secondo gli ultimi dati forniti dal Viminale, le denunce per stalking nel 2018 sono state 6.437, ben 2.295 in meno di quelle presentate nello stesso periodo del 2017. Nessuno è in grado di dire se sia effettivamente diminuito il numero di reati commessi o se invece il calo sia dovuto alla paura di uscire allo scoperto e dunque che la diminuzione dipenda esclusivamente dal fatto che le vittime hanno deciso di non chiedere aiuto, preferendo subire in silenzio. Sembra assurdo che questo possa accadere e invece succede molto spesso. Ci sono donne che non denunciano per vergogna, altre perché temono di non essere credute, altre ancora perché sono spaventate dalle conseguenze che potrebbero subire i loro figli. Nel dossier ci sono però due dati incoraggianti, ed è su questo che bisogna lavorare se si vogliono ottenere risultati concreti per difendere chi sopporta soprusi e abusi. Riguardano infatti le misure di prevenzione, strumento certamente efficace per combattere questo tipo di delitti. Sono stati 1.135 gli ammonimenti decisi dai questori, con un aumento pari al 20,7 per cento, e 213 gli allontanamenti, con un incremento del 33 per cento rispetto all’anno precedente. Si tratta di provvedimenti che si possono ottenere rapidamente e soprattutto prima che si decida di presentare una denuncia formale. Chi ritiene di essere in pericolo per comportamenti che potrebbero degenerare può chiedere la misura di protezione, prevista dalle norme sugli atti persecutori e, come sottolineano i giuristi, evita di dover affrontare un processo penale, perché si tratta di un richiamo orale del Questore rivolto allo stalker, che viene diffidato dal tenere una condotta contraria alla legge. Vuol dire che il colpevole non sarà sottoposto a un processo penale e la vittima non dovrà avventurarsi nelle lungaggini della giustizia. Un compromesso, forse. Sicuramente una via di uscita o comunque un passo importante per chi non è pronta ad affrontare un percorso più impegnativo, ma comunque non può essere lasciata da sola. Parma: ci sono 40 malati gravi in cella, alcuni hanno più di 80 anni di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 1 settembre 2018 Più che un carcere, quello di Parma è un vero e proprio lazzaretto. Sono, infatti, oltre 40 i detenuti che hanno gravi patologie, alcuni hanno più di 80 anni. Cardiopatici, leucemici, diabetici, ciechi, ammalati di cancro, con gli arti amputati. Alcuni con una incompatibilità carceraria certificata. La lista è lunga, sono persone ristrette in cella, nella sezione AS3, quella di alta sicurezza dove la carcerazione pone sostanzialmente limitazioni nel partecipare al programma di riabilitazione. Ha l’arto inferiore amputato, cardiopatico, affetto da ischemia, angioplastica, iperteso, diabetico, disfunzioni respiratorie. Si tratta di Giuseppe, un ergastolano che ha incompatibilità carceraria certificata ha 69 anni ed è da 27 in carcere. Poi c’è Salvatore, un altro ergastolano di 85 anni affetto da un aneurisma, trombosi e cardiopatia. Si trova in carcere da 25 anni. Oppure Maurizio, ergastolano in carcere da 23 anni, invalido al 100 per cento con accompagnatore, che ha una pregressa tubercolosi di grado severo, crisi depressive, attacchi di panico e claustrofobia. Non mancano i detenuti come il 72 enne ergastolano, in carcere da 28 anni, che ha la leucemia e afflitto da cecità. Oppure Giancarlo, che ha due tumori, uno al colon e l’altro ai testicoli. Più che un carcere, quello di Parma è un vero e proprio lazzaretto. La lista è lunga, sono persone ristrette in cella, nella sezione As3, quella di alta sicurezza dove la carcerazione pone sostanzialmente limitazioni nel partecipare al programma di riabilitazione. Molti hanno un’età che va dai 65 agli 85 anni, per di più invalidi al 100%, con persone detenute da decenni. La situazione sanitaria dei detenuti ristretti a Parma presenta un quadro che rompe con il luogo comune che in carcere non ci va nessuno e nessuno sconta gli anni fino alla fine. Eppure non solo scontano gli anni in carcere fino alla fine, ma la lunga permanenza in carcere, li priverebbe della possibilità di guarire. Soffrono di patologie fisiche gravi, spesso accompagnate da disturbi psichiatrici. Persone che sono da decenni in carcere e quando escono, lo fanno di solito tramite una bara. Come il caso dell’ergastolano Gaspare Raia morto l’anno scorso, nel mese di giugno. Aveva quasi ottant’anni e stava scontando l’ergastolo nel reparto As3 da più di 25 anni. All’inizio del mese le sue condizioni di salute erano peggiorate ed è stato ricoverato in ospedale, dove però i tre posti letto, riservati ai detenuti, erano occupati da altri ammalati in regime di 41bis, tra i quali c’era Totò Riina. Aveva da tempo un tumore in fase avanzata e il giudice, solo pochi giorni prima che morisse, gli ha concesso gli arresti domiciliari per facilitare l’accesso del personale medico che lo aveva in cura. L’istituto di Parma è un carcere di alta sicurezza noto per aver ospitato detenuti al 41bis come Bernardo Provenzano (deceduto nel luglio del 2016), Raffaele Cutolo (il fondatore della Nuova Camorra Organizzata), e Totò Riina, morto a novembre del 2017. Più volte Il Dubbio ha denunciato la situazione critica legata all’invecchiamento della popolazione carceraria (soprattutto quelli in 41bis), ma soprattutto il problema legato alle persone detenute con gravissimi problemi fisici e psichici. Ora abbiamo la lista e l’ha ottenuta l’associazione Yairaiha Onlus, la cui presidente è Sandra Berardi, che da oltre 10 anni è impegnata nella lotta per l’abolizione dell’ergastolo, del 41bis e per una amnistia generale. Ricordiamo che l’associazione recentemente ha promosso anche un appello - sottoscritto da giuristi, movimenti politici come Potere al Popolo, associazioni come Antigone e personalità come Ornella Favero, l’europarlamentare Eleonora Forenza o Francesco Maisto Presidente, emerito del Tribunale di Sorveglianza di Bologna - che chiedono la scarcerazione di tutti i detenuti gravemente malati. Partono dal caso Dell’Utri, accogliendo con favore la sua scarcerazione per incompatibilità con il carcere, dicendo che venga riconosciuta la sospensione della pena o la misura domiciliare a tutti i detenuti che presentano patologie analoghe o più gravi di quella riscontrata all’ex senatore. L’appello sottolinea che fra gli oltre 58.000 detenuti sono moltissime le persone affette da patologie gravissime: tumori, patologie psichiatriche, cardiovascolari, respiratorie, disabilità gravi, leucemie, diabete, morbo di Huntington. “Per la maggior parte, - sostengono i promotori dell’appello - gli istituti penitenziari - non sono attrezzati per le cure necessarie ed anche negli istituti dove sono presenti centri clinici le cure sono per lo più inadeguate, e rischiano di determinare l’aggravamento delle patologie”. Il carcere di massima sicurezza di Parma ne è un esempio, con un centro clinico che è ingolfato. Appena si liberano i pochi posti della sezione terapeutica alla quale l’amministrazione penitenziaria assegna i detenuti per il trattamento di patologie in fase acuta o cronica in fase di scompenso, subito vengono rimpiazzati da coloro che stanno male. Il reparto - allestito per un massimo di 30 posti - è diventato un punto di riferimento anche per gli altri penitenziari. Così il sovraffollamento aumenta e aumentano anche le persone malate. Poi accade che, a causa delle loro gravi patologie, i detenuti si sentono male e vengono ricoverati d’urgenza in ospedale. Non di rado, poi muoiono. L’anno scorso morì un boss novantenne Il carcere di massima sicurezza di Parma ha una presenza di 574 detenuti a fronte di una capienza regolamentare di 468 posti. Il sovraffollamento, può comportare - come è accaduto l’anno scorso, ad esempio, che alcuni detenuti di media sicurezza continuino a permanere nelle celle di isolamento anche dopo la fine della sanzione disciplinare perché non c’è posto per farli rientrare in sezione. Il carcere di Parma è un istituto complesso. Ci sono quattro mondi racchiusi in un’unica struttura: c’è la sezione dedicata al 41bis, quella dedicata al circuito di Alta sicurezza, poi la sottosezione di Alta sicurezza e quella di Media Sicurezza. Stando ai numeri relativi al 2017, al 41bis vi sono reclusi 65 detenuti, con l’età media che raggiunge quasi i 65 anni. Alcuni sono giovani, ma la media si alza a causa dell’invecchiamento dei detenuti. Poi c’è il centro clinico che è diviso in due reparti: uno da 16 posti per i detenuti comuni e uno da 10 posti per i 41bis. L’istituto non è fornito di un reparto sanitario per curare i detenuti, ma vi è un centro diagnostico, nel quale è prevista l’osservazione intensiva e la stabilizzazione di casi acuti o cronici riacutizzati. Non vi è un Pronto Soccorso, ma è garantito il servizio sanitario con presenza di medici e infermieri. Tale reparto è diventato un punto di riferimento anche per gli altri penitenziari: inviano i loro detenuti (anche comuni) malati che, una volta superata la fase diagnostica, rimangono nel carcere. Il garante dei detenuti di Parma aveva più volte riferito a Il Dubbio, che tale reparto è diventato un vero e proprio parcheggio e ciò comporta un vero e proprio ingolfamento e, quindi, mancanza di posti per sopperire alla richiesta sanitaria che incombe in quel carcere. Per quanto riguarda i casi urgenti relativi ai detenuti del 41bis, nell’ospedale parmense c’è il “repartino”. Non a caso viene definito con un diminutivo: è composto solo da tre stanze e attualmente vi sono ricoverati tre detenuti del 41bis, di solito, pluri-ottantenni. Una assistenza sanitaria così carente che va a sommarsi alle patologie legate sia alla vecchiaia che alla salute precaria dei detenuti reclusi nell’istituto penitenziario. Il carcere di Parma ha avuto, al 41bis, persone come Bernardo Provenzano e Totò Riina, entrambi poi deceduti a causa del loro grave stato di salute nel quale riversavano. Ma c’era anche Giuseppe Farinella, era il capomafia più anziano: morto l’anno scorso all’età di 91 anni, ed era in gravi condizioni di salute dovute anche dall’età. Attualmente c’è Raffaele Cutolo, 76enne, fondatore nella nuova camorra organizzata ed è al 41bis pure lui. Torino: l’autopsia conferma il suicidio del detenuto al repartino delle Molinette La Repubblica, 1 settembre 2018 Era stato il pm Arnaldi di Balme a disporre l’accertamento dopo la denuncia per omicidio dei familiari- L’autopsia sul corpo di Giacomo Cascalisci, detenuto nel carcere Lorusso e Cutugno perché accusato di essere a capo di un’organizzazione dedita al traffico e allo spaccio di droga a Roma, avrebbe fornito elementi a favore dell’ipotesi che l’uomo si sia suicidato. Il boss della “Cosa nostra Tiburtina”, arrestato a marzo, si è tolto la vita nel reparto detentivo dell’ospedale Molinette di Torino, dove era stato trasferito per alcune cure. L’uomo si sarebbe stretto al collo un lenzuolo legato al telaio del letto e avrebbe poi attivato il meccanismo per inclinare lo schienale, restando così soffocato. Ma il complicato sistema ingegnato per togliersi la vita, oltre ad alcuni elementi poco chiari, aveva indotto il pm Enrico Arnaldi di Balme, che aveva aperto un’inchiesta per omicidio dopo la denuncia dei familiari, ad affidare al medico legale Alessandro Marchesi la consulenza autoptica per accertare le cause del decesso. Monza: morto il carcere il boss pentito Antonio Di Cosola baritoday.it, 1 settembre 2018 Aveva 64 anni: sarebbe deceduto a seguito di un infarto. Dopo essersi pentito aveva collaborato con la giustizia, rivelando importanti particolari riguardanti traffici illeciti gestiti dal clan a cui era a capo. Antonio Di Cosola, già boss dell’omonimo clan e da anni collaboratore di giustizia, è deceduto questa mattina nel carcere di Monza. Aveva 64 anni. Secondo le prime informazioni, l’uomo sarebbe deceduto per un infarto. Di Cosola, pentitosi nel settembre 2015, era sottoposto a un programma di protezione come la moglie e il figlio collocati in una località protetta, ed aveva rivelato, negli ultimi anni, importanti particolari riguardanti i traffici illeciti degli ultimi decenni da lui stesso gestiti e dal clan di cui era al vertice. Coinvolto in numerose inchieste sulla criminalità barese, Di Cosola ha dovuto scontare una parte della pena in regime di carcere duro, ovvero il 41bis, un periodo terminato dopo la decisione di pentirsi. Torino: carcere Vallette, la “Sezione spacciatori” rischia condanna dell’Unione europea di Jacopo Ricca La Repubblica, 1 settembre 2018 La sezione del carcere delle Vallette dove sono detenuti gli spacciatori che devono ancora espellere gli ovuli è a rischio condanna da parte della Corte di Strasburgo. A dirlo è il garante nazionale dei detenuti Mauro Palma che a marzo 2018 ha visitato la casa circondariale Lorusso e Cutugno, riscontrando alcune irregolarità. La prima riguarda appunto la cosiddetta “sezione filtro”, creata nel 2012 per contrastare il fenomeno di corrieri e spacciatori di droga che ingoiano gli ovuli con le sostanze stupefacenti. Secondo il garante “l’assenza di personale sanitario mette a rischio la salute dei detenuti”, così come lasciare gli spacciatori rannicchiati con una sola coperta addosso “potrebbe essere considerato un trattamento o pena disumano o degradante”, come previsto dall’articolo 3 della Cedu, la carta europea dei diritti dell’uomo. Palma, che parla anche di atteggiamento poco collaborativo da parte di alcuni agenti della polizia penitenziaria, invita anche la Regione a rivedere il protocollo d’intesa con il carcere perché sarebbe meglio inviare questo tipo di persone in ospedale. Secondo il garante poi, nel Sestante, dove sono ospitati i detenuti con problemi psichiatrici, c’è una cella liscia, cioè senza nessun tipo di comfort, e che è vietata dalle regole internazionali. Anche qui Palma e gli altri componenti della commissione che ha visitato il carcere, avrebbero scoperto che la cella viene usata molto di più di quanto sostenuto dagli agenti. Per questo è stata chiesta la chiusura e il miglioramento delle condizioni igieniche della altre celle. Richieste che sono state in parte accolte dalla riposta del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, che un paio di settimane fa ha scritto al Garante, spiegando che si spera in una revisione del protocollo per i detenuti sospettati di aver ingerito ovuli e di aver chiesto al direttore del carcere di chiudere la cella liscia. Brescia: ampliamento del carcere di Verziano, affidato il progetto di Pietro Gorlani Corriere della Sera, 1 settembre 2018 Intervento da 16,6 milioni. Ok del ministero delle Infrastrutture ad un pool di professionisti torinesi. In primavera la gara, poi due anni di cantieri e collaudo: apertura nel 2022. L’ampliamento del carcere di Verziano ha imboccato la via giusta. Il 4 luglio si è finalmente sbloccato l’iter amministrativo, dopo anni di impaludamenti burocratici. I soldi ci sono (16,6 milioni) ed il ministero delle Infrastrutture ha affidato a un raggruppamento temporaneo di professionisti torinesi (ingegneri e architetti) la progettazione definitiva ed esecutiva del nuovo carcere, che sarà pronta in sei mesi. Poi sessanta giorni per il bando di gara con il quale appaltare i lavori (restano a disposizione 16 milioni) e quindi i cantieri, che partiranno (salvo ricorsi al Tar delle ditte perdenti) verso la fine del 2019 per durare due anni. Infine sei mesi per il collaudo: la nuova struttura dovrebbe essere fruibile dal 2022. L’accelerazione - Erano mesi che si attendeva l’affidamento della progettazione esecutiva. Alla gara del maggio 2017 hanno partecipato 12 operatori, tra cui tre raggruppamenti di professionisti bresciani: Aegis-Policreo-Sti-Sint-Studio Conti; lo studio B+M Associati (Baresi e Manfredi) e il pool Medeghini-Giuseppini-Piazza. A vincere la Tecnicaer Engineering Srl di Torino in cordata con la Rpa Srl e la Progettisti Associati Tecnarc, che hanno offerto un ribasso molto corposo, del 40,5% (ovvero 561mila euro). Da gennaio a luglio si sono persi sette mesi per la verifica dell’eventuale anomalia dell’offerta, poi giudicata “congrua” si legge nel verbale del provveditore interregionale per le opere pubbliche di Lombardia ed Emilia Romagna. L’affidamento della progettazione porta la data del 4 luglio. E vale la tempistica decisa nel 2016 dal ministero della Giustizia: due mesi per avere la progettazione definitiva (quindi 30 giorni per la sua approvazione) e altri due mesi per la progettazione esecutiva (cui segue un altro mese per l’approvazione da parte del ministero). Già a gennaio 2019 verrà preparata la gara per l’affidamento dei lavori. Il progetto - Il progetto per ampliare la casa di reclusione, da tempo inadeguata alle esigenze di città e provincia, dovrà seguire le coordinate tracciate dal ministero della Giustizia. Ci sarà la ristrutturazione dei fabbricati attuali (inaugurati nel 1986) e degli spazi destinati alle camere, che saranno “trasformate in mini alloggi per consentire un significativo recupero di capienza”, ma anche ai servizi ed alle attività socio riabilitative e saranno integrate con le nuove strutture, con le quali il plesso è destinato a raggiungere una capienza regolamentare di 400 posti” si legge nella relazione tecnica. Il primo intervento (2 milioni di euro) prevede la ristrutturazione dell’istituto esistente, l’adeguamento del settore accessi, dei colloqui per visitatori, magistrati ed avvocati, dei reparti detentivi, con la trasformazione delle camere singole in mini alloggi (con raddoppio di capienza regolamentare) ma anche il recupero degli spazi esterni a cortili di passeggio e la trasformazione di due cortili in palestra e cappella (compreso uno spazio di preghiera per le altre confessioni). Con il secondo intervento (11 milioni) si realizzerà un nuovo padiglione detentivo da 320 posti su 11mila metri quadri, caratterizzato da “camerotti a 4 posti con una innovativa soluzione della finestratura di facciata, a nastro, con parziale eliminazione delle sbarre nella parte fissa non apribile, dotata di vetri antisfondamento”. Al piano terra ci saranno le cucine ed i locali per il tempo libero, nei due piani superiori sezioni detentive da 160 posti l’una. Previsto anche un padiglione per le attività socio riabilitative, laboratori dove i detenuti potranno lavorare, e un polo didattico con aule per i vari cicli di scuola (elementari, medie e superiori). Infine un fabbricato esterno per l’ampliamento della caserma. Infine si spenderanno altri due milioni per la sistemazione delle aree esterne e per le reti. Il ruolo del Comune Oltre ai 30mila metri quadrati esistenti le nuove strutture occuperanno un’area di altri 11mila metri quadrati. Non molto per la verità ma i campi intorno al carcere appartengono all’azienda agricola Verziano. La vecchia giunta Paroli voleva acquisirne 80mila mq concedendo in cambio 28 mila metri quadrati di aree residenziali al Villaggio Sereno. La giunta Del Bono, che ha voluto ridurre il consumo di suolo, sta portando a termine una delicata trattativa, che le vale il ritiro di un contenzioso al tar: quei campi in cambio di Palazzo Bonoris di via Tosio (valutato dalla Loggia 3,3 milioni) che può essere trasformato in residenze di lusso ma anche in un hotel o centro convegni (logicamente sotto l’occhio severo della Soprintendenza). La Loggia cederebbe quindi parte quei campi al demanio ricevendo in cambio un bel pezzo della caserma Randaccio, dove vuole realizzare il polo scolastico di Brescia centro, concentrando lì le elementari e le medie Mompiani (che per sei anni si trasferiranno ai Padri della Pace) Calini e Manzoni. Un progetto a lungo termine, visto che serviranno almeno sette anni per realizzarlo. Una volta aperto il nuovo Verziano poi potrà finalmente chiudere il vecchio e inadeguato Canton Mombello, le cui condizioni sono giudicate “insostenibili” dal sindacato di polizia penitenziaria. Brescia: detenuti e spazi di Carlo Alberto Romano* Corriere della Sera, 1 settembre 2018 Abbiamo letto con soddisfazione le affermazioni del Presidente Borghesi apparse sul Corriere nei giorni scorsi; egli afferma, con riferimento ad alcune importanti opere da attuarsi a Brescia, l’intenzione di farsene carico proseguendo quanto programmato dal precedente governo e soprattutto la non ostatività del fatto che l’amministrazione cittadina sia sotto la guida del sindaco Del Bono. Una delle opere evocate riguarda la costruzione del nuovo carcere cittadino. Sappiamo tutti quanto questa situazione necessiti di un intervento concreto. Se Canton Mombello viveva una riconosciuta e condivisa urgenza di essere chiuso, tale urgenza non è certo venuta meno negli ultimi mesi. Anzi. Un preoccupante trend aumentativo della popolazione penitenziaria ha fatto seguito, purtroppo, ai benefici effetti dei provvedimenti presi dall’esecutivo sulla spinta della censura ricevuta dalla Corte europea dei diritti umani nella nota sentenza Torregiani et al. e oggi assistiamo a una ripresa della consistenza numerica della popolazione carceraria che presto tornerà a lambire le 60.000 unità. E Brescia non si discosta da questo trend. Poiché le condizioni delle carceri italiane non sono medio tempore andate evidenziando modificazioni migliorative in punto accoglienza e disponibilità è verosimile attendersi futuri e ulteriori ricorsi, dall’esito ampiamente prevedibile in senso sanzionatorio per il nostro Paese. Unico modo per sottrarsi a questa perversa spirale al momento appare quello di implementare l’utilizzo delle misure alternative, ma l’orientamento governativo non pare confortante in tal senso, oppure la costruzione di nuove carceri. E qui il carcere di Brescia deve poter affermare la primazia del proprio bisogno a livello nazionale, sia come strumento di adeguamento ai mutati bisogni sia per la assoluta inumanità dell’attuale struttura. Sia chiaro, la costruzione di nuovi carceri non è la soluzione ideale né tantomeno definitiva al problema del sovraffollamento, che abbisogna di ben altro approccio. Ma al momento e per la nostra città deve essere un passaggio imprescindibile che confidiamo si concretizzi in breve tempo. Vedremo. *Associazione Carcere e Territorio Campobasso: carcere di via Cavour. Ortis (5S): “Realtà sana” primopianomolise.it, 1 settembre 2018 Ricognizione del senatore nell’istituto penitenziario. “La realtà del carcere di via Cavour è sostanzialmente sana”. Lo assicura il senatore del Movimento 5 Stelle Fabrizio Ortis che nelle ultime settimane ha avviato una ricognizione degli istituti penitenziari del Molise per toccare con mano eventuali criticità e carenze. Dopo il carcere di Larino, ieri è stata la volta di quello di Campobasso. Il parlamentare pentastellato, accompagnato dal consigliere di Palazzo San Giorgio Simone Cretella, ha incontrato alcuni detenuti prima del colloquio informale con il direttore Mario Silla. “Gli ospiti del carcere stanno bene, non hanno lamentato nessuna criticità - ha commentato Ortis - e le condizioni degli spazi della struttura, celle, aree ricreative e spazi esterni, sono buone. Insomma, una struttura che funziona, nulla a che vedere con molte altre realtà soprattutto del Sud”. Anche il rapporto tra numero di detenuti (160) e agenti di polizia penitenziaria (90) è di molto superiore alla media nazionale. Certo, anche in via Cavour sono emerse alcune criticità, “ma sono legate - ha puntualizzato il senatore - alla struttura che purtroppo è datata. Ad esempio, le celle e i cancelli non sono automatizzati e questo comporta un lavoro ‘extra’ per gli agenti. Inoltre non è presente un sistema di videosorveglianza negli spazi esterni”. Problema, questo, emerso già mesi fa quando gli agenti sequestrarono un sacchetto contenete droga e cellulari all’interno del cortile. Episodio su cui sta indagando la Questura. “Molto carente è invece il programma di formazione riservato ai detenuti - ha puntualizzato il senatore - basti pensare che in otto anni la Regione ha organizzato soltanto 3 corsi di formazione”. Napoli: “chiudiamo l’Ipm”, l’eterno ritornello su Nisida di Massimiliano Virgilio Corriere del Mezzogiorno, 1 settembre 2018 Da quando ho memoria, a ogni cambio di stagione politica, puntuale, arriva il politico di turno che si ripropone di “valorizzare Nisida, togliendo il carcere minorile” per trasformarlo in un sito turistico. È quanto ha sostenuto l’altro giorno un sottosegretario del nuovo governo in carica. Poi col tempo, altrettanto puntualmente, per fortuna, quei propositi naufragano sotto un principio di realtà. Eppure, negli anni in cui ho preso parte, con uno strepitoso gruppo di colleghi scrittori, alle attività di scrittura creativa rivolte agli ospiti dell’Istituto penitenziario per minorenni di Nisida, ho compreso che la parte migliore dell’isolotto non consiste nel meraviglioso panorama che si gode da lassù. E nemmeno dalle suggestive testimonianze storiche con cui il visitatore può entrare in contatto scendendo verso il mare. Il bello di Nisida se mi è concesso il paradosso - è il carcere. Provo a spiegarmi meglio. Dal momento in cui, per la prima volta, mi sono dovuto separare dal mio smartphone e lasciarlo all’ingresso delle mura penitenziarie, ho conosciuto una realtà inedita, che al più intuivo tramite le parole e le opere di due celebri Eduardo - De Filippo e Bennato - ma queste sono storie note ai più. Devo ammettere che, andato via da quella prima esperienza, pensai: “Tutti dovrebbero avere la possibilità di ammirare la città da quassù e fare il bagno in queste acque al tramonto”. In un certo senso, dentro di me, si fece largo l’idea che l’ostacolo principale all’idea di una Nisida-bene comune fosse la presenza del carcere. Niente di più sbagliato. Col tempo, dopo aver conosciuto i dirigenti dell’Istituto, i docenti, gli operatori sociali, i detenuti, dopo aver esperito solo una parte infinita di ciò che a Nisida si fa, tra difficoltà e contraddizioni che chiunque può immaginare, mi si è definitivamente chiarito un concetto. E cioè: chiunque sia stato a Nisida almeno una volta nella vita non può seriamente credere che realizzarci un resort di lusso sia ciò di cui abbiamo davvero bisogno. La vocazione all’intervento sociale per il recupero dei nostri “giovani infelici” (talvolta già pienamente inseriti nel tessuto criminale della città, va detto) sta iscritta nella morfologia dell’isola, è parte della sua dimensione remota, del suo porsi come appendice rivolta a un orizzonte di bellezza. Avvertire la sensazione di essere lontani dai manzoniani “tumulti del mondo” e allo stesso tempo dentro la città è ciò che rende Nisida un luogo speciale. Nessuno si trasforma in santo lì dentro, in tanti una volta usciti continueranno a delinquere come e più di prima, ma in molti cambiano la loro vita in meglio. E di conseguenza cambia anche per noi. E poi per capire Napoli bisogna andare a Nisida. È lì che si toccano con mano le mutazioni del tessuto criminale cittadino e i disastri sociali di un consumismo spietato, che fabbrica desideri insensati e spalanca la porte a nuove forme di dipendenze e ad antiche violenze. Anche per questo oggi mi sembra importante, nel momento in cui il destino di Bagnoli torna all’ordine del giorno, sostenere con forza il valore civile di questo luogo contro la sempiterna ipotesi “alberghiera”. È con la cura delle persone che i luoghi diventano di tutti, non con l’ossessione di trasformarci in pizzaioli al servizio di attempati e ricchi turisti stranieri. Saluzzo (Cn): lettera aperta dei detenuti alla cittadinanza Ristretti Orizzonti, 1 settembre 2018 Un gruppo di detenuti del carcere di Saluzzo ha deciso di scrivere ogni anno, a ridosso dell’8 settembre, una lettera aperta alla cittadinanza. Siamo un gruppo di detenuti del carcere Rodolfo Morandi di Saluzzo, che ha deciso di prendersi l’impegno di inviare ogni anno ai giornali, a ridosso dell’8 settembre, una lettera aperta alla cittadinanza. Così com’è difficile mantenere la propria parola fuori dal carcere, doppiamente difficile lo è per noi, poiché nel corso di un anno molte sono le cose che possono accadere: qualcuno di noi potrebbe essere stato trasferito in un altro carcere o agli arresti domiciliari; qualcuno potrebbe nel frattempo essere morto di cancro; altri, finito di scontare la propria pena, potrebbero già essere tornati in libertà. Ma faremo di tutto per essere fedeli a questo impegno; e sarà sufficiente che almeno due testate giornalistiche pubblichino la nostra lettera per poter dimostrare di aver mantenuto la promessa. Possiamo contare su Cascina Macondo, l’associazione di Promozione Sociale che da anni ci tiene impegnati con interessanti progetti e laboratori, e sarà sufficiente che un’altra sola testata, una rivista, un telegiornale, una fanzine, un blog, una pagina Facebook, una sola, dia spazio a queste nostre parole. Ringraziamo sinceramente coloro che avranno voluto accoglierci. Ci teniamo a precisare che non parliamo a nome di tutti i detenuti del carcere di Saluzzo, e nemmeno a nome di tutti i detenuti delle carceri italiane. Così come è vero che fuori dalle mura, tra voi uomini liberi, ci sono mille teste e mille opinioni, altrettanto vero lo è per noi. Quindi parliamo a nostro nome, anche se supponiamo che molti potrebbero condividere i contenuti di questa lettera e le nostre intenzioni. Potevamo scegliere, come periodo simbolico, i giorni a ridosso del Primo Maggio, festa dei lavoratori, in quanto ci piace pensare che, pur se ristretti, vorremo vestire il ruolo di “lavoratori per la riconciliazione”. Abbiamo invece scelto l’8 settembre, ricorrenza della nascita della Beata Vergine Maria, ma soprattutto giorno dell’armistizio e inizio della Resistenza. Simbolicamente ci è sembrato più appropriato, in quanto siamo detenuti che pacificamente vogliono conquistarsi nuovi strumenti: la parola, la filosofia, il diritto, la cultura, il dovere, l’istruzione. Ma fin qui è solo premessa. Perché scrivere una lettera aperta alla cittadinanza? Semplicemente per esprimere a tutti voi che vivete al di là delle mura, donne e uomini liberi, un pensiero che abbiamo fatto nostro in questi anni di detenzione, di silenzio, di riflessioni. Un pensiero che vuole essere un consiglio soprattutto rivolto ai giovani, il seguente: “non fatevi mai giustizia da soli”. Ecco, ci tenevamo a dirlo che occorre resistere con ogni mezzo alla tentazione di farsi giustizia da soli. È l’errore che molti di noi hanno commesso. Ci teniamo ad affermare questo principio di cui ora siamo davvero consapevoli. Malgrado a volte lo Stato e le Istituzioni siano assenti, spesso latitanti, a volte ottuse e impietose, a volte arroganti e prepotenti quanto lo siamo stati noi in passato, malgrado questo, profondamente sentiamo di poter affermare: “non fatevi mai giustizia da soli, perché potreste scoprire un giorno che quella non era giustizia”. Noi abbiamo sbagliato e stiamo scontando la nostra pena. A coloro che ancora non hanno sbagliato, a coloro che sono giunti al confine con l’errore, a coloro che pensano che non sbaglieranno mai, auguriamo di prendere in considerazione l’idea che noi, e la nostra esperienza, possiamo essere una risorsa e non un rifiuto. E che anche noi siamo uno spicchio di quella stessa cittadinanza di cui tutti facciamo parte. E che un mondo migliore non solo lo desiderano coloro che vivono liberi, ma anche coloro che vivono rinchiusi tra le mura di un carcere. Con la speranza di essere di nuovo accolti qui l’anno prossimo ringraziamo per lo spazio che ci è stato concesso. Ally Mhando, Angelo Rucco, Emilio Toscani, Gian Luca Landonio, Giuseppe Pelaia, Matteo Mazzei, Pasquale Austero “La Chiave di cioccolata”, di Enrichetta Vilella. Il dramma delle donne in carcere di Marco Traini cronachemarche.it, 1 settembre 2018 Un focus sulla quotidianità delle carceri italiane ed in particolare sulla condizione delle donne detenute. Il delicato argomento è stato affrontato giovedì sera al Wine Not? di Ancona in un’intervista ad Enrichetta Vilella, direttrice dell’area pedagogica della casa circondariale di Villa Fastiggi a Pesaro e autrice del romanzo “La Chiave di cioccolata”. Il libro, edito da Italic Pequod edizioni di Ancona, un romanzo al femminile, intenso, corale, fatto da storie di donne, che tocca il tema della sofferenza durante la prigionia e della pena con finalità educativa, è stato presentato nel locale del Grand Hotel Palace all’interno del Festival Adriatico Mediterraneo. Vilella è stata intervistata dal Garante per i diritti delle Marche Andrea Nobili, che ha evidenziato come il 65% dei detenuti, una volta tornati in libertà, riprendono a commettere reati. Dato che indicherebbe come il sistema carcerario italiano non assolva alle funzioni di riabilitazione e recupero sociale. Il dibattito si è aperto con la domanda di Andrea Nobili sul titolo del libro, “La Chiave di cioccolata”: è così che le detenute chiamano la chiave che chiude la loro cella e che dopo diversi giri si scioglie per non aprirsi più. La toccante riflessione è stata seguita con attenzione da un nutrito pubblico, che ha potuto degustare un calice di Rosso Conero firmato Umani di Ronchi. Il film sul caso Cucchi è ciò di cui il cinema italiano aveva bisogno di Giovanni Rupnik ciakclub.it, 1 settembre 2018 Abbiamo assistito in anteprima a “Sulla mia pelle”, il film su Stefano Cucchi che ha aperto la sezione Orizzonti del Festival di Venezia. La 75ª Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia non ha fatto in tempo a concludere la giornata di apertura che ha già regalato un momento indimenticabile. Ad aprire la sezione Orizzonti, la più importante dopo il Concorso, è stato il film di Alessio Cremonini “Sulla mia pelle”, seconda opera del regista. Il lungometraggio è incentrato sulla settimana di agonia che il trentenne Stefano Cucchi, arrestato per detenzione di stupefacenti, ha vissuto durante la custodia cautelare, conclusasi con la sua morte il 22 ottobre 2009. Da quel giorno i familiari della vittima, in particolare la sorella Ilaria, hanno senza sosta portato avanti una battaglia per fare emergere la verità dietro alle cause del decesso, con un impegno mediatico che è riuscito a gettare una nuova luce sulla realtà dei decessi in carceri senza cause accertate. Il momento più sorprendente e commovente (finora) del Festival è arrivato proprio dal film di apertura di Orizzonti: a fine proiezione, di fronte a una Sala Darsena gremita e commossa, l’attore protagonista Alessandro Borghi si è alzato in piedi e, in lacrime, ha abbracciato Ilaria Cucchi, seduta pochi sedili più indietro. L’intera sala ha dedicato un’intensa ovazione di sette minuti al cast e alla famiglia di Stefano, presenti insieme per la prima visione assoluta del film. Già indicato come uno dei favoriti per il premio al miglior film della propria sezione, “Sulla mia pelle” è un film estremamente diretto. La sceneggiatura, definita durante la conferenza stampa “asciutta e secca”, si pone in primis l’obbiettivo di raccontare dei fatti con un realismo così intenso da rasentare il documentario. Non c’è spazio per una storia arricchita o per una lenta indagine della psicologia dei personaggi. Il film non vuole stabilire un contatto empatico con lo spettatore tramite l’identificazione nei protagonisti: l’obbiettivo è raccontare crudamente ciò che è successo, che già sufficiente di suo a caricare lo spettatore di un pesante macigno emotivo. Il vero gioiello del film è però la magnetica recitazione di Alessandro Borghi. La sua straordinaria versatilità permette al dramma di Cucchi di evolvere tramite una silenziosa metamorfosi di corpo e anima. Il calvario che prova viene da lui alternativamente taciuto e urlato a squarciagola, ma è costantemente ben visibile nelle ecchimosi di cui è cosparso il suo corpo. Ad amplificare il disagio che lo spettatore prova nella angosciante impassibilità di uno sgradevole destino già scritto vi è il comparto tecnico, con una fotografia soprattutto d’interno che mantiene volutamente i soggetti sottoesposti. Il climax di strazio viene raggiunto nel finale, gestito interamente dal resto del cast: Jasmine Trinca (interprete della sorella Ilaria), Max Tortora e Milvia Marigliano (rispettivamente padre e madre) regalano altre tre performance incredibilmente intense che conferiscono al film un pathos genuino e raramente contemplato nel panorama cinematografico italiano. “Sulla mia pelle” è ciò di cui il cinema italiano aveva bisogno. Un film che sfugge alle false pretese di finto intellettualismo concettuale da inserire in qualunque contesto: riporta la Settima arte coi piedi per terra, ricordando a tutti che si può creare grande cinema anche con elementi poco numerosi ma genuini. Migranti. Marcia indietro dell’Italia: non abbandonerà la missione Sophia di Marco Bresolin La Stampa, 1 settembre 2018 Dopo le minacce, il ministro Moavero a Vienna prova a ricucire i rapporti con Spagna e Malta ma ammette: sui profughi la soluzione è lontana. Nessun boicottaggio dell’operazione Sophia, l’operazione va avanti con le regole attuali anche se non c’è ancora l’intesa tra i governi per modificarle. L’Italia aveva minacciato due volte di bloccare le navi della missione Ue, rischiando così di porre fine alla sua operatività. Prima con una dura lettera inviata a Federica Mogherini a metà luglio, poi con un ultimatum che è scaduto ieri senza risultati tangibili. Ma il governo, ancora una volta, ha deciso di fare un passo indietro e ora spera di trovare una soluzione con i partner “nelle prossime settimane”. Ieri, a Vienna, le dichiarazioni di sfida del vicepremier Matteo Salvini hanno lasciato il posto alla diplomazia di Enzo Moavero Milanesi, secondo il quale il termine di cinque settimane “concesso” all’Ue a fine luglio “non era perentorio”, ma soltanto “orientativo”. E due episodi in particolare hanno mostrato il lavoro di “ricucitura” che il ministro degli Esteri sta cercando faticosamente di portare avanti ai tavoli europei. A margine della riunione di ieri - per esempio - si è avvicinato a Josep Borrell, ministro degli Esteri spagnolo. Lo ha preso sottobraccio e i due si sono appartati per una chiacchierata a quattr’occhi. I rapporti tra Roma e Madrid sono freddissimi: oggi è la Spagna la principale porta d’accesso all’Europa (33.377 arrivi dall’inizio dell’anno contro i 19.897 in Italia) e gli iberici non sopportano più l’atteggiamento del governo italiano sul dossier migranti. Moavero ha così cercato di riallacciare il dialogo con Borrell, che conosce da anni (quando lo spagnolo era alla guida del Parlamento europeo, l’italiano era vicesegretario della Commissione Ue). Gli ha ricordato che gli interessi di Roma e Madrid coincidono, dunque bisognerebbe muoversi in sintonia. L’interlocutore, però, si è detto convinto che i toni di sfida e i tentativi di costruire un’alleanza con i governi dell’Est Europa rischiano di portare fuori strada l’Italia, di marginalizzarla. Anche per questo la Spagna si tiene ben salda l’alleanza con Parigi e Berlino. Moavero ha poi provato a mettere le cose a posto anche con Malta, altro Paese in crisi di rapporti con l’Italia per via del rimpallo di responsabilità sui salvataggi. È andato dal collega Carmelo Abela e si è scusato per le minacce arrivate via web all’ambasciatrice maltese in Italia. La Farnesina ha anche pubblicato un tweet per prendere le distanze da quelle “dichiarazioni ingiuriose e volgari”. Però gli spiragli auspicati giovedì da Elisabetta Trenta non si sono visti. Il ministro della Difesa aveva preannunciato una dichiarazione di apertura da parte della Germania, che però non risulta agli atti. Il titolare della Farnesina ha ammesso che “oggi non c’è una soluzione”, ma soltanto “la determinazione comune di tutti ad arrivarci”. Con quali ricette, però, nessuno è in grado di dirlo. Certamente non con il piano proposto dall’Italia che prevedeva una rotazione dei porti di sbarco di Sophia: bocciato. Eppure Moavero prova a vedere il bicchiere mezzo pieno e dice che l’incontro di Vienna rappresenta comunque una “positiva novità”. La patata bollente di Sophia e dell’intero dossier migranti finirà dunque sul tavolo del vertice in programma il 20 settembre, che vedrà i 28 leader riuniti a Salisburgo. Da una parte l’Europa di Merkel, Macron e Sanchez. Dall’altra quella di Kurz, Orban e degli altri Visegrad. Il premier Conte dovrà decidere accanto a chi sedersi. Il caso migranti della Diciotti. Le cinque accuse a Salvini. E lui: i pm non mi fermano di Michela Allegri Il Messaggero, 1 settembre 2018 Nel fascicolo trasmesso dalla Procura di Agrigento a quella di Palermo. Fra i reati ipotizzati arresto illegale, sequestro di persona e abuso d’ufficio. Cinque ipotesi di reato, che per lui diventano quasi un motivo di vanto: “Cinquanta pagine di accuse, 5 reati, 30 anni di carcere come pena massima. Di politici ladri l’Italia ne ha avuti abbastanza. Contate su di me, io conto su di voi”, scrive su Twitter il vicepremier Matteo Salvini, mentre il procuratore di Palermo, Francesco Lo Voi, riceve da Agrigento il fascicolo a carico del ministro dell’Interno, sotto inchiesta insieme al suo capo di Gabinetto, Matteo Piantedosi, per il caso “Diciotti”. Il procuratore Luigi Patronaggio e l’aggiunto Salvatore Vella li accusano di sequestro di persona, sequestro di persona a scopo di coazione, arresto illegale, abuso d’ufficio e omissione di atti d’ufficio, per avere trattenuto in modo illecito i migranti soccorsi il 16 agosto dalla nave della Guardia costiera. “Pensate che abbia paura e mi fermi? Mai. - aggiunge su Facebook il leader del Carroccio - Per me “prima gli Italiani” significa difendere sicurezza e confini”. Ora Palermo avrà 15 giorni per confermare o modificare le contestazioni, prima di trasmettere il fascicolo al Tribunale di ministri del capoluogo. Il procuratore potrebbe anche chiedere l’archiviazione, o sollecitare approfondimenti, prima di notificare l’atto alle parti, cioè gli indagati, i migranti e i rappresentati Ue che - per l’accusa - sarebbero stati ricattati dal capo del Viminale. Intanto, ieri, il vertice di Vienna sulla missione Sophia si è concluso con un’altra fumata nera in relazione all’accordo sui porti di sbarco per i profughi salvati. “Non c’è la soluzione oggi, ma c’è la determinazione comune di arrivarci”, ha commentato il ministro degli Esteri, Enzo Moavero Milanesi. Dopo la delusione del ministro della Difesa, Elisabetta Trenta, per le “porte chiuse” di fronte alla proposta di rotazione dei porti della missione e dopo gli ultimatum di Salvini, che minaccia di sfilare l’Italia da Sophia, il capo della Farnesina avrebbe incassato l’impegno a lavorare sul dossier in un “percorso positivo” che avrà le sue tappe principali nella riunione dei capi di Stato e di governo, a Salisburgo, il 20 settembre, e al consiglio Esteri di ottobre. Moavero è fiducioso: “Meglio uno scontro che una lieve discussione”, perché significa che il confronto è aperto. Difesa e Farnesina stanno cercando di ottenere la condivisione degli oneri. La proposta italiana, aggiunge Moavero, “non aveva l’ambizione di essere accolta” subito, ma di diventare “base di discussione”. Sul tema “migranti” è intervenuto anche il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Giancarlo Giorgetti. Commentando la promessa fatta in campagna elettorale da Salvini, cioè “500 mila rimpatri” di clandestini, ha detto: “L’aveva sparata grossa, mi accontenterei che non arrivassero più”. Continua invece la polemica sui fondi destinati al progetto di accoglienza dei migranti nel Comune di Piace. Il Viminale ieri ha annunciato di non avere sbloccato i soldi, in attesa di accertamenti su “criticità”. Stop alla cannabis light? Così mille piccole imprese rischiano di fallire di Nadia Ferrigo La Stampa, 1 settembre 2018 I ministri della Lega vogliono intervenire sui rivenditori di cannabis light. Viaggio tra i negozi (finora) autorizzati: per noi è fonte di reddito e lavoro. A San Salvario l’ultimo shop inaugurato, che poi è il quarto della zona, si chiama Canapa House Torino. “Abbiamo aperto un mese fa. Ho lasciato un contratto a tempo indeterminato da impiegato. Noioso, ma sicuro. Ora ho davanti una nuova avventura e un prestito da restituire poco per volta alla banca. La chiusura? Ma no, non ci credo. Non può essere” scuote la testa Ezio Miglio, circondato da scatolette con decorazioni in stile indiano traboccanti di fiori di canapa ribattezzati Berry Wild, Lemon Out, Kali e Genesi. La sua reazione alle ultime dichiarazioni del ministro dell’Interno Matteo Salvini - ha bollato gli smart shop “negozi di marijuana che sembrano come i centri massaggi cinesi, un bordello” - sta tra l’incredulità e la paura. E torna invariata nelle parole e nei volti dei tantissimi che negli ultimi sei mesi hanno deciso di costruire un business sulla cannabis legale, cioè con un contenuto di Thc inferiore allo 0,2 per cento. Per aprire uno smart shop bisogna investire tra i 10 e i 40mila euro, a seconda del tipo di negozio e dei diversi settori commerciali che si vogliono coprire. Decisamente più onerosa la coltivazione, un investimento da 20mila euro per un campo e 50mila per una serra. Altro discorso se si fa in casa: per le infiorescenze basta spendere tra i 100 e i 300 euro. Frasi come una “Una follia”, “Così si torna al Medioevo” e “Dovremmo esportarla in tutto il mondo, altro che vietarla” rappresentano bene la gamma di reazione dei negozianti. “E dirò di più, sono felice di vedere i ragazzini che la comprano. Fa meno male di quel che c’è in strada” si sbilancia Elena “ma niente cognome”, tabaccaia della stazione di Porta Nuova circondata da bustine di Skunk e Lemon Haze che ricordano i coffee shop di Amsterdam. Se Salvini promette di “lavorare per una mediazione”, il ministro alla Famiglia con delega alle politiche anti-droga Lorenzo Fontana dice di “aver già dato disposizione agli uffici di approfondire gli aspetti legali, in base ai quali certi prodotti a base di cannabis sono venduti al pubblico, ma in assenza di una specifica regolamentazione”. Coltivazioni e investimenti - Sconosciuta alla stragrande maggioranza fino a sei mesi fa, ora pare il nuovo oro verde. Ancor prima di capire se si tratta di una nuova abitudine o il ritorno a norma di legge di un vecchio vizio, oltre 700 persone hanno aperto una partita Iva legata alla commercializzazione di prodotti a base di canapa, altre 250 legata esclusivamente al commercio di infiorescenze. Poi ci sono i tabaccai che la possono vendere, i nuovi marchi che si occupano solo di commercializzazione e distribuzione - un centinaio spuntati negli ultimi tre mesi - e non ultimi gli agricoltori. Coldiretti parla di ettari decuplicati in cinque anni - dai 400 del 2013 ai 4mila di oggi - e di centinaia di nuove aziende agricole che quest’anno hanno avviato la coltivazione di canapa. Che succederebbe se il nuovo governo - che con Fontana sposa il più classico proibizionismo - cancellasse tutto con un colpo di spugna? “Una considerevole quantità di soldi spesi bruciati, tanto per cominciare” dice Luca Marola, con la sua EasyJoint pioniere della canapa legale made in Italy. La grande zona grigia - “Con il boom del mercato sono nati diversi marchi che commercializzano un’erba a basso contenuto di principio attivo, ma che non sta tra le varietà del Catalogo europeo - continua. C’è chi interpreta bene le leggi, e chi se ne frega”. Se non sta nel Catalogo, non è canapa industriale e quindi non si può vendere. C’è un altro ma. Ancora manca una normativa per la destinazione d’uso: anche se vendute per essere fumate, le infiorescenze non sono vendute come prodotti da fumo. “C’è una grande confusione, che non fa bene a nessuno - chiosa Margherita Baravalle, presidente della piemontese AssoCanapa. Parlare solo di fumo e Thc è limitativo, è una pianta dai molteplici impieghi, per esempio quello alimentare”. “Sono certa che Salvini cambierà opinione - aggiunge Rachele Invernizzi, presidente della pugliese FederCanapa -. Il fiore di canapa è industria, lavoro e reddito, secondo noi un’opportunità”. Stati Uniti. Il paradosso americano, con Trump alla Casa Bianca si vendono meno fucili di Massimo Gaggi Corriere della Sera, 1 settembre 2018 Il presidente è stato così rassicurante sul fatto che non avrebbe introdotto restrizioni che la gente ha smesso di comprare armi dopo averne fatto incetta in era obamiana. Tra i molti che, in America, hanno nostalgia di Barack Obama c’è anche qualcuno che non ti aspetti: gli armieri. La Nra, la lobby del settore, aveva demonizzato il presidente democratico, reo di chiedere (senza successo) controlli più seri sulle vendite di fucili e pistole. Poi ha stappato champagne quando è stato eletto Trump. “Sarò il miglior presidente per voi” aveva promesso The Donald. E, tanto per dimostrare familiarità con le armi, aveva usto in campagna elettorale frasi come “potrei scendere sulla Fifth Avenue, sparare a uno a caso e non perderei neanche un voto”. Talmente rassicurante sul fatto che non avrebbe introdotto restrizioni che la gente ha smesso di comprare armi dopo averne fatto incetta in era obamiana. Smith & Wesson ha dichiarato che dopo il 2016 le sue vendite di armi a canna lunga sono calate del 50%, mentre la Sturm Ruger ha registrato una riduzione del fatturato del 13,5%. Quanto alla Remington - la fabbrica più antica d’America (fondata nel 1816), produttrice dei (tristemente) famosi fucili semiautomatici Bushmaster, usati in molte stragi - ha dichiarato bancarotta a marzo (ora ha ripreso l’attività grazie a un piano di salvataggio). “Non avremo più un commesso viaggiatore efficace come Obama” dicono con rimpianto ai giornali alcuni commercianti di armi. Trump avrebbe potuto aiutare quando a febbraio, dopo l’ennesima strage, sembrò intenzionato a cambiare rotta, introducendo qualche controllo. Ma poi, richiamato all’ordine dalla Nra, si rimangiò tutto. Unica speranza per gli armieri, un presidente democratico, possibilmente della sinistra radicale. Ma non Sanders che non fa crociate contro i fucili: viene dal Vermont, Stato di foreste e villaggi con gente molto armata. Medio Oriente. Trump taglia tutti i fondi ai palestinesi di giordano stabile La Stampa, 1 settembre 2018 Via i finanziamenti Usa all’agenzia Onu Unrwa. L’Amministrazione Trump ha tagliato tutti i fondi destinati ai palestinesi attraverso l’agenzia Onu Unrwa. La decisione è stata presa, ha dichiarato la Casa Bianca, perché l’organizzazione ha “un modello di business sbagliato” che serve soltanto a garantire “una comunità che si espande senza fine” di rifugiati palestinesi. Già all’inizio di quest’anno il presidente Donald Trump aveva dimezzato i fondi. La scorsa settimana il dipartimento di Stato aveva a sua volta azzerato i 200 milioni annui di aiuti diretti. La decisione era stata anticipata da una fuga di notizie dalla Casa Bianca, quando sono emerse e-mail del presidente Trump al consigliere speciale, e suo genero, Jared Kushner. Ora è arrivato l’annuncio ufficiale: “L’Amministrazione - spiega il comunicato - ha determinato che gli Stati Uniti non verseranno ulteriori contribuzioni all’Unrwa dopo quella di 60 milioni a gennaio. Vogliamo chiarire che gli Stati Uniti non vogliono più sopportare un peso molto sproporzionato per i costi dell’Unrwa come hanno fatto per molti anni”. Ma c’è anche una motivazione politica e strategica: “Oltre al fallimento nell’arrivare a una più equa distribuzione degli impegni fra i contributori, il modello di business che ha caratterizzato l’Unrwa per anni, legato all’espansione senza fine dei beneficiari degli aiuti, non è sostenibile. Gli Stati Uniti non sono più interessati da finanziare questa operazione fallimentare”. L’Unrwa è nata subito dopo la prima guerra arabo-israeliana, 1948-1948, quando circa 700 mila palestinesi furono costretti a lasciare le loro case durante il conflitto. Oggi l’agenzia fornisce assistenza a cinque milioni di persone con budget di oltre un miliardo di dollari all’anno. Gli Usa sono stati finora i maggiori contribuenti. Nel 2016 hanno donato 368 milioni dollari. Seguono l’Unione europea con circa 160 milioni dollari e l’Arabia Saudita con 150. Quest’anno l’Amministrazione Trump ha pagato la prima rata di gennaio, 60 milioni, poi sospeso la seconda, 65 milioni, e ora cancellato del tutto i pagamenti. Oggi i rifugiati palestinesi sono ospitati quasi tutti in Cisgiordania, Gaza, Giordania, Libano, Siria. Secondo Israele però i veri rifugiati sono poche decine di migliaia, cioè i superstiti fra i profughi della guerra del 1948-1949. La Casa Bianca ha di fatto accolto questa tesi e punta a ricalcolare al ribasso, con un taglio del 90 per cento, il numero dei profughi. Trump avrebbe già chiesto a Re Abdullah di Giordania di naturalizzare i due milioni che vivono sul suo territorio. Le pressioni in questo senso si legano anche alla trattative per un accordo di pace fra Israele e palestinesi: uno dei nodi più difficili nelle trattative è il “diritto al ritorno” dei profughi. Israele ha sempre detto no all’ipotesi di un ritorno in massa, ma potrebbe accoglierne qualche migliaio a titolo simbolico. Libia. Scontri a Tripoli: in pericolo la vita di migliaia di persone di Andrea Gangi aticannews.va, 1 settembre 2018 Secondo il comunicato stampa di Medici Senza Frontiere, la vita dei libici è a rischio. Il Paese non è sicuro e occorre un impegno concreto da parte dei governi europei. Vita dei libici in grave pericolo dopo 72 ore di scontri. Lo denuncia Medici Senza Frontiere, che fa un appello ai governi europei perché riconoscano la loro responsabilità e offrano un aiuto concreto alle persone più vulnerabili. Intanto, Msf sta effettuando le prime visite mediche e sta fornendo beni di prima necessità alle persone ancora trattenute nei centri di detenzione. I combattimenti - Gli scontri sono scoppiati domenica 26 agosto a Tripoli, la capitale, e hanno coinvolto gruppi armati rivali. I combattimenti si sono svolti nelle aree residenziali provocando un numero ancora imprecisato di vittime. Compromessa la vita di circa 8.000 rifugiati, richiedenti asilo e migranti, intrappolati e detenuti nei centri di detenzione in città. Alcuni di loro sono rimasti rinchiusi per oltre 48 ore in un’area colpita da pesanti scontri, senza avere accesso al cibo. A rischio la vita dei rifugiati - “I recenti scontri dimostrano come la Libia non sia un luogo sicuro per migranti, rifugiati e richiedenti asilo” dichiara Ibrahim Younis, capomissione in Libia per Msf, aggiungendo che molti di essi sono fuggiti da paesi devastati dalla guerra e hanno trascorso mesi detenuti in condizioni orribili, vittime di trafficanti di esseri umani, prima di essere trasferiti in questi centri di detenzione. Msf invita i governi europei a riconoscere che la Libia non è un luogo sicuro: è necessario fare di più per aiutare le persone intrappolate nel Paese africano e occorre trovare una via d’uscita sicura e dignitosa. “Queste persone - aggiunge Younis - non dovrebbero essere prigionieri semplicemente perché cercavano sicurezza o una vita migliore. Dovrebbero essere immediatamente rilasciati ed evacuati in un paese sicuro”. L’impegno di Msf - Con lo scoppio degli ultimi combattimenti sono cresciuti i bisogni umanitari dentro e fuori i centri di detenzione. L’Ong Msf sta effettuando le prime visite mediche e sta fornendo cibo, acqua e supplementi nutrizionali alle persone ancora detenute. Tuttavia Msf ha un accesso ancora limitato. L’Ong è presente in Libia dal 2011 e lavora nei centri di detenzione di Tripoli dal 2016, fornendo assistenza sanitaria di base, assistenza per la salute mentale e fornitura di servizi idrici e igienico-sanitari. Msf è anche l’unica organizzazione a garantire il trasferimento negli ospedali di migranti, rifugiati e richiedenti asilo bisognosi di cure di emergenza. La situazione dei detenuti - Secondo l’Unhcr, quasi la metà delle persone detenute nei centri di detenzione sono rifugiati provenienti da regioni in conflitto, tra cui Eritrea, Etiopia, Somalia e Sudan. Per il diritto internazionale queste persone hanno diritto alla protezione, ma le autorità libiche, i governi dei paesi sicuri e le Nazioni Unite non sono riusciti a stabilire un meccanismo efficace per prendere in carico le loro richieste di asilo. Inoltre, riporta il comunicato Msf, alcuni paesi europei hanno messo in atto politiche che impediscono ai richiedenti asilo di lasciare la Libia. Raccolti e portati in Libia - Il comunicato Msf riferisce infine che “certe politiche impediscono alle persone di attraversare il Mediterraneo, consentendo alla guardia costiera libica, finanziata dall’Europea, di respingere le persone salvate in mare verso le coste libiche. La grande maggioranza delle persone attualmente nei centri di detenzione è stata intercettata in mare per poi essere riportata in Libia”. Tali politiche, si legge nel comunicato, hanno aggravato le già precarie condizioni di vita nei centri di detenzione di Tripoli. Negli ultimi mesi la situazione si è deteriorata a causa del limitato accesso all’acqua potabile, alle strutture igienico-sanitarie e all’assistenza sanitaria, condizioni che hanno avuto conseguenze sulla salute fisica e mentale dei detenuti. Myanmar. Caso Rohingya: i generali si difendono, ma le loro foto sono false di Emanuele Giordana Il Manifesto, 1 settembre 2018 Mentre oltre 700mila Rohingya stazionano da ormai un anno in Bangladesh cacciati dal Myanmar e mentre il governo birmano ha rispedito al mittente il rapporto indipendente dell’Onu che accusa i suoi generali di genocidio e il governo civile di colpevole silenzio, i funzionari di Tatmadaw - le forze armate - hanno fabbricato la loro versione dei fatti. Una versione così falsa da sembrare ingenua. Versione diffusa per la verità già in luglio in uno dei pamphlet che l’esercito - Myanmar Politics and the Tatmadaw: Part I - ha deciso di utilizzare come materiale di propaganda per spiegare la sua verità sui Rohingya, la minoranza musulmana espulsa dal Paese. Ma un esame dell’agenzia Reuters su alcune immagini veicolate nel volume spiega bene come si fabbricano verità su misura: si tratta di tre fotografie, scattate in altri tempi e contesti, che servirebbero a spiegare sia la crudeltà dei rohingya verso i birmani, sia il fatto che si tratta di immigrati bengalesi e non di gente che vive - in molti casi da secoli - nello Stato (oggi) birmano del Rakhine. La brutalità dei Rohingya sarebbe documentata da uno scatto che si riferirebbe a incidenti avvenuti nel 1940: nella foto si vede un uomo con un bastone che tocca dei corpi di gente uccisa e riversa in un lago. Ma quell’immagine, spiega Reuters, si riferisce alla guerra del 1971 che decretò la fine del Pakistan orientale e la nascita del Bangladesh. La foto mostra un inequivocabile musulmano che tocca i corpi forse di due fedeli buddisti. E qui la fabbrica della menzogna non ha avuto bisogno di ritoccare se non la data. Di ben trent’anni. Nella altre due immagini la falsificazione è dilettantesca: sono due scatti in bianco e nero che mostrano una massa di persone in movimento sia una nave carica di gente. Le didascalie in divisa sostengono che si tratta della prova dell’invasione compiuta dai bengalesi che si insinuano in Myanmar provenienti da Ovest. Ma la prima è una foto di ruandesi in fuga verso la Tanzania nel 1996 all’epoca del genocidio. La foto originale (a colori) vinse persino un premio. In bianco e nero diventa la prova dell’immigrazione clandestina dei bengalesi. La terza foto è quella di una barca stracolma di rohingya che cercano di fuggire dal Myanmar. È uno scatto del 2015 di Getty: documenta una fuga che, nella didascalia “militare”, è invece un arrivo di massa. Tutto questo avviene con un governo civile e democraticamente eletto che non solo non prende posizione ma si schiera con Tatmadaw. Così qualche giorno fa, appena dopo l’uscita del dossier Onu per l’istituzione di un tribunale che indaghi i generali birmani su un caso di genocidio, l’Alto commissario per diritti umani Zeid Raad al-Hussein, parlando di Aung San Suu Kyi, ha detto che la Nobel avrebbe potuto dimettersi. Almeno un atto formale che viene invece compensato dalle foto di rito - quelle sì vere - a braccetto con i militari. Brasile. Lula (dal carcere) non potrà candidarsi alle presidenziali di Emiliano Guanella La Stampa, 1 settembre 2018 Ineleggibile perché condannato per corruzione. La Corte elettorale dà dieci giorni di tempo per indicare un sostituto, forse l’ex sindaco di San Paolo Fernando Haddad. Lula da Silva non potrà candidarsi alle elezioni presidenziali in Brasile del prossimo 7 ottobre. La decisione è stata presa dal Tribunale Elettorale sulla base della legge della “ficha limpa”, la fedina penale pulita, che dichiara ineleggibile chi è stato condannato in seconda istanza per delitti di corruzione o contro l’amministrazione pubblica. È questo il caso di Lula, che sta scontando una condanna di 12 anni nel carcere di Curitiba. La decisione era scontata, ma i tempi della stessa hanno sorpreso un po’ tutti. Pur sapendo della probabile bocciatura, il Partito dei lavoratori (PT) di Lula aveva presentato ufficialmente la sua candidatura nella speranza di tener accese le speranze dei suoi sostenitori più a lungo possibile e così capitalizzare l’enorme credito politico che l’ex presidente ha ancora oggi rispetto a buona parte della popolazione; secondo tutti i sondaggi almeno un terzo dei brasiliani voterebbe per lui. Con Lula fuori dai giochi, a questo punto, tutto si riapre. La Corte elettorale ha dato dieci giorni di tempo al PT per indicare un sostituto, che sarà con tutta probabilità l’ex sindaco di San Paolo Fernando Haddad, già in campagna da un paio di settimane. Haddad ha detto che visiterà Lula lunedì prossimo in cella e decideranno insieme la strategia da adottare. Non c’è molto tempo da perdere; ieri è iniziata la campagne elettorale gratuita in televisione e ogni giorno perso pesa molto sulla speranze di conquistare gli elettori. La scommessa di Haddad è quella di ereditare, come fece Dilma nel 2014, il capitale politico di Lula, ma non si tratta di un compito facile; molti votanti “lulisti” lo sono più per devozione al personaggio che per convinzioni ideologiche ed ora potrebbero anche scegliere altri candidati di centrosinistra, come Ciro Gomes o Marina Silva, o astenersi. Tutto è aperto nell’elezione più incerta in Brasile da ritorno della democrazia, la prima senza Lula protagonista, come candidato o come “sponsor di peso” per il suo partito e con un ultraconservatore come l’ex militare Jair Bolsonaro attestato intorno al 20% dei consensi. Manca ancora molto, ma lo spettro di un successo di un “Trump alla brasiliana”, con meno mezzi economici ma posizioni simili su molti aspetti, inizia a farsi tangibile, preoccupando investitori e mercati.