Rebibbia, la tragedia dell’ossessione carceraria di Stefano Anastasia* Il Dubbio, 19 settembre 2018 Riforma penitenziaria. Maternità, salute, droga: i nodi dimenticati. Era in carcere da poco più di 20 giorni, nel “nido” di Rebibbia con i suoi due bambini. Ora è in isolamento, guardata a vista, protetta dalle altre detenute e da se stessa. La sua bambina è morta, il più grande speriamo di no. Il gergo burocratico-penitenziario catalogherà anche questo tra gli “eventi critici” accaduti quest’anno in carcere. Ma quel che è successo ieri nella Casa circondariale femminile romana non ha eguali: una madre che uccide la figlia di sei mesi e riduce in fin di vita il fratellino di poco più grande non si era ancora mai visto. Di fronte a una simile tragedia si resta senza parole, eppure bisogna farsi forza e guardare fino in fondo quel che essa ci dice. Non certo per dedicarsi retrospettivamente al gioco delle responsabilità. Piuttosto per capire cosa sia avvenuto e cosa si sarebbe potuto fare per prevenirlo. Non più, ovviamente, per quella mamma e per quei due bambini, ma per quelli che verranno. Tornano così in fila una serie di nodi irrisolti del nostro sistema penitenziario: la detenzione per droga, la sofferenza per la privazione della libertà, le difficoltà di comunicazione degli stranieri e poi, infine, l’effetto paradossale di una norma umanitaria, che consente alle madri di tenere i propri figli piccoli e piccolissimi in carcere, per evitare che subiscano il trauma della separazione dalla figura materna, ma che poi li costringe a crescere in un ambiente innaturale, confinato da una serie successiva di muri, sbarre, porte e cancelli. Ognuno di questi nodi andrebbe affrontato e sciolto. Quella madre (e quante altre?) non aveva alcuna alternativa alla detenzione? Non si poteva proprio fare a meno di tenerla in carcere con i suoi due bambini? E quanto pesano, e quanto hanno pesato nella sofferenza di quella donna, le difficoltà di comunicazione di chi non parla la lingua del posto in cui si trova? E, infine, la sua sofferenza, e quella di mille altri, come viene presa in carico dai servizi di salute mentale? È rilevata per tempo? È seguita da un’offerta terapeutica adeguata? È segnalata nella sua eventuale incompatibilità con la detenzione? Non sono, queste, domande di oggi, ma anche di ieri e dell’altro ieri. E non sono domande prive di risposte. Anzi, spesso le risposte sono già in leggi vigenti, come nel caso delle case famiglia per detenute madri. Oppure sono nelle proposte, anche istituzionali, avanzate nel tempo. Bisognerebbe riscoprirle, quelle risposte, se solo si avesse il coraggio di superare l’ossessione carceraria, se solo non si stesse approvando una riforma dell’ordinamento penitenziario che ignora ognuna di quelle domande. *Garante dei detenuti di Lazio e Umbria Lei non era una detenuta di Patrizio Gonnella* comune-info.net, 19 settembre 2018 Come sarà classificata la povera bimba morta, pare uccisa dalla propria mamma, nel carcere romano di Rebibbia? Di certo non verrà conteggiata tra i detenuti morti nel 2018. Lei non era una detenuta. Era prigioniera, suo malgrado. Era innocente. Come innocenti sono tutti i bambini del mondo. Di tutto questo sarebbe importante discutere. Di come non riusciamo a liberarci del carcere al punto che non si riesce a trovare una soluzione neanche per qualche decina di bambini innocenti. Ogni altra interpretazione è fuorviante ed apre a strumentalizzazioni. Dovunque, in galera o no, una madre ammazza un proprio figlio bisogna restare in silenzio. Un rispettoso silenzio. Solo così onoreremo quella vita spezzata. Un silenzio che non ammette sociologismi o speculazioni. Sarebbe bello se di fronte a un qualsiasi fatto di cronaca imparassimo a tacere o quanto meno cercassimo di trarne conseguenze opposte a quelle che finora ci hanno portato nelle braccia dei pan-populisti. Non so quale mai potrà essere il commento dei nostri twittatori professionisti saputa la notizia. Ancora più triste è immaginarsi di quali sarebbero state le reazioni social se quella mamma non fosse stata tedesca ma di un qualsiasi paese africano o se fosse stata una donna rom. Rebibbia è un carcere gestito con professionalità da tante brave persone. Si respira un’aria di umanità. Ce ne fossero in giro di persone e luoghi di questo tipo. L’ultima volta (fine maggio 2018) ci sono andato con una trentina di studenti dell’Università Roma Tre impegnati in un corso universitario. E il corso si è chiuso con una conferenza, rivolta alle detenute, della nipote di Ghandi. Si parlava di non-violenza. Dunque, se proprio si decide che su questa vicenda di cronaca si vuole rompere il silenzio lo si faccia per spiegare come il carcere sia un’invenzione della modernità per superare la tragedia dei supplizi e delle pene corporali. Un’invenzione alla quale oggi i cultori della pena certa si affidano in modo totemico. Prima di twittare, commentare, legiferare, contro-legiferare bisogna avere visto. Era questo il titolo di uno straordinario numero della rivista Il Ponte di Piero Calamandrei del 1948. Loro, gli uomini della resistenza incarcerati dai fascisti (Altiero Spinelli, Ernesto Rossi, Vittorio Foa), il carcere lo avevano visto e sapevano raccontarlo nonché svelarne le drammatiche ambiguità. Tra queste ambiguità c’è quella di bimbi piccoli costretti a stare in carcere con le proprie mamme detenute. Non si è riusciti a mandarli tutti fuori. Non è facile. Ma è dovere di tutti continuare a provarci, con determinazione e senza urlare. *Giurista, presidente dell’Associazione Antigone Lo scandalo dei bambini che vivono in carcere di Antonio Crispino Corriere della Sera, 19 settembre 2018 Hanno da zero a sei anni ma sono già detenuti. Nelle carceri italiane ci sono 60 bambini detenuti. L’ingresso in carcere dei bambini è una scelta della donna. Che però, quasi sempre, non ha una vera opzione Escono solo il sabato con i volontari. Nelle carceri italiane ci sono 60 bambini detenuti. Hanno da pochi mesi a sei anni e vivono dietro le sbarre. Condividono la reclusione delle madri, anche se il regime carcerario a cui sono sottoposti è attenuato rispetto al resto della popolazione carceraria. Non hanno fatto niente (e cosa potrebbero mai fare?), eccetto nascere al momento sbagliato, in prossimità di un arresto o una condanna. L’ingresso in carcere dei bambini è una scelta della donna. Che però, quasi sempre, non ha una vera opzione. Spesso il marito è in carcere o non ci sono altri parenti a cui affidare il bimbo. Il numero dei bambini nei penitenziari è più o meno sempre costante negli anni. Non influiscono i vari provvedimenti di legge. Dal 1975 (la legge 354) a oggi (la legge 62 del 2011) ci sono stati cinque interventi legislativi. Ma i bambini restano sempre lì. Non si contano, invece, le promesse solenni di quasi tutti i ministri della Giustizia che si sono succeduti negli ultimi dieci anni (senza andare troppo indietro con il tempo). Il ministro Clemente Mastella nel 2007 partecipò a un convegno dal titolo: “Che ci faccio io qui? Perché nessun bambino varchi più la soglia di un carcere”. Nel 2009 lo sostituì Angelino Alfano e dichiarò: “Un bambino non può stare in cella. Approveremo una riforma dell’ordinamento carcerario che consenta di far scontare la pena alle mamme in strutture dalle quali non possano scappare ma che non facciano stare in carcere il bambino”. Poi fu il turno del ministro Paola Severino: “In un Paese moderno è necessario offrire ai bambini, figli di detenute, un luogo dignitoso di crescita, che non ne faccia dei reclusi senza esserlo”. Era il 2012. L’anno dopo in via Arenula arrivò Anna Maria Cancellieri: “Stiamo lavorando perché vogliamo far sì che non ci siano mai più bimbi in carcere”. Infine, l’attuale ministro della Giustizia Andrea Orlando che nel 2015 promise: “Entro la fine dell’anno (2015, ndr.) nessun bambino sarà più detenuto. Sarà la fine di questa vergogna contro il senso di umanità”. L’istituto penitenziario che reclude il maggior numero di bambini si trova a Roma ed è il Rebibbia femminile “Germana Stefanini”, uno dei più attrezzati e meglio tenuti. Ci vivono quindici bambini, quasi tutti sotto i tre anni di età. Ma prima della sentenza Torreggiani (la decisione con la quale la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo stabilì che “il prigioniero sia detenuto in condizioni compatibili con il rispetto della dignità umana”) se ne contavano ventuno. La maggior parte delle mamme sono Rom ma troviamo anche un’italiana. La prevalenza Rom si spiega con l’alta percentuale di recidiva che impedisce loro di accedere alle pene alternative. Così vivono con i figli nelle celle, anche se di giorno le porte sono aperte. Alle 20,00 una poliziotta penitenziaria le rinchiude. I bambini crescono con i ritmi carcerari, tra divise e chiavistelli. Un’eccezione sono considerati gli Icam, Istituti a custodia attenuata per madri detenute (il progetto pilota partì a Milano) che si distinguono unicamente per il fatto che ci sono ambienti più familiari, i poliziotti non indossano la divisa ma abiti civili e c’è una maggiore presenza di educatori. Restano le sbarre alle finestre, le porte blindate, la videosorveglianza e il controllo degli operatori. “Chiedono perché li rinchiudono, credono di aver fatto qualcosa di sbagliato e piangono” ci dice una mamma. Non sanno di essere in un carcere ma percepiscono le restrizioni. I racconti sono questi: “Di notte mio figlio non dorme, si affaccia continuamente alla cancellata, chiama la guardia e chiede “Mi apri?”; Quando so che si avvicina l’ora della chiusura lo porto in bagno ma lui capisce, indica gli agenti con il dito e si nasconde, è brutto”; “I bambini qui diventano aggressivi, non hanno relazioni sociali. Tra l’altro vedono solo donne e manca del tutto una figura maschile”. Una situazione che induce a gridare allo scandalo ma che, in realtà, è molto complessa perché mette il legislatore nella difficoltà di contemperare tre diverse necessità, ugualmente sacrosante: garantire l’espiazione della pena, tutelare i diritti del bambino così come il rapporto che deve esserci tra una madre e il figlio poco più che neonato. Cosa, quest’ultima, che fa escludere a priori l’ipotesi di separare il figlio dalla madre al momento dell’ingresso in carcere. I danni si colgono il sabato, quando i bambini possono oltrepassare il confine carcerario grazie all’associazione “A Roma insieme”. La fondò Leda Colombini, onorevole del Pci, un passato di grande sofferenza personale e di lotta per i diritti che la portò dai campi di riso ai banchi del Parlamento. Volle fortemente i cosiddetti “Sabati di libertà”, giornate che da più di vent’anni rappresentano l’unica boccata d’ossigeno per i bambini detenuti. Elisa, Roberta, Paola, Alessandra, Fabrizio e Vanessa sono i volontari che ci accompagnano. Li chiamano “articolo 17” con riferimento all’ordinamento penitenziario che consente l’ingresso in carcere a persone esterne purché legate a un progetto. Spesso fanno tutt’altro mestiere. Roberta è un avvocato di un noto studio legale romano. Paola è un’amministrativa dell’ospedale San Giovanni. Poi c’è chi come Fabrizio lavora nel mondo del volontariato, Vanessa che vuole fare un’esperienza compatibile con il suo percorso di studi o Elisa che lavorava come pubblicitaria e dopo aver scoperto la realtà dei bambini in carcere si è iscritta all’Università ed è diventata una educatrice. Un pullman dell’Atac messo a disposizione dal Comune di Roma (per il servizio l’Atac chiede 25mila euro l’anno) preleva i bimbi da Rebibbia e li porta all’esterno. La nostra presenza coincide con la visita al mare di Ladispoli e alla casa famiglia “Carolina Morelli” gestita dalle suore dell’ordine “Figlie di Maria ausiliatrice”. “Molti di loro non sanno cosa siano gli spazi aperti, quando arrivano sulla riva restano stupiti ma anche spaventati”, nota Giovanni Giustiniani, volontario della prima ora. È impressionante vedere dei marmocchi che a stento si reggono in piedi varcare i cancelli del carcere. Così come fa specie sentirli pronunciare poche parole ma alcune con estrema chiarezza: porta, chiave, apri, chiudi. Restano cupi fin quando non scendono e i volontari li fanno giocare. Arrivano sulla spiaggia procedendo con prudenza. Si fermano, guardano e scoprono. Alcuni restano attaccati ai volontari. Come Eliot che stringe forte il dito di Claudio Enei, l’autista che li accompagna ogni settimana. “Prima era solo un lavoro. Ora, quando arriviamo, tolgo la divisa dell’Atac e divento un volontario a tutti gli effetti. Spesso mi scambiano per il papà”, racconta. Subiscono una metamorfosi quando devono risalire sul pullman per il ritorno. Non è solo per la fine di una giornata di giochi, come fanno tutti i bambini. Associano l’imbrunire con la chiusura delle celle e s’intristiscono. Qualcuno piange, sbatte la manina sul vetro dell’autobus. Rientrati a Rebibbia non corrono verso le rispettive mamme. “Più di una volta è capitato che restano attaccati addosso e non vogliono andare dalla mamma” ricorda Paola, un’altra volontaria. Gli aneddoti che raccontano sono infiniti. Come quel giorno in cui capitò che un agente lasciò una chiave sul tavolo. Uno dei bimbi la prese e corse dalla mamma: “Mamma, vieni, ti porto fuori, ci sono un sacco di cose belle”. Il dramma di Rebibbia e quei 62 bambini in carcere con le madri detenute di Federica Olivo huffingtonpost.it, 19 settembre 2018 Una legge del 2011 aveva previsto la nascita di “case famiglia protette” per madri condannate. A 7 anni dall’entrata in vigore, però, ne esiste solo una. Di lei si sa solo che era una bambina, che aveva quattro mesi e che ha trascorso le ultime settimane della sua brevissima vita nel carcere di Rebibbia, insieme alla mamma e al fratellino di venti mesi. Ed è stata proprio la madre, una donna poco più che trentenne - in carcere dal 27 agosto con l’accusa di traffico internazionale di stupefacenti - a prendere lei e il fratello e a scaraventarli giù per le scale, nella sezione nido dell’istituto penitenziario. Per la bimba non c’è stato nulla da fare. Ha perso la vita nello schianto. Il fratellino è ancora vivo, ma le sue condizioni sono gravissime. Nessuno ancora conosce le ragioni del gesto e le indagini sono in corso. La vicenda, però, riaccende i riflettori su una realtà troppo spesso dimenticata: quella dei figli delle donne detenute che trascorrono i primi anni della loro esistenza in carcere con la loro mamma. In Italia sono 62 secondo i dati del ministero della Giustizia aggiornati al 31 agosto 2018. Tutti molto piccoli, tutti costretti a vivere una parte dell’infanzia in maniera diversa dai loro coetanei. Possono giocare, se vogliono, nelle sezioni nido, e possono avere la loro mamma accanto, ma con lei condividono la privazione della libertà, quasi come se stessero scontando una pena, per un reato mai commesso. Dopo la tragedia di oggi si levano tante voci per chiedere che i bambini non trascorrano più neanche un giorno della loro vita in carcere. Una disposizione che permetterebbe alle loro madri di scontare pene in strutture diverse esiste, ma a guardare i dati pare che sia stata attuata solo parzialmente. “La legge sull’ordinamento penitenziario, del 1975, permette alla mamma di tenere con sé in carcere il figlio fino al compimento del terzo anno - spiega ad HuffPost Susanna Marietti, dell’associazione Antigone - Nel 2001, con la legge Finocchiaro, è stato introdotto un istituto specifico per le madri detenute: la detenzione domiciliare speciale, che poteva essere richiesta dalle donne che avevano un figlio sotto i dieci anni d’età. La norma, però, prevedeva due condizioni: il magistrato doveva ritenere che la donna fuori dal carcere non avrebbe compiuto altri reati. La detenuta, poi, doveva dimostrare di poter garantire la convivenza con il figlio”. Molte donne, però, non avevano un posto dove andare e, per questo motivo, anche se avessero chiesto di uscire dal carcere per stare con i loro bambini, il giudice non avrebbe potuto concedere loro la misura. Nel 2006 qualcosa è cambiato: sono nati gli Icam, delle strutture “a custodia attenuata” per madri detenute. Sono istituti detentivi a tutti gli effetti, ma realizzati in modo che i bambini si accorgano il meno possibile il dramma della detenzione della madre. In Italia attualmente ce ne sono 5, dislocati tra Cagliari, Lauro (in provincia di Avellino), Milano, Torino, Venezia. A Cagliari al 31 agosto 2018 non risultavano esserci donne con bambini. “Sono un passo avanti. Hanno un aspetto meno tetro, ma si tratta sempre di carcere”, osserva Marietti. Nel 2011 è arrivato un nuovo intervento legislativo che prevede la possibilità per le donne detenute con figli di al massimo 10 anni - che stanno scontando una pena non superiore a quattro anni e che non hanno un altro posto dove andare - di essere trasferite in una “casa famiglia protetta”. Un modo, questo, per tenere i bimbi lontani dalle sbarre e dalle celle. “La legge, però, non prevedeva che lo stato stanziasse i fondi per realizzare queste strutture - spiega ancora Marietti - ma stabiliva che dovevano pensarci gli enti locali. Gli enti locali, però, ci hanno pensato pochissimo”. A sette anni dall’entrata in vigore della legge esiste solo una struttura di questo tipo in Italia: è nata nel 2017, si chiama la Casa di Leda e la sua sede è all’Eur, a Roma, in un bene confiscato alla criminalità organizzata. All’interno dell’edificio, ha spiegato il responsabile Lillo Di Mauro all’Agi, al momento ci sono 6 bambini con le loro mamme, l’ultimo ha appena un mese. La struttura potrebbe, però, accogliere altre donne: “Attualmente abbiamo ospiti solo 4 donne, quando avremmo potuto ospitarne 6, mentre nel carcere c’è il sovraffollamento di mamme con bambini - ha affermato all’Ansa Di Lillo - questa è la contraddizione di una legge che non raggiunge gli obiettivi per i quali è stata approvata”. Non esistono schemi per giudicare una detenuta che uccide suo figlio di Antonio Pechiar Il Fatto Quotidiano, 19 settembre 2018 Mentre scriviamo la tragedia si è consumata da poco. Quasi nulla è chiaro. Tanto meno la fine, quel che tutti vorremmo sapere: ce la farà il figlioletto di due anni a sopravvivere? Per il fratellino di quattro mesi, purtroppo, non c’è più nulla da fare. Una donna di nazionalità tedesca, detenuta nel carcere femminile di Rebibbia a Roma, avrebbe scaraventato i suoi due figli dalle scale del reparto nido dell’istituto dove loro vivevano con lei. Sono 62 i bambini sotto i tre anni che in Italia abitano in una cella assieme alla loro madre detenuta. Tra questi, 16 stavano a Rebibbia con le loro 13 mamme. Ancora quasi nulla è chiaro della tragedia di Rebibbia. Non è chiaro se la donna soffrisse di disturbi mentali, non è chiaro il motivo della disperazione che l’ha portata a un gesto irreparabile che toglie il fiato. Per noi che frequentiamo quel carcere con continuità c’è solo lo sgomento di quanto è successo. E la consapevolezza che di disperazione individuale si è trattato. Nessuna responsabilità si può attribuire all’istituto femminile di Rebibbia, un istituto gestito con saggezza e capacità da persone di grande umanità. Si è provato in tanti modi a superare una situazione drammatica e innaturale. Bimbi che dovrebbero giocare nei parchi o stare tra i colori di un asilo circondati da amichetti costretti invece a dormire in una cella e fare l’ora d’aria in un giardinetto di pochi metri quadri. Ma non è facile. La scelta tra strappare una mamma a un bambino e strappargli la libertà non è affatto scontata. E non sempre è facile restituire parte della libertà a entrambi, quando la donna ha compiuto un reato. Ci si è provato con una legge del 2001, entrata in vigore simbolicamente l’8 di marzo, e poi ancora con una legge del 2011. Ma poco è cambiato rispetto a prima. La legge cosiddetta Finocchiaro del 2001 introduceva una forma di detenzione domiciliare specifica per le detenute con figli di età inferiore ai dieci anni. Per accedervi, tuttavia, bisognava che il magistrato fosse convinto che la donna non avrebbe ripetuto il reato. E non molti magistrati in questi anni sono stati disposti ad assumersi una tale responsabilità. Inoltre, bisognava dimostrare di poter ripristinare la convivenza con il figlio. E non troppe donne detenute erano in queste condizioni. Nel 2011, dunque, si è ritornati sulla normativa, disponendo tra le altre cose la creazione di case famiglia protette, strutture non detentive dove le donne prive di domicilio potevano andare a scontare questa forma di misura alternativa alla detenzione ordinaria. La legge, tuttavia, disponeva il principio astratto senza disporre uno strumento molto concreto ma necessario: i fondi per costruire le case famiglia protette. Ne demandava invece la realizzazione agli enti locali. I quali certo non navigavano nell’oro e ben poco hanno fatto nella direzione sperata. I bambini sono rimasti dunque nelle carceri. Circa la metà di essi è oggi detenuta in Istituto a custodia attenuata per madri (Icam), in condizioni penitenziarie più aperte ma comunque in un carcere. Non sono numeri elevatissimi, negli anni hanno sempre oscillato complessivamente attorno alle 50 o 60 unità. Proprio per questo si potrebbe affrontare ciascun caso come fosse un caso singolo. Per ognuno si potrebbe trovare una strategia amministrativa e legale per evitarne la detenzione. Ci vuole la volontà politica di farlo. Questo lo diciamo da anni e non è certo il terribile episodio romano a suggerircelo. Quanto a quest’ultimo, forse dovremmo solo fare silenzio e tenerci dentro il dolore di quanto accaduto. Così come ogni suicidio dietro le mura del carcere, anche un gesto come questo è frutto di un dramma personale complesso che non va ridotto a schemi semplicistici. Siamo vicini alla direttrice, al comandante, alla vicedirettrice, alle educatrici, a tutto il personale del carcere di Rebibbia femminile che in questi anni abbiamo visto operare con entusiasmo, intelligenza e umanità. Sono 62 i bimbi dietro le sbarre. Il Garante Mauro Palma: “Mancano case-famiglia” di Maria Rosa Tomasello La Stampa, 19 settembre 2018 Secondo la legge il diritto dei piccoli dovrebbe prevalere sull’esigenza di punire il genitore. Ma alla prova dei fatti, i domiciliari non funzionano e non ci sono soldi per strutture alternative. Di una cosa tutti sono certi: i bambini non dovrebbero vivere dietro le sbarre. “La legge ci dice che il carcere dovrebbe essere veramente la soluzione estrema - ricorda il Garante nazionale dei diritti dei detenuti, Mauro Palma. Il bisogno e il diritto di un bambino devono essere prevalenti anche rispetto all’esigenza di punire il genitore”. Eppure, nonostante gli interventi legislativi che si sono susseguiti negli ultimi 40 anni, le norme che dovrebbero salvare i bimbi dalla pena condivisa senza colpa con le loro mamme, non sono sufficienti o non sono attuate. Così, sullo sfondo della tragedia “imprevedibile” di Rebibbia, dove il nido è considerato un modello, ci sono i nomi e i volti di sessanta piccoli che vivono ancora negli istituti penitenziari e negli istituti a custodia attenuata (Icam). Il censimento del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, aggiornato al 31 agosto scorso, conta 62 bimbi “detenuti” con le madri, 52. Di queste, 27 sono italiane, con 33 bambini; 25 le straniere, con 29 figli. Tutti in tenera età. Per legge infatti i bambini possono restare con le mamme nelle carceri fino a tre anni. Fino ai sei anni invece negli Icam, istituiti con la legge 62 del 2011, che in Italia sono solo cinque: a Milano San Vittore, aperto in via sperimentale già nel 2006, Torino, Venezia, Cagliari e Lauro (Avellino). Fino a oggi le normative hanno arrancato, spiega Susanna Marietti, coordinatrice nazionale dell’associazione Antigone, che si occupa di diritti e garanzie nel sistema penale: “L’ordinamento penitenziario del 1975 aveva previsto che la mamma potesse tenere il bimbo con sé in carcere fino a tre anni. Una mediazione per non strappare la madre al piccolo. Nel tempo si è cercato di ridurre la portata del fenomeno. Prima con la legge Finocchiaro del 2001, che tra l’altro introduceva la detenzione domiciliare speciale per chi aveva figli fino a 10 anni, ma che non ha funzionato molto bene, quindi nel 2011, quando la legge 62 dispose la creazione di case famiglia protette, ma senza copertura finanziaria e dando mandato agli enti locali, che non l’hanno fatto se non in rarissimi casi (oggi esistono solo a Milano e Roma, ndr). Ecco perché non si è riusciti a ridurre il numero dei bimbi negli istituti o negli Icam, dove pure se il personale è in borghese e l’ambiente è accogliente, i bambini si trovano comunque in un regime ristretto”. Quindi, conclude Marietti “bisogna pensare a strategie individuali”. E “predisporre case famiglia protette”, come chiede il Garante, che nella sua Relazione 2018 al Parlamento, definisce “un vulnus” la presenza di bimbi in carcere: “E se alcuni istituti si sono attrezzati”, denuncia, esistono anche “sezioni che del nido non hanno davvero nulla: un reparto detentivo classico, talvolta anche in cattive condizioni materiali”. “Il problema - afferma Lia Sacerdote, presidente dell’associazione Bambini senza sbarre - è che il magistrato prescrive il carcere, mentre la Carta dei diritti dei figli di genitori detenuti, firmata dall’allora ministro della Giustizia Andrea Orlando, che speriamo sia rinnovata dal ministro Bonafede, invita i giudici a evitare il carcere ai genitori di minori”. Rebibbia, tragedia al nido. Detenuta uccide la figlia di Eleonora Martini Il Manifesto, 19 settembre 2018 Una donna tedesca butta giù dalle scale i suoi due figli. La piccola muore, l’altro è gravissimo. Il Garante Mauro Palma: “Prima della punizione viene il diritto dei bimbi di vivere con le madri fuori dal carcere”. Stavolta è successo in carcere. Una donna tedesca di 33 anni, detenuta all’interno del “nido” della sezione femminile di Rebibbia, in preda ad un raptus avrebbe gettato giù dalla rampa di scale i suoi due figli, uccidendo sul colpo la bambina più piccola, di soli sei mesi, e ferendo gravemente il bambino di circa due anni. Era in carcere solo dal 26 agosto scorso, A. S., nata in Germania ma di cittadinanza georgiana, “arrestata in flagranza di reato per concorso in detenzione di stupefacenti (articolo 73, ndr)”, secondo quanto comunicato dal ministro di Giustizia Alfonso Bonafede che ieri si è recato nel carcere romano e poi in visita all’ospedale pediatrico Bambino Gesù dove è ricoverato in condizioni gravissime il piccolo. Il Guardasigilli “ha subito avviato un’inchiesta interna volta a ricostruire l’esatta dinamica dei fatti e ad accertare eventuali profili di responsabilità”. “Intorno all’ora di pranzo e nello spazio di pochi minuti - informa la nota ministeriale - si consumava il tragico gesto” della donna che proprio ieri mattina avrebbe dovuto avere un colloquio con i suoi parenti. Le condizioni del bambino di due anni sono particolarmente critiche, secondo il primo bollettino sanitario, “con danno cerebrale severo”. “Il bambino è in prognosi riservata ed è sottoposto attualmente a supporto rianimatorio avanzato e in ventilazione meccanica. È in programma un intervento neurochirurgico”. Anche il procuratore aggiunto Maria Monteleone di Roma, coordinatrice del pool dei magistrati che si occupa dei reati sui minori, ha aperto un’inchiesta. E dalle prime indiscrezioni circolate, pare che la donna fosse stata già segnalata al servizio psichiatrico durante la visita psicologica che si svolge di routine all’ingresso in carcere, e avesse già manifestato alcuni disagi psichici (associati probabilmente ad una tossicodipendenza). Fonti della polizia penitenziaria fanno sapere alle agenzie di stampa che gli stessi agenti avrebbero depositato relazioni scritte per segnalare la donna all’area sanitaria. In realtà, al Garante nazionale dei diritti delle persone private di libertà, Mauro Palma, non risulta ci sia mai stato nella posizione detentiva della donna alcun “evento precedente”, come si dice in gergo. Non sarebbero cioè mai stati registrati, nella vita carceraria della 33enne georgiana, eventi di rilevanza tale da lasciare presagire una tale tragedia. O almeno non sarebbero mai stati trasmessi alle autorità preposte. I dettagli della terribile notizia sono ancora sconosciuti, eppure si è già scatenata la speculazione politica di certi sindacati di polizia penitenziaria e delle destre più giustizialiste che chiedono ora di cambiare la legge. Non per decretare l’incompatibilità con la vita carceraria delle donne con figli minori di tre anni, ma al contrario per separare le detenute dai loro bambini. Attualmente in tutta Italia 62 bambini sono reclusi insieme alle loro madri (52 donne). Di questi, la metà circa è ospitata negli Icam (Istituti a custodia attenuata, creati con la legge 62/2011) insieme alle madri detenute, gli altri in carcere. E di questi ultimi, la maggior parte si concentra proprio a Rebibbia, dove al 31 agosto erano reclusi 16 bimbi con 13 madri. Esistono anche le case protette, ma l’unica funzionante in Italia è la “Casa di Leda” che attualmente ospita “solo 4 donne - riferisce il responsabile, Lillo Di Mauro - quando avremmo potuto ospitarne 6, mentre nel carcere c’è il sovraffollamento di mamme con bambini. E questa è la contraddizione di una legge che non raggiunge gli obiettivi per i quali è stata approvata”. “Nella parte della riforma dell’ordinamento penitenziario che era stata quasi portata a termine - ricorda Rita Bernardini, della presidenza del Partito Radicale - e non è stata approvata né dal precedente né dall’attuale governo, si cercava di superare questo problema della detenzione dei bambini. Ma sono le leggi ad essere assassine”. In effetti, sia Di Mauro che Palma riconoscono la grande professionalità e sensibilità della direttrice di Rebibbia, Ida Del Grosso, degli agenti e degli operatori del “nido”. “Dobbiamo partire dall’idea - sottolinea invece il Garante - che il bisogno e il diritto di un bambino che deve evolvere e sviluppare la sua vita deve essere prevalente anche alle nostre esigenze di punizione rispetto al genitore. A partire da questo le amministrazioni locali devono predisporre le strutture che garantendo la sicurezza all’esterno offrano case famiglia protette e la possibilità di vivere in un ambiente non detentivo”. Le detenute e i loro piccoli, vita quotidiana in carcere di Federica Angeli La Repubblica, 19 settembre 2018 Nel reparto dove Alice ha ucciso la figlia, le giornate seguono la routine dell’infanzia. La garante Gabriella Stramaccioni: “Dramma inspiegabile. Non aveva dato segnali” Per Alice Sebesta quella di ieri era stata una giornata come tutte le altre passate in carcere dal 27 agosto. Nessuno immaginava cosa covasse dentro, nessuno immaginava che la donna tedesca di 33 anni a Rebibbia per droga avrebbe ucciso Faith, la figlia neonata di 7 mesi e ridotto in fin di vita il più grande di due anni, lanciandoli dalle scale. Come tutti i giorni era rientrata dal lavoro all’interno del carcere nella “sezione nido”. Tutto come sempre, nel braccio speciale del carcere romano riservato alle detenute che hanno figli e che con loro vivono nell’istituto penitenziario - la sezione nido, appunto. Qui vige un regime diverso da tutti gli altri bracci. Lì le giornate delle detenute scorrono in una stanza open space colorata, con giochi e disegni appesi alle pareti, che dovrebbero rendere meno infelice la vita di quei bambini. Attualmente sono 11 le mamme detenute che convivono con 17 figli accuditi da loro la notte e durante il giorno da medici, pediatri, infermiere, assistenti, insegnati, psicologi. È uno staff altamente specializzato quello che si prende cura dei piccoli che hanno un destino segnato da scelte delle loro mamme ma che vivono costantemente monitorati da esperti per superare traumi che col passare degli anni potrebbero riaffiorare. “I bambini presenti ad oggi - ha spiegato Gabriella Stramaccioni, la Garante per i detenuti di Roma Capitale - sono 17, la media in genere, è dai 16 ai 18 minori. Le donne lavorano dentro il carcere e i figli nel frattempo vanno al nido, accuditi dal medico, pediatra, psicologo. Da pochi a mesi a massimo 4 anni sono le età dei piccoli ospiti. Il nido di Rebibbia è molto curato, una vera eccellenza per gli standard carcerari italiani. Non mi riesco a spiegare il perché di questa tragedia: Alice in questa ventina di giorni di carcere non aveva mai manifestato segni evidenti di squilibrio psichico. Mai”. Le mamme che hanno una pena al di sotto dei 4 anni vivono lì: alle 7 del mattino sveglia, chi deve allattare allatta, le altre fanno fare colazione ai figli. Poi escono dalla sezione: alcune vanno a lavorare all’interno del penitenziario, altre studiano. Alle 12 tornano tutte dai loro bambini per nutrirli. Ed è stata a quell’ora che Alice Sebesta si è messa ultima nella fila delle detenute, e dalla sala giochi della sezione nido è salita sulla rampa per arrivare al refettorio. Avrebbe dovuto allattare, invece ha lanciato nel vuoto, da un’altezza di tre metri, prima la neonata che teneva in braccio e poi il primogenito che teneva per mano. “Dopo il pranzo - prosegue Stramaccioni - in genere con le belle giornate le mamme possono uscire con i piccoli in un cortile dove proprio lo scorso sabato sono arrivati scivoli, altalene e giochi per i bambini”. Giornate che si ripetono fino a fine pena. Sempre sorvegliate a vista da un’agente donna. Che ieri non è riuscita a evitare l’inimmaginabile. Lillo Di Mauro: “A Casa di Leda c’è posto e i bambini sono più liberi” di Federica Angeli La Repubblica, 19 settembre 2018 In via Kenya all’Eur la villa di 600 metri quadrati confiscata. È una struttura unica in Italia, inaugurata meno di un anno fa. “Quanto accaduto nella Casa Circondariale di Rebibbia, è una tragedia per tutti noi che lavoriamo in questo ambito”. A parlare è Lillo Di Mauro, responsabile della Casa di Leda, la prima struttura in Italia che ospita le mamme detenute e i loro bambini, dopo l’entrata in vigore della legge 62 del 2011. Una legge che permette alle donne condannate di scontare i domiciliari insieme ai figli, fino a 6 anni, in strutture alternative al carcere, proprio per evitare ai minorenni di vivere in un carcere o di essere strappati alle loro mamme. “La Casa di Leda, in onore di Leda Colombini che per anni ha difeso i diritti delle mamme detenute e dei loro figli - ha spiegato Di Mauro - è nata proprio perché i bambini non debbano stare in carcere”. La villa di 600 metri quadri, un tempo dimora di un politico di centrodestra che rubò all’erario oltre 10 milioni di euro e gli fu dunque confiscata, si trova in via Kenya, all’Eur. Quando i residenti vennero a sapere della finalità cui era destinato quel bene si levo un j’accuse generale: gli abitanti temevano quella convivenza con donne condannate. Ma poi vinse il buonsenso, o la tenacia del presidente della sezione misure di prevenzione del tribunale di Roma Guglielmo Muntoni e, nel 2017, la “Casa di Leda” divenne realtà. Fu inaugurata alla presenza del ministro Andrea Orlando, che non la mandò a dire ai residenti. “Dietro queste proteste c’è una visione razzista e classista, ma queste persone si renderanno conto tra qualche anno che la struttura non avrà cambiato la loro vita”. Al momento nella Casa di Leda sono ospitate 4 donne con i loro 6 figli, “l’ultimo è nato ad agosto - conclude Di Mauro. La cosa incredibile è che da qualche mese abbiamo due posti liberi per altre detenute, ma dal carcere non arriva nessuna. È assurdo che si preferisca tenere dei bimbi in un carcere quando esiste una legge che consente loro di vivere con le loro mamme in una situazione di semi-normalità”. “Mai più bambini in carcere”… così disse tre anni fa il ministro Orlando di Riccardo Polidoro* Il Dubbio, 19 settembre 2018 La legge prevede che la custodia cautelare per le donne con figli minori non può essere scontata in carcere fin quando il bambino non avrà compiuto il sesto anno di età. Prima di tale norma il limite era di tre anni. Nell’ipotesi in cui vi siano “esigenze di eccezionale rilevanza”, la detenzione viene presso un istituto a custodia attenuata (Icam). Va quindi accertato se quella madre, come le altre ancora detenute in istituti di pena ordinari, non doveva essere in quel luogo. Soprattutto non vi dovevano essere i suoi bambini, uno deceduto e l’altro ricoverato in codice rosso. “Una vergogna che dobbiamo superare, entro il 2015 nessun bambino in carcere, è un imperativo morale”. Le parole pronunciate tre anni fa dal Ministro della Giustizia Andrea Orlando, ritornano alla mente nell’apprendere la tragica notizia del terribile gesto compiuto da una madre detenuta che ha lanciato i suoi bambini dalle scale dell’istituto, provocando la morte del più piccolo, un neonato di quattro mesi e gravissime ferite all’altro, un bimbo di due anni. L’episodio è avvenuto nell’istituto romano di Rebibbia, proprio dove l’allora Ministro pronunciò la categorica promessa, dinanzi ad otto mamme e ai loro bambini. Anche questa volta il carcere farà notizia e vista la drammaticità dell’evento occuperà le prime pagine di alcuni giornali. Subito dopo cadrà l’assordante silenzio che accompagna, da sempre, le condizioni in cui sono costretti a vivere i detenuti. Al 31 agosto scorso, in Italia erano 52 le madri detenute e 62 i figli. Nell’istituto di Rebibbia 13 madri e 16 bambini. La legge 21 aprile 2011, numero 62, prevede che la custodia cautelare per le donne con figli minori non può essere scontata in carcere fin quando il bambino non avrà compiuto il sesto anno di età. Prima di tale norma il limite era di tre anni. Nell’ipotesi in cui vi siano “esigenze di eccezionale rilevanza”, la detenzione viene presso un istituto a custodia attenuata (Icam). Va quindi accertato se quella madre, come le altre ancora detenute in istituti di pena ordinari, non doveva essere in quel luogo. Soprattutto non vi dovevano essere i suoi bambini, uno deceduto e l’altro ricoverato in codice rosso. Leggiamo dalle prime agenzie che a Rebibbia si sono recati, subito dopo i fatti, il magistrato della Procura della Repubblica presso il Tribunale di Roma, il ministro della Giustizia ed il Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria e che sarà avviata un’indagine per omicidio e tentato omicidio. Un’indagine che non potrà prescindere da eventuali responsabilità istituzionali, dalla mancata applicazione della legge in quella “terra di nessuno” che è il carcere, dove vige l’extra- territorialità, in quanto luogo libero da vincoli giuridici. Bambini detenuti, sovraffollamento, condizioni igieniche pessime, diritto alla salute negato, mobilità ridotta, assoluta mancanza di educatori, circa 20.000 detenuti presunti innocenti, perché in custodia cautelare, e molto altro ancora, e si vuole introdurre negli istituti di pena il Taser, la pistola elettrica, vera e propria arma, che servirà a “tenere buoni gli animali in gabbia”, senza che ad alcuno dei proponenti sia venuto in mente che l’articolo 41 dell’Ordinamento Penitenziario prevede che gli agenti in servizio all’interno degli istituti non possono portare armi se non nei casi eccezionali in cui ciò venga ordinato dal direttore. Ma che sarà mai un’altra violazione di legge? *Avvocato responsabile dell’Osservatorio Carcere Unione delle Camere Penali Italiane È morta a quattro mesi in una cella di Rebibbia. Ma non doveva stare lì di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 19 settembre 2018 La madre l’ha gettata nella tromba delle scale insieme al fratellino di due anni che ora lotta tra la vita e la morte. aveva già dato segni di disagio, ma nessuno è intervenuto. Dramma nella sezione nido del carcere di Rebibbia. Una detenuta tedesca ha tentato di uccidere i suoi figli, di fatto, ristretti nel carcere: la neonata di 4 mesi è morta sul colpo, l’altro, di due anni, lotta tra la vita e la morte all’ospedale del Bambin Gesù. Prima di compiere il terribile gesto, la donna ha atteso che le altre detenute sfilassero prima di lei per poi rimanere in disparte e sbattere ripetutamente, con forza, il corpo dei suoi due bimbi per terra. Una volta compreso quanto stava accadendo, sono intervenute alcune agenti della polizia penitenziaria e diverse detenute rom per cercare di fermare la furia della donna. La donna, 33 anni, nata in Germania ma di cittadinanza Georgiana, era stata arrestata in flagranza di reato il 26 agosto scorso a Roma per concorso in detenzione di sostanze stupefacenti. Nei giorni scorsi avrebbe manifestato segnali di disagio nel ritrovarsi in carcere con una bimba di pochi mesi e uno di appena due anni. Ma non solo, qualche giorno fa, la donna aveva parlato con l’avvocato a cui aveva fatto presente di soffrire di depressione e di non reggere la situazione carceraria. Appena giunta la notizia, il ministro della giustizia Alfonso Bonafede si è dapprima recato al carcere per avere chiarezza della situazione, dopodiché ha raggiunto l’ospedale per constatare le condizioni di salute del bambino ricoverato in codice rosso. Il guardasigilli ha subito avviato un’inchiesta interna volta a ricostruire l’esatta dinamica dei fatti e ad accertare eventuali profili di responsabilità. A Rebibbia si è recata anche il procuratore aggiunto Maria Monteleone, coordinatrice del pool dei magistrati che si occupa dei reati sui minori. Avvierà una indagine per omicidio e tentato omicidio. Sono in corso anche i rilievi tecnici dei carabinieri del nucleo investigativo di via In Selci per ricostruire con esattezza la dinamica dei fatti. A dare per prima la tragica notizia è Lillo Di Mauro, presidente della Consulta penitenziaria e responsabile della struttura romana protetta per le detenute madri “Casa di Leda”. “Ho appreso la notizia direttamente dai volontari e operatori che operano nella struttura - spiega a Il Dubbio Di Mauro, e tutto il personale è sconvolto visto la loro attenzione alle questioni che riguardano i bambini”. Lillo Di Mauro ha colto anche l’occasione per dire a Il Dubbio che questa tragedia si poteva evitare visto che i bambini - per legge - non ci devono proprio stare in carcere. Si riferisce alla legge del 2011 la quale prevede che le detenute madri devono scontare la pena con i loro figli fino al compimento del sesto anno di vita del bambino, non più solo fino al terzo, ma non in carcere. L’intento della norma è di facilitare l’accesso delle madri alle misure cautelari alternative. La pena deve essere quindi scontata in istituti a custodia attenuata (Icam), luoghi colorati, senza sbarre, a misura di bambino. Sono però in media circa 60, in Italia, i bambini al di sotto dei tre anni che ogni anno entrano in carcere con le mamme. In alcuni casi sono ospitati in asili nido colorati, ma non tutte le strutture femminili riescono a garantire questi spazi. E così capita anche che un bambino o una bambina debba crescere dietro le sbarre, scontando la pena per una colpa che non ha commesso. Oltre all’Icam, sempre secondo la legge del 2011 si dovrebbe privilegiare la casa famiglia protetta dove le donne che non hanno un posto possono trascorrere la detenzione domiciliare portando con sé i bambini fino a 10 anni. Sono dei veri e propri appartamenti, le madri possono portare a scuola i figli, assisterli in ospedale se sono malati. Niente sbarre, niente cancelli. Sono strutture inserite nel tessuto urbano, possono ospitare un massimo di sei nuclei familiari e devono rispecchiare le caratteristiche di una casa: spazi personali, servizi, luoghi per giocare. Ad oggi ne esiste solo una, ed è proprio “Casa di Leda” inaugurata un anno fa. La casa non a caso è intitolata a Leda Colombini, figura di primissimo piano del Pci e, negli ultimi anni, strenuo difensore dei diritti delle mamme detenute. Morì nel 2011, all’età di 82 anni, in seguito a un malore che l’ha colpita nel carcere di Regina Coeli, dove stava svolgendo la sua quotidiana opera di volontariato. Nel volontariato in carcere, come presidente dell’associazione - tuttora attiva - “A Roma Insieme” aveva promosso numerosi progetti a favore delle mamme detenute e, soprattutto, per i bambini fino a tre anni reclusi nel carcere romano di Rebibbia con le loro madri. Il responsabile della “casa di Leda” ha spiegato a Il Dubbio che la struttura è nata per ospitare sei madri con bambini fino al decimo anno di età. “Ma da tempo - denuncia Lillo Di Mauro - ne ospitiamo solo quattro, ci sono due posti liberi: come mai alcune di quelle madri ristrette a Rebibbia non sono state fatte giungere qui?”. Il responsabile conclude con un auspicio: “Questa tragedia deve sollecitare il parlamento a trovare la soluzione definitiva di questo problema relativo ai bambini in carcere!”. Don Raffaele Grimaldi: “Nelle carceri ci sono povertà, emarginazione e depressione” di Paolo Montanari pesaronotizie.com, 19 settembre 2018 Intervista all’Ispettore generale dei cappellani penitenziari. “Tendiamo a tutti per uscire dall’isolamento”. È l’appello lanciato dall’Ispettore generale dei cappellani penitenziari, don Raffaele Grimaldi. Dopo 25 anni si esperienze anche sofferte in carceri difficili come Secondigliano a Napoli nel 1992, la sua prima esperienza. Ma don Raffaele è stato traumatico questo primo incontro con i carcerati? “Direi di no, perché io provenivo da un’esperienza missionaria in Africa, in Burundi, dove sono stato nel 1983 e dove ho attivato anche adozioni a distanza. Quindi il contatto con gli ultimi non mi ha creato un trauma ad avvicinarmi alle problematiche del carcere. Ma prima di varcare la soglia di Secondigliano, sono stato parroco per 18 anni alla guida della parrocchia di San Nicola di Bari di Giugliano e poi 23 anni cappellano del carcere di Secondigliano”. Ora è passato alla guida dei cappellani delle carceri italiane, ma quali ricordi porta con sé? “Custodisco nel cuore l’aspetto umano delle carceri. I volontari e i religiosi del carcere napoletano avevano creato una famiglia, per avere anche una buona collaborazione con la polizia penitenziaria. Abbiamo cercato di integrare al lavoro gli ergastolani con progetti a sostegno dei detenuti, come la coltivazione in serra degli ortaggi. Ma il mio ruolo principale, anche adesso, è quello della evangelizzazione, della catechesi, le celebrazioni e soprattutto gli incontri personali. Anche adesso come ispettore devo svolgere un ruolo di coordinamento con i cappellani e ve n’è uno per ogni regione. Ho affidato la mia missione a santa Madre Teresa di Calcutta. D’altronde la nostra è una pastorale di frontiera, perché nelle carceri c’è tanta povertà, tanta emarginazione. Noi cappellani siamo gli angeli custodi dei detenuti. Spesso sono senza fissa dimora, immigrati, persone senza famiglia. Il sacerdote nelle carceri è molto richiesto, anche da fedeli di altre confessioni e religioni. Siamo anche per i detenuti come dei punti di ricongiungimento famigliare. Oltre i 250 cappellani in tutt’Italia vi sono anche 40 diaconi permanenti e le suore”. Dal 12 al 24 ottobre a Montesilvano vi sarà il Convegno nazionale dei cappellani e degli operatori per la pastorale penitenziaria, dal titolo “Chiesa riconciliata in carcere. L’operosità della fede, la fatica della carità, la fermezza della speranza”. Quale il significato? “Dopo un approfondimento di fra Sabino della Comunità di Bose, faremo degli approfondimenti sulla mediazione penale, dal punto di vista giuridico, ed ecclesiale e vari laboratori sulla vita in carcere, la giustizia riparativa e la pastorale penitenziaria”. La deriva manettara del M5S su appello e prescrizione di Lodovica Bulian Il Giornale, 19 settembre 2018 I grillini vogliono stangare i condannati: se fanno ricorso possono beccarsi una pena più alta. Era stata esclusa in extremis dal pacchetto anticorruzione, anche per i veti incrociati tra M5s e Lega. Ma per il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, la riforma cardine della prescrizione è solo rinviata a breve e farà parte della più ampia rivoluzione della giustizia promessa dai grillini e già avviata con il Daspo ai corrotti. Da completarsi questa volta attraverso un percorso parlamentare che metta l’esecutivo al riparo da ostacoli che potrebbero minare il fragile equilibrio gialloverde, visto lo scontro in atto tra Salvini e i magistrati. Così, se la prescrizione esce dal consiglio dei ministri, può rientrare in commissione Giustizia alla Camera. E in una versione ancora più dura. Infatti, mentre l’obiettivo di Bonafede, che sperava di fare della prescrizione la prima bandierina dal suo insediamento in via Arenula, era fermare la clessidra dopo il primo grado, quello della proposta depositata a Montecitorio, primo firmatario Andrea Colletti, è farlo contestualmente al rinvio a giudizio. Cioè senza nemmeno aspettare la sentenza. Secondo le intenzioni dei grillini che l’hanno proposta, la misura dovrebbe indurre l’imputato a scegliere strade come patteggiamento o rito abbreviato: “L’introduzione della sospensione dal momento del rinvio a giudizio porterebbe - recita il ddl - con molta probabilità larga parte degli imputati a preferire il ricorso al rito abbreviato e al patteggiamento, rendendo superflui ulteriori gradi di giudizio, con un’evidente riduzione della spesa pubblica”. Insomma, scrivono i firmatari, siccome “con il rinvio a giudizio lo Stato manifesta la volontà punitiva, la prescrizione non dovrebbe mai poter decorrere durante il processo in corso”. Dunque la sospensione dei termini va attivata “solo per il fatto della pendenza del processo”. Con tanti saluti al garantismo fino al terzo grado di giudizio, principio che evidentemente il M5s spera di svuotare con lo spauracchio di un processo infinito. Ma c’è anche una seconda spallata ai cardini del sistema giudiziario, arrivata in commissione al Senato attraverso un ddl che raccoglie una delle battaglie dell’ex deputato Bonafede: l’abrogazione del divieto della reformatio in peius, principio che vieta di poter riformare una sentenza di primo grado con una pena maggiore quando a ricorrere sia stato l’imputato condannato in primo grado. Se a ricorrere è il pubblico ministero, già con l’attuale normativa, la pena comminata in appello può essere superiore a quella prevista dalla sentenza di primo grado. A firmare il ddl la senatrice pentastellata Elvira Evangelista: “Abrogazione del divieto di reformatio in peius nel processo d’appello in caso di proposizione dell’impugnazione da parte del solo imputato”. Se passasse la proposta, un condannato in primo grado che dovesse impugnare la sentenza potrebbe incorrere in un peggioramento della pena. Una prospettiva che ha fatto sobbalzare i penalisti dell’Unione delle camere penali. “Stravolgerebbe del tutto l’equilibrio del nostro processo, trasformando l’appello in una sorta di ordalia, in una sfida tra cittadino e Stato, nella quale chi è vittima di ingiustizia può cercare di porvi rimedio solo esponendosi a un rischio maggiore”. Decreti sicurezza e immigrazione, si accelera. Aboliti i visti umanitari di Sara Menafra Il Messaggero, 19 settembre 2018 Domani in Cdm i due decreti Salvini. I testi già trasmessi al Quirinale per il pre-esame. Due decreti diversi: sicurezza e immigrazione. Entrambi saranno approvati giovedì in consiglio dei ministri. Sono fondamentali per la spinta propulsiva di Matteo Salvini non solo come ministro dell’Interno, ma anche come vicepremier e leader della Lega. Dopo un’estate alle prese con gli sbarchi, e il caso della nave Diciotti, si aggiungono così due tasselli normativi che vanno a sostituire varie circolari. Il provvedimento è chiuso, spiegano dal Viminale, ballano solo alcuni dettagli normativi. L’architrave dei due decreti sono già stati inviati al Quirinale affinché gli uffici legislativi del presidente della Repubblica possano iniziare intanto una prima ricognizione. Sono cinque le principali misure che riguardano il tema dell’immigrazione. Si inizia con 1’ abrogazione dei permessi di soggiorno per motivi umanitari che sostituiti con permessi ad hoc per meriti civili. E ancora: è previsto un allungamento dei tempi nei centri di espulsione per identificazione: da 90 a 180 giorni. “In questo modo le verifiche saranno molto più stringenti”, spiegano dallo staff di Salvini. Il permesso di soggiorno potrà, inoltre, essere revocato se il richiedente commetterà reati la resistenza a pubblico ufficiale o spaccio di droga. In poche parole, dunque, verrà ampliata la platea dei reati per il diniego. Un capitolo molto delicato, che deve essere ancora affinato, riguarda i “profughi turistici”. Perdono la protezione coloro che “fanno la spola dal paese d’origine all’Italia”. Da qui la dicitura di profughi turistici. Al momento non è ben dettagliato quale sarebbe il numero massimo di viaggi. L’ultimo aspetto, anche questo molto caro a Salvini perché la vicenda impatta sulla gestione dei tribunali, riguarda l’“esclusione del gratuito patrocinio quando la causa è dichiarata improcedibile o inammissibile”. Si tratta, quest’ultima, di una norma deflattiva nei procedimenti contro lo Stato. Ovvero: se un migrante intenta una causa per il riconoscimento di rifugiato e il tribunale la dichiara inammissibile, a pagargli le spese processuali non sarà più lo Stato. Il secondo decreto pronto a essere approvato sempre giovedì gira intorno alla lotta alla criminalità organizzata e al terrorismo. La bozza di dl uscita nei giorni scorsi porta con sé questa dicitura: “Schema delle disposizioni urgenti in materia di sicurezza pubblica, prevenzione e contrasto al terrorismo e alla criminalità mafiosa”. E affronta anche il tema delle “modifiche” al codice delle leggi antimafia. Tra le principali novità che Salvini vuole introdurre c’è il daspo anche per le manifestazione sportive nei confronti di coloro che sono sospettati di avere a che fare con il terrorismo internazionale. Nello specifico, sempre secondo il testo uscito nei giorni scorsi e già al vaglio del Quirinale, il divieto di avvicinamento alle manifestazioni sportive riguarderà “coloro che, operanti in gruppi o isolatamente, pongano in essere atti preparatori, obiettivamente rilevanti, diretti a sovvertire l’ordinamento dello Stato, con la commissione dei reati con finalità di terrorismo anche internazionale”. Sempre in questo decreto si parlerà anche dei beni confiscati. L’Agenzia sarà potenziata: più uomini e tagli agli sprechi. Le case, le ville e i palazzi che appartenevano ai clan potranno essere anche messi sul mercato e venduti. Nella prima versione girata fino a qualche fa c’era anche una parte legata al tema sgomberi con una stretta sui tempi, da trasmettere ai prefetti, per intervenire nelle situazione di illegalità. Non è escluso che il tema occupazioni slitti. Ci sarà invece, sempre fra due giorni, l’introduzione di nuove norme per prevenire gli attentati fatti con automezzi affittati e scagliati sulla folla. Come nei casi del tir di Nizza e del furgone di Barcellona. Ci sarà una stretta e la catena di controllo si allargherà. Chi vorrà affittare un furgone dovrà comunicare al Centro elaborazione i dati identificativi riportati nella carta di identità del soggetto che richiede il noleggio di un autoveicolo. La riforma del processo che punta a tagliare l’istruttoria di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 19 settembre 2018 Una serie di interventi mirati sul processo civile. Da mandare in Consiglio dei ministri subito dopo la riforma del diritto fallimentare, al netto dell’opportunità di intervenire su un tema (per ora) solo parlamentare come la riscrittura della class action. L’agenda Bonafede sulla giustizia civile inizia a prendere forma. E si arricchisce di un intervento sul processo che andrà attentamente calibrato, perché obiettivo del ministro è di arrivare a una riduzione dei tempi dei procedimenti, ritenendo però che non sarà automaticamente un successo la diminuzione del numero dei procedimenti stessi. Perché come ha spiegato “se io ho una diminuzione della quantità di contenziosi civili perché i cittadini italiani hanno rinunciato a rivolgersi al tribunale, in quel momento non ho un motivo di gioia ma devo semplicemente piangere di fronte alla morte del processo civile che non riesce più a rispondere alle legittime domande di giustizia”. Nel dettaglio, la proposta sulla quale si sta ragionando al ministero è quella dell’introduzione di unico rito semplificato da applicare a una più ampia tipologia di controversie. Non solo a quelle di competenza del giudice monocratico, ma anche a quelle assegnate al collegio. Nel segno di un maggiore flessibilità perché un modello fondato sulla predeterminazione legale dei poteri delle parti e del giudice, con pochi o nulli riscontri in altri ordinamenti giuridici europei, dovrebbe essere riservato ai casi di maggiore complessità. Procedimento semplificato che in realtà ha come obiettivo il taglio, anche drastico della fase istruttoria, visto che, come attestano i dati con riferimento al contenzioso ordinario, la durata delle liti trattate con il rito del lavoro è inferiore di circa il 40% a quella della cause disciplinate dal rito ordinario. In questo senso, allora, anche se si tratta di un tema da maneggiare con grande delicatezza vista l’ipersensibilità di avvocati e magistrati sul punto (circa un anno fa si opposero compatti a un blitz per l’estensione del rito sommario di cognizione inserito nella manovra di bilancio), l’articolo 702 bis del Codice di procedura civile già costituisce un punto di riferimento perché, pur preservando il rispetto del contraddittorio, si applica a cause che possono essere definite senza lo svolgimento di una significativa fase preliminare. Ma un’attenzione particolare sarà dedicata alle tecniche di gestione del processo da parte dell’autorità giudiziaria, il cosiddetto case management, sempre abbastanza trascurato dall’ordinamento italiano. Già Bonafede ha annunciato la volontà di introdurre una misura “a impatto zero”, ma in grado di produrre da subito una riduzione dei tempi, “semplificando la vita di tutti gli addetti lavori”, e cioè la cancellazione dell’atto di citazione come misura introduttiva, conservando soltanto il modello del ricorso. A beneficiarne potrebbero essere anche i cancellieri alle prese con la gestione di un unico tipo di adempimento. Se poi una linea di continuità è possibile individuare con l’amministrazione Orlando sta nella dichiarata volontà di proseguire sulla strada del rafforzamento del processo telematico, scommettendo ancora di più su investimenti (sono in corso gare sullo sviluppo dei sistemi in tutte le aree del contenzioso) ed estensione della gestione digitale anche sul più delicato versante della giustizia penale. Emergenza gaby-gang, scuola e sport ci aiutino di Alfonso Bonafede* Il Fatto Quotidiano, 19 settembre 2018 Ho letto con molto interesse l’approfondimento che avete pubblicato sulla “generazione-paranza”, le baby gang e il tema collegato della responsabilità genitoriale. Non è un segreto che fra le varie articolazioni del ministero della Giustizia, una a cui ho dedicato maggiore attenzione sia proprio quella legata alla giustizia minorile. Ritengo, infatti, che proprio in quell’ambito ci sono maggiori possibilità di incidere positivamente sul futuro della nostra società. L’obiettivo è intervenire in tempo, ponendo di fronte a giovani e giovanissimi vie diverse da quelle già erroneamente percorse. È chiaro che questo è un tema che solo in parte è appannaggio di magistrati e avvocati, perché investe direttamente le responsabilità della politica e di chi in particolare ha incarichi di governo. Si tratta, infatti, oltreché di una questione di giustizia, di una priorità per la sicurezza, la crescita economica, sociale e culturale dell’intero Paese. Il destino di un Paese dipende in buona parte dalle potenzialità, dalle ambizioni, dalle capacità delle sue generazioni più giovani, quelle che frequentano i banchi di scuola. E proprio da lì dovremmo partire, da quella primaria e grande agenzia sociale che è la scuola, chiamata ad assolvere la sua missione educativa anche colmando carenze e modelli negativi che originano da contesti familiari di provenienza difficili o già compromessi con il crimine. Per questo sono rimasto particolarmente colpito dai dati (riferiti alla regione Campania ma verosimilmente estendibili all’intero panorama nazionale) che evidenziano l’elevato tasso di abbandono scolastico prematuro, nonché la scarsissima diffusione della pratica sportiva e della fruizione artistica e culturale. Un campanello d’allarme che suona per ricordarci che non basta - e a volte non serve - agire sul versante della repressione e della punizione, se non si investe sulla prevenzione. E prevenire, nel settore giovanile, vuol dire creare un bivio laddove sembra esserci una strada obbligata. In particolare, come suggerito anche dalla “Risoluzione in materia di attività degli uffici giudiziari nel settore della criminalità minorile nel Distretto di Napoli” approvata qualche giorno fa al l’unanimità dal plenum straordinario del Consiglio Superiore della Magistratura, tra gli interventi più urgenti e necessari emergono il rafforzamento della rete di servizi socio-assistenziali, il potenziamento delle iniziative didattico-formative, sociali e culturali, e dei progetti di avviamento alla pratica sportiva. Tutte azioni la cui valenza ho potuto constatare personalmente in questi primi mesi di attività, grazie ai tanti progetti realizzati nelle carceri basati sull’avviamento professionale e il lavoro a fini sociali, sulla pittura, sul teatro o sullo sport. Combattere veramente contro la criminalità minorile significa, infatti, prima di ogni altra cosa educare i giovani più esposti - e a volte drammaticamente sedotti - dal malaffare e dall’illegalità al valore dell’onestà, del lavoro all’interno delle regole, del servizio alla comunità. Per questo, sin dal mio insediamento, mi sono fatto promotore di una collaborazione tra istituzioni, scuole, associazioni e istituti di pena per avviare e intensificare progetti di contrasto della devianza e di recupero minorile. D’altronde, la rieducazione della pena sancita dalla nostra Costituzione, trova il suo più ampio margine di azione e di efficacia proprio in chi si ritrova a essere delinquente prima ancora di essere uomo. Compito delle istituzioni deve essere, allora, quello di prospettare realmente a questi giovani cittadini la possibilità che il loro destino non sia già scritto, che un futuro lontano dal crimine e dalla violenza è possibile. Nascere in una città o in un determinato quartiere non deve equivalere a un’ipoteca sul futuro, a una condanna sociale preventiva. Lo Stato deve impiegare le sue migliori risorse per compiere una vera missione di inclusione e progresso sociale. Non è, lo ripeto, solo una questione di giustizia ma di equità ed eguaglianza sostanziale nella misura in cui lo Stato riesce a eliminare quelle barriere sociali ed economiche che attualmente delimitano l’orizzonte di tanti giovani che sono nati senza il diritto di scegliere il loro futuro. *Ministro della Giustizia La giustizia minorile finalmente cambia di Elia Fiorillo Il Roma, 19 settembre 2018 La realtà napoletana, dal punto di vista della microcriminalità, può essere ritenuto un osservatorio privilegiato, ma il fenomeno malavitoso riguarda l’intero Paese e la “Risoluzione in materia di attività degli uffici giudiziari nel settore della criminalità minorile nel Distretto di Napoli” approvata dal C.S.M., dovrà essere un punto di riferimento, appunto, per l’intero Paese. “Se gli effetti di questa iniziativa avranno fatto fare un solo passo in avanti nel contrasto della devianza minorile o a salvare un solo giovane saremo soddisfatti. Siamo convinti che si può e si deve fare di più”. È il vice presidente del Consiglio Superiore della Magistratura, Giovanni Legnini, che così si è espresso in merito alla risoluzione, in materia di giustizia minorile, predisposta dai consiglieri Balducci, Ardituro e Cananzi - membri della VI Commissione - ed approvata all’unanimità nel corso del Plenum straordinario del C.S.M. tenuto l’11 settembre nel Palazzo di Giustizia di Napoli. Per Giovanni Legnini “La decisione di tenere un plenum a Napoli costituisce un segnale molto forte per la città, la regione e l’intero Paese”. L’analisi fatta dalla VI Commissione focalizza le responsabilità genitoriali esercitate “in maniera pregiudizievole” verso i minori ma anche la mancanza di comunicazione ad esempio tra scuola e Tribunali dei Minori. Fatto grave che non permette il puntuale intervento del magistrato minorile in tempi opportuni e lascia incancrenire situazioni che potrebbero risolversi in modo più rapido e soprattutto più utile per il minore. Per la relatrice della Commissione, Balducci, l’abbassamento dell’età imputabile non porta conseguenze significative alla risoluzione dei problemi. A suo avviso “servono regole forti”, ma bisogna “anche dare la possibilità di redimersi”, obiettivo prioritario ed irrinunciabile. Senza iniziative finalizzate a tale scopo i fenomeni criminali sono destinati ad aumentare nel nostro Paese. La concretezza delle azioni, al di là bei propositi, è l’unico mezzo per affrontare e, in parte, risolvere le tante problematiche legate alla criminalità minorile. Per il Consigliere Cananzi c’è bisogno che il Governo sia molto attento a certi fenomeni di malavitosità minorile. In effetti Napoli, da questo punto di vista, è un osservatorio particolarmente significativo, che deve diventare, soprattutto, un laboratorio sperimentale per la legalità, per circoscrivere sul nascere quei fenomeni che poi - sottovalutati, o trascurati per mancanza di coordinamento delle varie istituzioni interessate alla problematica - portano alla creazione di aree di pericolosa microcriminalità ed all’irrobustimento, in seguito, delle varie organizzazioni criminali. Sulla patria potestà è intervenuto il procuratore generale della Corte di Appello di Napoli Luigi Riello: “Non si tratta di una deportazione di massa, ma di casi estremi, adottati in presenza di bambini messi a confezionare droga, a inalare stupefacenti. Così lo Stato interviene a salvarli non a punirli”. Sicuramente il campanello d’allarme della devianza minorile è la dispersione scolastica, che deve essere combattuta con un maggiore impegno delle istituzioni nel predisporre quante più iniziative possibili didattiche e sportive. Ma anche con più assistenti sociali. Certo, con sanzioni forti, tese primariamente non solo a reprimere, ma anche a favorire il reintegro nella società. C’è grande insistenza sulla necessità di superare le condizioni d’impunità che consentono ai minori di sfuggire al carcere, anche dopo essersi macchiati di fatti gravissimi. Per il consigliere Ardituro: “Bisogna ridimensionare l’approccio buonista e garantire l’effettività della pena. Un giovane di 16 o 17 anni ha le idee chiare. Dobbiamo dire a questi ragazzi che hanno sempre la possibilità di scegliere”. Il C.S.M., partendo dalla realtà analizzata nel territorio napoletano, chiede al Parlamento meno vincoli e meno discrezionalità negli arresti dei minori, a differenza di quanto accade oggi. Per il procuratore generale Luigi Riello: “Fermezza e recupero non sono termini configgenti ma si devono coniugare tra loro. Deve essere consentito l’arresto di un minorenne armato che consuma reati gravi”. Va dato atto a questo C.S.M. di aver affrontato la questione analizzando le realtà territoriali nella loro effettività, ed ipotizzando possibili rimedi. Il documento elaborato dal C.S.M. è stato inviato, per gli interventi di rispettiva competenza, ai presidenti del Senato e della Camera; al presidente della Commissione Parlamentare Antimafia; ai ministri della Giustizia e dell’Istruzione; alla Regione Campania (cui si chiede l’istituzione di un ufficio di coordinamento dei servizi socio-assistenziali dei minori); al Coni, al Procuratore Generale presso la Corte di Cassazione, ai Dirigenti degli Uffici giudiziari, al Procuratore Nazionale Antimafia. Sul whistleblowing prima i casi più gravi di Manuela Sodini Italia Oggi, 19 settembre 2018 La gravità dei comportamenti segnalati indica l’ordine di priorità dei casi di whistleblowing da trattare, insieme all’assenza di procedure chiare per le segnalazioni e ai tempi dell’inerzia da parte del responsabile anticorruzione. E per garantirne gli effetti, è utile ripresentare le segnalazioni precedenti al 29 dicembre 2017, data di entrata in vigore della legge 179, se sono ancora attuali e rispondono ai criteri fissati dalla norma. Le due indicazioni arrivano dall’Anac, che ha messo in consultazione (osservazioni fino al 30 settembre) il regolamento sulle sanzioni nella tutela dei whistleblower e, in un comunicato pubblicato nei giorni scorsi, ha fornito una serie di istruzioni operative ai segnalanti di presunti illeciti e alle amministrazioni pubbliche per il corretto utilizzo della piattaforma informatica, al fine di garantire al meglio la tutela della riservatezza dell’identità del segnalante, del contenuto della segnalazione e della documentazione allegata. La platea dei soggetti interessati al regolamento e al comunicato è molto estesa. Include non solo tutti i dipendenti pubblici, compreso il personale in regime di diritto pubblico, ma anche i dipendenti degli enti pubblici economici e degli enti di diritto privato sottoposto a controllo pubblico in base all’articolo 2359 del Codice civile. Nella platea rientrano anche i lavoratori e i collaboratori delle imprese fornitrici di beni o servizi e che realizzano opere in favore dell’amministrazione pubblica, vale a dire tutti quei soggetti richiamati dall’articolo 54-bis, comma 2 del Dlgs 165/2001. Il regolamento, nel rispetto dei principi generali stabiliti dalla legge 241/1990, disciplina prima di tutto le modalità di presentazione delle segnalazioni: l’acquisizione generalmente attraverso il modulo della piattaforma informatica disponibile sul sito dell’Anac che utilizza sistemi di crittografia per garantire la riservatezza del segnalante. In proposito le indicazioni si incrociano con quelle del comunicato sulla piattaforma informatica, dove peraltro l’Anac invita le Pa e gli altri enti a collaborare adempiendo in particolare all’obbligo di pubblicare il nominativo del responsabile anticorruzione nella sezione “Amministrazione Trasparente”. Importanti sono le indicazioni sull’ordine di priorità per il trattamento delle comunicazioni e segnalazioni nelle distinte fattispecie di violazioni delle norme poste a tutela dei whistleblowers (articolo 54-bis, comma 6). A guidare è la gravità delle misure discriminatorie, l’assenza di procedure per l’inoltro e gestione delle segnalazioni e l’inerzia del responsabile anticorruzione per mancato svolgimento di attività di verifica e analisi delle segnalazioni ricevute. Il regolamento si occupa poi delle modalità attraverso le quali si svolge l’azione sanzionatoria: avvio di procedimento, presentazione di memorie, richiesta di audizione, e chiede di prevedere un adeguato bilanciamento tra l’esigenza di celerità dell’intervento dell’Anac e le garanzie procedimentali. Un altro bilanciamento delicato è quello tra trasparenza e riservatezza, prevedendo la pubblicazione sul sito dell’Anac dell’eventuale provvedimento sanzionatorio emesso, disponendo anche la pubblicazione sul sito dell’amministrazione o dell’ente. Al contempo, per tutelare la riservatezza dell’identità del segnalante, il provvedimento può essere pubblicato su delibera del Consiglio di Anac anche in forma parzialmente anonima o escluderne la pubblicazione. Csm, meglio la sorte dei carrieristi di Antonio Esposito Il Fatto Quotidiano, 19 settembre 2018 Il 25 settembre si terrà la prima seduta del nuovo Consiglio Superiore della Magistratura nella quale dovrebbe essere eletto il vicepresidente. Al momento, il candidato più accreditato sembra essere il Prof. Fulvio Gigliotti, ordinario di Diritto privato presso l’Università calabrese “Magna Grecia”, indicato dal M5S, che risulta privo di particolare connotazione politica. Occorrerà, però, verificare come si comporterà la consistente componente della corrente di M.I. - uscita rafforzata dalle elezioni - che, pur posizionata alla destra dell’associazione, ha come “leader” di fatto un magistrato-parlamentare (Cosimo Ferri) eletto nelle liste del Pd (in precedenza al governo come sottosegretario alla Giustizia, in quota Pdl). Inoltre, non è ancora chiaro come voteranno i due componenti in quota Lega e, cioè, di quel partito che, pur essendo alleato di governo del M5S, si ritiene far parte ancora della coalizione con FI (con cui si è presentato alle elezioni) e i cui rapporti con tale partito sembrano essersi rinsaldati proprio in vista delle nomine (Csm, Presidenza Rai e Antitrust). È auspicabile che, in una prossima riforma del Csm, la nomina del vicepresidente avvenga mediante estrazione a sorte tra gli otto membri eletti dal Parlamento per evitare, sempre possibili, trattative e accordi, tra i laici e i capi dei gruppi dei togati (perché al Csm esistono anche i capigruppo!), ognuno dei quali, di solito, cerca di impegnarsi a fondo per attribuire a sé (e alla corrente) il merito maggiore della elezione e per stabilire un asse privilegiato con il futuro vicepresidente. È di qualche giorno la notizia che il governo (non il Parlamento) si appresta a presentare un disegno di legge di riforma del Csm. Si spera che il ministro non si lasci condizionare dai centri di potere che governano le correnti dell’Associazione Nazionale Magistrati che si oppongono strenuamente a che la nomina dei membri togati del Csm avvenga attraverso un sistema di estrazione a sorte che costituisce l’unico rimedio in grado di eliminare in radice quella degenerazione correntizia che da tempo caratterizza negativamente l’operato del Csm. I molti carrieristi - per lo più magistrati poco conosciuti e che si annidano (soprattutto per questo) nelle correnti - vedono in pericolo le loro aspirazioni di essere eletti, tramite le stesse, all’organo di autogoverno e, comunque, puntano, attraverso logiche spartitorie, a ottenere prestigiosi incarichi e importanti posti direttivi (di cui spesso hanno fatto incetta gli ex Csm, in diversi casi, prima degli altri) e, per screditare il sistema di estrazione a sorte, diffondono la stupida tesi secondo cui non è detto che il “sorteggiato” - pur se magistrato che giudica della libertà e dei beni del cittadino - sia senz’altro idoneo a esercitare le funzioni di componente del Csm e, quindi, sostanzialmente a valutare le “carriere dei loro colleghi”, quasi ad accreditare la tesi che siano (solo) i candidati scelti dalle correnti a essere idonei a esercitare tali funzioni (come se avessero partecipato a corsi, prove o test attitudinali!). In realtà, attualmente, l’unico requisito che devono possedere i candidati per ottenere la presentazione della candidatura è quello di un concreto esercizio dell’attività correntizia (indice di sicuro affidamento). Resista il ministro alle pressioni: i carrieristi hanno ancora fame. Il 416 bis, quell’articolo che fa tanto discutere di Toty Condorelli e Giuseppe Nigroli La Repubblica, 19 settembre 2018 Le parole del procuratore aggiunto Giuseppe Cascini aprono una recente problematica riguardo l’interpretazione o la giusta connotazione dell’articolo 416 bis, in luce dell’affermazione di nuove associazioni criminali in zone del territorio italiano in cui si pensava non vi fossero infiltrazioni mafiose, ma solo presenza e diffusione di delinquenza generica. Il processo definito “Mafia Capitale”, suscita l’attenzione di una diatriba giurisprudenziale e dottrinale riguardo il capo di imputazione dei soggetti coinvolti e per i quali la Procura di Roma contesta l’aggravante del metodo mafioso ai sensi dell’art. 416 bis, Codice Penale. In primo grado il Tribunale di Roma non ha accolto l’istanza della Procura (in Appello, qualche giorno fa, è avvenuto il contrario) riguardo l’ attribuzione al sodalizio criminale dell’aggravante del metodo mafioso, non classificando le attività dei consociati corrispondenti alla previsione legislativa contestata (416 bis). La motivazione della sentenza dimostra quanto la previsione della fattispecie astratta del 416bis non sia più adatta a prevedere nuove tipologie di mafie diverse da quelle affermatesi negli anni addietro in Sicilia e Calabria, le quali si connotavano per la forza di intimidazione con metodo sovversivo, l’assoggettamento e l’omertà come aspetto fenomenico consequenziale all’esercizio della forza di condizionamento mafioso che si manifesta nelle vittime potenziali dell’associazione. Nella formulazione dell’accusa, la Procura di Roma, a seguito di lunghe e dettagliate indagini, ha ricostruito un apparato criminale capillare infiltrato non soltanto nel mondo imprenditoriale, ma anche nel tessuto politico e amministrativo, operante secondo un metodo mafioso nuovo e camaleontico ed in grado di compiere svariati affari grazie ad un sistema corruttivo ad ampio raggio. Il vero punto di svolta a cui giunge la magistratura inquirente è la classificazione e l’affermazione di nuove condotte mafiose non sovversive nel rapporto tra mezzi usati e fini perseguiti dai consociasti del sodalizio criminale; non si assiste, infatti, a stragi ed omicidi per l’affermazione del potere, ma si costruisce un tessuto economico- politico illecito alternativo a quello statale finalizzato ad acquisire in modo diretto ed indiretto la gestione ed il controllo delle attività. È questo l’elemento che dimostra maggiormente l’inadeguatezza e l’arretratezza dalla fattispecie astratta del reato di associazione a delinquere di stampo mafioso, elaborata negli anni ‘90 per contrastare attività criminali che si manifestavano con caratteri violenti e stragisti; “La mafia è un fatto umano e come tutti i fatti umani ha un inizio e avrà anche una fine”. Con queste parole Giovanni Falcone ha dato un’importante connotazione umana ad un fenomeno criminale soggetto ad evoluzione storico-sociale. Ed è proprio a causa dello scorrere del tempo che previsioni legislative prodotte nei decenni precedenti possono non essere adeguate a disciplinare condotte mafiose “moderne” e “camaleontiche”, in grado di confondersi nel tessuto sociale ed economico dello Stato. Per far fronte a tali problematiche, la dottrina giuridica ha elaborato nuove teorie in tema di associazionismo mafioso, connotando con il termine “mafia silente” quel sodalizio che si avvale della forza d’intimidazione non attraverso metodi eclatanti, ma con condotte che derivano dal “non detto”, dall’”accennato” e dal “sussurrato”; questo concetto diventa penetrante nel processo “Mafia Capitale”, in quanto vi è una doppia interpretazione del 416 bis, letterale da parte del Tribunale, estensivo da parte della Procura. Secondo i principi del diritto penale in generale, e soprattutto secondo quello della certezza del diritto, la magistratura non può discostarsi dall’interpretazione letterale degli articoli del Codice, “ergo”, nel caso in cui non vi sia piena corrispondenza tra fattispecie astratta e fattispecie concreta, non si integrano gli estremi del reato contestato dalla Procura, in quanto codicisticamente non aggiornato all’evoluzione del fenomeno mafioso. Sarebbe opportuno, quindi, un intervento legislativo mirato ad ampliare i confini del 416bis, ormai vetusto e legato a vecchie ideologie e concezioni di mafia stragista ed intimidatoria, che non trova più riscontro nella società moderna, ed a garantire soluzioni più concrete ed efficaci che possano creare consenso tra dottrina e giurisprudenza. Truffa del cartellino, se reiterata esclusa particolare tenuità del fatto di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 19 settembre 2018 Corte di cassazione - Sentenza n. 38997/2018. Linea dura della Cassazione sulle truffe del cartellino nella pubblica amministrazione. Con la sentenza n. 38997/2018, infatti, i giudici di legittimità hanno respinto il ricorso di un medico della Asl di Brindisi, reo di aver fatto timbrare un certo numero di volte il proprio badge ad altre persone, che chiedeva l’applicazione della “non punibilità per particolare tenuità del fatto”. Per Piazza Cavour, che ha confermato la condanna della Corte di appello di Lecce alla pena di due anni e 900 euro di multa, la reiterazione della condotta impedisce l’applicazione del 131-bis del Cp. Secondo il ricorrente invece la reiterazione degli episodi andava inquadrata nella “continuazione” che non preclude l’applicazione della “non punibilità”. Al contrario, la Suprema corte spiega che il giudice territoriale “ha correttamente escluso che alla condotta possa applicarsi la causa di esclusione della punibilità di cui all’art. 131-bis cod. pen.”. Infatti, la norma prevede che la punibilità “può essere esclusa solo se “ l’offesa è di particolare tenuità” ed “il comportamento risulta non abituale”“. Il terzo comma, poi, prosegue la decisione, specifica cosa debba intendersi per comportamento abituale, “cioè, per quello che riguarda il caso di specie, “più reati della stessa indole, anche se ciascun fatto, isolatamente considerato, sia di particolare tenuità, nonché nel caso in cui si tratti di reati che abbiano ad oggetto condotte plurime, abituali e reiterate”. Dunque, nelle ipotesi in cui il soggetto “evidenzia una sostanziale consuetudine a porre in essere comportamenti illeciti, il fatto non può ritenersi tenue e la punibilità non può essere esclusa”. L’abitualità, d’altro canto, argomenta la Cassazione, “non coincide con l’istituto della continuazione e con questo non può essere confusa”. La continuazione, infatti, non implica necessariamente l’abitualità, cioè la ripetitività di un comportamento ovvero la reiterazione di una medesima condotta “quanto, piuttosto, determina l’unificazione dei fatti in virtù del medesimo disegno criminoso cui segue un unico giudizio di disvalore in quanto il soggetto, in sostanza, commette più reati per commetterne uno soltanto”. Al reato continuato, quindi, può essere applicata la causa di esclusione della punibilità “nei casi in cui emerga una unitaria e circoscritta deliberazione criminosa, incompatibile con l’abitualità presa in considerazione in negativo dall’art. 131-bis cod. pen”. In tutti gli altri casi, in cui la condotta complessivamente posta in essere evidenzi un comportamento abituale deviante, d’altro canto, la causa di esclusione della punibilità non può essere applicata. Tornado al caso specifico, conclude la Corte, il giudice di secondo grado “ha evidenziato che il medico aveva posto in essere un modus operandi “abituale” che costituiva un vero e proprio stile di vita e, sotto tale profilo, il mancato riconoscimento della causa di esclusione della punibilità ex art. 131 bis cod. pen. è corretta e coerente applicazione della giurisprudenza di legittimità sul punto”. Civitavecchia (Rm): detenuto 36enne si suicida in carcere, aperta un’inchiesta Corriere della Sera, 19 settembre 2018 Un detenuto di 36 anni si è suicidato domenica nel carcere di Civitavecchia. Per il giovane, mai stato in cella prima, era stata disposta la sorveglianza 24 ore su 24, ma nonostante ciò è riuscito a impiccarsi. La procura di Civitavecchia ha aperto un’indagine per accertare l’accaduto. Terni: detenuto morto, adesso lo scontro diventa politico ternitoday.it, 19 settembre 2018 Archiviato il “caso” giudiziario - che si è risolto nell’arco di qualche ora - adesso la morte nel carcere di Terni di un detenuto moldavo accende gli animi della politica. Tutta colpa di un post pubblicato domenica pomeriggio dalla presidente della Regione Catiuscia Marini, sul suo profilo Facebook. Riprendendo un articolo de “Il Giornale” in cui i famigliari del moldavo avanzavano dubbi sulle reali cause del decesso (“…era tutto pieno di lividi, gli usciva sangue da bocca, naso ed orecchie”) la presidente manifestava le sue perplessità: è stato pestato? Non gli sono state fornite cure adeguate? E poi invocava l’intervento del garante dei detenuti oltre a quello della Asl. Le indagini - sono state raccolte testimonianze, la cella del moldavo è stata perquisita - e l’autopsia hanno scansato ogni dubbio: l’uomo - 30 anni, detenuto a Sabbione da febbraio per un’accusa di furto - sarebbe deceduto per cause naturali. Ora gli strascichi sono politici. Già il consigliere regionale di Umbrianext-Gruppo misto, Sergio De Vincenzi, aveva puntato il dito contro le dichiarazioni di Marini: “Posto che la tutela della dignità umana non permette distinguo, certo è che l’intervento deciso e tempestivo della presidente Marini, che ha chiamato in causa il garante regionale per i detenuti sulla vicenda del detenuto moldavo deceduto nel carcere di Terni, lascia molto interdetti. Perché la presidente Marini non si è mossa con la medesima determinazione quando morì lo spoletino Roberto Bordini all’ospedale di Pantalla (deceduto ad ottobre del 2017) lasciando moglie e figlioletto, dopo un intervento banale e di routine?”, ha scritto De Vincenzi, utilizzando poi l’hashtag #stranezzemariniane. Oggi interviene la Lega dell’Umbria esprimendo “solidarietà e vicinanza al corpo di polizia penitenziaria di Terni, bersaglio ingiustificato di un post della presidente della Regione, Catiuscia Marini”. Marini viene accusata di avere avanzato “dubbi ed interrogativi sull’operato degli uomini e delle donne appartenenti ad un corpo dello Stato che ogni giorno, nonostante i noti problemi di organico, strutture e mezzi, assolve con impegno il proprio mandato”. La Lega Umbria, al contrario, “sposala nota diffusa dai rappresentanti sindacali delle segreterie locali di Terni e prende le distanze dal post pubblicato sul profilo social della Marini, dove, in riferimento alla morte di un detenuto, nel carcere di Terni e per la quale sono state predisposte tutte le indagini del caso, ipotizza una realtà che non esiste. Resta incomprensibile come il governatore di una Regione avanzi interrogativi senza attendere che la giustizia faccia il suo corso - si legge nella nota - In attesa dell’esito delle indagini e certi del lavoro svolto dagli agenti della polizia penitenziaria e dell’integrità delle istituzioni chiamate a fare luce sulla questione, invitiamo la presidente Marini ad avere più rispetto per chi serve lo Stato in modo dignitoso. Nel caso in cui tutte le indagini escludano percosse o violenze nei confronti del detenuto, esito di cui la Lega Umbria è più che certa, invitiamo Catiuscia Marini a porgere le sue scuse pubbliche al personale della polizia penitenziaria del carcere di Terni e non solo”. Trento: percorsi di psicoterapia per i detenuti colpevoli di reati a sfondo sessuale trentotoday.it, 19 settembre 2018 Un progetto sperimentale sarà avviato nel carcere di Spini di Gardolo a Trento, grazie alla collaborazione tra Fondazione Caritro e Fondazione Trentina Volontariato Sociale. Fondazione Caritro e Fondazione Trentina Volontariato Sociale sosterranno l’attivazione di un laboratorio psicoterapeutico con la Casa circondariale di Spini di Gardolo a Trento per avviare un progetto di prevenzione della recidiva, denominato ‘Sex Offender Treatment’. Tra poche settimane verrà quindi attivato uno spazio per le persone che si sono macchiate di un reato sessuale e che sono detenute nei reparti protetti della casa circondariale di Trento. Da alcuni anni anche in Italia sono drasticamente in crescita i reati a sfondo sessuale, a tal punto che si può parlare di una vera e propria emergenza da combattere anche con interventi educativi e terapeutici idonei a prevenire la recidiva. In Italia i detenuti allocati in sezioni riservate sono 2.500, di cui 70, provenienti da tutto il Triveneto, ospitati presso i 2 raggi degli 8 della Casa Circondariale di Trento. Il progetto prevede un percorso di formazione dei volontari e uno psicoterapeutico per i detenuti. Attraverso un approccio psicoterapico i volontari avranno consapevolezza della complessità del trattamento rivolto ai detenuti. Il percorso svolto in gruppo e individualmente, mira ad innescare un processo di riconoscimento del proprio comportamento illegale e del disvalore sociale del loro comportamento. La formazione dei volontari sarà inoltre rivolta a creare una rete relazionale per i detenuti sulla quale, una volta scontata la pena, potranno contare per supportare il rientro nella normalità, riducendo i rischi di recidiva. Il progetto pilota (2018-2020), prevede il coinvolgimento di Fondazione Caritro che si occuperà di sostenere la realizzazione di attività laboratoriali che verranno svolte da uno psicoterapeuta esperto. La sperimentazione è volta ad affrontare problematiche emergenti, per migliorare la qualità complessiva della vita all’interno del carcere, incentivando la partecipazione alle attività e dare ai detenuti, una volta scontata la pena, una possibilità di tornare alla normalità del vivere civile. Palermo: “Per Aspera ad Astra”, corsi di teatro per i detenuti del Pagliarelli Il Sicilia, 19 settembre 2018 Dei corsi per sognare una nuova vita oltre le sbarre, all’insegna della cultura e della bellezza. Si chiama “Per Aspera ad Astra - come riconfigurare il carcere attraverso la bellezza e la cultura”, il progetto che in Sicilia vede in prima linea l’Associazione Baccanica - Compagnia Evasioni, già da anni attiva all’interno della Casa Circondariale Pagliarelli Lo Russo, adesso ha proposto per la prima volta all’interno dell’Istituto Penitenziario di Palermo corsi di formazione professionale per i detenuti sui mestieri del teatro. Scenografi, costumisti, drammaturghi, registi, un vero e proprio focus sui mestieri dell’arte con lezioni tenute da professionisti del settore per imparare mestieri creativi che possano facilitare il reinserimento nel mondo esterno. L’Associazione Baccanica, reduce dall’allestimento all’interno del carcere dello spettacolo “La Ballata dei respiri”, con la regia di Daniela Mangiacavallo, che dell’associazione è anche presidente, è stata infatti selezionata per un progetto pilota che coinvolge sei istituti penitenziari in tutta Italia. Obiettivo è formare nuove figure professionali, divulgare l’importanza dell’esperienza teatrale all’interno degli istituti di pena, creare strumenti per uscire dalla separazione di cui spesso il mondo delle carceri soffre rispetto alla società civile. Per Aspera ad AstraIl progetto è curato da Carte Blanche (Compagnia della Fortezza), che ne è ideatrice e capofila, ed è finanziato dalla Fondazione Acri (Associazione di Fondazioni e di Casse di risparmio Spa). La compagnia della Fortezza, fondata dal regista Armando Punzo all’interno del carcere di Volterra, in trent’anni di esperienza, ha sperimentato un modello vincente per la rieducazione e il reinserimento dei detenuti: concentrandosi esclusivamente sul contenuto artistico, liberandolo dai condizionamenti finalistici di tipo sociale, riesce a raggiungere risultati entusiasmanti nell’esperienza creativa e teatrale che poi indirettamente producono ricadute straordinarie anche sul piano sociale. Daniela Mangiacavallo, che del regista campano è stretta collaboratrice da dieci anni, ha importato il “modello Punzo” all’interno del carcere Pagliarelli. Ènata così la Compagnia teatrale Evasioni, tutta composta da attori-detenuti, che hanno già debuttato oltre le sbarre al teatro Biondo, ed è ora pronta a trasformarsi in una vera e propria macchina da spettacolo con costumisti, scenografi, drammaturghi e registi tutti formatisi dentro l’istituto penitenziario. Proprio come accade all’interno del carcere di Volterra. Oltre a Baccanica gli altri istituti penitenziari coinvolti, poiché al loro interno esistono realtà teatrali significative, sono: Casa Circondariale di Modena (Teatro dei Venti), Casa di Reclusione di Milano Opera (Opera liquida Teatro), Casa Circondariale di La Spezia (Compagnia degli scarti), Casa Circondariale di Torino (teatro e società), Casa di Reclusione di Volterra (Compagnia della Fortezza). Milano: al carcere Beccaria due settimane di sport: il rugby solidale non va in vacanza di Gian Luca Pasini Gazzetta dello Sport, 19 settembre 2018 Due settimane di sport al Beccaria nel bel mezzo dell’estate. È così che l’A.S. Rugby Milano, sostenuta da Banco Bpm ed Edison, ha deciso di festeggiare i dieci anni del progetto Freedom Rugby, che si pone l’obiettivo di insegnare ai giovani detenuti dell’Istituto Penale Minorile Beccaria i principi tecnici ed etici della palla ovale. Per due settimane, la prima dal 9 al 13 luglio e la seconda dal 6 al 10 agosto, l’A.S. Rugby Milano ha colmato il “vuoto” che vivono i ragazzi del Beccaria nei mesi estivi, grazie a tanto sport e solidarietà. Il summer camp è stato anche l’occasione giusta per riportare serenità all’interno dell’Istituto, che nel corso dei mesi estivi ha vissuto momenti di particolare agitazione tra gli ospiti della struttura. Lo sottolinea il Direttore dell’IPM Beccaria Fiorenzo Cerruto, che in una nota commenta: “Con la presente desideriamo esprimere il nostro compiacimento e ringraziamento per l’esperienza realizzata quest’anno di campus sportivo nel luglio e poi replicato nell’agosto. La vostra presenza silenziosa ma fattiva in un mese quale quello di agosto, che vede refrattari i più, mostra nuovamente, seppure sotto altra veste, la vostra dedizione e sensibilità alla nostra realtà. In particolare non si può tacitare la prudenza ma allo stesso tempo la cura e lo spirito di collaborazione mostrato all’avvio del primo campus e cioè all’indomani di un evento critico che ha portato questo istituto agli onori della cronaca. L’umiltà e la sensibilità come pure lo spirito di squadra e di adattamento hanno contribuito significativamente a riportare gradualmente un clima di normalità all’interno dell’Istituto”. La pratica sportiva, specialmente in contesti “speciali” come quello dell’IPM Beccaria, si conferma ancora una volta un eccellente strumento di formazione e normalizzazione: “La proposta è nata in stretta collaborazione con associazioni sportive preparate, formate ed abituate a lavorare in questo particolare contesto” spiega Matteo Mizzon, responsabile dei progetti sociali biancorossi, “L’ottima sintonia con la Direzione e la costante presenza degli educatori dell’IPM, hanno fatto sì che l’occasione fosse un grande momento formativo”. Non solo rugby, ma anche calcio, basket, canottaggio, nuoto e judo in collaborazione con Csi Milano, F.C. Internazionale, Canottieri Milano, Filippo Genuizzi Basket, Uisp Nuoto e Spartacus Judo Milano. Federico Pozzi, educatore dei progetti sociali biancorossi afferma: “Il campus estivo all’interno del Carcere Beccaria ha permesso ai ragazzi di divertirsi mettendosi alla prova all’interno di un gruppo. Tramite lo sport, i ragazzi imparano “sul campo” l’importanza delle regole e il significato di lealtà, sacrificio, abnegazione e spirito di squadra. Per noi educatori è una sfida riuscire a portare della positività” continua Pozzi “in un posto dove non se ne respira molta”. Giovanni Tanca, educatore dei progetti sociali biancorossi, aggiunge: “Nonostante le difficoltà che un Istituto Penale Minorile possa presentare quotidianamente, son state due settimane molto positive, frutto della stretta e sincera collaborazione instaurata tra le diverse realtà che hanno contribuito alla riuscita del campus. L’attenzione del progetto, concentrata sulla sfera umana più che su quella sportiva, ha permesso di “lasciare” qualcosa ai ragazzi che speriamo li aiuti nel loro percorso di reinserimento sociale.” La vita in carcere, il saggio sulla leadership nella pubblica amministrazione napolitoday.it, 19 settembre 2018 Valentina Soria racconta la vita in carcere con un saggio. “La leadership nella Pubblica Amministrazione. Il caso del penitenziario di Lauro”, edita da Europa Edizioni è l’opera prima di Valentina Soria. Un lavoro che contiene così tanta umanità che risulta difficile inquadrarla in una categoria, la saggistica. L’autrice spazia dal campo organizzativo e amministrativo a quello psicologico, filosofico e spirituale. Attraverso questo lavoro la giovane giornalista napoletana ma residente a Pozzuoli, si propone di mostrare, partendo dall’analisi dei meccanismi di governance della PA in generale, per arrivare all’istituzione penitenziaria in particolare, quanto il cambiamento che interessa le organizzazione, private e pubbliche, chiamate a ridefinire le proprie pratiche e i propri assetti, sia prima di tutto un cambiamento di ordine culturale, che deve partire dalle persone, dai loro valori, dal loro modo di vivere e di percepire l’organizzazione. Mentre sembra non esserci più spazio, né tempo per l’uomo, nell’era della globalizzazione e dell’accelerazione dei processi, si avverte come indispensabile nei contesti aziendali un recupero di “umanità”, anche lì dove non se n’era mai avvertito il bisogno: negli ingranaggi della burocrazia della Pubblica Amministrazione. Gestire le persone quale risorsa e non vincolo è la sfida principale nell’impresa che cambia, sembra suggerire l’autrice. Occuparsi della Pubblica Amministrazione significa imbattersi in un complesso intreccio di spinte al cambiamento e di resistenze, di ritardi e di risultati importanti, nonostante gli sforzi legislativi verso una sorta di managerializzazione gestionale del pubblico. Per riformare l’agire pubblico, secondo la tesi portata avanti dall’autrice, non bastano riforme legislative, tagli alle spese e agli sprechi, la Pubblica Amministrazione ha bisogno di una leadership creativa e partecipativa, meno autoritaria e legata al formalismo delle regole, che generi un “motore” di cambiamento a 360°, un leader pronto a rischiare, ad investire nel percorso professionale la propria soggettività, che sappia comunicare la vision e coinvolgere nella mission sfidante, ottenendo la disponibilità degli attori organizzativi a mettersi in discussione, a definire obiettivi insieme alla direzione in quanto partner decisionali, sempre più leader di sé stessi, ed è la capacità di “fare squadra”, la qualità principale del leader, consapevole che il successo è un processo collettivo. Al centro del saggio troviamo l’importanza di nuove forme di leadership partecipativa e riflessiva, la formazione-empowering come partner evolutivo e valore aggiunto, da portare nel cuore dell’agire dirigenziale, e lo sviluppo di processi creativi basati su team di lavoro, per la crescita dei componenti dell’organizzazione e per migliorare l’apprendimento, che dovrebbero essere incrementati in un esempio di Pubblica Amministrazione quale l’Istituzione carceraria chiamata a ridefinire le proprie modalità operativo-gestionali, se vuole effettivamente restituire alla società soggetti sani e ridurre al minimo il rischio di recidiva. Se è vero che la civiltà di una nazione si vede dallo stato delle sue carceri allora dall’analisi storica emergerebbe un sostanziale fallimento della prigione moderna, in cui l’obiettivo del reinserimento nei fatti si è quasi ridotto a mero slogan burocratico, sebbene l’art.27 della Costituzione reciti che le pene devono tendere alla rieducazione del condannato. Una nuova mentalità è possibile, per far sì che l’inflazione carceraria non sia una fatalità ineluttabile e Valentina Soria ne mostra un esempio tangibile che esiste già, come “avanguardia” sul territorio campano. È la Casa Circondariale di Lauro ad Avellino. L’Istituto, quando è stato realizzato il lavoro di reportage dell’autrice, contava 50 detenuti e accoglie un’utenza maschile di età compresa tra i 21 e i 45 anni, tutti tossicodipendenti a basso indice di pericolosità, condannati già in primo e con una pena da scontare residua compresa tra 1 e 7 anni. Si tratta un vero laboratorio di empowerment e creatività, che sin dalla sua nascita nel 93’ ha cercato di potenziare la sua mission riformatrice facendo “rete” sia all’interno che all’esterno, per attivare sinergie e favorire la nascita di reti integrate territoriali fra pubblico e privato per la messa in opera di percorsi per la piena integrazione lavorativa e sociale degli ex reclusi. Un esempio virtuoso di come il carcere possa scrollarsi di dosso la mistica della sorveglianza, la tendenza a custodire, confermata dai numeri (un poliziotto per ogni due detenuti in media, 1 educatore per circa 200 detenuti). Viene attuato un nuovo sistema di gestione e di relazioni in cui il lavoro d’èquipe è un punto di forza. La Casa Circondariale di Lauro ha messo in atto, con enormi sforzi finanziari e umani, una serie di “progetti di recupero” personalizzati, per sviluppare le singole potenzialità, che hanno come obiettivo prioritario l’intervento sulle competenze relazionali, puntando sul risanamento dei rapporti familiari. L’innovatività del progetto sta nel fatto che i giovani partecipanti sono essi stessi protagonisti del loro cambiamento attraverso un forte clima relazionale e di confronto, lavoro di gruppo, ma anche di progettualità vera e propria, collaborando essi stessi alla progettazione delle attività formative con gli educatori-tutor, fondamentali per l’orientamento dei detenuti dentro e fuori il carcere. C’è una convinzione profonda che accomuna tutti e che emerge dalle interviste avute con direttore, capo-area. educatrice, comandante, detenuti: quando si riesce a realizzare insieme un progetto comune, quando si crea un clima di squadra all’interno della struttura si spezza il circolo vizioso sovrano-suddito, si esce dai rigidi schemi imposti dai ruoli, ognuno si sente artefice del proprio cambiamento, il comandante non si limita più a controllare, ma partecipa attivamente ai lavori. È quando il percorso interno di accrescimento della creatività personale diventa patrimonio di più persone, quando l’esterno entra dentro e viceversa che si crea rete e scambio reciproco, quello che accade con le scuole del territorio per esempio con i progetti sull’educazione alla legalità, che prevedono incontri tra studenti e una rappresentanza di detenuti. Uno scambio favorito anche dalla redazione collettiva all’interno dell’istituto del mensile “anagramma”, che diventa terreno di confronto e relazione. Ogni laboratorio attivato ha una mission in più: sviluppare l’aspetto socializzante. Fondamentale il lavoro in gruppo, che ricrea una piccola comunità di pratica, che mira a trasmettere l’esperienza e la conoscenza da un componente all’altro del gruppo. L’offerta formativa è composta da: laboratorio teatrale, di informatica, di ceramica, di video-maker per la produzione audiovisiva. L’intento è far interagire l’esperienza carcere con l’esperienza cinema, di far rivolgere lo sguardo del detenuto su se stesso e sul mondo e del mondo sulla propria parte maledetta, rimossa, un meta-carcere, che parlando di sé si riscopre e si rigenera. Importantissimo il laboratorio di falegnameria e fabbro, diretto da professionisti del settore, che permette di acquisire un forte senso di responsabilità e impegno. Vengono realizzati manufatti per conto di società esterne e una ditta provvede all’assunzione di un certo numero di detenuti, tra i più meritevoli, promuovendo un circuito sinergico tra struttura penitenziaria e mondo del lavoro. Un progetto, particolarmente stimolante e audace è stato chiamato “Le ali della libertà” ed ha riguardato la realizzazione di un elicottero in legno, brevettato (collaudo) e commercializzabile. Ognuno insomma è un knowledge worker chiamato a migliorare l’intero processo. Ecco che quindi gli studi sull’intelligenza emotiva, sulle dinamiche di gruppo e di coaching, sullo sviluppo e l’importanza della creatività per migliorare l’apprendimento diventano la nuova “ Bibbia manageriale” per i più alti ruoli, quanto per le stesse persone che popolano l’organizzazione carceraria, ribadendo la centralità delle relazioni umane. Perché ciò sia possibile, come emerge dalle interviste riportate nell’opera, “è necessario un impegno quotidiano, fatto di tempi “significativi”, di lavoro, di obiettivi da raggiungere”. I detenuti mostrano una grande riconoscenza alla struttura, i progetti rappresentano una grande sfida, perché ci si scontra con i propri limiti e si impara ad affrontarli e a non deviarli. Nell’esperienza dei detenuti si percepisce che è radicalmente mutata la loro stessa idea di carcere, grazie all’accoglienza, alla passione, alla partecipazione che hanno trovato. È risultato di estrema importanza dare la possibilità al condannato di proseguire il percorso di scolarizzazione, quanto di realizzare i propri progetti, non importa di che portata, l’importante è che l’aspetto della progettualità non vada a scomparire o a non essere stimolato a causa della restrizione di libertà, perché è da qui che può partire la riprogettazione della propria vita. Mentre aspettiamo l’evoluzione legislativa sulla questione carceraria in Italia, nessuno, soprattutto in posizione di vertice, dovrebbe dimenticare che gestire persone, a partire da noi stessi, serba infinite contraddizioni, avversità, difficoltà, è forse la sfida più impegnativa, ma anche più stimolante, che vale la pena intraprendere in qualsiasi contesto. Un testo che insegna a conoscere e comprendere un “mondo fuori dal mondo”. Strumenti di tortura. Così diciamo basta al loro commercio di Cecilia Malmström* Avvenire, 19 settembre 2018 Ai sensi del diritto internazionale la tortura è un reato e non può essere giustificata in alcuna circostanza; l’uso sistematico della tortura è un crimine contro l’umanità. Benché sempre più Paesi abbandonino il ricorso alla pena capitale, migliaia di persone sono tuttora recluse nel braccio della morte in attesa di esecuzione. Oltre ad essere inumani, degradanti e immorali, questi due tipi di pena sono del tutto inutili, perché del tutto inefficaci nel ridurre la criminalità. I leader mondiali si esprimono spesso a favore dell’abolizione di tali metodi, ma paradossalmente i prodotti usati per la tortura e l’esecuzione della pena di morte continuano a essere scambiati liberamente attraverso le frontiere, dal venditore all’acquirente. Si tratta di strumenti assolutamente terrificanti: manganelli chiodati, cinture a scarica elettrica, aste che tengono bloccata la vita o un arto infliggendo choc elettrici, sostanze chimiche utilizzate per l’esecuzione, camere a gas, sedie elettriche e molti altri; in breve, articoli utilizzati unicamente per provocare morte e sofferenze. Se la comunità internazionale è veramente sincera nel denunciare tali pratiche, bisogna dire basta a questo commercio. Le iniziative vanno nella direzione giusta. Lo scorso autunno, in occasione dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite a New York, circa 60 Paesi si sono coalizzati per dare vita all’Alliance for Torture-Free Trade, Alleanza per un commercio libero da tortura. Voluta innanzitutto da Argentina, Unione Europea e Mongolia, questa Alleanza mondiale intende andare oltre le promesse vacue e mettere in estrema difficoltà le società e i Paesi che distribuiscono questi prodotti in tutto il mondo. I Paesi dell’Alleanza si sono impegnati a raggiungere una serie di obiettivi concreti: imporre controlli e restrizioni alle esportazioni, anche con divieti di esportazione; istituire una piattaforma ad uso delle autorità doganali per monitorare i flussi commerciali e identificare i nuovi prodotti sul mercato; fornire assistenza tecnica per aiutare i Paesi ad adottare le leggi necessarie e scambiare buone pratiche per applicarle efficacemente. L’Alleanza lavora ormai a pieno ritmo. All’inizio dell’estate, ad esempio, gli esperti di 38 Paesi si sono riuniti a Bruxelles per valutare come condividere il know-how e le risorse con i Paesi che intendono inasprire i controlli sulle esportazioni. La riunione ha fornito un contributo alla creazione di una rete internazionale di autorità doganali nazionali che si opporrà a questa piaga. Grazie soprattutto ai divieti di esportazione vigenti, negli ultimi anni per gli aguzzini è diventato sempre più difficile ed economicamente impegnativo procurarsi strumenti di tortura e materiale per l’esecuzione della pena di morte. Chi produce e vende queste merci cerca però di eludere tali leggi, ricorrendo ad esempio al transito attraverso altri Paesi e rendendo ancora più urgente un maggiore impegno della comunità internazionale. La nascente cooperazione nell’ambito dell’Alleanza per un commercio libero da tortura è senz’altro un primo passo necessario, ma occorre fare di più. In occasione della riunione ministeriale del 24 settembre l’Alleanza si svilupperà dunque ulteriormente, vi aderiranno altri Paesi e ciò ne consentirà l’espansione. Aspetto ancora più importante, si discuterà dell’avvio di consultazioni in vista dell’adozione di uno strumento vincolante, permanente e universale: una convenzione delle Nazioni Unite che vieta il commercio di prodotti utilizzati per la tortura e la pena di morte. Raggiungendo una massa critica di Paesi disposti a firmare tale convenzione, la comunità internazionale disporrebbe di uno strumento concreto per arrestare questa piaga, con un divieto esplicito di esportazione e importazione di tali merci che non hanno alcun impiego legittimo. L’esperienza acquisita con un altro trattato multilaterale in ambito commerciale è incoraggiante: la convenzione Cites (sul commercio internazionale delle specie di flora e di fauna selvatiche a rischio di estinzione), è stata istituita per garantire che il commercio internazionale di esemplari di animali e piante selvatici non ne minacci la sopravvivenza. Attualmente la convenzione, alla quale aderiscono 183 Paesi e altri soggetti, assicura la protezione di decine di migliaia di specie animali e vegetali a rischio di estinzione. Un’altra esperienza ispirante è stata nel 2013 l’adozione all’Assemblea generale delle Nazioni Unite, con una schiacciante maggioranza, dello storico Trattato sul commercio delle armi (Att). Scopo dell’Att è impedire i trasferimenti non regolamentati e irresponsabili di armi, che inaspriscono e prolungano i conflitti, e promuovere la responsabilità, la trasparenza e la rendicontabilità nel commercio mondiale di armi. Analogamente ai due esempi citati, un trattato che vieta il commercio di prodotti utilizzati per la tortura e la pena capitale porterebbe alla creazione di un quadro vincolante a livello internazionale. Quando lo scorso anno è stata istituita l’Alleanza per un commercio libero da tortura, alcune vittime hanno raccontato le loro sofferenze. “La tortura non serve a uccidere o a estorcere informazioni - ha affermato una di loro -. È fatta per distruggere l’anima”. Fortunatamente molti dei sopravvissuti hanno trovato la capacità e la forza di passare dall’orrore al riscatto. Ciononostante, la tortura e la pena di morte continuano a essere una realtà quotidiana in tutto il mondo e la comunità internazionale deve fare molto di più per sottrarre ai carnefici i terribili strumenti di quest’attività. *Commissaria per il Commercio dell’Unione Europea Sbarchi di migranti dimezzati in un anno (in Europa, non solo in Italia) di Claudio Del Frate Corriere della Sera, 19 settembre 2018 Fino a settembre in tutti i paesi del Mediterraneo 77mila arrivi. Un anno fa erano stati oltre 170mila. L’esperto: “Meno partenze dalla Siria e flussi interrotti a sud della Libia”. Di cosa parliamo quando parliamo di migranti? Di un fenomeno che, a dispetto dei toni virulenti che caratterizzano il dibattito, si è più che dimezzato nel giro di un anno. In tutto il Mediterraneo, non solo in Italia. Pochi giorni fa l’Unhcr, l’agenzia Onu che si occupa dei rifugiati ha diffuso le sue statistiche periodiche sugli sbarchi dall’Africa sottolineando un dato: l’Italia è diventata il terzo paese in Europa per numero di arrivi, superata dalla Spagna ma ora anche dalla Grecia. La stessa statistica, però, contiene un altro numero che, benché noto agli esperti, va controcorrente rispetto alla narrazione politica dominante. E cioè che gli arrivi dei migranti è crollato negli ultimi dodici mesi. Cosa dicono le cifre - Fino al 12 settembre scorso, fa notare l’Unhcr, sono arrivate sulle coste europee del Mediterraneo 77.307 persone; il dato è la somma degli sbarchi in Spagna, Italia, Grecia, Malta e Cipro. Nello stesso periodo del 2017 la pressione migratoria verso le coste europee era stata di 172.301 stranieri. La curva è del resto in netta discesa da anni. nel 2016 arrivarono 362.753 migranti e nel 2015 si superò addirittura la soglia del milione. La statistica mette in luce tra l’altro un ulteriore elemento: sparisce la teoria dei “vasi comunicanti”. Accanto a un netto calo degli arrivi in Italia si registra un incremento di quelli verso la Spagna ma non tale da compensare il crollo. Le cifre, insomma, fano a pugni con i toni del dibattito politico che caratterizza non solo l’Italia ma anche la Ue. Prova ne sia il recente scontro tra Salvini e il ministro degli interni del Lussemburgo. La Siria e il “tappo” dell’Africa - Ma la realtà riflessa da questi numeri è illusoria o racconta davvero di un raffreddamento dei flussi migratori? Matteo Villa, ricercatore dell’Ispi, conferma che la tendenza è in atto da qualche anno e ne spiega le ragioni. “I flussi sono in calo su tutte le rotte, a partire da quella tra Libia e Italia che ha sempre rappresentato la percentuale più alta di arrivi - spiega - ed è dovuto principalmente a due fattori. Il primo contingente: dalla Siria, che nel 2015 aveva alimentato il maggior numero di arrivi, partono molte meno persone, almeno per il momento. La seconda ragione è che i paesi europei sono riusciti a mettere una sorta di “tappo” alle partenze dall’Africa”. Durerà? I nodi di Idlib e Agadez - Il quesito fondamentale è se questa situazione è destinata a stabilizzarsi. Sul punto Matteo Villa è più cauto: “In Siria la situazione nella città di Idlib è una bomba a orologeria. Il riaccendersi della guerra potrebbe rimettere in fuga miglia di civili verso l’Europa attraverso la Turchia. Ma Erdogan appare determinato a far rispettare l’accordo preso con la Ue per fermare i migranti nei campi allestiti nel suo territorio”. “In Africa l’azione dell’Onu, dalle Ue e dell’Italia è riuscita a stabilizzare per il momento della situazione. La rotta che da Agadez, in Niger risale verso la Libia si è interrotta, l’Onu ha convinto a tornare nel paese di origine circa 20mila persone che erano ferme nei campi. Il nodo è sempre lo stesso: trattare con le milizie, portarsele dalla propria parte. Diminuire gli arrivi consente di lavorare meglio sull’integrazione e l’accoglienza dichi è già in Europa. Che al momento è la vera urgenza”. Cannabis, i Caraibi sulla via della riforma di Axel Klein Il Manifesto, 19 settembre 2018 La Giamaica è il paese dei Caraibi in cui il movimento di riforma della politica delle droghe si è fatto più sentire e che ha anche la cultura più radicata del consumo di cannabis. È inoltre il più grande stato di lingua inglese per numero di abitanti e perciò ha molta più capacità politica per progettare politiche e per implementare normative. La Giamaica ha dunque un ruolo leader nell’area, ma deve anche rispettare la sovranità degli altri paesi del Commonwealth. Negli anni recenti, Belize, Antigua e Barbuda hanno spinto a livello nazionale per riformare la politica della cannabis, depenalizzando fra l’altro l’uso personale. Nei Caraibi vige una situazione illogica, dove un atteggiamento sociale verso la cannabis molto tollerante con consumi diffusi si confronta sistemi legali che, in tutti e tre i paesi, classificano la cannabis come una droga pericolosa e puniscono il consumo con pene carcerarie. Questa è una delle ragioni che spingono per un coordinamento e una solidarietà a livello della regione e spiega l’importanza della Caribbean Community and Market (Caricom) quale piattaforma istituzionale per l’elaborazione delle politiche. Da tempo la Giamaica ha tentato le vie del cambiamento. La “Commissione per la Ganja”, presieduta dal professor Barry Chevannes, ha avanzato una serie di proposte di riforma, rimaste però nel cassetto per l’obiezione dell’ambasciatore americano. Nuove possibilità si sono aperte dopo il meeting di Cartagena del 2012 dell’Organizzazione degli Stati Americani e i successivi rapporti sulle droghe che hanno indicato nuove opzioni politiche. Al contempo, le novità emerse negli Stati Uniti e in Canada hanno aperto spazi e la Giamaica è stata la prima a sfruttarli. Nel 2015 infatti, le norme del Dangerous Drug Act sono state modificate, depenalizzando il possesso di cannabis fino a due once (punibile solo con una multa); legalizzando la coltivazione fino a cinque piante; creando una Cannabis License Authority per regolare l’industria a fini medici e scientifici. Il Caricom dal canto suo ha installato una commissione “per condurre una rigorosa inchiesta sulle questioni sociali, economiche, sanitarie e legali concernenti l’uso di marijuana nei Caraibi e per stabilire se debba esserci un cambiamento nell’attuale classificazione della sostanza, in modo da renderla più accessibile per tutti i tipi di consumo (religioso, ricreativo, medico e a scopo di ricerca)”. Il rapporto finale della commissione è appena uscito. Come si legge in uno dei passaggi chiave, le leggi vigenti sulla marijuana sono da considerarsi “inefficaci, discriminatorie, profondamente ingiuste, inadatte allo scopo; violano i diritti umani e mancano di legittimità”. Inoltre, “la proibizione impedisce alla regione di trarre vantaggio dalle opportunità economiche dell’industria della cannabis”. In conclusione, “la Commissione ritiene che l’obiettivo finale debba essere lo smantellamento totale della proibizione, per sostituirla con una cornice normativa ben definita, simile a quella per l’alcol e il tabacco…”. Tuttavia si riconosce che le modifiche legislative possono prendere molte forme, in conformità alle realtà nazionali e che “le riforme legislative non debbano seguire un modello di liberalizzazione laissez faire, ma procedere dentro un sistema responsabile e soggetto a controlli”. Da un lato la sola riforma della cannabis medica è giudicata insufficiente, dall’altro “la Commissione non ritiene che la legalizzazione totale non sia un’opzione plausibile per il Caricom in questa congiuntura”. Al momento, si raccomandano perciò riforme progressive, quali una serie di passi verso la depenalizzazione e per l’accesso alla marijuana terapeutica, con un’attenzione ai piccoli coltivatori. La versione integrale in inglese e in italiano e il volume “La Ganja nei Caraibi” di cui Axel Klein è coautore sono disponibili su Fuoriluogo.it. Il Sudafrica depenalizza la marijuana per uso personale: è il primo Paese del continente di Nicolò Delvecchio La Repubblica, 19 settembre 2018 Sarà possibile possedere, utilizzare e coltivare cannabis in privato. Respinto il ricorso dei ministeri della Giustizia e della Sanità, contrari alla legalizzazione per gli effetti negativi della pianta. La Corte costituzionale del Sudafrica ha legalizzato la coltivazione e il possesso di marijuana per uso personale. Con decisione non unanime, letta in aula dal giudice Raymond Green, la Corte ha quindi depenalizzato “l’uso e il possesso di cannabis da parte di un adulto, per il consumo in privato”, rendendone legale anche la coltivazione. Il Sudafrica diventa dunque il primo Paese africano a rendere legale l’uso di marijuana anche a scopo ricreativo. In passato, Lesotho e Zimbawe avevano già legalizzato la cannabis, ma solo con finalità terapeutiche. Nel marzo dello scorso anno una sentenza della Corte suprema di Western Cape, la regione di Città del Capo, aveva già dichiarato anticostituzionale il divieto di possesso, uso e coltivazione in privato e per uso personale di cannabis, invitando il Parlamento a cambiare le relative sezioni della legge sul traffico di droga. La decisione è stata dunque confermata dal più alto tribunale sudafricano, che ha respinto la tesi sostenuta da diversi dipartimenti del governo - compresi i ministri della Salute e della Giustizia - sulla pericolosità degli effetti della marijuana. La sentenza tuttavia non ha specificato quanto può essere detenuto o consumato, lasciando che sia il Parlamento a stabilirlo. A lungo, in Sudafrica, attivisti di vari movimenti hanno manifestato in favore della legalizzazione della dagga, parola con cui nel Paese si indica la marijuana. Tra questi, in prima linea ci sono stati Jeremy Acton, ex leader del Dagga Party e Garreth Prince, attivista rastafariano. I due avevano infatti sollevato il caso davanti alla Corte di Città del Capo, sostenendo come le leggi vigenti costituissero una violazione al diritto di uguaglianza, dignità e libertà religiosa. La decisione del più alto tribunale sudafricano su quanto chiesto dall’Onu, che nel 2016 aveva sollecitato i suoi membri a “riesaminare le loro politiche” in materia di cannabis dopo decenni di repressione. Per Phephsile Maseko, dell’organizzazione sudafricana della medicina tradizionale, la sentenza costituisce “una grande vittoria non solo per i medici, ma anche per i pazienti”. “Noi utilizziamo la cannabis da anni, per curare l’ansia e come antisettico, in segreto”, ha aggiunto. Niger. Sacerdote italiano rapito. “Troppi terroristi da Mali e Burkina” di Lorenzo Cremonesi Corriere della Sera, 19 settembre 2018 Padre Pierluigi Maccalli portato via lunedì notte da presunti jihadisti: Farnesina al lavoro, la Procura di Roma apre un’inchiesta per sequestro a scopo di terrorismo. Padre Pierluigi Maccalli, della Società delle missioni africane (Sma), è stato rapito in Niger, nella notte tra lunedì e martedì da presunti jihadisti attivi nella zona. Lo riferisce l’agenzia Fides, che ha avuto la notizia da padre Mauro Armanino, missionario a Niamey. “Da qualche mese la zona si trova in stato di urgenza - spiega padre Armanino - a causa di questa presenza di terroristi provenienti da Mali e Burkina Faso”. “Un gruppo di persone che ha fatto irruzione nella sua abitazione e lo hanno portato via su una moto - aggiunge padre Luigino Frattin, responsabile provinciale della Società missione africane di cui il prete fa parte -, hanno preso anche il suo computer, il cellulare e il pc delle suore”. “Con lui c’era solo un confratello indiano che ha fatto in tempo a nascondersi” prosegue Frattin, spiegando che il sacerdote si trovava in una zona, al confine con il Burkina Faso, dove “vivono poche persone e tra un insediamento e l’altro ci sono decine di chilometri”. Sul caso la procura di Roma ha aperto un’inchiesta per sequestro di persona a scopo di terrorismo, affidando il fascicolo al sostituto procuratore Sergio Colaiocco. Maccalli era rientrato in Africa venerdì 7 settembre, dopo un periodo di vacanza in Italia, e “non aveva espresso particolari preoccupazioni anche se la zona è sempre più calda”. “I sacerdoti erano comunque sempre prudenti, non uscivano mai di notte - spiega ancora Frattin -. Dopo il rapimento, abbiamo chiesto anche agli altri confratelli di recarsi nel villaggio”. Maccalli, membro della diocesi di Crema e missionario anche in Costa D’Avorio, lavorava attualmente nella parrocchia di Bomoanga, a Gourmance, alla frontiera sud-ovest del paese. Possibile che sia stato portato al di là del confine, nelle vaste foreste in cui hanno le proprie basi i miliziani. La missione è presente nella zona fin dagli anni 90 e i villaggi visitati dai missionari sono più di 20, di cui 12 con piccole comunità cristiane, distanti dalla missione anche oltre 60 chilometri. “Da tempo - scrive Fides - Maccalli mette insieme evangelizzazione e promozione umana: scuole, dispensari e formazioni per i giovani contadini. Attento all’inculturazione, ha organizzato momenti di iniziazione in relazione con la circoncisione e l’uccisione delle ragazze. Può essere uno dei moventi del rapimento” suggerisce l’agenzia pontificia. La lotta alla barbara pratica dell’infibulazione femminile potrebbe aver innervosito gli estremisti islamici attivi nella regione. “Siamo in attesa che la Farnesina ci dia chiarimenti - riferisce il fratello, don Walter Maccalli, anch’egli missionario in Angola -, stanno lavorando per capire bene quale sia la situazione”. Sulle possibili ragioni del sequestro non si esprime: “Sono stati realizzati ospedali e tante altre opere, ma non posso pensare che siano collegate al rapimento - afferma -. Ci sono cose di fronte alle quali non possiamo fare nulla se non pregare e attendere con fiducia”. Tutta la comunità di Madignano, nel cremonese, paese originario di Maccalli, è sconvolta dalla sparizione di “Padre Gigi”, come lo chiamano da quelle parti. Il ministro degli Esteri, Enzo Moavero, fa sapere dal canto suo di essere in costante rapporto con l’Unità di crisi: l’ambasciata italiana nella capitale Niamey ha formalmente chiesto alle autorità locali di dare assoluta priorità alla rapida soluzione del caso, evitando iniziative che possano mettere a rischio l’incolumità del prete. Proprio il mese scorso le autorità nigerine hanno rafforzato i controlli al confine con la Nigeria, a causa dell’aumento dei rifugiati provenienti dal vicino stato di Zamfara e dei casi di rapimento. Libia. Governo prepara commissione d’inchiesta su stato carceri Tripoli Nova, 19 settembre 2018 Il Consiglio di presidenza del Governo di accordo nazionale libico (Gna) ha deciso di ridare vita alla commissione speciale sullo stato dei detenuti nelle carceri di Tripoli, in particolare per capire la situazione nei principali centri di detenzione. La commissione dovrà stabilire se le condizioni in cui versano i detenuti rispettino i diritti umani. La commissione avrà 15 giorni per svolgere la propria indagine e poi presentare un rapporto al premier Fayez al Sarraj. Somaliland, il Paese invisibile dove non piove mai di Renato Franco Corriere della Sera, 19 settembre 2018 “La propaganda politica evoca continuamente l’Africa, in tanti dicono aiutiamoli a casa loro, ma a casa loro non ci sono mai stati”. Corrado Formigli riparte a sud del Mediterraneo, con un reportage dal Somaliland, lo Stato che non esiste, indipendente dal 1991, con un governo, un Parlamento e un esercito, ma senza essere riconosciuto da nessun Paese del mondo. L’apertura della nuova stagione di Piazzapulita (ogni giovedì, alle 21.10 su La7) è dedicata a questo Paese ucciso dalla siccità, dove non piove da tre anni, dove una volta per essere ricchi ci volevano 100 dromedari e adesso ne bastano 20, dove una capra costa 68 dollari, il doppio di cinque anni fa. “È un luogo di una povertà assoluta, ucciso dai cambiamenti climatici, dal deserto che avanza. Un tempo questa terra era chiamata la Svizzera del Corno d’Africa, c’erano campi verdi e acqua. Il mio è un viaggio nell’ipocrisia che ci circonda - spiega Formigli - perché in questi luoghi non c’è traccia di aiuti presenti e nemmeno di aiuti futuri”. Il Somaliland è una terra dove la popolazione è profuga nel suo stesso Paese, c’è un campo di 15 mila persone, capanne di stracci, dove tutti hanno perso il bestiame, non hanno acqua, se non salmastra: “In Africa sono arrivati i cinesi e i russi, mentre l’Europa è assente. La strada è anche quella, intervenire in Africa in maniera strutturale, non con le elemosine. Perché è in un humus ben preciso che la radicalizzazione islamica può coltivarsi, ovvero quando tutto è perduto. Qui gli Al-Shabaab, le cellule somale di Al Qaida, rischiano di diventare gli unici che mettono ordine in una società allo sbando. Intervenire in casi come questi per l’Occidente è una polizza di assicurazione sul futuro. Fare politica non significa assecondare la pancia dell’elettorato, i politici sono pagati per trovare delle soluzioni”. È un viaggio che serve ad andare alle radici di un fenomeno: “Vogliamo spiegare perché il flusso migratorio da quelle zone è particolarmente intenso, con il deserto che avanza e spinge la popolazione verso l’acqua e il cibo. Raccontare le storie di persone che vedi è un modo per farle uscire dalla massa indistinta di gruppi migratori di cui si parla in modo astratto”. Un altro aspetto è mostrare il lavoro delle Ong: “La politica le ha criminalizzate, con linguaggio semplificatorio le definisce taxi del mare, getta discredito su realtà che rischiano di ricevere meno finanziamenti, mentre sono le uniche che fanno concretamente qualcosa”. Già nelle stagioni precedenti la cifra del reportage è entrata nel racconto di Piazzapulita: “Il racconto della realtà è sempre più centrale per capire davvero quello che ci sta intorno. Uno dei problemi dell’informazione è la disintermediazione tra il potere e i cittadini. Oggi il potere comunica direttamente, attraverso i social, con quello che chiama popolo - che poi sono solo una parte dei cittadini, sono gli elettori del proprio partito. Il giornalista viene visto con fastidio, percepito come un intruso, mentre invece una narrazione terza è fondamentale per avere gli strumenti per farsi un’idea indipendente. I politici non amano i reportage e le inchieste, perché li mettono di fronte alla realtà: la realtà è molto più difficile da affrontare rispetto alle domande di un talk”. La politica contribuisce ad alimentare le paure: “La gente legge poco e viaggia poco, così la politica prospera sulle fake news. Se Salvini venisse da me in trasmissione - anche se non viene mai e non so perché - gli chiederei cosa dobbiamo dire a questi bambini senza speranza: hanno il diritto di provare ad avere un futuro migliore oppure devono morire lì? Non è buonismo, non è immigrazionismo. Sono domande legittime di fronte a un’ingiustizia profonda”.