Giostra: il capo del Dap sbaglia, la riforma non era uno svuota-carceri di Valentina Stella Il Dubbio, 18 settembre 2018 Le reazioni all’intervista di Basentini. Le dichiarazioni rilasciate da Francesco Basentini, neo capo del Dap, non hanno lasciato indifferenti il mondo dell’avvocatura e gli esponenti delle istituzioni e realtà politiche e associative che si occupano di carcere ed esecuzione penale. Per il professor Glauco Giostra, Coordinatore Scientifico di quelli che furono gli Stati Generali dell’esecuzione penale e presidente della Commissione che si è occupata dell’Ordinamento Penitenziario “il dottor Basentini apostrofa il più organico progetto di riforma dal 1975 “svuotacarceri”. Se con questo rozzo neologismo si intende come ben precisa lo stesso capo DAP “libertà incondizionata per tutti quanti i detenuti indistintamente”, mi piacerebbe che si indicasse una sola disposizione del progetto cui sia ascrivibile un tale obbiettivo. In compenso - aggiunge Giostra - posso far presente che la riforma avrebbe abrogato l’unica normativa svuota-carceri presente nel nostro ordinamento, ossia la legge 199 del 2010, che prevede l’espiazione presso il domicilio delle pene sino a 18 mesi. Il dottor Basentini afferma, condivisibilmente, che “la misura alternativa deve premiare il detenuto meritevole”: proprio quello che prevede la riforma, imponendo peraltro prescrizioni molto più impegnative delle attuali. Viene il sospetto che non abbia avuto tempo di leggere il nostro progetto o che gli abbiano sottoposto un testo sbagliato”. Duro anche il commento di Rita Bernardini, membro della presidente del Partito Radicale, per la quale quella del magistrato Basentini è una “visione carcero-centrica, come se solo il carcere debba costituire la pena, e che va nella direzione opposta alle regole penitenziarie europee e a quanto di più avanzato si registra a livello internazionale nel trattamento dei detenuti per abbattere la recidiva”. L’esponente Radicale torna anche sulla mancata autorizzazione dal Dap a visitare il carcere di Taranto: “È un segnale fortemente negativo che dimostra il cambiamento di rotta rispetto alle amministrazioni precedenti. Proprio la motivazione del diniego - per cui non si ravvedono motivazioni trattamentali, lascia a bocca aperta perché nel frattempo a Taranto si è registrato un suicidio e un tentativo di suicidio e la popolazione carceraria è in aumento; a causa di ciò i detenuti non hanno alcuna risposta di tipo trattamentale. Quando a capo del Dap c’era Santi Consolo abbiamo conosciuto massima disponibilità e trasparenza degli istituti penitenziario”. Più morbida la posizione del professor Mauro Palma, Garante dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale: “Credo che il dottor Basentini sia una persona che voglia capire il carcere, che vuole individuare quali siano le criticità. Non leggo risposte di una persona chiusa in se stessa e nel proprio pensiero. Tuttavia vedo che l’influenza a volte di quella che può essere la percezione dell’opinione pubblica sul carcere predomina su quella che è l’effettività del carcere su cui occorre ragionare in termini laici. Inoltre mi sembra che non venga messo in discussione il tema dei diritti ma se non vogliamo che la pena sia mera retribuzione non basta garantire i diritti in un sistema che soltanto sottrare tempo, dobbiamo dare anche una componente utile. È necessario un sistema che ci garantisca che il ritorno al sociale non sia uguale alla situazione precedente”. E in merito ai protocolli stilati dal Dap per i lavori all’esterno, il Garante è chiaro: “A parer mio il lavoro deve essere retribuito, in una forma o nell’altra, anche come riduzione dei tempi per accedere alle misure. Non è detto che retribuzione equivalga sempre a soldi. Nei protocolli dovrebbero essere garantite delle certificazioni del lavoro svolto, spendibili una volta fuori dal carcere”. Sull’idea di Basentini per cui la riforma del carcere ormai bocciata sarebbe stata uno svuota-carceri: “Come dicevo prima forse c’è troppa attenzione alle percezioni esterne da parte di una persona che ha ancora molto bisogno di ascoltare”. Per l’avvocato Francesco Petrelli, Segretario dell’Unione delle Camere Penali: “Lo spazio della rieducazione e della risocializzazione nella concezione di Basentini viene ridotto a semplice spazio di contenimento. Costruire nuove carceri diviene così il passaggio assiomatico più semplice. Un passaggio che, tuttavia, nega a priori l’utilità di politiche volte all’utilizzo del carcere come ultima ratio, sia sotto il profilo cautelare che sotto il profilo dell’esecuzione. Ritenere che non sia “edificante agli occhi della popolazione” consentire a soggetti non pericolosi, che si sono magari macchiati occasionalmente di un reato non particolarmente grave, di non entrare in carcere, ma di scontare la propria pena in maniera alternativa, significa negare l’evidenza dell’esperienza carceraria come moltiplicatore di marginalità, di devianza e di recidiva. In una parola negare che la moltiplicazione dell’uso del carcere e la riduzione delle pene alternative costituisce per la collettività uno spreco di risorse ed una riduzione di sicurezza”. E infine: “Il problema del carcere e del sovraffollamento non si risolve con la retorica dei rimpatri e non si risolve certo costruendo nuove carceri, ma costruendo al contrario una nuova cultura della pena”. Alcune riflessioni sulla necessità dell’utilizzo del Taser in carcere Comunicato Camera Penale di Firenze, 18 settembre 2018 Meritano evidenza alcune considerazioni sulla proposta di dotare gli Agenti di Polizia Penitenziaria del Taser (Thomas A. Swift’s Electric Rifle). Tale strumento rappresenta, per le sue potenzialità, un’arma; inutile prospettare teorie diverse dalla realtà. Laddove infatti la scarica elettrica dovesse colpire un soggetto portatore di patologie gravi o non conosciute (è questa la circostanza allarmante) potrebbe essere fatale. Secondo una dichiarazione ufficiale del Comitato contro la tortura dell’Onu, del 2007, il taser possiede addirittura tutte le caratteristiche proprie di uno “strumento di tortura”. La proposta di introdurre tale arma fra quelle in dotazione alle richiamate Forze è stata avanzata in concomitanza con due fatti occorsi proprio in Toscana, a Firenze ed a Prato, che inducono a qualche preoccupata riflessione, e dovrebbero consigliare grande cautela. Il primo episodio riguarda l’utilizzo del Taser a Firenze nei confronti di un cittadino extracomunitario alterato (nudo, disarmato e pacificamente fuori di sé) che molestava e minacciava altre persone. Il secondo; la grave aggressione subita da quattro Agenti della Polizia Penitenziaria della Casa Circondariale di Prato da parte di un detenuto a seguito della quale uno dei quattro ha subito gravi lesioni, fortunatamente con esiti guaribili. Ebbene; della prima si sa con certezza che lo strumento non è stato utilizzato attingendo alle gambe bensì al busto con ciò provandosi una scarsa manualità e quindi pericolosità nell’utilizzo. Relativamente alla seconda si evidenzia come, nel caso di dotazione del Taser, a fronte dello sconsiderato gesto del detenuto la presenza della nuova arma avrebbe sicuramente comportato esiti ben più gravi. Sono dati ormai fin troppo conosciuti la carenza di organico degli Agenti di Polizia Penitenziaria e le difficoltà che gli stessi, quotidianamente, incontrano nella gestione dei soggetti ristretti. D’altra parte sono dati conosciuti anche quelli relativi agli esiti negativi degli scontri che quasi quotidianamente si svolgono nelle carceri proprio in relazione alla disparità numerica tra detenuti e Corpo di Polizia Penitenziaria che vedono soccombenti i secondi. Le carceri sono ormai strutture al collasso, non soltanto strutturale; serve davvero quindi l’introduzione di un’arma pericolosissima quale il Taser a risolvere i problemi della detenzione in Italia oppure, come è auspicabile, sarebbe meglio potenziare l’organico della Polizia Penitenziaria nonché organizzare corsi al fine di implementare la formazione relativa al rischio in carcere? Noi riteniamo che l’introduzione nelle carceri di un’arma così potenzialmente pericolosa debba assolutamente essere esclusa stante i rischi che tale introduzione potrebbe comportare. Riteniamo necessaria una valutazione seria e concreta da parte della nuova compagine governativa e di tutti coloro che possono incidere sulle decisioni in tema di carcere, circa l’implementazione dell’utilizzo delle misure alternative alla detenzione, dell’assunzione di un congruo numero di Agenti di Polizia Penitenziaria al fine di sopperire alle gravi carenze nonché di percorsi di formazione del personale volti a garantire maggior sicurezza per tutti gli utenti delle strutture stesse. Il Direttivo Migranti e legittima difesa: Anm sull’orlo della scissione di Giovanni M. Jacobazzi e Errico Novi Il Dubbio, 18 settembre 2018 Sfiorato l’addio di “Mi” alla giunta unitaria. In Senato il “Ddl Molteni” è in bilico. Mentre la trattativa sulla Manovra fra Lega e Cinque Stelle va avanti senza mettere a rischio la tenuta dell’esecutivo, una grave “crisi di governo” è stata sfiorata nei giorni scorsi dall’Associazione magistrati proprio sui rapporti con la politica. Nello scorso fine settimana, prima che si riunisse il comitato direttivo, ossia il “parlamentino” dell’Anm, il gruppo di Magistratura indipendente aveva fatto presente alle altre correnti che avrebbe lasciato la giunta unitaria, cioè l’esecutivo interno, qualora si fosse deciso di schierarla contro il vicepremier sul tema dei migranti. L’ipotesi di una “discesa in campo” era stata avanzata dal gruppo progressista di Area. Che poi ha rinunciato a mettere ai voti il documento anti-Viminale, e ha consentito al presidente Francesco Minisci di dichiarare che “noi non intendiamo alimentare lo scontro”. Nella magistratura associata restano però distanze sulla legittima difesa, che divide anche la maggioranza in Parlamento: il M5s è sempre più perplesso sulla proposta del Carroccio, che vorrebbe eliminare il principio di proporzionalità per le aggressioni subite in casa. Un raffreddamento che si spiega anche con le preoccupazioni del Quirinale per i possibili profili di incostituzionalità, e che preoccupa a sua volta il gruppo del Carroccio a Palazzo Madama. La riforma della legittima difesa è uno dei temi su cui si sta concentrando in queste ore l’attenzione del Quirinale. Ma oltre ad alcuni profili di incostituzionalità che sono stati evidenziati nei vari disegni di legge depositati in Parlamento, e che non sfuggirebbero al vaglio del Colle, la riforma dell’articolo 52 del codice penale rischia anche di mettere in crisi la maggioranza giallo- verde aprendo a scenari al momento quanto mai incerti. Tornando ai testi, sono cinque quelli depositati: uno d’iniziativa popolare, due presentati da Forza Italia, uno dalla Lega ed uno da Fratelli d’Italia. La loro discussione è prevista nei prossimi giorni in commissione Giustizia a Palazzo Madama. Il presidente, il senatore Andrea Ostellari (Lega), ha garantito che non ci saranno problemi, essendo la materia prevista nel contratto di governo per il cambiamento. Audizioni con giuristi e vittime - Per ottimizzare i tempi, in queste settimane sono state svolte diverse audizioni. Non solo di esperti del mondo del diritto ma anche di vittime che, per aver reagito a forme di aggressione, si sono viste accusate di “eccesso” nella legittima difesa subendo lunghi e complessi iter giudiziari. Sulla riforma si sono però sollevate molte voci contrarie provenienti dal mondo forense, dall’accademia e, da ultimo, dall’Associazione nazionale magistrati che, per voce del suo presidente, il pm della Capitale Francesco Minisci, ha bocciato senza appello la proposta di modifica dell’articolo 52. Obiettivo: no alla “proporzionalità” - I cinque ddl in discussione hanno un punto in comune: quello di eliminare il requisito della proporzionalità tra offesa e difesa e la discrezionalità del magistrato nella valutazione della sussistenza della legittima difesa. Concetto sintetizzabile nello slogan salviniano: “La difesa è sempre legittima”. I contrari, invece, temono che modificando l’attuale impianto si legittimi, nella prassi, l’immagine di un ‘ cittadino- giustizierè chiamato a coadiuvare o al limite sostituire l’azione dello Stato nella prevenzione e repressione dei reati. Bonafede e l’idea di un “over rule” - Alcuni esponenti di primo piano del Carroccio sono già in preallarme. Temono che nonostante il tema sia inserito nel contratto di governo, Cinque Stelle vogliano fare marcia indietro. La materia, infatti, è “calibrata” per un elettorato di centrodestra. Da sempre sensibile a questi temi. La base grillina non si straccerebbe certamente le vesti per una mancata approvazione della riforma. Un primo segnale che non tutto potrebbe andare come previsto già c’è stato. “Non si esclude un intervento sulla legittima difesa per eliminare le zone d’ombra dell’attuale normativa in materia”, aveva dichiarato prima della pausa estiva il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede. Come a mettere le mani avanti, evidentemente consapevole che il percorso di riforma dell’articolo 52 non sarebbe stato facile. “Si vedrà se un provvedimento per la revisione della materia avverrà attraverso progetti di origine parlamentare o iniziative legislative governative”, aveva poi aggiunto, sollevando le critiche dei promotori dei ddl citati. Sulla legittima difesa potrebbe anche ricompattarsi l’ex maggioranza di centrodestra nella composizione tradizionale. Al Senato, è noto, i numeri della maggioranza M5s- Lega sono molto risicati. Class action, la riforma scommette su più adesioni e risarcimenti di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 18 settembre 2018 Disegno di legge in materia di azione di classe. Una class action potenziata. Sia sul versante di chi potrà avvalersene sia sul versante delle posizioni che possono essere fatte valere in giudizio sia per quanto riguarda gli esiti. Il disegno di legge che questa mattina è all’ordine del giorno della Camera, con una serie di audizioni, ma l’intenzione è di stringere moltissimo i tempi visto che già domani è stato fissato il termine per la presentazione degli emendamenti, ricalca quello già approvato a Montecitorio nella passata legislatura e poi incagliatosi al Senato. Il testo fa innanzitutto transitare la collocazione dell’azione di classe dal Codice del consumo a quello di procedura civile. Passaggio non solo formale visto che permette l’accesso all’azione a tutti coloro che, pur non rientrando nella figura del consumatore, tuttavia avanzano richieste di risarcimento, anche modeste, per illeciti rispetto ai quali esiste un’omogeneità dei diritti tutelabili. Il procedimento sarà articolato in tre fasi: la prima e la seconda relative, rispettivamente, all’ammissibilità dell’azione e alla decisione sul merito, di competenza del tribunale delle imprese e non più del tribunale, l’ultima, relativa alla liquidazione, con decreto del giudice delegato, delle somme agli aderenti alla classe. Viene, poi, esteso l’ambito di applicazione oggettivo dell’azione, superando la stretta indicazione dei casi previsti dal Codice del consumo (che consente oggi l’azione in caso di danni derivanti dalla violazione di diritti contrattuali o di diritti comunque spettanti al consumatore finale del prodotto o all’utente del servizio, da comportamenti anticoncorrenziali o da pratiche commerciali scorrette). L’azione potrà, infatti, essere più genericamente proposta a tutela delle situazioni soggettive maturate a fronte di condotte lesive, per l’accertamento della responsabilità e la condanna al risarcimento del danno e alle restituzioni. Un esempio, nel confronto tra vecchio e nuovo. Caso dieselgate: con la disciplina attuale la class action potrebbe essere proposta contro una casa automobilistica solo per violazione delle norme a tutela della concorrenza(mi hai venduto un prodotto con caratteristiche diverse da quelle pubblicizzate); in futuro potrebbe essere fatta valere anche una lesione del diritto alla salute. Se nel merito una azione collettiva è respinta se ne potrà presentare un’altra entro un anno, mentre il suo accoglimento impedisce successive nuove presentazioni con il medesimo oggetto. Tra gli elementi di novità più significativi c’è la possibilità di un’adesione alla classe che nei 180 giorni successivi alla pronuncia di accoglimento e non solo, come adesso, dopo l’ordinanza che riconosce l’ammissibilità. Ammesso poi il cosiddetto patto di quota lite, di cui potranno beneficare i rappresentanti legali della classe, i quali si vedranno riconoscere un compenso tarato sul numero dei componenti della classe. Modalità che costituisce un evidente incentivo alla raccolta del maggior numero di adesioni Mafia, informazione e disinformazione di Marco D’Urso La Repubblica, 18 settembre 2018 Nel secondo dopoguerra il primo giornale che si occuperà in maniera sistematica di mafia, denunciandone l’esistenza e gli interessi, sarà L’Ora, quotidiano di Palermo. Inaugurò un nuovo modo di fare giornalismo d’inchiesta, ponendosi in un rapporto conflittuale con i protagonisti delle inchieste. Anni difficili, tra minacce, intimidazioni, pressioni indebite. E cronisti uccisi. Una parte del giornalismo in terra di mafia ha lavorato per svelare dinamiche oscure, contrapponendosi alle organizzazioni criminali e costringendo l’informazione nazionale a puntare i riflettori su un mondo criminale colluso con i poteri. Alcuni giornalisti furono vittime di un metodo rigoroso e perverso: l’eliminazione fisica e la manipolazione delle loro figure nell’immaginario collettivo (di conseguenza, revocando in dubbio il valore del lavoro svolto). Così gli omicidi potevano diventare suicidi, o gli assassinati erano indicati come vittime di se stessi, morti nel tentativo di compiere un attentato, oppure la causa dell’omicidio veniva fatto risalire a questioni d’onore, di donne e di tradimenti. Di qualcuno non è stato ritrovato neppure il corpo. Volatilizzato. Nel territorio italiano si contano undici cronisti uccisi, otto dei quali in Sicilia. Per riabilitare la dignità e la memoria di queste persone, e far luce sulle verità sepolte delle loro storie, ci vorranno molti anni e l’ostinazione dei familiari. I depistaggi attuati dalla criminalità organizzata, favoriti da connivenze statali, hanno gettato questi episodi nell’indifferenza generale. Non si doveva sapere che la mafia era diventata un’organizzazione strutturata, tantomeno che fosse mutata da forma di controllo del territorio in una sanguinosa società segreta, alla conquista di potere e denaro. Sono molti i momenti in cui il giornalismo diventerà protagonista attraverso la narrazione dei fatti cruenti: i delitti eccellenti, il periodo delle stragi, le guerre di mafia che insanguinavano le strade, la controffensiva dello Stato. Ma in questa storia si rintracciano anche momenti in cui il giornalismo si è dimostrato timido, colluso, subalterno. Senza necessariamente prendere accordi e dichiararsi dalla stessa parte, ha percorso una direzione parallela. È sufficiente evitare di parlare di criminalità, oppure non documentare determinate situazioni per soddisfare gli interessi della mafia. Contro le tante voci che alimentavano la politica antimafia, altre tacevano. Quando non si poteva evitare di dare le notizie, venivano omessi nomi e particolari. L’informazione era scarna, dipendente dal potere delle cosche. La strategia della disinformazione è stata praticata anche attraverso il controllo di alcune testate e messa in atto principalmente nel periodo della controffensiva dello Stato. Si iniziò a parlare di pentiti infiltrati, di antimafia di facciata. Obiettivo: insinuare dubbi e minare il lavoro di contrasto. Negli anni Ottanta le testimonianze dei primi collaboratori di giustizia confermarono molte indagini giudiziarie. I magistrati inquirenti uscirono dall’isolamento lavorando in pool. Una parte del giornalismo screditava le informazioni rese dai testimoni di giustizia. Si parlava di mitomani, di persone che si stavano vendicando attraverso l’invenzione di accuse, di premi per gli assassini. Il ruolo del giornalismo è stato però anche una delle leve del cambiamento. Ha acceso speranze, ha indagato parallelamente alle Procure. Chi ha raccolto la sfida è stata in buona parte la stampa locale. Dopo la chiusura del maxiprocesso il 16 dicembre 1987, le stragi degli anni Novanta, gli arresti dei boss, si inizia a parlare di altro. Nell’attenzione dei media e dell’opinione pubblica l’unico superstite di questo periodo rimane il Processo alla trattativa Stato-mafia. La mafia sembra sconfitta e l’attenzione viene indirizzata verso altre traiettorie: sia da un punto di vista geografico sia tematico. L’informazione perde quella sensibilità che pure aveva costituito un punto importante della sua funzione. Oggi, indagare sulle dinamiche mafiose appare quasi come uno spreco di risorse per gli editori e le redazioni. Ad aggravare questo processo c’è lo scarso interesse dei lettori: una sottostima del problema coincide con il “lieve peso” delle notizie sulla mafia (nel biennio 2016-2018 l’informazione antimafia - che vale circa l’1,5 per cento dell’informazione - risulta di un terzo rispetto all’informazione sull’immigrazione, e ancor meno percepita è l’informazione che riguarda i giornalisti minacciati). Il lavoro di ricerca e di collegamento di fatti episodici, all’interno di una narrazione unica, richiede impegno e sforzo costante. Tra un basso profitto derivante da questo tipo di informazione e una impegnativa produzione di queste inchieste c’è il principio commerciale che grava sulle testate. Un secondo problema riguarda la ricerca spasmodica di spettacolarità. Le modalità di produrre notizie sono cambiate con l’ingresso del web e degli strumenti digitali. Ciò che conta realmente è la tempestività più che l’approfondimento. A qualsiasi prezzo, anche quello della verità. Con l’avvento dei social network si è diffuso anche un modello di informazione scheletrica. Un’essenzialità che induce soltanto a sapere che è avvenuto un fatto senza conoscerne la sostanza intima. L’informazione digitale ha cercato di uniformarsi ai tempi compressi della rete, perdendo la capacità di analisi e di ricerca. Si sono affacciati molti problemi sul corretto svolgimento dell’informazione che spiega e indaga la mafia. Anche quest’ultima ha la possibilità di prendere parte al processo informativo-disinformativo, e di utilizzare i mezzi di comunicazione digitale per presentare una realtà deformata. La sfida attuale è stata raccolta soprattutto da giovani generazioni di cronisti, all’interno di una profonda crisi della stampa. Chi si occupa di mafia è spesso un collaboratore esterno al giornale, senza tutele legali, esposto a qualsiasi tipo di intimidazione. La solitudine di alcuni giornalisti, posti sotto la tutela dello Stato, documenta come il principale obbiettivo della criminalità sia mettere a tacere chi pubblica ciò che deve rimanere segreto. Le nuove intimidazioni, infatti, tendono a prevenire la diffusione di notizie attraverso le querele senza fondamento giuridico e fattuale e quindi temerarie. Le minacce si sono spostate molto spesso sul piano legale, abusando del diritto. Si querela e si cita in giudizio chiedendo risarcimenti esorbitanti e per ciò stesso in grado di produrre un chilling effect: il giornalista si ferma, non indaga, non scrive più perché il prezzo da pagare rischia di diventare troppo alto. Queste barriere allo svolgimento di una funzione imprescindibile qual è il giornalismo sono frequenti soprattutto in ambito locale. L’isolamento diventa sia fisico sia mediatico. La stessa informazione si occupa poco dei giornalisti minacciati, cadendo alcune volte nel tranello di celebrare il giornalista-personaggio, ma perdendo di vista il motivo della sua celebrità. Alla Consulta il regime del 41-bis O.P. e il “divieto di cuocere cibi” giurisprudenzapenale.com, 18 settembre 2018 Il 26 settembre l’udienza davanti alla Corte Costituzionale. Come avevamo anticipato, con ordinanza del 9 maggio 2017, il Magistrato di Sorveglianza di Spoleto (dott. Fabio Gianfilippi) ha ritenuto non manifestamente infondata una questione di legittimità costituzionale in materia di 41-bis O.P. relativa, nello specifico, al divieto imposto dall’Amministrazione penitenziaria di “acquistare cibi che richiedono cottura, nonché cucinare quelli di cui gli è consentito l’acquisto (poiché consumabili anche crudi con la conseguenza di subire, in caso di violazione, una sanzione disciplinare)”. Era stata, pertanto, sollevata questione di legittimità costituzionale dell’articolo 41-bis, comma 2-quater, lettera f), della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sull’esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), come modificato dall’art. 2, comma 25, lettera f), numero 2), della legge 15 luglio 2009, n. 94 (Disposizioni in materia di sicurezza pubblica), nella parte in cui “impone che siano adottate tutte le necessarie misure di sicurezza volte a garantire che sia assicurata la assoluta impossibilità per i detenuti in regime differenziato di cuocere cibi”. L’udienza è prevista per il 26 settembre 2018 e il relatore sarà il giudice costituzionale Nicolò Zanon. Asilo politico anche ai senza fissa dimora di Luca De Vito La Repubblica, 18 settembre 2018 Ordinanza del tribunale sul caso di un salvadoregno in fuga dalle pandillas: è “priva di fondamento giuridico” la richiesta della questura di una “dichiarazione di ospitalità” per accettare le domande di protezione dei rifugiati. Per presentare la richiesta di protezione umanitaria non bisogna dimostrare di avere una dimora. È un’ordinanza durissima quella emessa dalla dodicesima sezione civile del tribunale di Milano - specializzata sui temi dell’immigrazione - con cui di fatto viene sconfessata la decisione della questura di obbligare chi chiede protezione internazionale a presentare un documento con cui dimostra di essere ospitato in una struttura. Una “dichiarazione di ospitalità” senza la quale, finora, la polizia non consentiva ai rifugiati di formalizzare la domanda di protezione internazionale. Ma che adesso non sarà più un ostacolo. La sentenza definisce la decisione dalla questura di porre un ostacolo burocratico alle richieste “priva di fondamento giuridico”, anche perché non si può “ragionevolmente esigere da un cittadino straniero, in situazione di irregolarità sul territorio nazionale, la disponibilità di un alloggio adeguato”. Nella sentenza poi si legge: “L’imposizione del requisito della dichiarazione di ospitalità, oltre che illegittimo, finirebbe per rendere impossibile, o eccessivamente oneroso, l’esercizio del diritto di asilo riconosciuto e tutelato nel contesto normativo europeo e a livello costituzionale italiano”. La sentenza arriva in seguito ai ricorsi presentati da un cittadino di El Salvador, arrivato in Italia a 16 anni, che si era visto notificare un decreto di espulsione una volta diventato maggiorenne per non aver formalizzato la sua permanenza in Italia (a richiederlo è la normativa sul diritto di asilo). Per evitare di essere rimandato nella capitale San Salvador, dove la furia omicida delle pandillas locali non gli avrebbe lasciato scampo, il giovane aveva inoltrato tramite il suo avvocato un’istanza per il rilascio di un permesso di soggiorno per motivi umanitari. Ed è qui che si è trovato di fronte all’ostacolo burocratico, visto che la questura per ben due volte gli ha impedito di presentare la richiesta di protezione internazionale perché non in possesso della famosa dichiarazione di ospitalità. “Ci chiediamo per quanto ancora la questura continuerà a rendere la richiesta d’asilo un percorso ad ostacoli - dicono dal Naga, l’associazione che coni suoi avvocati difende i diritti di chi scappa da guerre e violenze e che ha seguito anche questo caso. Ci auguriamo che questa ordinanza possa essere utile ai tanti richiedenti asilo che si trovano in questa situazione e che li aiuterà a presentare finalmente la loro domanda”. Quello della dichiarazione di ospitalità non è l’unico aspetto controverso in materia di espulsioni e accoglimento delle richieste di aiuto internazionale. Questa estate la stessa sezione del tribunale di Milano ha posto alla Corte di giustizia europea un quesito per chiarire alcuni passaggi della norme contenute nel decreto Minniti-Orlando. Al centro della questione c’è un aspetto chiave che riguarda l’iter delle richieste di asilo. Se infatti la domanda veniva bocciata, prima dell’arrivo del decreto era possibile effettuare un ricorso al tribunale ordinario, in caso di rigetto fare appello e infine rivolgersi alla Cassazione; dopo l’entrata in vigore della nonna, è stata eliminata la possibilità di fare appello. Ne è quindi conseguito che le bocciature in primo grado non possono più essere “sospese” in caso di ricorso, obbligando di fatto i richiedenti a lasciare il nostro Paese anche se in attesa di un ultimo pronunciamento della Cassazione. Proprio su questo i giudici milanesi hanno chiesto maggiore chiarezza con una richiesta alla Corte europea che ha accettato la procedura d’urgenza, lasciando presagire un pronunciamento nel giro di pochi mesi. Corruzione solo in forma “soft” per i parlamentari di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 18 settembre 2018 La sentenza della corte di Cassazione n. 40347. Quale corruzione può essere contestata al parlamentare? Per la Cassazione quella meno grave, l’impropria, punita con un massimo di 6 anni. Mentre a una condanna per corruzione propria, pena fino a 10 anni, è di ostacolo la Costituzione (articoli 64, 67 e 68), che non permette di individuare parametri in base ai quali valutare la contrarietà ai doveri di ufficio. A queste conclusioni è approdata la sentenza della Sesta sezione n. 40347 con la quale è stato respinto il ricorso di Silvio Berlusconi contro l’assoluzione per intervenuta prescrizione dal reato di corruzione nei confronti del senatore Sergio De Gregorio pronunciata dalla Corte di appello di Napoli il 20 aprile 2017. Al centro dello scambio la compravendita di voti con l’obiettivo di fare cadere il secondo governo Prodi. La Cassazione, nel riqualificare il fatto reato, osserva che non è possibile individuare una messa a disposizione della discrezionalità del deputato o senatore perché la sfera di libertà del parlamentare è del tutto diversa da quella di chi svolge attività amministrativa in senso stretto. “Il parlamentare è libero - si legge nella pronuncia, del resto, di esprimere nel modo che preferisce l’interesse della Nazione, quand’anche si risolva ad assecondare liberamente intendimenti altrui”. Giurisprudenza - La stessa giurisprudenza della Cassazione, nel riferimento ai casi di asservimento delle funzioni, da sanzionare a titolo di corruzione propria, ha fatto riferimento alla circostanza che la violazione dei doveri deve trasferirsi all’atto, rendendosi in questo riconoscibile attraverso di questo. Un presupposto che però è assente nel caso del parlamentare perché a mancare sono i parametri di riferimento, come evidente se solo si tiene presente l’elemento dell’insindacabilità dell’esercizio della funzione. Possibile invece la contestazione dell’articolo 318 del Codice penale, sulla base del presupposto del divieto di remunerazione della carica pubblica, che esprime il dovere della correttezza, come forma di dovere esterno, e che trova un riscontro per ogni soggetto investito di pubbliche funzioni, anche nel dovere di svolgerle con onore e disciplina sulla base della Costituzione stessa. A venire sanzionata, nella lettura della Corte, è una “frazione esterna rispetto al concreto esercizio delle funzioni, le quali, di per sè, prima che insindacabili, devono reputarsi imperscrutabili” Pa: interdittiva antimafia anche solo per un dipendente “infiltrato” di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 18 settembre 2018 Consiglio Stato - Sezione III - Sentenza 14 febbraio 2018 n. 5140. Il Consiglio di Stato con la sentenza n. 5140/2018 chiarisce il perimetro del giudizio che esprime il Prefetto quando fa la sua valutazione prognostica al fine di assumere l’interdittiva antimafia nei confronti di un’impresa, che intenda avere rapporti contrattuali con la pubblica amministrazione. Si tratta di un giudizio di pericolo fondato sul criterio del “più probabile che non” senza alcuna sovrapposizione con la valutazione delle prove - magari su medesimi fatti- che si effettua nel giudizio penale. Quindi, come nel caso specifico, alcuni elementi di rischio possono ben essere dedotti da fatti e circostanze privi di rilevanza penale, almeno al momento dell’assunzione del divieto a contrattare con la Pa. La vicenda riguarda una società concessionaria del trasporto pubblico locale. All’impresa non è infatti bastato aver licenziato i dipendenti affiliati o vicini alla mafia perché cadesse nel nulla il divieto di contrattare con la Pa. Poiché se, come nel caso in questione, l’impresa provvede a tale licenziamento in tempi ingiustificatamente lunghi, anche questa circostanza unitamente ad altri elementi può giustificare il mantenimento dell’interdittiva e il rigetto della richiesta di aggiornamento avanzata al Prefetto. In un’impresa a conduzione familiare - inserita in un contesto ambientale mafioso - ben si può intravedere la struttura di ‘clan’, poiché proprio gli stretti legami familiari depongono a favore di possibili condizionamenti tra chi di essi è mafioso o è sospettato di esserlo e chi amministra la società. I giudici amministrativi, rigettando il ricorso della società contro il permanere della misura interdittiva, specificano che tali influenze si realizzano anche solo attraverso atteggiamenti di tolleranza o soggezione e pure in assenza di dirette e concordate cointeressenze. Stesso ragionamento vale per le modifiche della compagine sociale, realizzata attraverso lo spostamento di quote tra familiari o la sostituzione degli amministratori in odore di mafia con familiari ‘puliti’. Infine, respingendo un altro argomento difensivo dell’impresa i giudici chiariscono che la valutazione complessiva di pericolo, che aveva giustificato l’interdittiva antimafia, non viene meno neanche quando nel giudizio penale viene annullata la confisca di somme sospettate di essere proventi di reato nella disponibilità diretta o indiretta dell’impresa. Caduta la misura cautelare reale non viene automaticamente posta nel nulla la valutazione del prefetto che ha adottato la misura interdittiva. Conversione del sequestro conservativo in pignoramento. Selezione di massime Il Sole 24 Ore, 18 settembre 2018 Misure cautelari - Reali - Sequestro conservativo - Passaggio in giudicato della sentenza penale di condanna - Questioni pertinenti il vincolo - Competenza del giudice civile. Posta la funzione tipica di garanzia del sequestro conservativo penale, esplicitata nei commi 1 e 2 dell’art. 316 c.p.p.(evitare che vengano a mancare o che si disperdano le garanzie per il pagamento da parte dell’imputato della pena pecuniaria, delle spese del procedimento e di ogni altra somma dovuta all’erario dello Stato, nonché delle obbligazioni civili derivanti dal reato), una volta divenuta irrevocabile la sentenza di condanna nel giudizio penale in cui, su richiesta del pubblico ministero ovvero della parte civile, sia stato disposto il sequestro conservativo sui beni dell’imputato, ogni questione relativa alla perdurante efficacia di tale vincolo, di natura cautelare, spetta esclusivamente al giudice civile dal momento che il sequestro conservativo si converte in pignoramento: quando diventa irrevocabile la sentenza di condanna al pagamento di una pena pecuniaria; diventa esecutiva la sentenza che condanna l’imputato o il responsabile civile al risarcimento del danno in favore della parte civile. • Corte di cassazione, sezione I penale, sentenza 5 settembre 2018 n. 39947. Sequestro conservativo - Revoca della misura - Idonea cauzione - Venir meno dei presupposti per l’adozione - Esclusione - Passaggio in giudicato della sentenza di condanna nel giudizio penale - Richiesta della parte civile - Competenza ad adottare ogni provvedimento relativo al vincolo - Competenza del giudice civile. Dopo la condanna irrevocabile al risarcimento in favore della parte civile e in pendenza del giudizio civile per la quantificazione del danno, la competenza a revocare o modificare il sequestro conservativo concesso a garanzia dell’azione civile nel giudizio penale spetta esclusivamente al giudice civile; ove, invece, il giudizio civile sia stato dichiarato estinto senza che si sia provveduto alla conseguente perdita di efficacia della misura, a tanto potrà provvedere, ai sensi dell’articolo 669 decies, comma 2°, del Cpc, e con le forme dell’incidente di esecuzione, il giudice penale. • Corte di cassazione, sezione I penale, sentenza 6 novembre 2014 n. 46030. Misure cautelari reali - Sequestro conservativo - Revoca - Competenza del giudice civile. L’integrale soddisfazione del credito garantito dal sequestro conservativo, estinguendo la pretesa, comporta la revoca del vincolo. Tuttavia, esaurito il giudizio penale, nel caso in cui la misura cautelare sia stata disposta a garanzia dell’azione civile, la competenza a revocare il vincolo non compete al giudice penale ma spetta a quello civile. Se però l’azione civile è estinta, e la misura è ancora efficace, allora vi provvedere il giudice penale con le forme dell’incidente di esecuzione. • Corte di cassazione, sezione I penale, sentenza 6 novembre 2014 n. 46030. Misure cautelari - Reali - Sequestro conservativo - Conversione in pignoramento - Istanza di riesame proposta dopo l’irrevocabilità della sentenza - Apertura della fase esecutiva - Conversione in pignoramento - Conseguenze - Inammissibilità. È inammissibile, una volta divenuta irrevocabile la sentenza penale di condanna, la proposizione dell’istanza di riesame avverso il sequestro conservativo (art. 316 cod. proc. pen.) di beni mobili e immobili a garanzia del credito, che, con l’apertura della fase esecutiva, si converte automaticamente in pignoramento attribuendo al giudice civile la competenza a liquidare le somme effettivamente dovute. • Corte di cassazione, sezione III penale, ordinanza 12 aprile 2012 n. 13981. Processo penale - Sentenza passata in giudicato - Sequestro conservativo - Ripartizione risarcitoria in favore delle parti civili - Competenza - Giudice civile. Spetta al giudice in sede civile, dopo il passaggio in giudicato della sentenza penale di condanna (o, come nella specie, di applicazione della pena su richiesta) la competenza a decidere sulla ripartizione risarcitoria in favore delle parti civili della somma oggetto di sequestro conservativo. • Corte di cassazione, sezione V penale, sentenza 11 marzo 2010 n. 10057. Civitavecchia (Rm): due detenuti suicidi in meno di 24 ore Askanews, 18 settembre 2018 Due detenuti suicidi in cella a Civitavecchia in meno di 24 ore, un’altra donna ristretta salvata in tempo ma in gravi condizioni e una situazione di altissima tensione in atto dei detenuti del carcere testimoniano la drammaticità che caratterizza le carceri italiane. Lo denuncia il Segretario Generale del Sappe Donato Capece. “Non ci si ostini a vedere le carceri con l’occhio deformato dalle preconcette impostazioni ideologiche, che vogliono rappresentare una situazione di normalità che non c’è affatto”, aggiunge. Il Sappe chiede l’intervento del Ministro della Giustizia Alfonso Bonfade per affrontare la questione penitenziaria che per il sindacato rimane un’emergenza: Da quando sono stati introdotti nelle carceri vigilanza dinamica e regime penitenziario aperto, sono decuplicati eventi gli eventi critici in carcere”, sottolinea. “Ad ora la tensione è altissima nel carcere di Civitavecchia, con i detenuti che stanno manifestando rumorosamente e pericolosamente”, prosegue Capece, “un detenuto che muore o che, peggio, si toglie la vita in carcere è una sconfitta dello Stato e dell’intera comunità”, conclude. Negli ultimi 20 anni - sottolinea il Sappe in una nota - le donne e gli uomini della Polizia Penitenziaria hanno sventato, nelle carceri del Paese, più di 21mila tentati suicidi ed impedito che quasi 168mila atti di autolesionismo potessero avere nefaste conseguenze. Capece ricorda infine che “per chiedere più attenzione e rispetto verso gli appartenenti al Corpo di Polizia Penitenziaria e denuncia l’invivibilità della situazione penitenziaria il Sappe manifesterà nei prossimi giorni davanti alle principali carceri italiane ed al Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria di Roma”. Terni: 38enne morto in carcere l’autopsia esclude segni di violenza La Nazione, 18 settembre 2018 Non sono state riscontrate lesioni sul corpo del 38enne moldavo trovato cadavere nella sua cella del carcere di Terni. L’autopsia sul corpo del detenuto moldavo di 38 anni trovato morto in una cella del carcere di Terni, ha escluso la presenza di lesioni e quindi che l’uomo abbia subito violenze. L’esame è stato disposto dalla Procura dopo che i familiari hanno denunciato di avere notato sul cadavere alcune ecchimosi da loro ritenute sospette. Per chiarire le cause del decesso sarà comunque necessario attendere l’esito degli esami tossicologici. Intanto al carcere di Terni ha fatto visita il garante umbro dei detenuti Stefano Anastasia che ha incontrato la direttrice e il comandante della polizia penitenziaria. Della vicenda si è interessata anche la presidente della Regione Catiuscia Marini che ha chiesto di approfondire quanto successo. Ad Anastasia la direttrice e il comandante hanno riferito che il detenuto è stato trovato morto nel letto dai suoi compagni di cella. “Mi hanno spiegato - ha aggiunto - che non si trattava di un detenuto problematico e non aveva avuto situazioni conflittuali con gli altri”. L’ipotesi sarebbe che le ecchimosi siano legate a un possibile malore che ha provocato la morte del detenuto. “Attendiamo l’esito dell’indagine avviata dalla magistratura e degli esami medico-legali - ha concluso Anastasia - per esprimerci su quanto accaduto”. Il moldavo, che soffriva di problemi di salute, era stato trovato morto nei giorni scorsi. Era detenuto nel carcere di Terni da gennaio scorso per una condanna definitiva per furto che avrebbe finito di scontare nel 2019. Era stato arrestato a Milano di rientro dal suo Paese per fatti avvenuti in Lombardia. Quindi il trasferimento a Terni. Bolzano: carcere di tra i peggiori d’Italia di Paolo Campostrini Alto Adige, 18 settembre 2018 Ieri l’ispezione delle Camere penali italiane: “Una discarica sociale in pieno centro, condizioni di vita inaccettabili”. Si sono prima guardati in faccia gli avvocati dell’osservatorio carceri. Come a capire se si era preparati ad ascoltare quello che avrebbero detto. Poi hanno cominciato: “Qui i detenuti non hanno neppure l’acqua calda in cella”, (Franco Villa, Cagliari). “Ci sono più di cento detenuti e un educatore, mai rilevata questa percentuale”, (Filippo Fedrizzi, Trento). “Nessuno che abbia un’attività all’esterno, solo due detenuti in semilibertà” (Ninfa Renzini). “I carcerati sono costretti a farsi da mangiare attaccati al water, non so se posso” (Mara Uggè, Bolzano). E infine Gianluigi Bezzi, penalista bresciano: “Forse Bolzano non lo sa, ma devo dirvelo: avete una discarica sociale in pieno centro”. Ecco come sono usciti da via Dante i rappresentanti nazionali delle Camere penali italiane. “Avete qui i soldi per rifare il colore delle panchine tutte le settimane e accettate di tenervi in casa tutto questo” è stata una delle osservazioni più discrete e pietose. Stefano Zuccatti, il referente bolzanino delle Camere penali che ha accompagnato la delegazione ieri mattina in carcere ha voluto aggiungere (come hanno fatto lealmente tutti gli altri) che “il personale fa i salti mortali nelle condizioni in cui si trova, sono tutti molto preparati, c’è un’attenzione umana lodevole ma...”. Ma la realtà è quella che hanno potuto forse soltanto intravvedere nelle poche ore della visita. Celle da dieci persone, 112 detenuti, ma solo un mediatore (in effetti sono due, ma il secondo è ormai in pensione e il rimasto lo farà tra un anno...), spazi di socializzazione ridotti ad un luogo per il biliardino. Quando è stato detto che “il personale fa i salti mortali” volevano dire che anche la direttrice li fa. Organizzando attività alternative come corsi di computer, mostre fotografiche, artigianato. “Ma ciò che fanno quasi il 90% degli ospiti della struttura - hanno detto i delegati nazionali - è starsene tutto il santo giorno sdraiati sulla loro branda”. Magari con un detenuto alto due metri che si prende tutto lo spazio. O dovendo cucinare in mezzo a innumerevoli etnie, visto che gli italiani in via Dante sono soltanto 20 e gli altri di infinite nazionalità, africani, arabi, rumeni, albanesi. Con ritmi, cibi, usanze, culture che collidono ogni ora durante le attività. “C’è da dire che non abbiamo più avuto episodi gravi all’interno - ha rilevato la direttrice Anna Rita Nuzzaci - nessun alterco rilevabile, nessuna rissa. Naturalmente la struttura è quella che è”. Dovrebbe esserci subito, domani quella nuova. Ma bisognerà aspettare ancora diversi mesi per iniziare i lavori nella “location” individuata vicino all’aeroporto, zona elicotteri, e almeno altri tre anni per trasferire gli ospiti di via Dante laggiù. In un carcere che ne potrà accogliere almeno 220. “Ma che sarà lontano dalla città, impedendo allora possibili attività di iterazione col contesto sociale...”. L’avvocato Gianluigi Bezzi si è voluto poi togliere qualche sassolino: “Noi penalisti siamo sempre accusati di essere dalla parte dei condannati, ma la realtà è che il carcere dovrebbe essere l’ultima ratio e solo per i più pericolosi. Perché la cella non è la sola risposta al delitto ma lo è ormai diventata. E se poi il carcere è quello di Bolzano, addio recupero del condannato come dice debba essere il fine per la nostra costituzione...”. Insomma in Italia, via Dante è una eccezione al negativo. “Se facciamo un paragone con tutte le strutture che il nostro osservatorio ha visitato negli anni, beh - hanno dichiarato in coro i delegati nazionali - Bolzano è nettamente al di sotto degli standard italiani”. Non se lo aspettavano, evidentemente, quello che hanno potuto verificare. È dunque un allarme sociale ma anche culturale molto netto, quello che è emerso. Una città con queste tradizioni di sostenibilità e tolleranza non si può permettere di avere nel suo corpo urbano un buco nero umano di queste dimensioni. Trento: visita ispettiva alla Casa circondariale, il resoconto di Fabio Valcanover Ristretti Orizzonti, 18 settembre 2018 Si è svolto il 12 settembre il terzo segmento del ciclo di visite ispettive nella Casa Circondariale di Trento del Consigliere Lorenzo Baratter (Patt) e dell’Avvocato e radicale Fabio Valcanover. (La prima si tenne in luglio anche con l’intervento della Cons. Manuela Bottamedi; la seconda ai primi di agosto) Oggetto della visita ispettiva sono stati una parte dei luoghi di lavoro e la sezione “protetti”. Sono stati visitati i luoghi di lavoro dei detenuti. Nei luoghi di lavoro, in particolare dove si trova la lavanderia e stireria da due anni (così ci si dice) non funziona il condizionatore. Qui si effettuano quindi le lavorazioni (lavaggio e stiratura) con mangano in ambienti caratterizzati da elevate temperature. Temperature che nella struttura, da primavera sino all’autunno, in caso di bel tempo, si avvertono talvolta soffocanti. Lavorano con la cooperativa Venature 6 persone in due turni mattutini e 3 persone nei turni pomeridiani. Ci è stato segnalato che la sterilizzatrice, macchina presente ove è sito il laboratorio in uso alla cooperativa Venature, pur essendo essenziale per affrontare alcune situazioni interne, non funziona da due anni. Ci si chiede chi debba intervenire. Gli orari di lavoro dei detenuti sono di 15 ore in settimana con retribuzione di circa 300 € mensili. Il totale dei dipendenti lavoratori è di nove unità. L’impiego quindi avviene secondo la catena segnalazione degli Educatori al Presidente della Cooperativa. Il contratto di lavoro segue eventualmente ad un periodo di prova di 30 giorni. Operano inoltre due cooperative: Chindet e Caleidoscopio. La Chindet lavora con detenuti assunti con orario settimanale di 15 ore e retribuzione di circa 320 € al mese. La seconda ha un compito di formare i detenuti. Sovrintendono queste attività due dipendenti delle cooperative esterni al carcere. La formazione dura circa un mese e mezzo. Quelli che complessivamente lavorano in questo settore sono una ventina di persone, di cui un terzo assunti definitivamente e 2/3 in formazione. Le lavorazioni hanno a che fare con detersivi (ecologici/ biologici, ci si dice) che vengono imbottigliati, etichettati ed inscatolati. Nel luogo di lavoro ricorre lo stesso problema già avvertito in sala lavanderia / stiratura: problema di mancanza di aria condizionata. Ma essendo diverse le temperature di lavorazione che non in stireria/lavanderia meno si patisce l’assenza del condizionatore. Una nuova lavorazione è stata iniziata da gennaio 2018; dovrebbe (oggi non c’era nessuno che lavorava) riguardare cavi per valvole termostatiche. Anche qui divisi in tre turni. Come per la lavanderia, due turni sono per detenuti comuni e quello pomeridiano per i “protetti”. La presenza totale (corsi di formazione compresi) è di dieci detenuti. Ricordiamo che le queste attività lavorative escludono le detenute (così come erano escluse dal lavoro all’aperto quando funzionavano le cooperative agricole). Altro aspetto problematico è stato l’incremento del numero di detenuti nell’area dei “protetti” (“sex offenders”, “pentiti”, “collaboratori”, “minacciati”). Sicché è costantemente superata la soglia di capienza prevista originariamente che era di circa 220 detenuti. Altre criticità: le lavorazioni agricole sono cessate; l’area educatori si è ridotta a 3 persone rispetto alla mappatura ministeriale che prevedere 6/7 persone. Ancora: malgrado il nuovo arrivo di personale il numero di nuovi è la metà di quelli che negli ultimi mesi sono andati altrove, hanno chiesto il trasferimento, o sono in situazioni che non li vedono operanti. emerge quindi nuovamente e prepotentemente una chiara carenza di personale. Con questo piccolo segmento di attenzione alla situazione carceraria intendiamo passare le consegne a quanti, nella prossima Consigliatura, se vorranno potranno concretamente aiutare l’evoluzione degli Istituti di pena in Trentino-Alto Adige dando attuazione del deliberato del Consiglio Provinciale e Regionale che vuole l’istituzione del Provveditorato delle Carceri a Trento con competenza sulle carceri di Trento e Bolzano, sottraendo le competenze al (più lontano) Provveditorato di Padova. E con questo implementando le possibilità di sviluppo dell’Autonomia trentina. Fabio Valcanover Cons. Lorenzo Baratter (appongo la sottoscrizione previa conferma di condizione del contenuto della presente comunicazione) Napoli: i temi dei ragazzi detenuti a Nisida “giusto togliere i figli ai boss” di Daniela De Crescenzo Il Mattino, 18 settembre 2018 “Meglio soffrire io che mio figlio”: a sorpresa, interrogati sulla possibilità di allontanare i figli dai boss i ragazzi dell’istituto penale di Nisida si dichiarano in gran maggioranza favorevoli a un provvedimento estremo. Lo ha spiegato Maria Franco, insegnante dei giovani detenuti, in un lungo post del suo blog, Conchigliette, riprendendo un dibattito di cui è stata protagonista sul giornale calabrese Zoomsud intorno alla scelta del Tribunale dei minori di Reggio Calabria di sottrarre i figli agli ‘ndranghetisti nei casi in cui la decisione rappresenti l’extrema ratio. Un’idea rilanciata recentemente dal Csm, il Consiglio superiore della magistratura che ha voluto tenere a Napoli una seduta monotematica dedicata proprio ai giovani a rischio. Dice la professoressa: “Ho portato in classe alcuni commenti a un fatto di cronaca: le intercettazioni che mostravano alcuni bambini e ragazzini al lavoro nel commercio di droga di un clan. Alcuni di questi commenti richiamavano alla necessità di prolungare l’orario scolastico e di promuovere interventi sociali nei quartieri più a rischio. Ho chiesto ai ragazzi e alle ragazze se questi tentativi avrebbero potuto produrre il risultato di sottrarre ad un futuro illegale quei ragazzi e la risposta, unanime, è stata: no. Né più scuola, né più sport, né più teatro, né più verde possono bastare, mi hanno risposto. E allora? - ho chiesto io - L’unica è mandarli lontano da qui, ma da piccoli piccoli”. Piccoli piccoli, prima che la loro vita possa essere rovinata. Piccoli piccoli, cioè in tempo per imparare a muoversi in un mondo diverso da quello dei propri genitori. Un mondo normale. L’insegnante allora ha chiesto ai ragazzi di rispondere per iscritto a tre domande: che cosa pensate della scelta dei magistrati reggini? Con questa scelta, i ragazzi cresceranno meglio? Come reagireste voi se qualcuno volesse allontanarvi dalle vostre famiglie? “Alla prima domanda, tutti hanno risposto che la scelta è giusta - spiega Maria Franco - Risposta confermata dalla seconda, in cui hanno sostenuto che certamente i ragazzi avranno una vita migliore”. Tutto cambia con la terza domanda, più personale. “Molti hanno sostenuto l’allontanamento dai genitori e soprattutto dalla madre è ipotesi da non fare neppure per scherzo, farebbero il diavolo a quattro e non l’accetterebbero mai. Ma qualcuno ha detto che, se i genitori decidessero così, allora se ne andrebbero sereni, convinti che sarebbe la scelta giusta per il loro futuro e qualche altro ha detto che avrebbe certo sofferto molto, ma si sarebbe abituato e avrebbe finito col vivere meglio. E più d’uno, guardandosi non come figlio bensì come padre, ha detto che, con la morte nel cuore, sarebbe disponibile a lasciare andare via suo figlio, proprio per evitare che i suoi errori potessero ricadergli addosso”. “Meglio soffrire io che mio figlio”. A condizione che “lui mi vorrà sempre bene e mai mi odierà”. In aula, quindi, si verifica un’incredibile rovesciamento di fronte. Aggiunge l’insegnante: “Ho non pochi dubbi, che l’allontanamento dalle loro famiglie dei figli di ‘ndranghetisti, mafiosi e camorristi, possa essere una scelta di carattere generale, ovvero non limitata a casi specifichi”. Ma gli allievi sono sul fronte opposto. Uno spiega che lontano da casa “sicuramente avremmo una vita migliore, potremmo cambiare strada e avverare i desideri perché non costretti a seguire le orme dei padri”. E i boss? Rinunciando ai figli fanno una buona scelta perché così assicureranno loro un’esistenza normale. Cambiare restando nel proprio ambiente, sostengono tutti, è praticamente impossibile perché “Se frequenti compagnie sbagliate prima o poi sbagli anche tu”. Non solo. “Se cresci con un padre in carcere porti rancore e alla fine magari fai cose simili alle sue”. Un altro entra nel dettaglio e scrive: “Il dottor Di Bella ha fatto la scelta migliore perché ha regalato una nuova vita a quei ragazzi”. Una nuova vita perché scrive un altro: “Nella nostra o si muore o si va in carcere”. Sì, perché in questo maledetto Paese c’è chi ha diciotto anni e nessun futuro davanti: lo sa, lo scrive, ma nulla cambia. Roma: detenuti per il verde, squadra al lavoro a Villa Pamphili Il Messaggero, 18 settembre 2018 A partire da lunedì mattina e per 15 giorni i detenuti della casa circondariale di Rebibbia sono al lavoro in Villa Doria Pamphilj in affiancamento al Servizio Giardini di Roma Capitale. Saranno impegnati in operazioni di pulizia e decoro di aree verdi e spazi pubblici. Prosegue così il progetto “Mi riscatto per Roma”, partito dopo la sottoscrizione dell’accordo congiunto Roma Capitale, Ministero della Giustizia e Dipartimento Amministrazione Penitenziaria. Lo comunica, in una nota, il Campidoglio. “L’iniziativa - spiega la nota - ha come obiettivo il reinserimento socio-lavorativo attraverso “lavori di pubblica utilità”. I progetti si fondano su attività di “lavoro volontario e gratuito” e intendono promuovere “un percorso di sensibilizzazione al rispetto del bene comune, alla legalità, all’osservanza delle regole, alla convivenza civile”. Napoli: protesta nel carcere di Poggioreale “prezzi dello spaccio interno troppo alti” di Michele M. Ippolito fanpage.it, 18 settembre 2018 A Ferragosto i detenuti avevano protestato perché acquistare generi di prima necessità nello spaccio interno costa molto di più che all’esterno e la direttrice aveva promesso un suo intervento. A settembre la beffa: i prezzi sono stati limati di pochissimi centesimi e, in alcuni casi, sono stati addirittura aumentati. È beffa per i detenuti di Poggioreale, che a cavallo di Ferragosto avevano protestato perché i prezzi dello spaccio interno erano sensibilmente più alti di quelli dei negozi all’esterno della casa circondariale. Per far placare la protesta, la direttrice Maria Luisa Palma aveva promesso che si sarebbe occupata personalmente di far calmierare i prezzi, ma il nuovo listino distribuito negli scorsi giorni ai reclusi contiene non solo l’aumento per alcuni generi alimentari, ma anche ribassi di pochissimi centesimi per il resto. Basti pensare che un chilo di zucchero non costa più 93 centesimi come prima, ma “solo” 92: logico che i detenuti si sentano presi in giro. “Alcuni detenuti ci hanno manifestato il loro profondo malessere per quanto sta succedendo a Poggioreale - spiega Carmela Esposito dell’associazione Gioco di Squadra, uno degli enti del terzo settore che opera all’interno della struttura carceraria per supportare i reclusi nei loro programmi di inserimento. - A seguito della protesta pacifica perpetrata dalla maggior parte dei loro tra il 14 ed il 15 agosto, gli stessi rifiutavano il vitto e non hanno fatto la spesa, in quanto i prodotti venduti all’interno della casa circondariale sono molto cari. C’è da considerare inoltre che non tutti i detenuti hanno possibilità economiche per acquistare i prodotti di prima necessità e che anche un solo euro per loro è importantissimo. I detenuti ci hanno contattato e ci hanno chiesto di essere la loro voce per provare a risolvere questo problema”. Solo lo scorso 20 agosto il garante regionale per i detenuti Samuele Ciambriello si era recato in visita al padiglione San Paolo del carcere di Poggioreale, per verificare cosa stesse succedendo, visto che, oltre a non ritirare il cibo, alcuni detenuti avevano anche smesso di prendere le loro medicine per protestare contro le inadempienze del carcere. Palermo: nuova vita oltre le sbarre, i mestieri del teatro al carcere Pagliarelli ilsicilia.it, 18 settembre 2018 Il sogno di una nuova vita oltre le sbarre, all’insegna della cultura e della bellezza. Si chiama “Per Aspera ad Astra - come riconfigurare il carcere attraverso la bellezza e la cultura”, il progetto che in Sicilia vede in prima linea l’Associazione Baccanica - Compagnia Evasioni, già da anni attiva all’interno della Casa Circondariale Pagliarelli Lo Russo, che da oggi (17 settembre) proporrà per la prima volta all’interno dell’Istituto Penitenziario di Palermo corsi di formazione professionale per i detenuti sui mestieri del teatro. Scenografi, costumisti, drammaturghi, registi, un vero e proprio focus sui mestieri dell’arte con lezioni tenute da professionisti del settore per imparare mestieri creativi che possano facilitare il reinserimento nel mondo esterno. L’Associazione Baccanica, reduce dall’allestimento all’interno del carcere dello spettacolo “La Ballata dei respiri”, con la regia di Daniela Mangiacavallo, che dell’associazione è anche presidente, è stata infatti selezionata per un progetto pilota che coinvolge sei istituti penitenziari in tutta Italia. Obiettivo è formare nuove figure professionali, divulgare l’importanza dell’esperienza teatrale all’interno degli istituti di pena, creare strumenti per uscire dalla separazione di cui spesso il mondo delle carceri soffre rispetto alla società civile. Il progetto è curato da Carte Blanche (Compagnia della Fortezza), che ne è ideatrice e capofila, ed è finanziato dalla Fondazione Acri (Associazione di Fondazioni e di Casse di risparmio Spa). La compagnia della Fortezza, fondata dal regista Armando Punzo all’interno del carcere di Volterra, in trent’anni di esperienza, ha sperimentato un modello vincente per la rieducazione e il reinserimento dei detenuti: concentrandosi esclusivamente sul contenuto artistico, liberandolo dai condizionamenti finalistici di tipo sociale, riesce a raggiungere risultati entusiasmanti nell’esperienza creativa e teatrale che poi indirettamente producono ricadute straordinarie anche sul piano sociale. Daniela Mangiacavallo, che del regista campano è stretta collaboratrice da dieci anni, ha importato il modello Punzo all’interno del carcere Pagliarelli. Ènata così la Compagnia teatrale Evasioni, tutta composta da attori-detenuti, che hanno già debuttato oltre le sbarre al teatro Biondo, ed è ora pronta a trasformarsi in una vera e propria macchina da spettacolo con costumisti, scenografi, drammaturghi e registi tutti formatisi dentro l’istituto penitenziario. Proprio come accade all’interno del carcere di Volterra. Oltre a Baccanica gli altri istituti penitenziari coinvolti, poiché al loro interno esistono realtà teatrali significative, sono: Casa Circondariale di Modena (Teatro dei Venti), Casa di Reclusione di Milano Opera (Opera liquida Teatro), Casa Circondariale di La Spezia (Compagnia degli scarti), Casa Circondariale di Torino (teatro e società), Casa di Reclusione di Volterra (Compagnia della Fortezza). Lecce: “La strada”, detenuti in scena nella Casa circondariale di Borgo San Nicola leccesette.it, 18 settembre 2018 Venerdì 28 settembre nella Casa Circondariale “Borgo San Nicola” saranno sul palco con i detenuti anche il contrabbassista Marco Bardoscia e i danzatori Charlotte Virgile, Simone Wolant e Giorgio Mogavero. Prenotazione (obbligatoria) entro il 18 settembre. Venerdì 28 settembre la Casa circondariale “Borgo San Nicola” di Lecce ospiterà lo spettacolo conclusivo del laboratorio “La strada” a cura di Koreoproject con la direzione artistica e la regia di Giorgia Maddamma e l’organizzazione di Sara Bizzoca. Sul palco undici detenuti che in questi mesi hanno seguito quattro laboratori tematici con Marco Bardoscia (musica), Charlotte Virgile (Movimento Teatrale), Simon Wolant(Danza Urbana) - in scena insieme a loro e con il danzatore Giorgio Mogavero - e Sara Bizzoca (ArtiTerapie), durante i quali si è cercato di dar loro un nuovo vocabolario per descrivere il proprio universo interiore. La strada è una performance che diventa “un viaggio” anche simbolico, attraverso se stessi e il mondo che ci circonda, nel tentativo di trovare un senso alla propria esistenza e alla vita. Per poter assistere allo spettacolo (ore 15 - ingresso libero) è obbligatoria la prenotazione entro martedì 18 settembre inviando una mail a koreoproject@gmail.com con Nome Cognome e un documento di identità. “La strada e i percorsi che si presentano dinnanzi a noi sono costruiti sulla base delle scelte che compiamo e a seconda dei momenti e dei luoghi in cui siamo vissuti, viviamo e vivremo”, sottolinea Giorgia Maddamma. “Durante le prove abbiamo avuto modo di parlare a lungo con i detenuti e abbiamo ricercato e scoperto un bisogno di raccontare se stessi e le proprie esperienze. In questa nuova proposta di laboratorio-spettacolo vogliamo continuare e approfondire la ricerca del sé, provocando, scavando, solleticando la memoria, scorticando le cortecce e smantellando le difese esteriori per raggiungere la verità di ciò che loro vorranno esprimere nel contenitore magico della scatola teatrale”. Sulla nostra pelle di Giampaolo Cassitta sardegnablogger.it, 18 settembre 2018 Avrei voluto non scrivere più su Stefano Cucchi, avrei dovuto lasciar perdere, frapporre tra me e quel fatto il silenzio che merita. Poi ho visto il film “Sulla mia pelle” e son ritornato a quei giorni, a quell’anno assurdo vissuto dalla parte della burocrazia. Perché di questo si tratta: tutto ciò che si vede nel film è vero, terribilmente vero, assurdamente vero e giuridicamente inappellabile. Il problema non è condannare i carabinieri (o comunque i veri responsabili. C’è un processo ancora in corso) non è condannare chi ha pestato malamente Stefano Cucchi, fatto di per sé ignobile ed esecrabile e non è condannare Stefano per il reato che ha commesso. Il vero problema è il “dopo” e non il “prima” e il film di Alessio Cremonini prova a spiattellare con crudeltà quello che è successo a seguito del pestaggio: un misto di omertà e di sana burocrazia. Stefano ha paura e non parla, non dice nulla davanti al giudice e lui, il magistrato, sorvola con troppa facilità davanti a quella faccia che raccontava qualcosa di orribile. Non lo fa il padre presente a quel processo perché forse ha paura, vergogna, non comprende i tempi e luoghi della giustizia. Non lo fa l’avvocato difensore che si preoccupa, soprattutto, di far scarcerare subito Stefano Cucchi e nessuno ha niente da ridire dentro quell’aula “vuota e grigia”, senza neppure i rumori di fondo. Il film prova a raccontarci quei silenzi complici, quegli sguardi fugaci che tutti, ma proprio tutti, abbiamo utilizzato e continuiamo ad usare davanti alla quotidianità. Se partiamo dalla semplicità del primo gesto tutto nasce da un qualcosa di davvero banale: due carabinieri si insospettiscono che due ragazzi siano dentro un’auto a parlottare, di notte. Chiedono i documenti, eseguono una perquisizione sommaria e trovano addosso a Stefano Cucchi delle dosi di hashish. Non è importante il giudizio morale o penale. Non lo è in questa fase: Stefano viene accompagnato in caserma per accertamenti. Viene effettuata una perquisizione a casa sua (non risulta, almeno dal film, che a disporla sia stato un giudice e questo è strano, ma non conosco le carte e, in questo caso, analizzo solo il lungometraggio). Tutto è eseguito di “routine”, perché questi sono i modi, perché così sono i controlli, perché questo è il gioco delle parti. Sino a questo momento ci troviamo davanti ad un’operazione “burocratica”, senza nessuna anima, svolta con scrupolo e attenzione da parte delle forze dell’ordine. Quello che accade dopo è quello che ci interessa. Non tanto il presunto pestaggio, non solo quello, ma tutti quegli occhi non vedono, che cercano appigli giuridici, formalità, pezzi di carta giustificativi. Ognuno utilizza Stefano Cucchi come un procedimento squisitamente burocratico. Tutti verificano che per quella faccia da Cristo in croce ci sia il certificato medico, ci sia qualcuno che certifichi, ci sia qualcuno che sollevi tutti da un presunto problema. Ed è giusto. Paradossale ma giusto. Mi son rivisto quando i detenuti arrivano nelle matricole dei penitenziari. Gli vengono richieste molte cose, loro ne pretendono altre e le risposte sono sempre, semplici, chiare, burocraticamente ineccepibili: “Non è di mia competenza”. Così come l’odissea dei genitori che non riescono a vedere il proprio figlio perché finiscono negli ingranaggi delle varie autorizzazioni, dei pezzi di carta che mancano e che vietano l’accesso. Tutto vero e tutto lecito. Se non ci fosse stata la terribile parentesi del “pestaggio” questa storia sarebbe identica a migliaia di storie che si consumano quotidianamente nelle carceri italiane e che vedono come attori i detenuti, i familiari, la polizia penitenziaria, gli educatori. Ognuno fa la sua parte e quella parte è grigia, ovattata dalla burocrazia. Quella parte è il ruolo che ognuno svolge all’interno di quella orribile commedia che è la limitazione della libertà. In altri tempi (parlo dei primi anni ottanta) c’era chi diceva al condannato: “tu fai il detenuto”, frase che non ho mai capito e continuo a non comprendere, perché parto sempre dal presupposto che è importante fare, meglio “essere uomo”: detenuto, malato, studente è solo una delle condizioni nelle quali ci possiamo momentaneamente trovare. Stefano Cucchi ha però provato a fare il “detenuto”. Lo ha fatto in maniera pasticciata, sbagliata, autolesionista. Aveva paura, voglia di finirla con quella storia, non voleva affrontare con i familiari la ricaduta nella droga, non voleva raccontare di essere stato pestato. Voleva solo “sopravvivere” a quei momenti. Nessuno - ed è questo che fa male - ha compreso quel gesto di volersi aggrappare alla vita in maniera scomposta. Nessuno aveva il tempo di occuparsene. Lo doveva fare lo Stato. È stato detto e urlato più volte e lo Stato con fatica, con passione, con molta difficoltà riesce a farlo. Poi subentra la fretta, le varie richieste che si sovrappongono, molti detenuti che chiedono e Stefano Cucchi scompare, diventa un fascicolo, che si risolva i suoi problemi da solo. Se non vuoi mangiare basta che firmi, che ci sia una tua dichiarazione. È così che accade tutti i giorni, in tutti i penitenziari italiani. Quello che mi ha colpito è la mancanza di operatori del trattamento. Stefano, in carcere, ha probabilmente avuto un contatto con un educatore, con uno psicologo. Sono cose routinarie, burocratiche. Non conosco troppo bene la storia e non conosco cosa si davvero successo in quegli strani sette giorni raccontati magistralmente dentro un film senza nessun colore, senza nessun sussulto. Tutto è stato eseguito sulla pelle: su quella di Stefano Cucchi e sulla nostra. Non ha perso solo il sistema protettivo o quello penitenziario. Ha perso lo Stato nel suo insieme, la visione di Stato che oggi abbiamo: minimalista, a costo zero, privatistica. Per ascoltare il rumore delle persone, per sentire le necessità anche di chi è presunto colpevole, è necessario l’ascolto; occorre mettere in moto una serie di “attenzioni” che hanno un costo: si chiama costo sociale e andrebbe inserito massicciamente nel bilancio di questo paese sempre più portato ad escludere, emarginare, non comprendere le storie degli uomini. Sulla mia pelle è un film adatto al nostro presente: alle nostre generali disattenzioni che vanno dalla sanità, alla scuola, ai trasporti, all’inclusione dei migranti. Tutto che cammina sul filo del lecito, del burocraticamente lecito, tutto che viaggia con una pezza giustificativa. Tutti che ci scostiamo davanti al problema che, a volte è troppo evidente. Ma non ci riguarda, finché non tocca la nostra pelle. Ecco: questo film, questa storia maledetta, questo gioco di burocrazia fredda e cinica ci insegna che quando si trattano gli uomini e le loro storie stiamo parlando di pelle e di dignità. Non dimentichiamolo. Anche se non è semplice. Migranti. Rimpatri: nuovi centri in tre anni senza gara di Marco Ludovico Il Sole 24 Ore, 18 settembre 2018 Per tre anni i nuovi Cpr (centri per i rimpatri) saranno costruiti con le cosiddette “procedure negoziate” senza fare ricorso alle gare europee. L’accelerazione decisa dal ministro dell’Interno, Matteo Salvini, è una delle ultime novità del decreto legge sull’immigrazione. Insieme a quello sulla sicurezza, i provvedimenti dovrebbero essere approvati al prossimo Consiglio dei ministri. Resta da risolvere un’incognita non da poco: le obiezioni giuridiche, anche di natura costituzionale, sull’abolizione della protezione umanitaria e la revoca della domanda d’asilo se si commettono una serie di reati. Probabile che anche il Quirinale faccia sentire la sua voce: proprio qualche giorno fa Sergio Mattarella ha incontrato l’alto commissario delle Nazioni Unite per i rifugiati, Filippo Grandi. Si vedrà a palazzo Chigi la valutazione del presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, e del titolare della Giustizia, Alfonso Bonfede. Ma il Viminale e Salvini andranno avanti fino in fondo se possibile. I cinque permessi - Al posto della protezione umanitaria entrano cinque tipi di “permessi speciali”: per eccezionali calamità naturali, gravi condizioni di salute, meriti al valor civile, sfruttamento lavorativo e violenza di genere. La bozza di decreto poi prevede il gratuito patrocinio in caso di inammissibilità dei ricorsi in Cassazione - migliaia di fascicoli - contro i dinieghi delle domande d’asilo da parte delle commissioni. Nel decreto sicurezza il daspo, divieto di accedere alle manifestazioni sportive, si estende a fiere, mercati e presìdi sanitari e coinvolge anche chi commette reati di terrorismo. Il Taser sarà utilizzabile anche dalla polizia locale nelle città oltre i 100mila abitanti, i prefetti potranno nominare commissari ad acta nei Comuni infiltrati da illegalità dove non è possibile fare ricorso alla scioglimento. La questione immigrazione resta comunque all’ordine del giorno nonostante gli sbarchi azzerati: 20.777 dall’inizio dell’anno di cui 12.322 dalla Libia, siamo ormai a -90% rispetto all’anno scorso. Oggi i dirigenti della Polizia di Stato incontrano al Viminale i colleghi tunisini per provare a rivedere le intese già in atto: insufficienti per l’Italia visto che proprio i tunisini sono la nazionalità in testa negli sbarchi con 4.321 persone. E, rende noto il Viminale, 15 tunisini in fase di espulsione su 17 non sono stati riaccompagnati nei Cpr per carenza di posti liberi. Un motivo, quest’ultimo, più che fondamentale secondo l’Interno per giustificare la costruzione di nuovi centri di espulsione con procedure negoziate. Salvini VS Bruxelles - Nello scenario internazionale invece è ancora scontro tra Salvini e Bruxelles. “Siamo tutti preoccupati” per l’affermazione della Lega in Italia dice il vicepresidente della Commissione, lo slovacco Maros Sefcovic. “L’ennesimo attacco dell’Europa all’Italia, alla Lega, al governo. Gli euroburocrati tacciano” replica il ministro dell’Interno. Il presidente di turno dell’Ue, Sebastian Kurz, lancia a Parigi nell’incontro con Emmanuel Macron la proposta di un summit euro-africano. Mentre da Bruxelles arrivano già voci di “nessun svolta” al vertice di giovedì a Salisburgo. Il vertice è informale, la previsione quasi scontata. Migrare, declinazione di coloniale di Marc Tibaldi Il Manifesto, 18 settembre 2018 Ha organizzato rivolte e reti di solidarietà di rifugiati in Marocco e in Europa, ora Emmanuel Mbolela spiega con il suo libro perché si fugge e da cosa. “Qui in Italia tutte le contraddizioni”. “La retorica dell’aiutiamoli a casa loro, sostenuta da partiti e movimenti di varia estrazione, non è valida, è falsa e ipocrita, non solo perché il pianeta Terra è la casa di tutti, ma anche perché le strade che oggi gli uomini e le donne migranti intraprendono per venire in Europa non sono gli africani che le hanno create, ma sono le strade che gli europei hanno creato per andare in Africa”, ci dice Emmanuel Mbolela, fuggito nella Repubblica Democratica del Congo nel 2002 perché militante dell’opposizione a Kabila, prima di ottenere asilo politico in Olanda, nel 2008. Il suo viaggio è durato sei anni durante i quali ha affrontato - come migliaia di altri africani in questi anni - difficoltà e sofferenze: racket, agguati nel deserto del Sahara, lavoro nero, per arrivare in Marocco, dove è rimasto bloccato per quattro anni. Lì con altri compagni ha fondato l’associazione dei rifugiati congolesi in Marocco, rifiutando di essere vittime, organizzando lotte e reti di solidarietà. In Europa ha co-fondato l’associazione Afrique-Europe Interact, con attivisti pro-rifugiati. E poi ha scritto il libro Rifugiato. Un’odissea africana, tradotto ora in Italia da Agenzia X (pag.190, 15 euro), che in questi giorni sta presentando in Italia. Dopo il Festival antirazzista in memoria di Abba a Milano, venerdì è stato a Roma allo Spin Time Labs, poi a Brescia alla Casa del Quartiere. E quindi di nuovo a Milano al Csoa Cox in via Conchetta 18. Fin dalle prime risposte è evidente che Mbolela non vuole essere biografico. Le sue dichiarazioni sono frutto del sapere delle lotte. Porta il discorso sempre sul piano politico, non vuole atteggiarsi a eroe o leader, ma dare un contributo politico a questioni politiche. Quando sei partito avevi idea di cosa avresti dovuto affrontare? Avevo partecipato alle lotte contro la dittatura e a causa della repressione ho dovuto decidere di partire senza preparazione. Prima in Congo Brazaville, e poi attraverso quattro Paesi e dopo migliaia di chilometri ho raggiunto il Mali, per affrontare la durissima traversata del deserto e arrivare in Algeria. Dopo due anni di viaggio riuscii a raggiungere il Marocco. Ma il calvario non era finito, non avevamo nessun diritto, non avevamo la possibilità di lavorare, la repressione era feroce, con la possibilità di essere respinti di nuovo in Algeria. Vi siete rifiutati di essere vittime passive. I rifugiati non sono solo vittime, si sanno organizzare. Ci sono due cose importanti, che ho cercato di far emergere nel libro: la solidarietà pragmatica e diretta e l’auto-organizzazione, la lotta. I migranti si aiutano e si consigliano, non pensano solo a sé stessi. Abbiamo organizzato le prime dimostrazioni davanti all’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati, l’Unhcr, rivendicando dignità e diritti. Abbiamo iniziato a porre richieste al di là del singolo aiuto e della carità per la sopravvivenza. Abbiamo posto questioni politiche. Quattro anni di lotte. Di sofferenze e di lotte. Si emigra per necessità, ma si emigra anche per desiderio? Sì, è vero, da che mondo è mondo le migrazioni sono sempre avvenute e sicuramente nei giovani che partono c’è una compresenza di motivazioni. Con la planetarizzazione delle comunicazioni e dell’informazione, c’è il desiderio di conoscere, di viaggiare, di avere la possibilità di essere più liberi. D’altro canto, vorrei sottolineare che per molti non si dovrebbe parlare di migrazione economica, ma di persecuzione economica, perché la povertà e la mancanza di risorse da cui si fugge sono l’eredità del colonialismo e dello sfruttamento odierno delle multinazionali. Uno dei discorsi che si ascoltano in Europa è che con la conquista dell’indipendenza la colonizzazione nei Paesi africani sia stata annullata. Purtroppo non è così. La colonizzazione è continuata da parte delle multinazionali e con il ricatto - a livello strutturale ed economico - delle politiche della Banca mondiale e del Fondo monetario internazionale. Qual è la tua opinione sull’esternalizzazione delle frontiere da parte dell’Europa? Esternalizzare le frontiere è immorale e illusorio, così com’è illusorio cercare di fermare la migrazione inviando nei Paesi africani le immagini dei morti nel Mediterraneo. La politica di esternalizzazione voluta dall’Unione europea apre a trattative con Paesi terzi senza tenere in considerazione quale sia lo stato dei diritti umani in questi luoghi o come vengano gestite dai governi locali le questioni migratorie. L’unico elemento che viene preso in considerazione è quello dell’interesse geopolitico, nel senso che vengono aperte trattative con Paesi “chiave” alla luce della loro vicinanza con l’Europa. Se da sempre si fa un utilizzo strumentale dei fondi allo sviluppo, adesso si è proprio messo nero su bianco che tali aiuti sono incentivi o penalità per chi collabora o meno nelle procedure di espulsione e rimpatrio. Gli aiuti allo sviluppo sono così diventati uno strumento di attuazione di politiche di controllo nei Paesi di origine e transito dei flussi migratori. In pratica il traffico di uomini e soldi di cui sono accusati i passeurs viene gestito dall’Unione europea e dagli Stati coinvolti. Si parla dei trafficanti di uomini come del peggior esempio della specie umana, ma quando le negoziazioni vengono fatte a livello istituzionale, come si è fatto con la Turchia, Marocco, Algeria, così come ora con le milizie libiche, lo stesso traffico di uomini assume un carattere non moralmente denunciabile. Sostieni che il libro sia uno strumento di lotta, perché? Ho fatto più di 300 presentazioni dell’edizione tedesca in Germania, Svizzera e Austria. Poi c’è stata l’edizione francese e ora quella italiana. Bisogna capire realmente perché i migranti si muovono dai propri Paesi d’origine e soprattutto la realtà di quei Paesi, senza accontentarsi di spiegazioni generiche tipo “vengono dalla guerra, vengono dalla miseria”. Sono spiegazioni macro-geografiche che non fanno conoscere i reali responsabili di questa situazione. La vendita del libro serve per dare informazioni reali sulla questione, per creare relazioni e collaborazioni, e per sostenere le associazioni di rifugiati subsahariani in Marocco, in particolare un centro per donne migranti a Rabat. Una parte interessante del libro è dedicato a come le donne vivono violenza e sfruttamento maggiori rispetto agli uomini, ma anche come siano promotrici di iniziative di resistenza e di protesta. Il ruolo della donna in Africa sta cambiando, anche nella mia esperienza di lotta in Marocco senza il coraggio delle donne non saremmo stati così incisivi. Cosa ti aspetti dalle presentazioni italiane? L’Italia è un Paese importante nella questione delle migrazioni, è una porta d’ingresso, è il Paese in cui si assiste agli annegamenti, si lascia morire la gente in mare nonostante si abbiano tutti i mezzi per salvarla, e quindi è importante questa traduzione. Oggi le strade che gli europei hanno creato devono essere libere e sicure per i migranti che vogliano farle nel senso inverso. Quando gli europei sono arrivati in Africa non sono stati mandati via, anzi, si sono impossessati delle ricchezze e delle materie prime (e i benefici in maggior parte non rimangono in Africa), cosa che le multinazionali continuano a fare, destabilizzando politicamente quei Paesi per avere più facilità nei loro intenti. E le armi che nei Paesi africani vengono usate per le guerre non sono prodotte di certo in Africa, vengono dall’Europa. Se dobbiamo cercare soluzioni ai problemi del pianeta dobbiamo trovarle assieme, rendendo possibile la libertà di migrare degli esseri umani e ragionando sull’uso delle materie prime. “Basta bombe italiane ai sauditi”. Ma fermare le vendite è un rebus di Giampaolo Cadalanu La Repubblica, 18 settembre 2018 Con la guerra l’export di armi è cresciuto a dismisura. Le Ong protestano, i governi discutono. Ma a Roma è rimpallo tra Difesa ed Esteri. Davanti ai massacri dello Yemen e allo strazio dei civili, nessuno può nascondere le sue responsabilità. Amnesty International punta il dito contro gli Stati produttori di armamenti, che con questa guerra hanno moltiplicato a dismisura i loro affari: “Chi vende armi alla coalizione a guida saudita rischia di essere ricordato come complice di crimini di guerra”, denuncia Steve Cockburn, vicedirettore per gli Affari globali. Nel mirino c’è il governo spagnolo, che il 4 settembre aveva annunciato di non voler più vendere a Riad le bombe a guida laser e il 12 settembre ha fatto una precipitosa marcia indietro, con tutta probabilità legata all’irritazione dell’Arabia Saudita, che avrebbe cancellato anche l’acquisto di cinque corvette per due miliardi di euro. Madrid deciderà domani, ma il “pentimento” Usa del 2016, in un contesto simile, fa pensare che le pressioni del Regno siano pesanti. Alla potenza economica di Riad ha resistito, solo in parte, la Germania, che ha bloccato però solo le nuove licenze di export verso Arabia, Emirati e Turchia. I governi hanno una foglia di fico ideale nella non lineare situazione yemenita: il Consiglio Onu per i diritti umani l’ha definita “un conflitto armato non internazionale”, pur ricordando che il diritto umanitario è comunque cogente. E la risoluzione 2216 del Consiglio di Sicurezza ha dato via libera alla coalizione che doveva sostenere il governo in carica. Ma nonostante in Yemen sia impossibile l’accesso ai giornalisti, in Europa il dibattito è aperto. Ieri Elisabetta Trenta ha scritto su Facebook che aveva chiesto al collega Enzo Moavero Milanesi una verifica di legalità sulla fornitura di bombe italiane RWM all’Arabia Saudita. La titolare della Difesa ha sottolineato che “finora, erroneamente, si era attribuita la paternità della questione al ministero della Difesa, mentre la competenza è del ministero degli Affari Esteri (Unità per le autorizzazioni dei materiali di armamento)”. In realtà l’Autorità per gli armamenti, ospitata al ministero degli Esteri e diretta da un diplomatico, è un ente amministrativo, con personale di altri dicasteri. Come tale si conforma alle linee di indirizzo politico della Farnesina ma anche della Difesa, da cui vengono valutazioni di merito per le diverse autorizzazioni. Il problema è che queste direttive politiche, oltre che su post nei social network, devono passare per procedure formali, e per ora non è successo. Durante la scorsa legislatura le mozioni dei Cinque stelle che chiedevano l’embargo totale sono state respinte. Il governo potrebbe fermare le consegne già autorizzate, ma aprendo la strada a complicati contenziosi giuridici. E a oggi non c’è traccia del fondo previsto per la riconversione dei lavoratori impegnati nel settore. Le vendite italiane, come per gli altri Paesi esportatori, erano esplose con gli scontri in Yemen: secondo i dati del Sipri da 31 milioni di dollari nel periodo 2008-2012 erano arrivate a 226 milioni fra il 2013 e il 2017. Nel solo 2016 l’Autorità per gli armamenti ha autorizzato vendite (da diluire in più anni) per 427 milioni di euro. Ora però le nuove licenze sono crollate e non arrivano a otto milioni per i primi sei mesi del 2018: in questa cifra non sono previste nuove autorizzazioni di export per le bombe della RWM. Continuare a inviare armi all’Arabia Saudita? La Spagna decide di Riccardo Noury Corriere della Sera, 18 settembre 2018 Mercoledì 19 la Spagna deciderà se stare dalla parte dei complici di crimini di guerra nello Yemen o sospendere i trasferimenti di armi e di forniture militari all’Arabia Saudita. Il 4 settembre, dopo l’indignazione mondiale scatenata dal bombardamento di uno scuola-bus che aveva ucciso 40 bambini yemeniti, il governo di Madrid aveva annunciato che avrebbe cancellato la vendita di 400 bombe a guida laser all’Arabia Saudita. I promotori della campagna per fermare l’invio di armi all’esercito saudita non avevano fatto neanche in tempo a gioire che, il 12 settembre le autorità spagnole avevano cambiato idea, citando la necessità di “onorare un contratto”. Alla fine, si è deciso che tutti gli accordi con l’Arabia Saudita sottoscritti dal precedente governo sarebbero stati riesaminati fino all’annuncio di una decisione definitiva, per l’appunto il 19 settembre. Se Madrid deciderà di continuare a vendere armi alla coalizione guidata dall’Arabia Saudita che da tre anni e mezzo bombarda lo Yemen, vorrà dire che il governo spagnolo avrà preferito preoccuparsi dei suoi interessi finanziari che della protezione delle vite dei civili yemeniti. Tra il 2015 e il 2017 la Spagna ha esportato armi all’Arabia Saudita per un valore di 932 milioni di euro e ha autorizzato licenze alla vendita per altri 1235 milioni. Armi di precisione come quelle oggetto dell’ultimo contratto sono state usate in Yemen con effetti devastanti. Hanno distrutto alberghi, ospedali, pozzi d’acqua, edifici residenziali, fabbriche, oltre al già citato scuola-bus, provocando un numero agghiacciante di vittime di civili e di distruzioni di infrastrutture civili. La Spagna ha ratificato il Trattato sul commercio di armi, che vieta i trasferimenti tra stati di armi, munizioni e altre forniture quando è noto potrebbero essere usate per crimini di guerra o laddove vi sia un rischio eccessivo che possano contribuire a gravi violazioni del diritto internazionale umanitario o del diritto internazionale dei diritti umani. La stessa legislazione spagnola sulle armi proibisce tali trasferimenti quando vi sia il ragionevole sospetto che potranno essere usati per compiere violazioni dei diritti umani. Ai sensi della Convenzione di Ginevra, la Spagna ha inoltre l’obbligo di rispettare e far rispettare il diritto internazionale umanitario, anche astenendosi dalla fornitura di armi usate per violare la Convenzione. Molti stati, continuano a fornire armi alla coalizione a guida saudita nonostante tre anni e mezzo di conflitto devastante. Nelle ultime settimane, tuttavia, le pressioni sui principali fornitori stanno aumentando. L’11 settembre il parlamento della Gran Bretagna ha svolto un dibattito d’emergenza, nel corso del quale il governo di Londra ha continuato a difendere i suoi trasferimenti di armi. Un sondaggio pubblicato lo stesso giorno ha rivelato che solo il 13 per cento della popolazione britannica è d’accordo con la vendita di armi all’Arabia Saudita. Il 12 settembre il Congresso Usa ha chiamato l’esecutivo a dire se, a suo avviso, l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti stiano prendendo misure sufficienti per proteggere la popolazione civile yemenita. L’amministrazione Trump ha dichiarato che entrambi i paesi “stanno assumendo azioni dimostrabili per ridurre il rischio di danneggiare civili e infrastrutture civili”, dando dunque luce verde al proseguimento del sostegno statunitense. Ci sono però segnali incoraggianti che le cose stanno cambiando. Nell’ultimo anno molti paesi - tra cui Belgio, Germania, Grecia e Norvegia - hanno risposto alla pressione popolare sospendendo parzialmente o totalmente i trasferimenti di armi all’Arabia Saudita, agli Emirati Arabi Uniti e agli altri stati membri della coalizione. Esposti sono stati presentati nel Regno Unito, in Francia e in Italia per costringere i rispettivi governi a rispettare i loro obblighi giuridici e a sospendere la fornitura di armi da usare in Yemen. In questi tre anni, la coalizione a guida saudita ha utilizzato armi fornite principalmente dall’Occidente e dai maggiori produttori di armamenti. Tra di essi anche l’Italia, che ha consentito l’invio all’Arabia Saudita e ai propri alleati di bombe ed altri armamenti in quantità mai registrate prima, con un livello record di autorizzazioni per centinaia di milioni di euro. A più di tre anni dall’inizio del conflitto, Amnesty International Italia, insieme ad altre associazioni, continua a chiedere al Parlamento di promuovere un embargo sulle armi verso l’Arabia Saudita e i suoi alleati in considerazione del coinvolgimento nelle gravi violazioni del diritto umanitario in Yemen accertate dalle autorità competenti delle Nazioni Unite. Chiede inoltre al governo di farsi promotore di un’iniziativa multilaterale per promuovere la fine del conflitto e il processo di pace in Yemen. Libano. “Trump è un illuso, non rinunceremo al diritto al ritorno” di Michele Giorgio Il Manifesto, 18 settembre 2018 I profughi palestinesi nel Paese dei cedri non si arrendono agli attacchi di Trump e Netanyahu all’Unrwa e al diritto al ritorno. Il docente Sari Hanafi dell’AUB: “Gli Usa non riusciranno ad eliminare con un colpo di spugna il diritto al ritorno e a liquidare la questione palestinese”. “Sidone, Sidone, Tiro, Tiro”. Samir Abu Kias, 28 anni, si guadagna da vivere esortando a gran voce i viaggiatori a salire a bordo dei minibus diretti alle due città meridionali libanesi. Gli autisti ripagano il suo impegno con qualche migliaio di lire libanesi. Lui arrotonda preparando caffè per i passeggeri in attesa della partenza. Tutto il giorno Samir, profugo palestinese, lo passa in quell’inferno di gas di scarico di auto e bus e di clacson incessanti che è lo svincolo di Cola, a sud di Beirut. “Quando va bene riesco a portare a casa 20mila lire (circa 13 dollari). Non sono molti ma almeno riusciamo a mangiare” ci spiega. Poco ma già è qualcosa in Libano, paese che non permette ai palestinesi di svolgere gran parte delle attività lavorative. Cola è vicino al campo di Shatila e fino a qualche anno fa era un mercato delle braccia a basso costo solo per i palestinesi. “Oggi ci sono anche i profughi siriani e i palestinesi che prima erano in Siria, anche loro hanno bisogno di lavorare e mangiare”, spiega Samir. Shatila, poco più di un chilometro quadrato, che ha accolto centinaia di famiglie giunte dalla Siria, è sul punto di esplodere. I servizi sanitari e scolastici dell’Unrwa, l’agenzia dell’Unrwa che assiste i rifugiati palestinesi, già insufficienti non bastano a rispondere ai bisogni di profughi vecchi e nuovi. I recenti tagli decisi dagli Stati uniti di oltre 300 milioni di dollari destinati all’Unrwa, che assiste oltre cinque milioni di palestinesi nei Territori occupati, in Libano, Siria e Giordania, si stanno rivelando catastrofici. Diversi paesi sono intervenuti aumentando le donazioni ma il deficit dell’Unrwa resta ampio: 270 milioni di dollari. L’agenzia dell’Onu peraltro garantisce molte migliaia di posti di lavoro che ora rischiano di perdersi. I più esposti, perché i più poveri, sono i profughi palestinesi a Gaza e in Libano. E ora Donald Trump, appoggiato da Israele, punta alla chiusura dell’Unrwa in modo da imporre a Libano, Siria e Giordania di assorbire milioni di profughi palestinesi e mettere fine al loro “diritto al ritorno” nella terra d’origine sancito dalla risoluzione 194 dell’Onu. I nonni di Samir vivevano di agricoltura in un piccolo centro non lontano da Tamra, in Galilea. Furono costretti a lasciarlo come molte migliaia di palestinesi di quella zona sotto l’urto degli attacchi delle forze militari ebraiche prima e durante le fasi che portarono alla nascita di Israele nel 1948. “Delle volte provo ad immaginare com’è la mia terra, la Palestina, e me la vedo bellissima davanti agli occhi. Un giorno riuscirò a tornarci”, dice Samir ribadendo quello che dicono un po’ tutti i rifugiati palestinesi, incuranti delle decisioni di Trump e decisi a resistere malgrado i colpi inferti dagli Usa all’Unrwa. Per Trump e il premier israeliano Netanyahu, che come tutti i suoi predecessori nega categoricamente il diritto al ritorno ai palestinesi, è proprio l’Unrwa la “responsabile”, perché con la sua esistenza e il suo lavoro non farebbe altro che “perpetuare il conflitto” israelo-palestinese. “Trump punta molto più alto della distruzione dell’Unrwa, punta a liquidare la stessa questione palestinese” diceva ieri al manifesto Sari Hanafi, docente del Dipartimento di sociologia e antropologia dell’Università americana di Beirut ed egli stesso un profugo cresciuto nel campo di Yarmouk (Damasco) prima della formazione universitaria in Francia, “ma è destinato a fallire perché con la sua politica ha suscitato la reazione contraria di paesi occidentali e arabi che ora si dicono disposti a coprire in buona parte il deficit dell’Unrwa”. “L’aggressività di Trump contro i palestinesi - aggiunge - è riuscita a scuotere persino l’Autorità Nazionale di Abu Mazen spingendola ad adottare posizioni e un linguaggio che di solito non usa”. E comunque, conclude Hanafi, “palestinesi e arabi non accetteranno imposizioni che vanno oltre la politica e creano problemi sociali ed economici di eccezionale importanza”. Il ministro degli esteri libanese Jebran Bassil qualche giorno fa ha respinto con forza il disegno di Stati Uniti e Israele per insediare i profughi palestinesi negli Stati dove ora sono ospitati. “Anche se il mondo intero accettasse l’insediamento dei profughi palestinesi (nei paesi arabi) noi lo rifiuteremmo. Il diritto al ritorno è sacrosanto”, ha detto Bassil trovando pieno appoggio nel presidente Michel Aoun. Il Libano ospita circa 500mila profughi palestinesi ed è nota l’avversione di una fetta consistente della popolazione nei confronti della loro presenza (e da qualche anno anche di quella dei profughi siriani). Avversione non poche volte sfociata in ostilità aperta e persino in attacchi armati che hanno provocato massacri, come quello del 1982 a Sabra e Shatila compiuto da falangisti libanesi sostenuti da Israele, di cui proprio in questi giorni si commemora l’anniversario. E la Giordania, pur non avendo le posizioni dure del Libano, comunque ha messo in chiaro che non assorbirà i profughi. Netanyahu e Trump vanno avanti, senza tenere conto dell’impraticabilità dei loro disegni. Sostengono che assieme all’abolizione dell’Unrwa i palestinesi dovranno essere affidati all’Unhcr, l’agenzia generale per i profughi, che adotta criteri diversi per la definizione dello status di rifugiato. L’Unhcr, spiegano, non estende automaticamente, come fa l’Unrwa, questo status ai discendenti dei profughi e, sottolineano, guarda al loro inserimento negli Stati ospitanti e tiene conto dell’ottenimento da parte dei rifugiati della cittadinanza in altri paesi. Così sulla base di conteggi improbabili, americani e israeliani affermano che i profughi “effettivi” passerebbero un solo colpo da cinque milioni a 500-600mila. “Trump e i suoi collaboratori possono fare tutti i calcoli che desiderano” avverte Sari Hanafi “ma sono destinati a fallire, non riusciranno a cancellare con un colpo di spugna il diritto al ritorno e a liquidare la questione palestinese”.