Punire e rieducare: un equilibrio storicamente (im)possibile di Daniel Monni agoravox.it, 17 settembre 2018 La pressoché totalità dei manuali di diritto penale contiene, all’interno dei primi capitoli, almeno un paragrafo intitolato: “Perché punire?”. La punizione per il male arrecato alla società sembra essere, in sostanza, il risultato di una semplice operazione algebrica secondo la quale “ad ogni azione corrisponde una reazione uguale e contraria”: siamo innanzi ad una sorta di istintualità del diritto penale? Il diritto penale, tuttavia, al di là della facile provocazione, sembra realmente racchiudere in sé una sorta di istinto. Si pensi, in primis, alla traduzione del latino poena che, in linea con il greco poinè, si rende: “prezzo del riscatto per un reato di sangue, espiazione, ammenda, quindi, in senso lato, soddisfazione, compenso, perciò ora vendetta, ora pena, castigo punizione”. La pena, storicamente parlando, è, infatti, la soddisfazione dell’istinto vendicativo della persona offesa e si palesa, in tempi recenti, come l’accentramento statale dell’esigenza sociale di vendetta. È stato efficacemente scritto, infatti, che “l’istinto aggressivo che è all’origine della vendetta non muta nello spazio e nel tempo, ma mutano le forme e le norme della vendetta. La vendetta sembra nascere da una reazione istintuale ad una aggressione subìta, ma la vendetta non è solo istinto: è anche istituzione. Percorrendo la storia e la geografia umana, ci troviamo di fronte, infatti, a molteplici forme della vendetta: per esempio la vendetta barbaricina, la ultio romana, la vendetta del Kanun albanese, la vendetta dei samurai, la vendetta descritta nelle saghe nordiche medioevali, la vendetta dell’antico diritto hindu, la vendetta mafiosa, la vendetta langarola. Si tratta di veri e propri istituti giuridici (come quelli della proprietà e del matrimonio) che sono regolati e costituiti dalle proprie norme e che si iscrivono all’interno di particolari diritti, che spesso sono diritti popolari (folklaws). […] Dall’unicità dell’istinto aggressivo siamo giunti alla molteplicità degli istituti giuridici della vendetta”. A ben vedere, pertanto, non è una grandissima novità l’assenza di rieducazione nell’universo della pena. Non è nemmeno un caso, d’altronde, il fatto che gli istituti antesignani del carcere siano le “houses of correction” londinesi, nate “nei primi anni del cinquecento, [allorquando] il clero londinese propose al re di utilizzare un palazzo, il palazzo di Bridewall, per ospitare i vagabondi, gli autori di piccoli reati, di piccoli furti, le persone che non trovavano lavoro, organizzando un’attività produttiva che avesse lo scopo di riformare i soggetti con il lavoro obbligatorio, con la disciplina, ma non in vista di punirli coercitivamente con un lavoro forzato, ma affinché, attraverso il lavoro, fosse assicurato prima di tutto l’auto-mantenimento, quindi il sostentamento di coloro che venivano internati e, infine, venisse impartita un’educazione disciplinare idonea a garantirne l’avviamento al lavoro”. Tale pena era un “ossimoro, dal momento che la carità si sviluppava in termini di costrizione: una carità che veniva fatta subire” e nacque, pertanto, per soddisfare gli interessi finanziari del regno: ideale ben lungi dal concetto di rieducazione del reo. L’ideale illuministico, grandissimo sostenitore del carcere, d’altronde, nel momento in cui acclamava la pena carceraria come la migliore delle pene - contrapponendola all’inumana pena di morte ed allo splendore dei supplizi - non tardava nel definirla, nella realtà dei fatti, come una “cloaque d’infection où mille malhereux s’entre-communiquent le poison lentement dévorant de la mort”. La pena carceraria, in buona sintesi, ha sempre vissuto nell’ombra di sé stessa: condannata a non rispecchiare, nei tragici fatti, la propria idealizzazione. Non è sconcertante osservare che, storicamente parlando, nel momento in cui il carcere venne elevato a “panacea d’ogni male” quest’ultimo veniva, al contempo, aspramente criticato per la propria concreta inadeguatezza? Come scrisse Foucault “la critica della prigione e dei suoi metodi apparì ben presto, in quegli stessi anni 1820-45; essa si fissa d’altronde in un certo numero di formulazioni che-salvo per le cifre-sono ancor oggi ripetute quasi senza alcun cambiamento”. Ora come allora si potrebbe, infatti, notare che: - Le prigioni non diminuiscono il tasso di criminalità: possiamo estenderle, modificarle, trasformale, la quantità dei crimini e dei criminali rimane stabile, o, peggio, ancora, aumenta […] - La detenzione provoca la recidiva; usciti di prigione, si hanno maggiori probabilità di prima di ritornarvi […] - La prigione non può evitare di fabbricare delinquenti. Ne fabbrica per il tipo di esistenza che fa condurre ai detenuti […] - La prigione rende possibile, meglio, favorisce, l’organizzazione di un milieu di delinquenti, solidali gli uni con gli altri, gerarchizzati, pronti per tutte le future complicità […] - Le condizioni fatte ai detenuti liberati li condannano fatalmente alla recidiva: perché sono sotto la sorveglianza della polizia; perché hanno residenze obbligate o interdizioni di soggiorno […] - Infine, la prigione fabbrica indirettamente dei delinquenti, facendo cadere in miseria la famiglia del detenuto”. Gli interrogativi intorno al carcere sono, a ben vedere, gli stessi da centinaia di anni: ad un’idilliaca immagine sociale del carcere si contrappone, da sempre, la più indegna concretezza dei fatti. Si può, dunque, accostare il concetto di rieducazione alla pena carceraria? Storicamente no. Il carcere ha sempre vissuto su due binari paralleli che non si sono mai incontrati: uno era quello che portava al lontano mondo delle idee, il secondo si fermava sempre alla prima e desolata “stazione”. La situazione, attualmente, non è certamente migliorata: anzi. Solo pochi giorni fa una nota testata giornalistica riferiva che una delegazione del partito Radicale nonviolento transnazionale e transpartito aveva visitato la Casa Circondariale di Foggia trovando “carenze sanitarie, spazi limitati e assenza di personale […] una realtà dimenticata dalla legge”. Parlare di rieducazione e di pena carceraria nella stessa frase appare, oggi, del tutto ossimorico. Le parole “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato” sembrano, infatti, confliggere quotidianamente con il diffuso senso di insicurezza dei cittadini: sicurezza e pericolosità sociale sono divenuti i facili “hashtag” delle recenti pronunce giurisprudenziali. A ciò si aggiunga il costante clima di “politica elettorale” che caratterizza gli ultimi anni: erodere i diritti dei detenuti sembra generare, infatti, numerosi consensi. È difficile comprendere se la pena carceraria stia rispondendo più ad un istinto vendicativo piuttosto che auto-difensivo della società e, purtuttavia, è pacifico che non stia perseguendo alcun fine minimamente rieducativo. La bontà di una pena deve, infatti, misurarsi sulla base dei risultati ottenuti: il tasso di recidiva è talmente alto che non ha senso parlarne. La triste realtà è che “la prigione in Italia è un mondo ignoto per tutti coloro che sono liberi e alcune persone ci tengono a non far conoscere l’inferno che hanno creato e che è mal governato. Qui fuori molti non sanno che la maggior parte dei detenuti vive come pezzi di legno accatastati in cantina. Alcuni vegetano. Altri si tagliano nel corpo e nell’anima. La verità è che nella stragrande maggioranza dei casi si vive, come cani ciechi in un canile, con spazi ridotti, una non vita in totale assenza costante d’intimità, d’intrattenimento, di cultura, d’affetto”. Le facili obiezioni sono: “e allora cosa bisognerebbe fare con i detenuti?”. La risposta, altrettanto facile, è: “rieducarli”. Il carcere è solo una delle tipologie di pena possibili ed è una pena che nel momento in cui è sorta presentava già fortissime criticità. Esistono le misure alternative alla detenzione ed esiste, soprattutto, il macro-universo della giustizia riparativa: perché continuare ad elogiare una pena inutile per chiunque come il carcere? Quando la pena - parola di per sé densa di contraddizioni - cesserà di essere asservita alle esigenze di sicurezza sociale ed ai più svariati istinti allora, e solo allora, sarà possibile parlare di pene rieducative. Quando le pene saranno rieducative smetteranno di chiamarsi in tal modo: sarà solo rieducazione. Il carcere può cambiare? di Maria Pia Giuffrida* Confronti, 17 settembre 2018 È una domanda, questa, a cui ho cercato di dare una risposta dal lontano 1979, anno in cui entravo nell’Amministrazione penitenziaria. È una domanda a cui si tenta solitamente di rispondere su diversi piani. Vediamone alcuni. I “piani” del sistema penitenziario - Il piano normativo ha visto il sistema penitenziario ostaggio del pendolarismo politico in un irragionevole rincorrersi di norme diverse e divergenti che hanno spesso tradito lo spirito della riforma e il dettato costituzionale. Norme dettate spesso dalle ideologie prevalenti e ancor più spesso scritte senza alcuna coerenza rispetto all’impianto generale dell’ordinamento penitenziario e alle direttive internazionali che sono e restano cogenti per gli Stati membri dell’Unione europea. Sembra che il legislatore non conosca il sistema dell’esecuzione delle pene intra ed extra murario e lanci delle “innovazioni” che non tengono conto della reale applicabilità delle norme stesse che si inseriscono pertanto a fatica tra altre. Il piano organizzativo del sistema penitenziario non può non essere considerato un tratto fondamentale del sistema, una variabile che condiziona pesantemente le possibilità di cambiamento: la rigidità organizzativa del sistema è autoreferenziale e subordinata alle esigenze delle categorie professionali. La vita quotidiana degli Istituti penitenziari - in particolare - è scandita dai turni di servizio della polizia penitenziaria. Le attività “trattamentali” sono spesso stritolate dalle logiche della burocrazia e delle turnazioni, di un insieme di “regole penitenziarie” spesso incomprensibili o inutili. Uguale rigidità si riscontra paradossalmente anche nel sistema dell’esecuzione penale esterna, che sul territorio dovrebbe operare e che invece è sovente incastrato nei rassicuranti adempimenti e riti burocratici e doveri d’ufficio. Il piano delle risorse economiche ci ha fatto assistere al depauperamento dei diversi capitoli di spesa, con momenti di ossigenazione mai sufficienti a garantire il funzionamento del sistema e la gestione delle strutture e della popolazione detenuta. Su tale argomento varrebbe sicuramente la pena di approfondimenti complessi su diversi aspetti di cui cito soltanto l’edilizia penitenziaria, le spese di mantenimento dei detenuti, il lavoro penitenziario, le attività trattamentali. Va citata la situazione critica delle risorse per il sistema extramurario. Il piano delle risorse umane ha visto, in particolare nell’ultimo decennio, un mancato investimento qualitativo e quantitativo sui quadri dirigenziali (dirigenti di Istituto e di Uepe), un impoverimento generazionale degli organici degli operatori del trattamento (educatori e assistenti sociali), un ricambio degli operatori di polizia penitenziaria di tutti i gradi e livelli funzionali. Sembra che l’attenzione dell’amministrazione sia stata spesso più rivolta alle politiche del personale che alla gestione dei compiti istituzionali legati all’attuazione del dettato normativo nella sua interezza, determinando peraltro una spaccatura tra le diverse categorie diversamente toccate da riforme e da ricadute economiche. È di tutta evidenza la scarsa importanza che viene attribuita al trattamento penitenziario rispetto al sistema della sicurezza e del controllo, poli che dovrebbero sinergicamente integrarsi rispetto alla finalità costituzionale della pena. Il personale al di là di quanto sopra detto vive peraltro una elevata situazione di burnout cui non si porta rimedio in alcun modo incentivando e sottolineando quasi l’inevitabilità di tale stato di continua frustrazione, legato a una continua mancanza o avvertita mancanza di riconoscimento di dignità da parte di tutti gli operatori. In realtà si dovrebbe parlare più che di burnout di una perdita complessiva e diffusa di significato del proprio lavoro, di “ignoranza” di ritorno sull’ordinamento penitenziario che fa vivere la quotidianità come adempimento svuotato di qualsiasi contenuto valoriale. È diffuso un sentimento di inevitabilità che ha portato sempre più gli operatori ad atteggiamenti di rinuncia. Questo è vero in particolare per gli operatori del trattamento (educatori ed assistenti sociali) che teorizzano ormai spesso l’impossibilità di dar seguito alla norma penitenziaria; questo è vero per la maggior parte dei direttori/dirigenti che ormai presi dalla corsa alla managerialità, hanno completamente perso di vista l’importanza del loro ruolo di impulso, di coordinamento e di garanzia della legalità nell’esecuzione della pena. Va inoltre detto che spesso con “managerialità” si appiattisce unicamente sul piano di una maggiore retribuzione a cui non fa sempre seguito un’effettiva capacità di gestione innovativa. Per quanto riguarda il sistema della popolazione in esecuzione di pena in condizione detentiva o in misura alternativa le statistiche sono sempre allarmanti. Le percentuali di stranieri (che peraltro non accedono ai benefici per carenze personali) sono elevate, le condizioni di vita dei detenuti sono oggetto di denunce, gli spazi detentivi spesso in contrasto con i diritti umani, gli spazi di socialità spesso inesistenti, la sorveglianza dinamica accusa il colpo delle difficoltà gestionali e degli incalzanti ribaltamenti delle logiche politiche, le offerte trattamentali sono sparute e spesso coincidenti solo con offerte di intrattenimento. No all’infantilizzazione del detenuto - Quello che balza all’occhio è l’ozio “involontario”, la passivizzazione e l’infantilizzazione della persona detenuta, la paura e la disperazione che sfociano spesso in atti di autolesionismo, il silenzio e il rumore, i piccoli e grandi spazi di potere, i privilegi e i provvedimenti disciplinari: l’irragionevolezza in altri termini di un sistema che contiene e “insegna” un “buon comportamento penitenziario”, quel comportamento che eviti episodi che possano diventare oggetto di provvedimenti disciplinari di diverso peso, ovvero quel buon comportamento che favorisca l’ottenimento dei benefici di legge. Si tratta di una sorta di incentivazione quotidiana alla strumentalizzazione in un mondo che ha creato innumerevoli rituali burocratici e massificanti attraverso cui far scorrere “il tempo della pena” di persone, di uomini e donne, affidate al sistema dell’esecuzione della pena detentiva o in misura alternativa. Sempre più si parla di progetti che non riguardano la dimensione soggettiva dell’osservazione e del trattamento, argomenti questi ultimi che vengono trattati da taluni con un atteggiamento di “sufficienza” quasi fossero residuali. Il diritto del condannato ad un trattamento individualizzato, punto cardine della riforma del 1975, sembrerebbe dimenticato se non si facesse riferimento alla competenza di singoli operatori delle varie categorie professionali. In altri termini il sistema non funziona e ciò che va avanti nasce dall’impegno di singoli, dalla competenza professionale e dalla tenacia di alcune persone che in carcere lavorano o che con il carcere collaborano. Dinanzi alle problematiche brevemente accennate come rispondere dunque riguardo ad una possibilità di cambiamento? Il senso di impotenza è immediatamente percettibile e comunica un senso di inevitabilità che non è minimamente scalfito da dibattiti colti e da interventi settoriali: intervenire su uno solo dei piani - come spesso accade - non risolve praticamente nulla, non riesce a cambiare questo monolitico sistema. La responsabilità - Queste riflessioni appariranno certamente severe e distruttive ma portano a mettere a fuoco il piano fondamentale su cui è necessario - a mio parere - intervenire: la responsabilità. Il tema della responsabilità ci porta a “cambiare occhiali” e riconsiderare il piano culturale, il sistema dei valori, la riscoperta di significato e di senso, la centralità dell’uomo, la ri-valorizzazione delle relazioni. “Responsabilità - ci dice Salvatore Natoli - [viene dal termine greco, ndr] sponsìo che vuol dire propriamente promessa, impegno: suo sinonimo è prestatio che vuol dire rendersi garante di qualcuno o qualcosa. Responsabile è, dunque, colui che spondet pro aliquo, si fa mallevadore di qualcun altro. La responsabilità è, allora, una presa in carico: essa obbliga a una risposta… C’è responsabilità solo in quanto c’è relazione”. E ancora “nelle società contemporanee avanzate […] le colpe maggiori non riguardano tanto quel che si fa, ma quel che non si fa: il peccato corrente è l’omissione. Non assumersi responsabilità è il modo migliore per non sentirsi mai colpevoli”. Si tratta di assumere su di sé, continua Natoli, il “diuturno impegno perché si realizzi un mondo più giusto […] le società contemporanee diverranno società responsabili solo quando abbandoneranno la pratica diffusa dell’omissione, che le esonera formalmente dagli obblighi e permette loro la falsa coscienza: quella di sentirsi innocenti”. Responsabilità dunque dell’amministrazione penitenziaria e per essa di tutti gli operatori che devono assumere su di sé il coraggio di sviluppare “il dover fare trattamento”, di non ridurre il loro ruolo ad aspetti formali, burocratici e auto garantisti, il coraggio di dare senso al proprio lavoro in linea con la Costituzione del nostro Paese e all’Ordinamento penitenziario e di dare rinnovato significato alle parole. Le nostre parole sono spesso bozzoli vuoti - ci dice Carofiglio, “Dobbiamo restituire loro senso, consistenza, colore, suono, odore. E per far questo dobbiamo farle a pezzi e poi ricostruirle. (Le parole hanno) il potere di produrre trasformazioni, è necessario smontarle e controllare cosa non funziona, cosa si è rotto, cosa ha trasformato meccanismi delicati e vitali in materiali inerti”. Il mondo del carcere è un mondo “inerte” che vive una vita fatta di regole (e parole) spesso irragionevoli o inutili, dove la ricerca di senso si ferma sul ciglio della propria tranquillità, sul confine dell’auto garanzia. Per cambiare dobbiamo ritrovare il senso, i significati. Per assolvere al compito che la norma ci dà dobbiamo trovare le parole e il coraggio di entrare in relazione con l’altro che a noi è affidato: con l’uomo detenuto che deve assumere su di sé il senso della sua responsabilità. Lasciare che il detenuto viva (pur tenendo un comportamento regolare) l’ozio quotidiano significa non aver assunto su di sé la responsabilità degli operatori di “fare trattamento” cosicché il soggetto possa attuare un positivo reinserimento sociale. Per una conversione culturale degli operatori - Ma oggi questo obiettivo è già amplificato. L’art. 27 (e l’art. speculare 118) del Regolamento di esecuzione ci aiuta ad uscire da una dimensione autoreferenziale e reo-centrica della pena e del trattamento rieducativo, e dal focus sulla responsabilità retrospettiva sul reato che ha rotto una norma, ci fa entrare in una prospettiva pro attiva e relazionale in cui assume valore la responsabilità verso l’altro, verso la vittima, verso la collettività. La Direttiva di Strasburgo 2012/29/UE ci dice che “Il reato non è solo un torto alla società ma anche una violazione dei diritti individuali delle vittime” e ci impone di uscire da una logica esclusivamente retributiva e trattamentale-rieducativa per metterci in un’ottica relazionale dove assume valore la persona vittima e la verità storica dei fatti che l’hanno colpita. Responsabilità dunque del soggetto in esecuzione di pena non solo verso la norma ma anche e soprattutto verso la vittima. La conversione culturale degli operatori penitenziari è dunque fondamentale: non si tratta più di “contenere”, osservare ai fini della valutazione di un buon comportamento (o meno), non si tratta più soltanto di “aiutare” il detenuto - attraverso un percorso trattamentale - di rientrare nell’ambito socio-familiare di appartenenza: si tratta di sentirsi “responsabili” dell’opera di sostegno di ciascun detenuto verso l’assunzione di una responsabilità individuale e il riconoscimento di una responsabilità sociale e collettiva, si tratta di ricollocare la vittima di reato al centro di ogni riflessione, si tratta di andare oltre la norma infranta verso il danno “irreparabile” provocato nell’esistenza di altri soggetti. Non si può - ritornando a Natoli - “omettere” nulla, non si può sentirsi in pace con se stessi se non si assume la responsabilità verso l’altro, se non si accoglie la scommessa di un profondo cambiamento. *Presidente dell’Associazione Spondé Onlus, già dirigente generale dell’Amministrazione penitenziaria Una prospettiva buddhista: il Liberation prison project di Maria Grazia Sacchi* Confronti, 17 settembre 2018 I principi fondanti del buddhismo costituiscono una visione ed un’interpretazione della sofferenza umana, dukka, di cui l’intera umanità è permeata. La metafora della malattia e del medico curante esprime bene l’impostazione del buddhismo nei confronti della sofferenza: “Considera te stesso come malato, il Buddha come tuo medico e il dharma la medicina per guarire”. In tal senso, è possibile individuare le “malattie” basilari di cui la mente è afflitta (desiderio, rabbia, ignoranza) e le loro derivazioni sociali, quali l’ingiustizia politica ed economica, la guerra, la violenza, il degrado ambientale. Per un buddhismo impegnato nel sociale - Nell’ambito della pratica e degli studi buddhisti si è diffusa da parecchi anni una corrente di buddhismo impegnato nel sociale (di cui Thich Nhat Hanh è stato promotore relativamente al dramma vietnamita), dove si collocano varie forme di attivismo sociale in differenti ambiti. Tutto ciò muove dalla convinzione che nel mondo attuale la pratica buddhista non può consistere solo in fattori di miglioramento individuale come la cura della propria mente e la moralità personale: il singolo individuo non può essere separato dal complesso di ruoli e relazioni che condizionano la propria vita nel mondo. Di qui la necessità di praticare anche in termini di responsabilità sociale. Le tradizionali forme di pratica per la liberazione dalla sofferenza, le “nobili verità”, l’”ottuplice sentiero”, la meditazione, divengono quindi un presupposto e indispensabili vie di progresso spirituale affinché l’azione sociale possa essere efficacemente intrapresa; ma questa azione va a esse aggiunta se si vuole che la sofferenza nella vita propria e degli altri sia realmente almeno alleviata. Nel buddhismo impegnato trova la sua più completa espressione la compassione, intesa proprio come compassione in azione. “Proprio come tu ami riflettere su ciò che è utile fare per te, così dovresti amare la riflessione su ciò che è utile fare per gli altri… i ciechi, gli ammalati, gli umili, i non protetti, i diseredati e gli storpi hanno eguale diritto ad avere cibo e bevanda” (Nagarjuna, Ghirlanda dei gioielli di consigli reali). In tal senso, è evidente la dimensione transculturale e transreligiosa del messaggio buddhista; così come Nagarjuna parla di beni materiali, primari, cibo e bevande, allo stesso modo, in epoca contemporanea, Lama Ciampa Monlam indica e sostiene la dimensione del prendersi cura delle persone in difficoltà: “Il denaro o il cibo sono doni che hanno un tempo e a un certo punto finiscono. Gli insegnamenti sulla consapevolezza e sull’etica sono doni che non hanno tempo, durano per sempre nella mente di chi li riceve”. Il Liberation prison project - Liberation prison project nasce negli Stati Uniti d’America nel 1996 dalla monaca buddhista Robina Courtin che ha poi contribuito alla sua diffusione in Australia, Mongolia, Messico, Nuova Zelanda e in Europa. Robina, in seguito a un contatto con una persona detenuta, inizia a occuparsi di carcere di massima sicurezza, a introdurre pratiche meditative fra i detenuti e fonda un movimento che ben presto si diffonderà in varie nazioni del mondo in forme e modalità applicative differenti in base alle esigenze socioculturali. Il progetto in Italia - Nel 2009 in Italia si struttura un primo nucleo di volontari che sperimentano l’applicabilità del progetto in alcuni Istituti penitenziari, sino alla fondazione della Onlus Liberation prison project Italia nel 2013. Il principio fondante della Onlus si radica nel dettato costituzionale secondo il quale la pena detentiva deve avere una finalità riabilitativa (art. 27 della Costituzione); in tal senso è possibile fornire strumenti atti a alleviare la sofferenza esistenziale delle persone detenute, utilizzando nel modo migliore il periodo della carcerazione. È evidente che non si tratta di un messaggio religioso, né tantomeno di una forma di proselitismo: la Onlus non è quindi equiparata ad altre associazioni di stampo religioso, né gli operatori ai ministri di culto, anche se a volte si tratta di monaci. Il messaggio trasmesso è totalmente laico e basato sull’etica secolare tanto sottolineata dal Dalai Lama. Come dice Robina Courtin, non si tratta di far diventare le persone buddhiste, ma persone migliori. Il carcere è un luogo difficile, un luogo che può peggiorare forme afflitte della mente, o produrle: è un luogo che ammala. È certo che se il tempo della detenzione viene sfruttato per lavorare sul piano introspettivo e dell’autotrasformazione, al termine dello stesso, la consapevolezza acquisita e la comprensione delle dinamiche mentali riducono o annullano il rischio della recidiva. In tal modo il rischio sociale tende a diminuire e la finalità dei percorsi promossi diviene da individuale a socio-collettiva. La consapevolezza è quindi di per sé trasformativa: quando un individuo detenuto o in libertà acquisisce gli strumenti di base ne consegue necessariamente una miglior qualità della vita, maggior benessere e salute psicofisica. Tale miglioramento può ricadere anche all’interno degli Istituti penitenziari stessi creando ambienti meno aggressivi e meno punitivi, con uno standard di relazioni più umane sia tra persone detenute che nei confronti del personale specialistico e della polizia penitenziaria. La Onlus opera negli Istituti penitenziari con persone detenute e dipendenti (personale giuridico-pedagogico e agenti di polizia penitenziaria) e all’esterno con persone tornate in libertà. All’interno del carcere gli operatori della Onlus organizzano gruppi ed incontri individuali con le persone detenute. I contenuti degli incontri si delineano all’interno dell’epistemologia buddhista, con riferimenti spirituali e scientifici relativi alle caratteristiche dei fenomeni universali, alla conoscenza della mente e del sistema corpo-mente, delle principali afflizioni e della loro gestione. All’interno di questo vasto contenitore, ogni gruppo si differenzia sia in base alle specificità proprie e dell’Istituto che alla formazione del conduttore. La linea comune, presente ovunque, è il richiamo continuo alla consapevolezza, alle pratiche che la sostengono e alla meditazione, condotta e trasmessa secondo metodologie differenti, sempre in relazione alla tipologia dei partecipanti e all’esperienza del conduttore. I corsi negli istituti di pena. I corsi si presentano come lavori sulla salute mentale, come rimedio o come prevenzione a quei particolari stati psicopatologici che si evidenziano in ambiente penitenziario. Le diversità dei soci operatori della Onlus divengono una ricchezza e si complementano grazie a un continuo coordinamento e confronto. Le tematiche dei percorsi vengono redatte con un progetto di massima, scritto e accordato con la Direzione e con l’educatore di riferimento in seguito a alcuni incontri di conoscenza; nella scelta dei temi si lascia ampio spazio all’emergere dei bisogni dei partecipanti e alle riflessioni riportate. I gruppi, sempre a cadenza settimanale, si strutturano con percorsi aperti o chiusi, con una durata temporale o continuativi; date le particolari caratteristiche del contesto, si è preferito non basarsi su format prestabiliti (mindfulness) che rimangono comunque come modelli di ispirazione. Laddove è possibile relativamente al background del conduttore, è inserito un lavoro sul corpo tramite pratiche di yoga. In parallelo agli incontri di gruppo vengono affiancate sedute individuali di counseling o di sostegno terapeutico, sempre in base alla formazione di chi conduce; le sedute individuali sono condotte anche con persone che non partecipano ai gruppi. La risposta delle persone detenute è sempre stata molto positiva, in carcere il bisogno di curare l’anima, di ascoltare parole di consapevolezza e di etica è molto forte: sono altrettanto forti e frequenti le trasformazioni delle menti. Dopo mesi di partecipazione motivata ed attenta si rimane ancora meravigliati per quanto anche la mente più disturbata, più arrabbiata, più distruttiva possa trasformarsi e divenire a sua volta esempio per altre persone. I gruppi non hanno una durata specifica, proseguono con uno scambio di persone che terminano il periodo detentivo e che si susseguono, consigliando i compagni alla partecipazione: le tematiche affrontabili sono molteplici e, in qualche modo, non si esauriscono mai. Si riportano in seguito alcune fra le linee contenutistiche seguite. le “tecniche” per la scoperta delle risorse interiori L’utilizzo della consapevolezza e delle tecniche meditative nell’incontro con le emozioni distruttive loro gestione e scoperta delle risorse interiori: 1) I veleni della mente: attaccamento, rabbia ed ignoranza. Come riconoscerli e quali antidoti applicare. 2) Gli impedimenti alla consapevolezza nella vita quotidiana in reparto. 3) La consapevolezza dell’esistenza della sofferenza e della sua genesi: rompere le catene del male 4) Reati e meccanismi di identificazione nel ruolo; l’avvio del processo di dis-identificazione. 5) Pratiche di consapevolezza e meditazione sui fantasmi del passato e del futuro (colpe e rimpianti, ansie e paure); la realtà dell’impermanenza e il recupero del tempo presente. 6) Mente stabile e cuore aperto: meditazione di stabilizzazione e sulle qualità interiori (equanimità, amorevole gentilezza, compassione, gioia). 7) Elementi di pratica meditativa: vipassana, shamata, tecniche di visualizzazione e di rilassamento, meditazioni sulle afflizioni mentali e per la vita quotidiana meditazione sulla sofferenza mentale e fisica/lasciar andare/accettazione e rassegnazione. 8) Pratiche di yoga. 9) Riparazione e perdono. Ognuno ha il potere di cambiare la propria mente: vivendo in uno stato di libertà, ci si lascia condizionare dagli eventi esterni e ci si dimentica che la trasformazione è sempre possibile, in qualsiasi momento. Frequentare luoghi di sofferenza, luoghi di emarginazione, di esclusione è molto utile: è una grande lezione non solo per vedere le prigioni che ognuno si crea, ma anche per imparare come è possibile cambiare, anche in contesti dove il cambiamento evolutivo appare impossibile. *Liberation prison project Italia Orfani d’onore. Generazione paranza da strappare alle mafie di Maddalena Oliva Il Fatto Quotidiano, 17 settembre 2018 Il sangue è sangue, dicono da queste parti. E il sangue si mastica, ma non si sputa. Pure quando fa male ingoiare. “Io in carcere da mio padre non ci volevo andare. Non era per lui. Mia madre mi diceva: “Vieni, ti devo portare”. E io niente. Ero piccolo, 5 anni. Ogni volta iniziavo a vomitare”, racconta A.. È nato e cresciuto a Forcella, a due passi dai Decumani e dalla via dei presepi, in quel quartiere che prima fu il Regno di Lovegino Giuliano e poi dei suoi nipoti: quei Giuliano che, insieme alla paranza dei fratelli Sibillo, hanno terrorizzato il centro di Napoli e ispirato la penna di Roberto Saviano. A. da anni non abita più nel ventre molle della città, ultima tra le grandi ad avere la periferia in pancia, A. vive a migliaia di chilometri di distanza. “A casa siamo cresciuti solo con mammà, papà stava chiuso. Non è una novità di oggi per me pensare che il carcere faccia schifo. Una persona, per stare là dentro, non ha valore. Non ha carattere. Non ha la testa di dire: voglio vivere bene, voglio far crescere i miei figli come si deve anziché come rifiuti. Perché a Napoli già si cresce sbandati... i ragazzi, le madri, li prendono e li buttano in strada. L’ho capito meglio da quando sono lontano. Per me mio figlio deve crescere come dio comanda. Purtroppo io ho una famiglia in cui quasi tutti hanno precedenti. Forse sono l’unico che si salva, insieme a un fratello di mio padre. Per il resto, anche le donne da noi sono pregiudicate. Forse, restando a Napoli, cercavo la morte. Ora mi sento invece che sto cambiando perché sto iniziando a vedere la luce, davanti agli occhi. A Napoli vedevo solo buio perché frequentavo sempre il male. Immagino che la mia vita sarebbe stata molto diversa se fossi nato altrove. Immagino… però può darsi che sarebbe anche stata uguale, ma almeno non avrei dovuto frequentare persone che non andavano bene per me”. Liberi di scegliere chi essere, chi diventare. Senza avere il destino segnato, solo perché si è nati con un determinato cognome, o in un determinato quartiere. Allontanare i minori da contesti familiari mafiosi, fino a togliere o limitare la responsabilità genitoriale, è una delle questioni più dibattute, e non solo all’interno della magistratura che si sta interrogando sul tema, grazie ai provvedimenti apripista adottati negli ultimi anni dai tribunali dei minori di Reggio Calabria e di Napoli. Il presidente del Tribunale per i minori del capoluogo reggino Roberto Di Bella - che indossa la toga da 30 anni, più o meno quanti ha dedicato alla giustizia minorile - è convinto che la ‘ndrangheta si erediti: “Sono a Reggio dal 1993. I tutti questi anni abbiamo trattato più di 100 procedimenti relativi a minori per reati di criminalità organizzata, e più di 50 processi per omicidio e tentato omicidio: oggi mi trovo a giudicare i figli di coloro che giudicavo negli anni ‘90 più o meno per gli stessi reati. Tutti con lo stesso cognome. E il dato impressionante è che abbiamo di fronte una generazione che potevamo salvare, e che invece abbiamo abbandonato”. La malapianta trae prima di tutto linfa dal sangue. Ma se usciamo dalla Calabria, e allarghiamo lo sguardo? I minori coinvolti in episodi criminali, spiega Gemma Tuccillo, a capo del Dipartimento per la giustizia minorile, dal punto di vista delle biografie presentano tratti convergenti: “Sono, nei profili più gravi, contigui alla criminalità organizzata per ragioni di appartenenza familiare, o per la provenienza da quartieri ad alta densità mafiosa. Più in generale, sono minori che vivono in zone periferiche e degradate, inseriti in contesti familiari segnati da disgregazione o da gravi forme di disagio affettivo, economico o abitativo”. Qualche dato su tutti, solo guardando alla Campania: il 22% dei minori vive in condizioni di povertà relativa; 1 su 3 abbandona prematuramente la scuola; 7 bambini su 10 non sono mai andati a teatro o a visitare mostre; 7 bambini su 10 non hanno mai fatto sport. Ecco perché, secondo molti, “la diffusione dei comportamenti criminali, quando investe ampie fasce di popolazione giovanile come a Napoli e nel Sud, è innanzitutto un immane problema sociale e politico”, sottolinea Nicola Quatrano, giudice, ora in pensione, che tra tanti processi seguiti nella lunga carriera a Napoli si è occupato della paranza dei bambini. Per lui, la misura dell’allontanamento dei figli risponde a un’impostazione repressiva e sanzionatoria non tanto verso i tipi di reato quanto verso il contesto, la famiglia da cui si è nati. “Una sanzione aggiuntiva per quella che io chiamo “la criminalità della plebe”. Bisogna invece affrontare la questione con maggiore, e migliore, attenzione. Perché se è indubbio che crescere in un ambiente criminale può generare criminalità, è altrettanto vero che pure la deprivazione degli affetti familiari potrebbe provocare il medesimo risultato. Senza contare che non è affatto certo che interesse del bambino sia quello di diventare un disadattato onesto, piuttosto che un delinquente psichicamente equilibrato”. “Se ci provano a toccarmi i figli, scoppia una guerra nucleare”. Grazia ha quattro figli maschi. Due sono detenuti a “Poggi Poggi”, il carcere di Poggioreale a Napoli: uno con un ergastolo - il grande, 23 anni - e l’altro con una condanna a 14 anni da scontare. “Avessi fatto quattro femmine! Mi sarei coricata con meno pensieri” e, mentre parla, i suoi grandi occhi azzurri sorridono, perché, come ama ripetere, nonostante tutto “più scuro della mezzanotte non può venire”. Grazia lava le scale tre volte alla settimana, venti euro al giorno quando va bene e lavora, e ha cresciuto quattro figli da sola - divenuta mamma a 16 anni - perché il marito era in carcere. “E ci è rimasto fino a quando non si sono fatti grandi i figli. Non siamo cattivi noi. È Napoli, è la città, che ti fa diventare cattivo. Però io non me ne andrei mai da casa mia. E non lascerei mai i miei figli andare lontano. Vivo per andarli a trovare in carcere, quella volta alla settimana. Io dico allo Stato: io a fare la mamma ci ho provato. Ho sbagliato. Giusto? Ma tu Stato che fai? Mi uccidi la vita, se mi togli un figlio. Uccidi la vita pure a lui”. I risultati dei primi provvedimenti di allontanamento dei minori presi da Di Bella, a Reggio Calabria, raccontano altro. Così come anche le prime lettere che arrivano, non più solo dalle madri ma anche dai padri, in carcere, detenuti al 41bis. “Sono d’accordo con lei - scrive un boss a Di Bella - solo allontanandolo da questo ambiente, il mio bambino avrà un futuro migliore. Se avessi avuto io le stesse possibilità forse non sarei dove sono ora. Decida lei e stia tranquillo. Non farei mai più qualcosa che possa influire o danneggiare la vita di mio figlio”. “Questo ci dà speranza”, dice il procuratore. Spezzare i vincoli sacri del legame familiare sembra essere l’unico modo, per questi ragazzi, per aspirare a una vita diversa. Poi puoi scegliere, una volta compiuti i 18 anni, se tornare. Molti, specie le ragazze, non lo fanno. Di Bella lo chiama “Erasmus della legalità”. Entri in un mondo diverso. Torni a scuola, hai la possibilità di lavorare. Anche se i primi giorni, quelli del distacco, sono difficilissimi. Ma, in caso di genitori che manifestino segni di ravvedimento, si fa di tutto per mantenere i rapporti, anche se c’è di mezzo il carcere. Tu minore sei seguito passo passo da psicologi e da operatori qualificati come Libera, con Vincenza Rando e il suo prezioso aiuto. Proprio lei, che fu avvocato di Lea Garofalo e poi di sua figlia Denise. Gli sforzi devono concentrarsi sul concedere, una volta finito il percorso di allontanamento, delle opportunità legali a questi giovani. Altrimenti si torna al punto di partenza. E per evitarlo bisogna avere lo sguardo ampio. Quando entrano in campo magistrati come Di Bella o, a Napoli, Maria De Luzenbergher, è perché la situazione è già patologicamente endemica. Se in alcune zone del Paese la cultura del malaffare è diffusa e le famiglie sono sempre le stesse, vuol dire che la scuola ha fallito. “Non abbiamo ricevuto segnalazioni dalle scuole sulla dispersione dei ragazzi nemmeno durante la faida di San Luca, quando - abbiamo scoperto solo durante il processo - le famiglie contrapposte non mandarono i figli a scuola per paura di ritorsioni”. È proprio il sistema che sembra non reggere: sul piano culturale, sociale, economico. Basti pensare che su 97 comuni della provincia di Reggio Calabria, più dell’80% non ha servizi sociali. E anche nell’area di Napoli non va meglio: un assistente sociale ogni 5.600 abitanti. Ma per questo dovrebbe esserci la politica, dicono i magistrati. La sospensione o la perdita della responsabilità genitoriale è nel contratto di governo Lega-5 Stelle. Non è prevista per camorristi o ‘ndranghetisti: solo per i rom. “Le più giovani hanno capito: chiedono di salvare i loro figli” di Maddalena Oliva Il Fatto Quotidiano, 17 settembre 2018 Intervista a Roberto Di Bella, Presidente del Tribunale dei minori di Reggio Calabria Di che tipo di provvedimenti parliamo? Si va dalla decadenza o limitazione della responsabilità genitoriale all’allontanamento forzato dal nucleo familiare, nei casi più gravi. E sono provvedimenti che cessano al compimento della maggiore età, anche se molti poi chiedono di non tornare più ai paesi d’origine. ù Su 50 provvedimenti adottati per 60-70 minori, dal 2012 a oggi, abbiamo recuperato quasi tutti i ragazzi: hanno ripreso a frequentare scuola, seguono percorsi di legalità, mostrano talenti e potenzialità altrimenti compressi. I risultati sono incoraggianti? Assolutamente. La nostra esperienza a Reggio è apripista non solo per i numeri, anche perché abbiamo messo a sistema - con tre protocolli - una sinergia tra i vari uffici giudiziari che permette grande tempestività; la rete di supporto che, attraverso psicologi e operatori antimafia come Libera, aiuta e sostiene i minori; e i necessari fondi, messi a disposizione dal precedente governo, dalla procura nazionale antimafia, da Libera e dalla Cei. Sarebbe importante che questi circuiti virtuosi diventassero normati per legge, con finanziamenti stabili. Anche perché la questione minorile è cruciale. Agire a partire dal versante culturale, come facciamo noi, vuol dire svuotare un bacino per la criminalità. Quando decidete di intervenire? Mai preventivamente. Solo in presenza di una situazione di reato, di “un concreto pregiudizio, riconducibile al metodo educativo mafioso o all’integrità psicofisica dei minori”. Sulla scorta quindi della normativa italiana e internazionale, e valutando caso per caso. Critici e scettici sono tanti, però. Meno di quando siamo partiti. Ci hanno accusato di “deportazione di minori”, di “epurazioni”… Per alcuni lo Stato non dovrebbe intervenire nei nuclei familiari, anche se intrisi di mafia. Per altri, dovrebbe essere la stessa società civile calabrese a maturare gli anticorpi per debellare la ‘ndrangheta. Ma intanto noi non possiamo voltarci dall’altra parte, di fronte a famiglie che destinano i bambini a un futuro di sofferenza o criminalità. E, a volte, per ribellarsi all’omertà è sufficiente percepire la presenza dello Stato. Il nostro tribunale dei minori non è più vissuto solo come un’istituzione nemica. Lo dimostra il sostegno delle mamme ai nostri provvedimenti. Ora 9 su 10 sono con noi: a scrivere lettere sono in tante. E, soprattutto, lo dimostrano le giovani donne che ci chiedono di essere portate via assieme ai loro figli, lontano da mariti e famiglie. Quante sono? Fra dissociazioni e collaborazioni, siamo intorno ai 15-16 casi. È un fenomeno del tutto nuovo. Vuol dire che i nostri provvedimenti stimolano a reagire. È una piccola grande rivoluzione. Legittima difesa. Con la proposta di riforma diventa la più ampia d’Europa di Bianca Lucia Mazzei e Guido Camera Il Sole 24 Ore, 17 settembre 2018 La riforma della legittima difesa punta a evitare i processi. A fare in modo cioè che, effettuate le indagini giudiziarie, si proceda subito all’archiviazione. Questa, almeno, è l’intenzione messa in campo dalla maggioranza gialloverde, prendendo spunto dalle norme che in Francia, ma anche in Germania, riducono i limiti alle reazioni difensive, senza però riprenderne anche i paletti. Se nel 2006 la riforma della legittima difesa voluta dal Governo Berlusconi aveva ridotto la discrezionalità valutativa del giudice, ora la commissione Giustizia del Senato intende ampliare al massimo le possibilità di autodifesa domiciliare. L’esame delle proposte di modifica è partito al Senato, dove la commissione Giustizia ha avviato le audizioni che chiuderà il 25 settembre. Dopodiché verrà messo a punto un unico testo. I Ddl che propongono la revisione delle norme del Codice penale sono 8 ma il più “pesante” è quello presentato dalla Lega, tant’è che del partito del vicepremier Matteo Salvini (fautore di una legittima difesa “senza se e senza ma”) è anche il relatore del provvedimento, Andrea Ostellari, nonché presidente della commissione. La tabella di marcia prevede l’approvazione in commissione entro ottobre e il passaggio in aula a novembre con varo definitivo della legge entro l’anno. I contentuti e gli obiettivi - L’impostazione di base sarà quella dell’articolo 1 del Ddl presentato dal senatore leghista Massimiliano Romeo, che ricalca lo storico testo dell’attuale sottosegretario agli Interni Nicola Molteni. Il primo obiettivo è che l’uso della forza sia legittimo in tutti i casi in cui qualcuno entra contro la volontà del proprietario (o del legittimo detentore) nell’altrui domicilio (o nello spazio di lavoro), con violenza o minaccia di uso di armi. Un allargamento drastico (“vogliamo dare la possibilità di esercitare questo diritto senza passare per aggressori”, spiega Ostellari), dove gli unici limiti sarebbero l’attualità dell’aggressione, l’ingresso nel domicilio o nel luogo di lavoro contro la volontà e l’uso di violenza. E per ampliare ulteriormente le maglie verranno anche introdotte norme che giustificano l’eccessivo ricorso alla forza causato dagli stati d’animo di paura e confusione tipici di chi subisce un’intrusione violenta. “È un’impostazione sbagliata. È come se lo Stato dicesse al cittadino: visto che non riesco a proteggerti, ti permetto di difenderti da solo garantendoti che non andrai a processo”, dice Valeria Valente, vicepresidente del gruppo Pd al Senato e membro della commissione Giustizia. Che aggiunge: “Si possono invece prevedere percorsi processuali accelerati e fondi per il risarcimento delle vittime oltre che per la copertura delle spese processuali, ma la valutazione del giudice è imprescindibile”. Le modifiche, come detto, hanno l’obiettivo di evitare al massimo i processi per chi si è difeso. Già con le norme attuali, in realtà, quasi tutte le sentenze sono di assoluzione o comportano pene minime. “È vero, la maggior parte dei processi si conclude con assoluzioni - dice Ostellari - ma questo avviene con percorsi che durano anni e si traducono in sofferenza e spese che vogliamo cancellare. L’indagine giudiziaria va bene ma poi basta. La norma deve essere così chiara da permettere ai Pm di archiviare la stragrande maggioranza dei procedimenti”. L’archiviazione è un epilogo, comunque già oggi possibile: è stata disposta ad esempio a Milano, nel 2017, per la posizione di un pensionato che, di notte, terrorizzato da un’intrusione domiciliare, aveva sparato al ladro disarmato, uccidendolo. Il confronto internazionale - Come si legge nella relazione al Ddl Romeo, il modello è quello francese che prevede una presunzione di legittima difesa per chi respinge l’ingresso di sconosciuti in un’abitazione privata o presso un’attività lavorativa. Il Codice penale francese limita però questa presunzione alle violazioni notturne (mentre in Italia opererebbe sempre) ma, nel contempo, esclude l’omicidio volontario per difendere il patrimonio e non la vita. L’introduzione di giustificazioni psicologiche come paura e confusione guarda invece alla Germania, dove sono contemplate in casi eccezionali come cause di esclusione della punibilità. Anche in Gran Bretagna, dove è stato autorizzato l’uso sproporzionato della forza, la reazione violenta non può toccare chi fugge o trasformarsi in agguato. Legittima difesa. L’interpretazione dei giudici di Guido Camera Il Sole 24 Ore, 17 settembre 2018 È iniziato al Senato il cammino della riforma sulla legittima difesa. In attesa degli sviluppi, è bene conoscere la normativa vigente e l’applicazione che le hanno dato i giudici. Il punto di partenza è la legge 59/2006, che è intervenuta sull’articolo 52 del Codice penale introducendo la cosiddetta “legittima difesa domiciliare”. Secondo il comma: “non è punibile chi ha commesso il fatto, per esservi stato costretto dalla necessità di difendere un diritto proprio od altrui contro il pericolo attuale di un’offesa ingiusta, sempre che la difesa sia proporzionata all’offesa”. Il comma II, introdotto dalla legge 59, specifica che, in caso di violazione di domicilio, è presunta la proporzione tra aggressione e difesa “se taluno legittimamente presente” all’interno del domicilio “usa un’arma legittimamente detenuta o altro mezzo idoneo al fine di difendere: a) la propria o altrui incolumità; b) i beni propri o altrui, quando non vi è desistenza e vi è pericolo di aggressione”. La presunzione vale anche per i fatti che avvengono all’interno di ogni luogo “ove venga esercitata un’attività commerciale, professionale o imprenditoriale.” La parola dei giudici - Prima della legge 59, la Cassazione aveva sancito che un bene (come la casa o il patrimonio) poteva essere difeso con un atto violento, specificando però che: i) il danno subito dall’aggredito doveva essere proporzionato alla sua reazione difensiva; ii) gli atti violenti dovevano costituire l’unico mezzo per impedire l’aggressione al bene patrimoniale; iii) l’aggredito non doveva comunque eccedere nella reazione. In una nota sentenza (la 20727/2003) la Suprema Corte aveva ritenuto che un tabaccaio, dopo avere subito l’ennesima rapina, avesse legittimamente difeso il suo patrimonio quando, in un primo momento, si era limitato a sparare alcuni colpi di pistola per fermare la fuga con il maltolto dei rapinatori, mirando in alto e alle gomme della loro automobile ferma: la difesa era poi divenuta eccessiva perché il tabaccaio, vedendo che i rapinatori erano comunque decisi a scappare con il bottino, aveva deciso di sparare sull’auto dei malviventi che aveva iniziato a muoversi, ferendone involontariamente uno mentre stava dirigendosi verso il veicolo. L’eccesso colposo era stato però punito in modo mite dalla Cassazione: una multa da 774 euro. La proporzione tra offesa e difesa - La legge 59 ha stabilito una presunzione della proporzione tra offesa e difesa in presenza di una violazione, da parte dell’aggressore, del domicilio dell’aggredito: in presenza delle condizioni previste dall’articolo 52 comma II, “non è più rimesso al giudice il giudizio sulla proporzionalità della difesa all’offesa, essendo il rapporto di proporzionalità sussistente per legge” (sentenza 11610/2011). La presunzione si estende anche gli spazi condominiali come il pianerottolo o l’androne dello stabile dell’aggredito (sentenza 8090/2017). La reazione dell’aggredito non può essere però indiscriminata, ma presuppone sempre un attacco nell’ambiente domestico all’incolumità di chi è dentro, o quantomeno un concreto pericolo di aggressione (sentenza 691/2014 e 44011/2017). Non può dunque invocare la difesa legittima chi spara a un ladro nella propria abitazione se quest’ultimo non manifesta alcuno segno di aggressività o se, a maggior ragione, scappa. La presunzione di proporzione può però scattare anche se l’aggredito ha ritenuto, per un errore incolpevole, di trovarsi di fronte a un’aggressione - che si rivela poi oggettivamente non sussistente - alla propria o altrui incolumità all’interno del proprio domicilio da parte di un intruso (sentenza 11610/2011). In linea con questi principi, la Corte di assise di appello di Brescia (sentenza 2/2016) ha assolto un commerciante che - durante un tentativo di effrazione notturna da parte di alcuni ladri del proprio negozio, ubicato al piano sottostante dell’appartamento ove viveva con la famiglia - dopo avere vanamente intimato, con delle urla, a desistere i malviventi mentre stavano sfondando la vetrata del suo negozio con una mazza di ferro, aveva sparato due colpi di pistola di ammonimento in direzione di un terreno, posto all’interno della sua proprietà e distante circa 40 metri dal negozio, ferendo a morte un complice di cui non si era accorto. Secondo la stessa linea, il giudice per le indagini preliminari di Milano, con decreto dell’11 dicembre 2017, ha archiviato la posizione di un pensionato che, durante un’intrusione domiciliare notturna, aveva sparato a morte al ladro disarmato che si era trovato davanti, ragionevolmente temendo un’aggressione imminente alla sua incolumità. Dopo l’archiviazione, il giudice ha disposto la restituzione dell’arma al pensionato, ravvisando che fosse stata usata legittimamente. Anche prima della legge 59 c’erano state sentenze nello stesso senso. È il caso di una famosa sentenza di assoluzione del Tribunale di Roma del 1977. Un celebre calciatore aveva inscenato uno scherzo entrando in una gioielleria col bavero alzato e le mani in tasca come se avesse un revolver: con espressione dura aveva gridato: “fermi tutti, questa è una rapina”. Il gioielliere, avendo tutti gli elementi per credere di trovarsi di fronte al pericolo attuale di un’aggressione alla propria incolumità da parte di un rapinatore armato, aveva subito reagito - legittimamente - ferendolo a morte con la pistola. Legittima difesa. Ci sarà comunque un processo per chiarire cosa è accaduto di Nicola Madia (Avvocato) La Stampa, 17 settembre 2018 Basta avere il porto d’armi e si sarà autorizzati a sparare a chiunque si introduca in un’abitazione privata, cancellando il principio di proporzionalità fra offesa e difesa. Il ddl sulla legittima difesa è prioritario per la Lega, mentre preoccupa il M5S schierato anche contro la liberalizzazione delle armi. Senza se e senza ma. L’avvocato penalista Nicola Madia boccia senza appello l’ipotesi della nuova legittima difesa tanto cara a Salvini. “La difesa va assolutamente calibrata all’offesa altimetri si alimenta un clima da Far west - afferma. Se la legge verrà approvata chiunque avrà la possibilità di attentare alla vita altrui anche se non è in pericolo la propria”. Secondo Madia il pericolo maggiore è “la legittimazione della licenza di uccidere con la conseguente liberalizzazione delle armi. C’è il forte rischio di uno smodato di strumenti atti ad uccidere e di una proliferazione di attentati all’incolumità in modo del tutto ingiustificato rispetto ai rischi”. Non solo, il penalista è convinto che “a differenza di quanto sostiene il disegno di legge, non si eviterebbe affatto il processo per chi uccide per difendersi. Il giudice, infatti, sarebbe comunque chiamato a verificare quanto avvenuto durante la sparatoria”. Decreto sicurezza. Alle famiglie “povere” i beni sottratti alla mafia di Eugenio Bruno e Ivan Cimarrusti Il Sole 24 Ore, 17 settembre 2018 Nel decreto “sicurezza” che è atteso al Consiglio dei ministri in settimana e che dovrebbe affiancarsi alla stretta già pianificata sull’immigrazione spunta un’ampia riforma del Codice antimafia. Soprattutto in materia di confische dei beni di proprietà della criminalità organizzata. Una su tutte: la possibilità che l’immobile sottratto alle cosche sia dato in affitto “sociale” alle famiglie in condizioni di disagio, contenuta in una bozza del Dl. Con una novità all’orizzonte anche per le aziende: i provvedimenti di sequestro, confisca e nomina di amministratore giudiziario andranno iscritti presso il registro delle imprese. Un pacchetto di misure che si affianca agli altri capisaldi del provvedimento già annunciati: dal giro di vite sul noleggio di furgoni con finalità-antiterrorismo alla stretta sugli sgomberi degli edifici occupati illegalmente fino alla possibilità per i vigili urbani in servizio ai posti di blocco di accedere alle banche dati di Polizia e Carabinieri. Ma entriamo nel dettaglio. Locazioni in caso di disagio economico - L’articolo 18 della bozza di decreto detta una serie di modifiche dell’articolo 48 del Codice antimafia del 2011. Tra queste spunta la possibilità di cedere in locazione gli immobili confiscati a soggetti in difficoltà economiche. I beni, infatti, possono anche avere lo scopo di “incrementare l’offerta di alloggi da cedere in locazione a soggetti in particolare condizione di disagio economico e/o sociale”. Atti della confisca nel registro imprese - Di non secondaria importanza è l’articolo 20 del decreto che inserisce l’articolo 51-bis in tema di “iscrizione di provvedimento al registro delle imprese”. Così potranno essere liberamente consultabili la nomina dell’amministratore giudiziario e tutti gli atti giudiziari pubblici relativi all’impresa confiscata. Finanziamenti all’Interno e alla Giustizia - Il testo prevede novità anche in tema di autofinanziamento ai dipendenti e alle strutture del ministero dell’Interno e della Giustizia. In particolare si prevede - con la modifica del comma 10 del Codice antimafia - che attraverso la vendita dei beni confiscati affluiscano finanziamenti “nella misura del 40% al ministero dell’Interno, per la tutela della sicurezza pubblica e per il soccorso pubblico, nella misura del 40% al ministero della Giustizia, per assicurare il funzionamento ed il potenziamento degli uffici giudiziaria e degli altri servizi istituzionali”. Commissariamento dei beni - Tra i nuovi spunti c’è anche un aspetto legato alla razionalizzazione delle procedure di gestione e destinazione dei beni confiscati da parte degli enti locali. Il decreto precisa che “se entro un anno l’ente non ha provveduto alla destinazione del bene, l’Agenzia nazionale dispone la revoca del trasferimento ovvero la nomina di un commissario con poteri sostituitivi”. Il particolare non è di poco conto, in quanto non di rado si registrano, a livello locale, difficoltà nella destinazione di alcuni beni, per questioni legate a pressioni e minacce, come emerso da numerose indagini giudiziarie. Casellario giudiziario al restyling. Sentenze revocate, stop ampio a iscrizioni di Marzia Paolucci Italia Oggi, 17 settembre 2018 È uno schema di Decreto legislativo per la revisione della disciplina del casellario giudiziario quello all’esame delle commissioni giustizia di Camera e Senato chiamate a rendere il parere entro il 17 settembre. La legge delega di riferimento, la n. 103 del 23 giugno 2017 è la cosiddetta Legge Orlando, su modifiche al codice penale, di procedura penale e all’ordinamento penitenziario. Nonostante la Costituzione non lo preveda espressamente, il testo è frutto dell’invalsa prassi di sottoporne lo schema di decreto alle commissioni parlamentari competenti prima dell’approvazione definitiva di un decreto delegato da parte del Governo. Decorso il termine previsto per rendere i pareri, in virtù del principio della separazione dei poteri, il decreto potrà essere comunque emanato dal Governo. La revisione della disciplina del casellario giudiziale è prevista dal comma 18 dell’articolo 1 della legge delega di riferimento. Si tratterà di adeguarla alle modifiche intervenute in ambito penale e processuale e ai criteri di diritto della Ue in materia di protezione dei dati personali. Si semplificano e si riducono gli adempimenti amministrativi e si allungano i presupposti di eliminazione delle iscrizioni per via della maggiore durata media della vita umana. Le pubbliche amministrazioni e i gestori dei servizi pubblici potranno poi ottenere dall’ufficio del casellario centrale, il certificato generale delle iscrizioni presenti nella banca dati di una determinata persona, quando il certificato sia necessario alle loro funzioni. Sulle modalità di accesso all’ufficio del casellario, la normativa prefigura la stipula di apposite convenzioni tra le amministrazioni interessate. Altre novità riguardano l’eliminazione dell’iscrizione nei casi di pene non superiori ai cinque anni dichiarate non punibili per tenuità del fatto, purché il pm verifichi l’occasionalità del fatto addebitato e la rimodulazione dei limiti temporali per l’eliminazione delle iscrizioni delle condanne per fatti di modesta entità irrogate con decreto penale dal giudice di pace per pene non superiori ai sei mesi così da favorire il reinserimento sociale della persona. Tra le modifiche introdotte dallo schema del nuovo decreto ci sono all’articolo 3, tra i provvedimenti iscrivibili per estratto nel casellario, oltre alle ordinanze che per l’articolo 464-quater del codice di procedura penale, dispongono la sospensione del procedimento con messa alla prova, anche le sentenze che dichiarano estinto il reato per esito positivo della messa alla prova ai sensi dell’articolo 464-septies del codice di procedura penale. Una corposa parte di modifiche è poi quella relativa all’eliminazione delle iscrizioni: se finora si sono mantenute fino all’ottantesimo anno di età e alla morte della persona, ora il termine è stato esteso ai cento anni, anche qualora la persona sia morta prima. Iscrizione eliminata oltre che per le sentenze revocate a seguite di revisione anche per quelle revocate per rescissione ex articoli 669 e 673 del codice di procedura penale. Le iscrizioni nel casellario dei carichi pendenti sono eliminate non più all’ottantesimo anno di età o per morte della persona a cui si riferiscono ma solo in quest’ultimo caso. In ogni caso, l’ufficio centrale elimina dal sistema le iscrizioni relative alle persone trascorsi 100 anni dalla nascita e non più 80 o in caso di morte come accade attualmente. Cade anche la classificazione tra certificato generale, penale e civile, al loro posto un unico certificato che l’interessato ha il diritto di ottenere senza motivarne la richiesta. Per quanto riguarda invece il certificato dei carichi pendenti, all’elenco di situazioni non iscrivibili, si aggiungono i provvedimenti giudiziari di non punibilità ai sensi dell’articolo 131-bis del codice penale: tenuità del fatto, i provvedimenti che ai sensi dell’articolo 464-quater del codice di procedura penale dispongono la sospensione del procedimento con messa alla prova e le sentenze che ex art. 464-septies del codice di procedura penale, dichiarano estinto il reato per esito positivo della messa alla prova. Disciplinati anche i certificati richiesti dalle amministrazioni pubbliche e dai gestori di pubblici servizi per i quali vige la differenziazione tra certificato “generale” riportante tutte iscrizioni a carico del soggetto e “selettivo” contenente le sole iscrizioni pertinenti e rilevanti rispetto alle finalità istituzionali dell’amministrazione o del gestore. Omicidio colposo all’automobilista che investe il pedone in un tratto dove doveva rallentare di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 17 settembre 2018 Cassazione - Sezione IV penale - Sentenza 8 agosto 2018 n. 38219. In tema di circolazione stradale, il principio dell’affidamento trova un temperamento nell’opposto principio secondo il quale l’utente della strada è responsabile anche del comportamento imprudente altrui purché questo rientri nel limite della prevedibilità, tanto che l’obbligo di moderare adeguatamente la velocità, in relazione alle caratteristiche del veicolo e alle condizioni ambientali, va inteso nel senso che il conducente deve essere in grado di padroneggiare il veicolo in ogni situazione, ponendo in essere la manovra di emergenza necessaria all’evento, pur se questo è riconducibile al prevedibile comportamento imprudente o negligente altrui, ovvero alla violazione delle norme di circolazione da parte della vittima o di terzi. La sentenza n. 38219 del 2018 - In questa prospettiva, esente da censure è la sentenza n. 38219 della quarta sezione penale della Cassazione, che condanna per l’omicidio colposo in danno di un pedone pronunciata nei confronti di un automobilista che risulti non avere adeguato la propria velocità alle circostanze spazio-temporale, finendo con l’investire il pedone, in un contesto in cui non poteva dubitarsi che fra gli ostacoli prevedibili vi potesse essere un pedone che in ora notturna, in zona priva di illuminazione, ma frequentata dagli avventori di un locale notturno, attraversasse la strada in un punto privo di strisce pedonali: un tale ostacolo non poteva definirsi come improvviso, proprio per la vicinanza del locale e del traffico pedonale a esso connesso, sicché il conducente avrebbe dovuto tenere una velocità costantemente proporzionata allo spazio corrispondente al campo di visibilità al fine di consentirgli l’esecuzione utile della manovra di arresto, considerato il tempo psicotecnico di reazione nell’ipotesi in cui si profili un ostacolo improvviso. Le norme che presiedono il comportamento del conducente del veicolo, oltre a quelle generiche di prudenza, cautela e attenzione, sono principalmente quelle rinvenibili nell’articolo 140 del codice della strada, che pone, quale principio generale informatore della circolazione, l’obbligo di comportarsi in modo da non costituire pericolo o intralcio per la circolazione e in modo che sia in ogni caso salvaguardata la sicurezza stradale, e negli articoli seguenti, laddove si sviluppano, puntualizzano e circoscrivono le specifiche regole di condotte. L’obbligo di attenzione - Tra queste ultime, di rilievo, con riguardo al comportamento da tenere nei confronti dei pedoni, sono quelle dettagliate nell’articolo 191 del codice della strada, che trovano il loro pendant nel precedente articolo 190, che, a sua volta, dettaglia le regole comportamentali cautelari e prudenziali che deve rispettare il pedone. In questa prospettiva, la decisione della Cassazione ribadisce la regola prudenziale e cautelare fondamentale che deve presiedere al comportamento del conducente, sintetizzata nell’obbligo di attenzione che questi deve tenere al fine di “avvistare” il pedone sì da potere porre in essere efficacemente gli opportuni (rectius, i necessari) accorgimenti atti a prevenire il rischio di un investimento. Va ricordato che il dovere di attenzione del conducente teso all’avvistamento del pedone trova il suo parametro di riferimento (oltre che nelle regole di comune e generale prudenza) nel richiamato principio generale di cautela che informa la circolazione stradale e si sostanzia, essenzialmente, in tre obblighi comportamentali: quello di ispezionare la strada dove si procede o che si sta per impegnare; quello di mantenere un costante controllo del veicolo in rapporto alle condizioni della strada e del traffico; quello, infine, di prevedere tutte quelle situazioni che la comune esperienza comprende, in modo da non costituire intralcio o pericolo per gli altri utenti della strada (in particolare, proprio dei pedoni) (cfr., per riferimenti, tra le tante, sezione IV, gennaio 1991, Del Frate; sezione IV, 12 ottobre 2005, Leonini; sezione IV, 13 ottobre 2005, Tavoliere). L’ok sui conti nel penale vale anche nel tributario di Rosanna Acierno Il Sole 24 Ore, 17 settembre 2018 Ctr Marche, sentenza 44/1/2018. In caso di accertamento di maggiori redditi basato sull’inattendibilità della contabilità, il giudice tributario non può non tener conto della veridicità delle scritture contabili attestata dal tribunale al momento della omologazione dell’accordo di ristrutturazione dei debiti e della pronuncia penale di assoluzione perché il fatto non sussiste. Anche se, infatti, il procedimento penale e quello tributario non si influenzano tra loro, il giudice tributario può comunque valutare il materiale probatorio proveniente dal procedimento penale ed acquisito agli atti per verificare la rilevanza fiscale. Sono queste le principali conclusioni cui è giunta la Ctr delle Marche, con la sentenza 44/1/2018 (presidente Lauro, relatore Sereni Lucarelli). La controversia - La vicenda riguarda un avviso di accertamento Ires, Irap e Iva emesso nei confronti di una società a responsabilità limitata di costruzioni, con cui l’ufficio delle Entrate, a seguito di una verifica, accertava per l’anno di imposta 2009 redditi non dichiarati sulla base dell’asserita inattendibilità della contabilità e della conseguente ricostruzione indiretta dei ricavi derivanti dalla vendita di immobili sulla base dei coefficienti Omi. Contro l’avviso, la società proponeva ricorso innanzi alla Ctp di Ancona che, con sentenza del 2013, lo respingeva, confermando la legittimità dell’avviso di accertamento. Appellata tempestivamente la sentenza di primo grado dinanzi alla Ctr di Ancona, oltre a contestarne l’illogicità, con successiva memoria, la difesa faceva altresì rilevare ai giudici regionali che la presunta inattendibilità della contabilità su cui si basava l’accertamento era stata smentita dalla valutazione di veridicità e regolarità effettuata dal Tribunale di Ancona in sede di omologazione dell’accordo di ristrutturazione in base all’articolo 182-bis della legge fallimentare chiesta e ottenuta dalla medesima società. Inoltre, sempre la difesa faceva rilevare che, essendo superiore ai limiti legali di punibilità prescritti dall’articolo 4 del Dlgs 74/2000, la contestazione di maggiori asseriti redditi aveva determinato anche l’avvio del procedimento penale a carico della stessa società e che, con sentenza pronunciata nel 2015 e passata in giudicato, il Tribunale di Ancona ne aveva decretato la piena assoluzione perché il fatto non sussiste. La sentenza d’appello - Nell’accogliere l’appello, i giudici marchigiani hanno innanzitutto precisato che, per costante orientamento giurisprudenziale di legittimità, il giudice tributario non può limitarsi a rilevare l’esistenza di una sentenza definitiva in materia di reati tributari, estendendone automaticamente gli effetti con riguardo all’azione accertatrice del singolo ufficio tributario, ma, nell’esercizio dei propri autonomi poteri di valutazione della condotta delle parti e del materiale probatorio acquisito agli atti, deve, in ogni caso, verificarne la rilevanza nell’ambito specifico in cui esso è destinato ad operare. Tuttavia, nel caso di specie, l’appello merita accoglimento siccome non si può non considerare che: - le stesse presunzioni e gli stessi fatti posti alla base dell’accertamento impugnato sono stati oggetto di un procedimento penale conclusosi con una sentenza di assoluzione (per insussistenza del fatto); - gli stessi elementi sono stati presi in considerazione ai fini dell’omologazione di un accordo di ristrutturazione dei debiti. Trattasi di obblighi comportamentali posti a carico del conducente anche per la prevenzione di eventuali comportamenti irregolari dello stesso pedone, vuoi genericamente imprudenti (tipico il caso del pedone che si attarda nell’attraversamento, quando il semaforo, divenuto verde, ormai consente la marcia degli automobilisti), vuoi violativi degli obblighi comportamentali specifici, dettati dall’articolo 190 del codice della strada (tipico, quello dell’attraversamento della carreggiata al di fuori degli appositi attraversamenti pedonali; altrettanto tipico, quello dell’attraversamento stradale passando anteriormente agli autobus, filoveicoli e tram in sosta alle fermate). Conducente esente da colpa - Il conducente, infatti, ha, tra gli altri, anche l’obbligo di prevedere le eventuali imprudenze o trasgressioni degli altri utenti della strada e di cercare di prepararsi a superarle senza danno altrui (sezione IV, 30 novembre 1992, Cat Berro). Ne discende, quindi, che il conducente del veicolo può andare esente da responsabilità, in caso di investimento del pedone, non per il solo fatto che risulti accertato un comportamento colposo (imprudente o violativo di una specifica regola comportamentale) del pedone (una tale condotta risulterebbe concausa dell’evento lesivo, penalmente non rilevante per escludere la responsabilità del conducente: cfr. articolo 41, comma 1, del Cp), ma occorre che la condotta del pedone configuri, per i suoi caratteri, una vera e propria causa eccezionale, atipica, non prevista né prevedibile, che sia stata da sola sufficiente a produrre l’evento. Ciò che può ritenersi solo allorquando il conducente del veicolo investitore (nella cui condotta non sia ovviamente ravvisabile alcun profilo di colpa, vuoi generica vuoi specifica) si sia trovato, per motivi estranei a ogni suo obbligo di diligenza, nella oggettiva impossibilità di “avvistare” il pedone e di osservarne, comunque, tempestivamente i movimenti, attuati in modo rapido, inatteso, imprevedibile. Solo in tal caso, in vero, l’incidente potrebbe ricondursi eziologicamente proprio esclusivamente alla condotta del pedone, avulsa totalmente dalla condotta del conducente e operante in assoluta autonomia rispetto a quest’ultima. In definitiva, per escludere la responsabilità del conducente per l’investimento del pedone, è necessario che la condotta di quest’ultimo si ponga come causa eccezionale e atipica, imprevista e imprevedibile dell’evento, sì da poter sostenere che si tratti della causa esclusiva dell’evento. Ciò che deve escludersi, volendo esemplificare, nel caso di attraversamento del pedone, pur fuori dalle strisce pedonali, in zona prossima a un locale notturno, come nella fattispecie qui esaminata dalla Corte; ovvero nel caso di attraversamento in una strada costeggiata su entrambi i lati da case ed esercizi commerciali (cfr. sezione IV, 16 febbraio 2106, Bianchi, secondo cui, in tale contesto, infatti, il conducente del veicolo, pur non trovandosi nell’immediata prossimità di un attraversamento pedonale, deve considerare possibile l’eventuale [pur colposa] sopravvenienza di pedoni e, quindi, tenere un’andatura e un livello di attenzione idonei a evitare di investirli: la Corte, nel rigettare il ricorso avverso la sentenza di condanna dell’automobilista per l’investimento mortale di un pedone, ha così sostenuto non essere affatto eccezionale e imprevedibile che, nelle vicinanze di un bar, qualcuno decida di attraversare anche in assenza di strisce pedonali o di un semaforo, onde il conducente del veicolo deve tenere in debita considerazione tale eventualità). Terni: detenuto trovato morto in cella, la Presidente della Regione sollecita intervento Asl di Luca Biribanti tuttoggi.info, 17 settembre 2018 “È stato pestato? Da chi? Oppure non ha ricevuto cure sanitarie? Chiederò al Garante dei detenuti di approfondire e riferire anche alla Regione, intanto la Asl sta approfondendo la parte di sua competenza. Mai dimenticare gli ultimissimi, anche se oggi in Italia questo non va di moda”. Questo l’intervento della Presidente della Regione Umbria, Catiuscia Marini, su una delicata vicenda di cronaca che riguarda la morte di un detenuto nel carcere di Terni. I fatti risalgono alla settimana scorsa, quando ha perso la vita un cittadino moldavo di 38 anni trovato morto in cella dalle guardie penitenziarie. Il decesso, secondo il personale medico del carcere, sarebbe avvenuto per cause naturali, ma in un articolo de “Il Giornale” la vicenda è stata ricostruita con la testimonianza dei parenti che avrebbero, secondo quanto riportato dalla testata nazionale, avanzato dubbi sulle condizioni di salute del loro congiunto e su alcuni segni di violenza presenti sul corpo del proprio caro. Sul caso è stato aperto un fascicolo di inchiesta da parte della Procura della Repubblica di Terni, titolare del quale è il dottor Stramaglia. Abbiamo raggiunto telefonicamente la direttrice del penitenziario ternano, la dottoressa Chiara Pellegrini, per avere chiarimenti sulla vicenda: “Devo rispettare le indagini della Procura e non posso dire molto - sottolinea la Pellegrini - l’unica cosa che mi sento e posso dire è che nel carcere ternano la vittima non ha subito alcun tipo di violenza ed è stato sottoposto a tutti i trattamenti sanitari del caso. Era una bravo ragazzo - continua - si è sempre comportato bene ed aveva un buon rapporto con tutti”. Dalla Moldavia erano arrivate a Terni la sorella, la zia e la compagna che, agli inizi della settimana scorsa, avevano avuto un primo colloquio col proprio caro. Le tre donne si erano di nuovo recate a Vocabolo Sabbione per un secondo incontro e, proprio in quella circostanza, quando le guardie penitenziarie sono andate a chiamare il detenuto, lo hanno trovato privo di vita nella cella. Le donne hanno appreso così la notizia, circostanza che ha creato un profondo stato in choc, viste le modalità cruente con le quali hanno dovuto apprendere la notizia del decesso. “Capisco perfettamente il dolore dei congiunti - spiega ancora la Pellegrini - loro hanno tutto il diritto di esternare la propria disperazione, ma la morte, a nostro avviso, è avvenuta per cause naturali. Saranno le indagini della Procura - conclude - a fare chiarezza sul caso”. Napoli: detenuto con tumore in fase terminale, ispezione del Garante al Cardarelli di Gaia Martignetti fanpage.it, 17 settembre 2018 Il Garante campano delle persone private della libertà personale Samuele Ciambriello si è recato oggi in visita al padiglione Palermo presso l’ospedale Cardarelli di Napoli dove sono ricoverati-rinchiusi 12 detenuti delle carceri di Secondigliano e Poggioreale. Tra loro Ciro Rigotti, malato terminale di cancro, della cui drammatica vicenda si è occupata Fanpage.it. Il Garante regionale dei detenuti Samuele Ciambriello si è recato oggi in visita al padiglione Palermo che nell’ospedale Cardarelli di Napoli ospita i ricoverati-rinchiusi delle carceri di Secondigliano e Poggioreale. “Oltre ai dodici detenuti attualmente ristretti nel reparto Palermo ho incontrato anche due detenuti-degenti presso il pronto soccorso provenienti entrambi da Poggioreale, che si trovano sulle barelle, insieme ad altri degenti Uno è Ciro Rigotti, un sessantenne con un tumore maligno, fisicamente allo stremo, a cui il magistrato ha rifiutato gli arresti domiciliari e i cui parenti non possono assisterlo con continuità. Per i familiari dei detenuti presso gli Ospedali vale la regola carceraria della visita settimanale o di un’altra premiale a discrezione delle autorità competenti. Credo che questa disposizione sia da cambiare”. Si tratta dell’uomo la cui famiglia ha denunciato a Fanpage.it le condizioni incompatibili con la carcerazione. Ciambriello denuncia il numero ristretto dei posti a disposizione per i detenuti: “Su 7.419 detenuti nella nostra Regione, ci sono appena 34 posti nelle aziende ospedaliere: vanno incrementati e bisogna garantire nelle strutture sanitarie delle carceri macchinari essenziali, come la tac e la risonanza magnetica, e la presenza stabile del personale medico ed infermieristico perché a chi è diversamente libero va pienamente garantito il diritto alla salute ed un’organizzazione che consenta di dare una risposta sanitaria di qualità. Perché non aprire all’Ospedale del Mare un reparto con almeno 10 posti letto riservati alla popolazione carceraria?”. “Quando arrivi al Cardarelli - conclude - attendi anche più di un mese per essere operato perché l’operazione avviene nelle divisioni diverse dal padiglione dove si è ristretti e ci sono conflitti di competenze anche per far arrivare un’autoambulanza all’interno dello stesso ospedale”. Milano: la solidarietà non va in vacanza, la nostra estate all’Ipm Beccaria asrugbymilano.it, 17 settembre 2018 Due settimane di sport al Beccaria durante l’estate milanese. Doveva essere il coronamento di 10 anni del progetto Freedom Rugby, rivolto ai giovani del Carcere Minorile Beccaria, con cui Rugby Milano, sostenuta da Banco Bpm ed Edison, trasmette i principi tecnici e i valori etici della palla ovale. È diventato lo strumento per riportare un clima di serenità e cooperazione tra gli educatori e i ragazzi del Beccaria, che proprio quest’estate sono stati protagonisti di episodi di tensione. A sottolinearlo è lo stesso direttore dell’Istituto Penale Minorile Beccaria Fiorenzo Cerruto dicendo: “Siamo contenti e ringraziamo A.S Rugby Milano per l’esperienza realizzata all’interno del carcere Beccaria con i campus sportivi di luglio e agosto. La vostra presenza silenziosa ma fattiva in un mese come quello di agosto, che vede refrattari i più, mostra la vostra dedizione e sensibilità alla nostra realtà. In particolare non si può tacitare la prudenza, ma allo stesso tempo la cura e lo spirito di collaborazione mostrato all’avvio del primo campus, proprio all’indomani di un evento critico che ha portato questo istituto agli onori della cronaca. L’umiltà e la sensibilità come pure lo spirito di squadra e di adattamento hanno contribuito significativamente a riportare gradualmente un clima di normalità all’interno dell’Istituto”. La pratica sportiva, specialmente in contesti come quello del carcere minorile Beccaria, si conferma un eccellente strumento di formazione e normalizzazione per i ragazzi che scontano una pena. Quest’estate per due settimane (9 al 13 luglio e dal 6 al 10 agosto) Rugby Milano ha lavorato con i ragazzi del Beccaria coinvolgendoli e motivandoli sul piano sportivo e i ragazzi del Beccaria hanno risposto con partecipazione dimostrando di crescere velocemente sul campo. Una riprova che il rugby quando scende in campo su sfide tante ambiziose smuove e fa breccia anche sui giovani che attraversano percorsi difficili. “La proposta è nata in stretta collaborazione con associazioni sportive preparate, formate e abituate a lavorare in questo particolare contesto”, spiega Matteo Mizzon, responsabile dei progetti sociali biancorossi. L’ottima sintonia con la direzione del carcere e la costante presenza degli educatori dell’IPM, hanno fatto sì che l’occasione fosse un grande momento formativo”. Federico Pozzi, educatore dei progetti sociali biancorossi, sottolinea che “il campus estivo all’interno del carcere Beccaria ha permesso ai ragazzi di divertirsi mettendosi alla prova nelle dinamiche di un gruppo. Grazie allo sport, i ragazzi imparano sul campo l’importanza delle regole e il significato di parole come lealtà, sacrificio, abnegazione oltre che lo spirito di squadra. Per noi educatori è una sfida riuscire a portare della positività in un posto dove se ne respira davvero poca”. Giovanni Tanca, altro educatore di riferimento dei progetti sociali di ASR, aggiunge: “Nonostante le difficoltà che un carcere minorile può presentare quotidianamente, sono state due settimane molto positive, frutto della stretta e sincera collaborazione instaurata tra le diverse realtà che hanno contribuito alla riuscita del campus. L’attenzione del progetto, concentrata sulle risorse umane più che sportive dei giovani del Beccaria, ha permesso di lasciare qualcosa a questi ragazzi. Certi che il rugby li aiuti nel loro percorso di reinserimento sociale, resteremo al loro fianco con rinnovato impegno anche per la nuova stagione”. Immersi in un quotidiano non facile da capire a quest’età, infatti, i ragazzi del Beccaria hanno potuto vivere attraverso queste due settimane “a tutto rugby” un’esperienza che gli ha dato una diversa chiave di lettura della realtà che li circonda e di come viverla al meglio per riscattarsi. Quelle piazze piene per le proiezioni pirata del film su Cucchi di Paolo Di Paolo La Repubblica, 17 settembre 2018 Dalle università ai centri sociali, “Sulla mia pelle” viene mostrato gratuitamente sfidando il copyright. Molti l’hanno già visto su Netflix. Un impressionante effetto domino: le proiezioni gratuite, “clandestine”, di Sulla mia pelle, il film che racconta gli ultimi giorni di Stefano Cucchi, non si contano più. Roma, Milano, Trento, Parma, Bergamo, Fano, Bologna, Napoli. È un fenomeno spiazzante e repentino: il bisogno di comunità che si manifesta attraverso un film? Circoli di partito e laboratori politici, collettivi studenteschi, associazioni culturali - promotori diversi con lo stesso obiettivo: una visione collettiva pensata come gesto di militanza civile. Da nord a sud: a Rionero in Vulture (Potenza), lo spazio scelto dal Collettivo Rise Up era strapieno: “Uno degli incontri più partecipati degli ultimi anni”, racconta Marcello, uno dei promotori. “E non si trattava di un evento ludico. Il tema del diritto d’autore? Viene scavalcato dall’importanza di una questione che riguarda tutti, la prepotenza e l’abuso delle funzioni delle forze dell’ordine, i segni che lasciano “sulla nostra pelle”. La proiezione affollatissima di venerdì sera all’Università di Roma La Sapienza ha avuto una coda polemica sempre sulla tutela del copyright: “Ma in un Paese che definanzia sempre più la cultura, il problema non può essere questo”. Dal gruppo Sapienza Clandestina raccontano che è stata un’esperienza diversa da tutte le altre: “Abbiamo visto gente andarsene con gli occhi gonfi dalle lacrime ma anche con tanta rabbia. Il caso Cucchi, a Roma, non è mai stato solo un caso di cronaca nera: lo dimostrano duemila persone che hanno voluto vedere il film strette le une alle altre”. Platea eterogenea per età: non solo giovani, anche moltissimi adulti. Il punto è la condivisione: “So che molti partecipanti hanno già visto il film su Netflix o in sala, ma torneranno a vederlo”, spiega Vincenzo, che ha messo in piedi una proiezione a Marano (Napoli). “Non credo che in casi come questo si faccia un danno alla produzione, anzi. Iniziative così fanno crescere l’attenzione verso il film e soprattutto verso la storia che racconta, che tocca moltissimo chi abita le periferie e vive spesso situazioni di sfiducia nei confronti delle forze dell’ordine”. A Prato si proietta il film il 20 settembre nella piazza dell’Università: “Ci siamo completamente autofinanziati”, dice Diego di Left Lab. “Su Facebook abbiamo già mille persone prenotate. È una proiezione pirata, certo, ma il confine fra azione legale e illegale mi pare sia da riconsiderare sulla base di una comunità che si ritrova per un gesto fortemente politico”. A Milano, una prima proiezione organizzata dal laboratorio universitario Lume è fallita per qualche problema tecnico e per la pioggia; sarà replicata domani sera più volte. Racconta Giovanni: “L’evento Facebook, con 14mila partecipanti, era peraltro stato segnalato dalla produzione del film e rimosso. Insistiamo convinti che questa storia debba arrivare a più persone possibile e che vedere il film insieme faccia la differenza. Solo così si può costruire una coscienza intorno all’abuso di potere in divisa e in generale sulle condizioni di vita nelle carceri italiane”. Riecheggia così le parole di Ilaria Cucchi, che ieri ha contestato il “piantonamento” da parte delle forze dell’ordine a una proiezione ufficiale a Riccione. Ancora: Niccolò di Làbas, che ha organizzato la proiezione a Bologna: “È stato come scendere in piazza. È una verità, quella del film, troppo impegnativa per i singoli”. Riccardo, della rete giovanile Altre Menti Valle Peligna (Sulmona), indica - rispetto alla partecipazione - “numeri che per la nostra realtà molto piccola sono incredibili. Il bisogno di vedere il film insieme è stato manifestato dalle persone: d’altra parte, mancano spazi di aggregazione, di discussione. Il confronto è stato intergenerazionale e l’intervento di volontari che lavorano in carcere ha arricchito la discussione, proiettandola su realtà molto concrete e molto vicine”. Il produttore: “meglio in sala, pirateria nemica”. La sorella Ilaria: “è commovente” di Arianna Finos La Repubblica, 17 settembre 2018 Non solo nelle piazze alle proiezioni spontanee, in tanti sono andati a vedere Sulla mia pelle al cinema: nei primi quattro giorni il film sulla storia di Stefano Cucchi ha incassato oltre 183 mila euro, quasi trentamila spettatori e una media per sala molto alta. “È un’emozione enorme”, racconta Ilaria Cucchi. “Se penso da dove siamo partiti, mio fratello Stefano morto come un cane, vedere l’abbraccio di tante persone normali è una cosa grandissima”. Delle affollate proiezioni “clandestine” sparse per l’Italia dice: “Questa storia ormai appartiene alla collettività. Chiaramente vedere il film e Alessandro Borghi al cinema è meraviglioso e commovente. Ma d’altra parte questo movimento spontaneo è un segnale forte. A dispetto di chi voleva metterla a tacere, questa storia oggi si vede nelle piazze e in centonovanta paesi. A noi interessa che sia visto, che se ne parli. Con la nostra Onlus siamo estranei a ogni operazione economica”. Il produttore del film Andrea Occhipinti di Lucky Red (con Cinemaundici) ritiene che “l’interesse sulla storia di Stefano Cucchi è importante. Ma la pirateria per noi è il nemico che minaccia i posti di lavoro. Fin da subito è stato contrario alle proiezioni nei luoghi pubblici. Aveva proposto di aspettare almeno prima del 14 ottobre, “perché sono pirata”, ricorda. “La pirateria mette a rischio i posti di lavoro. Le autorità ci dicono che possono fare poco di fronte a iniziative improvvisate, non riescono ad arginarle. Noi difendiamo il lavoro che non è solo del regista e degli attori ma della struttura che c’è dietro e che va remunerata. Io sono andato alla proiezione alla Sapienza di Roma: non si capiva nulla, si sentiva male, tutti parlavano e bevevano. Come fai in queste condizioni a goderti il film?”. Alessandro Borghi ha la voce colma d’emozione: “Quando vedo una foto con 2.200 persone sul prato a vedere il film mi viene da piangere. Quello che succede va al di sopra del cinema, stiamo tutti lottando per la stessa causa, c’è un’unione di gente che guarda il racconto sulla stessa grande piattaforma, in una comunione di pensieri”. Ma, avverte “voglio ricordare che ogni biglietto staccato è la possibilità di vedere l’anno prossimo un nuovo film bello. Chi vuole dare un vero sostegno, lo fa andando al cinema. Se non fossi stato a Padova, sarei andato alla Sapienza, non sono un bacchettone. Mi spiace si debba vedere il film su uno straccio bianco largo un metro, diventa altro: stiamo insieme in piazza per Stefano, ma allora non serve proiettare il film”. Borghi ha creduto nel film “già leggendo la sceneggiatura, sapevo che avrebbe mosso gli animi. Ma è meraviglioso arrivare davanti alle sale e trovare la folla”. I modi per combattere la “non-verità” sul web di Riccardo Viale Corriere della Sera, 17 settembre 2018 Ciò che è nuovo oggigiorno è il corto circuito fra fake news e manipolazione comportamentale attraverso i social media. L’insidia delle “fake news” non è un fenomeno nuovo. Già Carlo Magno era molto preoccupato del diffondersi di bufale nel suo impero. A riguardo Agoabardo, arcivescovo di Lione, stupefatto per la stupidità dei franchi e per compiacere l’imperatore scrisse perfino un trattato contro le false credenze che correvano nel popolo. Ciò che è nuovo oggigiorno, però, è il corto circuito fra fake news e manipolazione comportamentale attraverso i social media. Questo cortocircuito potenzia a dismisura il fenomeno e lo rende impermeabile agli strumenti della ragione, con grave rischio per l’autorevolezza delle istituzioni democratiche a partire da quelle culturali e scientifiche. Vediamo come funziona questo meccanismo. Prendiamo il caso dei vaccini, ma lo stesso potrebbe dirsi dell’elettrosmog, degli Ogm e di molti altri fenomeni di negazionismo scientifico, tecnologico ed industriale. Informazioni senza alcuna conferma di tipo scientifico catalizzano la formazione di gruppi ed associazioni di persone che su quella base riescono a costruire forme di narrazione a forte impatto identitario. A esempio “i vaccini fanno male perché nella loro preparazione è contenuto un conservante che può generare malattie come l’autismo. Il governo, l’Istituto Superiore della Sanità e l’Oms sono generalmente asserviti agli interessi delle imprese e, perciò, censurano queste informazioni”. Di fronte ad identità sub-culturali come queste la ragione scientifica ha le armi spuntate. In teoria uno si aspetterebbe che argomenti a favore dei vaccini presenti nella letteratura scientifica, siano in grado di smontare l’insieme di fake news su cui si basa il movimento no vax. In molti test comportamentali si è constatato, invece, che più si pone il problema vaccini su un piano razionale e di dati oggettivi, più si ha una reazione contraria di aumento della credenza irrazionale. Il fenomeno ha che fare con un effetto, chiamato della verità illusoria. L’individuo che è d’accordo sulla nocività dei vaccini, quando sente di nuovo queste tesi, anche se in senso critico e per confutarle, rafforza ulteriormente la sua credenza. È la ripetizione di una credenza, anche se falsa, che aumenta la sua verosimiglianza soggettiva. Perché rafforza la sua familiarità che significa veloce recupero dalla memoria a lungo termine, comprensione facile ed immediata, quindi maggiore sensazione di affidabilità e fiducia. Questo fenomeno viene amplificato e sfruttato attraverso il web. Come? Da una parte attraverso meccanismi come il newsfeed di Facebook, cioè attraverso quegli algoritmi che usando la logica dell’esca (“clickbait”), selezionano le informazioni da farti vedere, in base a quello a cui sembri più sensibile ed interessato. Ad esempio se sei un no vax, vedrai soprattutto informazioni sulla nocività dei vaccini. Il web funziona come un gigantesco pregiudizio di conferma digitale che riduce il senso critico e rafforza le convinzioni più dogmatiche. Povero Karl Popper, anche nella tomba non può trovar pace. Questo fenomeno comportamentale dà luogo a delle facili occasioni di manipolazione. Attraverso gli scambi sui social network è possibile costruire dei profili piuttosto esatti sulla personalità e le convinzioni del cittadino. Recenti ricerche hanno dimostrato che solo con i dati di 100 like di Facebook è possibile costruire giudizi molto accurati sulla personalità di un individuo. Con 300 il giudizio è pari a quello del proprio coniuge. Come dimostra il caso di Cambridge Analytica, nella nostra interazione con i social media, noi lasciamo una impronta digitale che può essere facilmente sfruttata per manipolare il nostro consenso. Se chi vuole manipolare la tua scelta, ad esempio a fini politici, non ha ancora dati sufficienti sul tuo profilo comportamentale, può ricavarli inviando messaggi attraverso i social media e classificando in tal modo le tue risposte. Ciò è stato fatto nella campagna elettorale di Trump attraverso l’utilizzo di milioni di messaggi via Twitter inviati dai Bot (cioè dai robot digitali). In questo modo è possibile identificare gruppi di individui che hanno credenze peculiari come i no vax e abbinare il messaggio politico al rafforzamento di queste convinzioni al fine di ottenere il loro sostegno politico. D’altra parte le credenze irrazionali come quelle dei no vax sono un attrattore naturale di fake news a loro coerenti. Ed un candidato politico può facilmente sfruttare questa permeabilità per i suoi fini elettorali. Gli strumenti per combattere, in questa epoca di montante post-truth (dopo-verità), non sono molti. Tralasciando quelli sanzionatori per l’oggettiva difficoltà tecnica e politica di applicazione, rimangono quelli comportamentali. Nel caso delle bufale scientifiche alcuni studi indicano come per contrastarle sia necessario un linguaggio scientifico semplificato e non da addetti ai lavori (Piero Angela docet), senza tante statistiche e concetti astrusi. Inoltre è fondamentale che la sorgente della informazione goda della fiducia e faccia, possibilmente, parte della famiglia. Non tanto quindi istituzioni scientifiche o tecniche quanto il pediatra di fiducia o l’insegnante dei propri figli. Inoltre come insegnano le tecniche di nudging, si deve stimolare l’imitazione sociale descrivendo il comportamento della maggioranza a favore della verità, senza alcun riferimento critico e rincorsa verso le fake news e le minoranze che le sostengono. Pena la sollecitazione dell’effetto della verità illusoria e l’imitazione dei comportamenti a loro favore. Infine la ripetizione massiccia e continua sul web di ciò che sappiamo essere la verità accettata a prescindere dalle bufale in circolazione (è nato un movimento “Pro-Truth Pledge” che ha proprio questo obbiettivo). Come diceva Napoleone “vi è una sola figura della retorica degna di importanza, la ripetizione”. Migranti. La strage dimenticata dei neri di Castel Volturno di Conchita Sannino La Repubblica, 17 settembre 2018 Dieci anni fa il raid dei Casalesi: sei vittime innocenti davanti alla sartoria. La moglie del superstite: uccisi come animali. Il sindaco: addio integrazione. Un uomo che esce dal suo negozio, sul vuoto della Domiziana. L’insegna promette “Perfette tolettature cani”, siamo già nel Dogman di Garrone. Ma lui è solo un “onesto commerciante bianco” che avverte Salami Taiwiou, mentre l’operaio liberiano sta verniciando la stele in memoria dei fratelli africani uccisi. “Passate lo smalto che volete. Fate le cerimonie, domani. Però ricordatevi che la lapide poggia su un suolo che è privato, di italiani”. Esattamente dieci anni dopo, la camorra non uccide, le parole sì. A Castel Volturno, anche la memoria non trova pace. Al chilometro 43, accanto al venditore di animali, ecco la saracinesca su cui si scatenò l’inferno. Si chiamava “Ob Ob Exotic Fashion”, la bottega di Baba Alhaji Ibrahim Muslim. Era il locale di un giovane sarto ghanese, resta simbolo della più devastante strage di matrice razzista messa a segno dalla mafia dei casalesi: quella di Peppe ‘o Cecato, capo dell’ala stragista dei bidognettiani, oggi l’ergastolano al 41bis Giuseppe Setola. Era il 18 settembre del 2008, sei morti, un ferito, tutti incolpevoli. Massacrati dai proiettili, restano a terra Awanga Karim Yakubu, Wiafe Kwadwo Owusu, Taller Affum Yebolah, Julius Antwj Kwame, Samule Sonny Justice e lo stesso Alhaji. Hanno tra i 20 e i 30 anni. Un’esecuzione che provoca la prima rivolta dei neri, scene da guerriglia civile. Il settimo, Joseph Ayimbora, ne esce vivo solo perché si finge cadavere. Ma prima di morire, nel 2012, va ad accusare gli assassini in aula. E ora sua moglie, che chiameremo Mary, dalla località protetta dove sta tirando su i suoi tre figli, dice a Repubblica: “Non tornerò a Castel Volturno, lo shock fu enorme. Massacrati come animali. Perché? Quei compagni ghanesi sono stati dimenticati. Sono morti piccoli, per l’Italia”. Eppure Joseph e Mary hanno chiamato il loro terzo figlio, un anno dopo la strage, con il nome del poliziotto che aveva coordinato le indagini. “Sì, mio marito ha creduto nella giustizia, ha visto le condanne, ma non è stato risarcito”. Domani, al decennale, partecipano i connazionali, il vescovo Salvatore Visco, le forze dell’ordine, le associazioni, le Onlus. Due scuole faranno un “gioco senza frontiere” per scoprire le facce e le vite di quei morti senza memoria. Difficile però che partecipino gli altri, i cittadini semplici. “L’integrazione qui? Sembra impossibile - allarga le braccia il sindaco, Dimitri Russo - Qui abbiamo un Piano ad hoc finanziato con 20 milioni ma chissà quando lo vedremo. Eppure quella strage fu uno spartiacque, da allora lo Stato reagì, ma a parte gli arresti e i clan decapitati, socialmente non è cambiato niente. Un mio fallimento? Ma un sindaco non ha risorse per ribaltare 30 anni”. Questa è una terra che ormai ha perso l’innocenza. L’antica via Appia incisa da abusi e abbandono. Il fiume Volturno generoso e inquinato. Il litorale non balneabile. Le spiagge trascurate. Le case con vista mare - fino agli anni Ottanta splendide e lussureggianti - abbandonate o occupate abusivamente, o svendute, o fittate per pochi spiccioli. Cento euro una villetta: buona per venti o trenta migranti. Anche al centro Fernandes sanno che devono farcela da soli. “Si usa la parola immigrazione come spot. Ieri come oggi. Nessuno ha mai affrontato il dramma in maniera organica. Qui ci sono africani che da 10-15 anni vivono in un limbo. E alle nostre porte bussano tante donne incinte”, ricorda Antonio Casale. Basta spulciare tra i numeri dell’ambulatorio di Emergency, attivo da 5 anni. “Abbiamo 8.500 pazienti tutti stranieri, molte giovani madri costrette allo sfruttamento sessuale. E quelli poi con disagio psichico, non esistono per nessuno”, denuncia Sergio Serraino. All’ex Canapificio, invece, sono preoccupati per l’eventuale approvazione del decreto Salvini. “Lo schema di decreto legge proposto dal Ministro dell’Interno vorrebbe intervenire sul rilascio dei permessi per motivi umanitari - ragiona l’operatrice Mimma D’Amico - Alla luce della nostra esperienza, questo è di enorme pericolosità: scatenerà conflitti sociali e altre irregolarità”. Serraino è categorico: “Qui non ci sono solo le mafie nigeriane. Venite sulla Domiziana alle 4 del mattino, la massa è fatta di ragazzi che si spaccano la schiena fino a sera. Sono lavoratori e soli: come quelli finiti nel bagno di sangue”. Domiziana, civico 1083. Flashback, le sette di sera di quel 2008. Chi cuce, chi misura i pantaloni, chi ha una birra. Il commando piomba davanti alla bottega, “travestito” con pettorine della polizia. Movente? Non c’è. Vogliono dare un segnale agli africani che spacciano: imporre la tangente sulla droga. Ma poiché i “cattivi” in giro non si trovano, decidono di massacrare i “buoni”: tanto, “sempre niri sono”, svelerà un pentito. Quattro pistole, tre mitragliatrici: guida Setola ‘o Cecato, ci sono anche Giovanni Letizia, Davide Granato, Alessandro Cirillo e Oreste Spagnuolo (tutti condannati con “l’aggravante dell’odio razzista”). Sparano oltre 130 colpi. A strage compiuta Setola si assicura. “So’ muort’?”. Sì. Lui: “Sti niri ‘e merda”. I nomi incisi sulla stele che Taiwiou sta verniciando. Con lui c’è un pastore, Prosper Doe. Di italiano ne sa poco, ma efficace. “Dopo i morti innocenti, ancora razzismo. Dobbiamo lavorare su questo casino”. Migranti. Pressing di Salvini sulla Tunisia: “rimpatri più rapidi, rivedere l’accordo” di Grazia Longo La Stampa, 17 settembre 2018 Obiettivo: imbarcare sui charter i nordafricani arrivati a Lampedusa con i barchini. Martedì vertice a Roma. Per ora restano in Italia, ma già la prossima settimana buona parte dei 184 tunisini sbarcati venerdì a Lampedusa con 7 barchini, potrebbe tornare a casa. L’obiettivo è la revisione al rialzo dell’accordo bilaterale con la Tunisia per incrementare il numero settimanale dei rimpatri. Il ministro dell’Interno, Matteo Salvini ha infatti avviato una trattativa con il suo omologo tunisino per aumentare il numero degli immigrati clandestini sbarcati sulle nostre coste. Il nuovo accordo potrebbe vedere la luce martedì prossimo, a Roma, durante l’incontro tra Salvini e il ministro dell’Interno tunisino. Ma la fase interlocutoria è in corso e già la prossima settimana i voli charter verso Tunisi potrebbero essere tre, invece dei due attualmente in programma, o potrebbe aumentare il numero dei rimpatriati sui due viaggi. Gli aspetti tecnici devono essere ancora delineati nel dettaglio e la questione è quanto mai delicata. Eppure non è escluso che a breve possa essere risolta l’emergenza dei migranti arrivati a Lampedusa a bordo di piccole imbarcazioni, dopo la chiusura dei porti imposta dal vicepremier. Il quale, per la verità, avrebbe già voluto procedere alle operazioni e chiudere subito la partita. È stato però bloccato dalla Tunisia che ha evitato un’accelerazione immediata dei rimpatri. Ma la dialettica politica è andata avanti e il progetto di Salvini pare destinato a concretizzarsi nei prossimi giorni. E così al Viminale circola un cauto ottimismo sull’esito positivo della trattativa in corso. “Attualmente sono previsti due voli charter, il lunedì è il giovedì con 40 passeggeri per volta - precisano -, ma il numero in realtà non è nero su bianco. Si tratta di una consuetudine consolidata fino al momento. Ma siamo in una fase interlocutoria con il governo tunisino per cui contiamo di poter far crescere il numero dei rimpatri settimanali per situazioni straordinarie come quella in corso. Puntiamo in tutti modi a favorire la velocizzazione dei rimpatri i n Tunisia”. Il leader della Lega riuscirà a raggiungere l’obiettivo che si è prefissato? “Stiamo lavorando sul flusso in arrivo dalla Tunisia - dichiara -. Martedì avrò un incontro a Roma, perché lì non c’è guerra, non c’è carestia e non si capisce perché barchini o barconi debbano partire dalla Tunisia e arrivare in Italia”. E aggiunge: “Siamo impegnati per cambiare gli accordi che ci hanno lasciato e che non sono assolutamente soddisfacenti”. Nel frattempo i 184 extracomunitari sono stati accompagnati a Trapani per le regolari procedure di identificazione e si aggiungono ai 1.713 clandestini da rimpatriare sui 3.515 giunti nel nostro Paese dal 1 gennaio al 9 settembre scorso (1.812 sono stati invece rimpatriati). Con 4.200 persone, la Tunisia è la prima nazione di provenienza dei migranti approdati sulle nostre coste. Resta da capire quanto sia effettiva l’apertura tunisina alle esigenze italiane. Certo è, intanto, il successo nei consensi ottenuto ogni giorno di più da Matteo Salvini in materia di immigrazione. In un sondaggio sul caso della nave Diciotti (per cui il titolare del Viminale è stato indagato per sequestro di persona) il 61% degli italiani si schiera dalla sua parte. Migranti. Perché e giusto distinguere tra solidarietà e sicurezza di Eugenio Mazzarella Il Mattino, 17 settembre 2018 Le dichiarazioni del governatore della Campania Vincenzo De Luca sulla necessità di reprimere sacche di delinquenza territoriale riferibili ai migranti - per essere precisi si è riferito a “bande” di nigeriani, e non ai nigeriani in quanto tali, con il seguito di commenti sul suo passato di sindaco “sceriffo”, le porte apertegli dal leghismo locale e quindi la necessità di dover chiarire che la sua non è una posizione contro l’accoglienza ma di repressione della malavita organizzata, la dice lunga su come oggi è difficile comunicare qualcosa che attenga alla sostanza dei problemi. I social e la stampa, al netto dell’ovvio pretesto polemico degli avversari, fanno in queste situazioni - un vero corto circuito politico-mediatico - la loro parte. Nel merito, De Luca ha detto un’ovvietà sulla gestione della sicurezza e della quiete pubblica: che, cioè, la delinquenza, soprattutto se organizzata, e i comportamenti socialmente rischiosi andrebbero repressi con mano ferma. Il fatto che operino in tal campo gruppi di migranti non esonera dall’esercizio dell’azione penale per giustificazionismo sociologico. Quest’approccio non ha niente di razzista, ma anzi aiuterebbe, se promosso con efficacia, a migliorare la propensione all’accoglienza delle società locali; propensione fortemente in crisi per un micidiale mix di problemi oggettivi in diverse situazioni (De Luca ne ha richiamate alcune che ci riguardano da vicino), problemi non gestiti e lasciati incancrenire, e di un’ondata identitaria con punte xenofobe cavalcata quando non promossa da una destra che ha deciso di puntare sulla carta securitaria in vista delle prossime Europee e di un eventuale ritorno alle urne. Un mix che contribuisce ad alterare profondamente la percezione degli italiani sul problema dei migranti, creando nell’immaginario un’invasione che non c’è, nelle statistiche e nella realtà. E bene ha fatto De Luca a rifiutare l’invito a partecipare come “sceriffo ospite” alla festa della Lega. Perché se si ragiona, al di là dei pregiudizi polemici, la sua è una critica forte proprio all’indirizzo politico dell’attuale titolare del Viminale. Nell’approccio del governatore, il problema non sono i migranti sui barconi. Che sono assolutamente da accogliere nel rispetto dei diritti umani e prima ancora della civiltà di un popolo da sempre crocevia del Mediterraneo, e del suo buon nome nel mondo e in Europa. Il problema è quella quota di immigrazione che - per una disastrosa gestione dei migranti presenti sul territorio italiano, lasciati allo sbando tra esercito salariale di riserva al nero e manovalanza della delinquenza organizzata per lo spaccio al minuto dei suoi traffici, dalla droga alla contraffazione fino ai fazzoletti venduti ai semafori - aumenta da sempre l’insicurezza reale, e non solo percepita, degli italiani. L’approccio di questo governo mi pare del tutto in linea con le omissioni dei governi precedenti; non a caso De Luca anche in questa occasione se la prende con il suo partito, il Pd, che se continua a restare afono sulla spinosa vicenda sancisce la sua inutilità: al governo della cosa pubblica non tornerà mai, mancandogli non solo i fatti, ma persino la parola sulle questioni più scottanti. La stella polare della politica sui migranti, che migliorerà la percezione degli italiani del problema, dovrebbe essere quella dell’accoglienza intelligente e generosa in mare e della gestione ferrea della sicurezza sulla terra ferma. Un approccio che ci farebbe riguadagnare anche stima in Europa. Stati Uniti. Ancora 500 minori sono ostaggio delle politiche anti-migratorie di Trump di Milena Nebbia La Repubblica, 17 settembre 2018 Nonostante la retromarcia dell’amministrazione statunitense, dopo la sentenza di un giudice federale, centinaia di bambini rimangono separati dalle famiglie. Garibaldi è semisdraiato sul divano e guarda in tv un film su Karate Kid sottotitolato in spagnolo. Sembra ipnotizzato dallo schermo e isolato dal resto delle persone che affollano la sala del centro di prima accoglienza. Si gira soltanto per vedere se la madre è ancora lì, alle sue spalle, e quando lei ricambia lo sguardo e sorride, allora riprende a fissare lo schermo. Garibaldi ha il nome dell’eroe dei due mondi, ma non lo sa, nemmeno la madre - che non cerca nemmeno più di nascondere la cavigliera elettronica dei detenuti ai domiciliari - sa perché il padre, che li ha abbandonati dopo alcuni mesi dalla nascita, lo avesse chiamato così. Ma anche lui è, a modo suo, un eroe: è uno dei 2.551 bambini dai 5 ai 17 anni che sono stati separati dai propri genitori che cercavano di varcare il confine tra Messico e Stati Uniti senza documenti, a seguito della politica di “tolleranza zero” dell’amministrazione Trump a partire dalla primavera. Garibaldi e la madre hanno potuto rivedersi grazie alla sentenza del giudice federale di San Diego che ha ordinato la riunificazione delle famiglie, a partire da fine luglio. La Casa dell’Annunciazione, un rifugio sicuro. L’accoglienza è assicurata dai volontari di Annunciation House, un rifugio per migranti che opera da decenni al confine tra Messico e Stati Uniti, una delle quattro Ong autorizzate negli Usa a gestire la riunificazione delle famiglie. A partire dal 26 luglio, quindi, decine di persone sono state accolte con i loro figli, dopo settimane o mesi di separazione. “Mi sembra come se questi bambini siano molto, molto calmi, mentre di solito, a quest’età, sono molto rumorosi - dice Marie Schuetze, 24 anni, californiana, a fine del suo anno di servizio volontario ad Annunciation House - a volte hanno solo questi occhi grandi con cui ti guardano senza parlare, quasi congelati, immobili, la loro paura maggiore è di poter essere separati nuovamente”. Rinchiusi in vere e proprie prigioni. Ruben Garcia, il direttore del rifugio, ha spiegato che i bambini hanno iniziato a raggiungere El Paso dalle strutture detentive sparse nel territorio americano. Il primo contatto tra padri e figli avviene nelle strutture dell’ICE, centri di detenzione dove gli adulti sono temporaneamente detenuti in attesa di andare davanti al giudice, se hanno richiesto asilo politico. Si tratta di vere e proprie prigioni, presenti in molti stati americani, ma di cui il Texas detiene il primato. Solo nella zona di El paso ce ne sono due, di cui uno, il Sierra Blanca, disperso in mezzo al deserto, è stato al centro di denunce da parte dei associazioni per i diritti umani in quanto si sarebbero verificati, nei confronti di un gruppo di Somali, atti di violenza fisica, rifiuto di trattamenti medici, insulti razziali, attacchi con spray al peperoncino. Il danno è ormai fatto. Attualmente sono ancora almeno 500 i ragazzi separati dai loro genitori e non riuniti alle famiglie per vari motivi e che quindi risultano ancora in custodia governativa, vuoi perché i genitori sono stati rimpatriati oppure perché non si riesce a verificare di chi siano figli, non ci sono documenti, bisogna aspettare i test del Dna. I centri per minori negli Stati Uniti sono generalmente gestiti da enti privati che hanno visto crescere il loro giro d’affari negli ultimi mesi. “Nel mio anno trascorso qui dice Marie, in realtà ho visto i minori separati dai genitori già molto prima che attraverso la stampa si diffondesse la notizia della politica “tolleranza zero” di Trump, quindi la pratica era già in atto, poi è soltanto aumentata nei numeri. È più crudele di quanto si possa immaginare, è qualcosa che resterà nella loro memoria per sempre”. Ma Garibaldi è un bambino coraggioso, ci racconta che non aveva a paura a New York, nella struttura in cui ha trascorso due mesi, ma si sentiva solo, gli mancava la mamma, però, aggiunge con orgoglio, ho imparato a contare in inglese fino a dieci: “one, two, three”. I migranti, mercanzia per i coyote. La famiglia di Garibaldi viene dal Guatemala, uno dei paesi del cosiddetto “triangolo nord” del Centroamerica, con Honduras e Salvador, da cui si fugge alla ricerca dell’american dream: insicurezza, mancanza di opportunità, sottosviluppo, corruzione, scarsa governabilità, disuguaglianza sociale. Nei loro viaggi della speranza si affidano molto spesso ai coyote, i trafficanti di esseri umani, indebitandosi e quindi rischiando di perdere anche il poco che hanno senza alcuna garanzia di successo. Rischiano la vita, vengono derubati, maltrattati dalla polizia federale messicana. Eppure Garibaldi e sua madre continuano a sognare l’America, vorrebbero raggiungere dei primos, cugini, a Minneapolis. Ma lo sapranno, loro che vengono dal paese dell’eterna primavera, quanta neve cade nel Minnesota in inverno? Siria. 300 medici e infermieri manifestano contro l’offensiva Idlib di Marta Serafini Corriere della Sera, 17 settembre 2018 In camice bianco, o con le uniformi blu o verdi, i manifestanti, sia uomini che donne hanno sfilato con la bandiera simbolo della rivoluzione siriana. Oltre 300 medici e infermieri hanno manifestato oggi in Siria nella provincia di Idlib, preoccupati per una possibile offensiva del regime di Bashar Assad e chiedendo alla comunità internazionale di proteggerli. In camice bianco, o con le uniformi blu o verdi, i manifestanti, sia uomini che donne, si sono raccolti davanti a un ospedale ad Atme, vicino alla frontiera con la Turchia, tenendo in mano una rosa o la bandiera della rivoluzione siriana. In queste ultime settimane i bombardamenti dell’artiglieria del regime e i raid aerei dell’alleato russo hanno preso di mira diverse zone di Idlib, colpendo talvolta degli ospedali o dei centri di soccorso in questo ultimo bastione dei ribelli nel Paese. Dall’inizio dell’offensiva sono numerosi i medici e gli ospedali colpiti dai raid. Gli attacchi hanno provocato le critiche delle Nazioni Unite e delle organizzazioni per i diritti umani. In Siria, nelle zone sotto il controllo del governo, si sono tenute le prime elezioni locali dal 2011, quando nel Paese scoppiò la rivolta contro il presidente Bashar Assad. Gli oltre 6.550 seggi hanno aperto alle 7 locali (le 6 del mattino in Italia) e le operazioni di voto sono state estese di cinque ore fino a mezzanotte (le 23 in Italia); secondo l’agenzia di stampa di Stato Sana a causa della “alta partecipazione”. Non sono stati tuttavia forniti dati di affluenza. Domenica in Siria è una regolare giornata lavorativa. Sono oltre 40mila i candidati in corsa per 18.478 posti nei consigli amministrativi locali. I consiglieri restano in carica per quattro anni a livello municipale. In Siria le ultime elezioni amministrative risalivano a dicembre del 2011, nove mesi dopo l’inizio del conflitto. Elezioni parlamentari si sono tenute nel 2016 e nel 2014 ci sono state invece delle elezioni presidenziali, con le quali Assad si è assicurato un nuovo mandato di sette anni. Nei sette anni di conflitto sono state uccise oltre 360mila persone e milioni di residenti sono stati costretti a fuggire. Adesso l’esercito siriano ha ripreso il controllo di circa i due terzi del territorio, con una serie di vittorie, recentemente intorno a Damasco e nel sud del Paese. Yemen. L’allarme dell’Unicef: a 11 milioni di bimbi serve aiuto umanitario La Stampa, 17 settembre 2018 Carenza di cibo, malattie e sfollamenti rendono la situazione nel Paese sempre più grave. Reti idriche, scuole e strutture sanitarie sono sotto attacco. “Dopo oltre 3 anni di combattimenti, la situazione dei bambini in Yemen continua a peggiorare e non a migliorare. In Yemen si trova il maggior numero di bambini che ha bisogno a livello globale di assistenza umanitaria. Oltre 11 milioni di bambini - l’80% dei bambini del paese - hanno disperato bisogno di assistenza umanitaria”. A riferire della drammatica situazione dei minori nel Paese africano è l’Unicef. “Questi bambini - denuncia l’organizzazione delle Nazioni Unite per l’infanzia - affrontano ogni giorno la minaccia della carenza di cibo, malattie, sfollamenti e grave carenza di accesso a servizi sociali di base. I servizi sociali sono a malapena in funzione e tutto il paese è sull’orlo del collasso. Le già deboli infrastrutture civili - comprese le reti idriche, le scuole e le strutture sanitarie - sono sotto attacco. I beni di base sono gravemente insufficienti. Quando mancano i servizi, i bambini sono i primi a soffrire.” “Settembre - rileva ancora l’Unicef - è il mese in cui in molti paesi si torna a scuola, compreso lo Yemen. L’anno scolastico è iniziato il 9 settembre nel Sud del paese, e dovrebbe cominciare oggi nel Nord. Come per gli altri settori, quello dell’istruzione in Yemen è sull’orlo del collasso a causa del conflitto in corso, delle divisioni politiche tra le parti coinvolte nel conflitto e del sottosviluppo cronico. Per quest’anno, stimiamo che 2 milioni di bambini non frequenteranno la scuola (prima del conflitto, secondo le stime del Ministero dell’Istruzione i bambini fuori dalle scuole erano circa 1,6 milioni). Stimiamo anche che circa altri 4 milioni di studenti della scuola primaria rischino di perdere l’accesso all’istruzione - principalmente nelle provincie settentrionali dello Yemen - perché il 67% degli insegnanti nelle scuole pubbliche - e così in tutto il paese - non ricevono stipendio da circa 2 anni”. Uruguay. Così la marijuana legale ha battuto i narcos di Emiliano Guanella La Stampa, 17 settembre 2018 Il giorno più affollato della settimana nella farmacia Camano, nel tranquillo quartiere di Pocitos, è il giovedì, subito dopo mezzogiorno. La “marijuana di Stato” arriva la notte prima, uno stock di trecento bustine che vanno a ruba in poche ore. Il primo a comprare è un ragazzo con lo skate, poi una giovane che viene con borse della spesa e la figlia in braccio, l’impiegato di banca che esce in pausa pranzo e così via. Per tutti vale lo stesso procedimento; si mette l’indice su una macchina che riconosce l’utente autorizzato a comprare fino a due buste di 5 grammi ciascuna di marijuana, di tipo normale o “indica”. Costano 240 pesos uruguaiani, poco più di 6 euro, l’anonimato è garantito. La vendita di cannabis in farmacia è stata l’ultima tappa d’attuazione della legge promulgata nel 2013 sotto il governo di Pepe Mujica, che ha trasformato il piccolo Uruguay nell’unico Paese al mondo dove lo Stato assume il controllo del commercio di marijuana. Qualsiasi maggiorenne ha tre forme di procurarsi l’erba; in farmacia, associandosi ad un club di amanti della cannabis o coltivandola in casa, fino a sei piante. Solo una trentina delle mille farmacie uruguaiane hanno accettato di vendere il nuovo prodotto. Martin, della Camano, ammette di aver perso vecchi clienti scandalizzati nel vedere le cartine per gli spinelli a fianco di aspirine e antibiotici. “Ho voluto provare a vedere cosa succedeva e dopo un anno non mi posso lamentare. All’inizio ci sono stati dei problemi, la domanda superava l’offerta, ma adesso il sistema funziona”. Anche i consumatori sono soddisfatti. “Oggi - spiega uno di loro - è molto più sicuro di prima, quando dovevi rivolgerti ad uno spacciatore; lui poteva essere armato o poteva arrivare la polizia e finivi nei guai”. All’Ircca, l’Istituto statale creato ad hoc per regolare la vendita e distribuzione mantengono aggiornati i numeri degli utenti: oggi oltre 26.000 persone comprano in farmacia, quasi 7.000 coltivano in casa, i club di aficionados sono 104, con una media di trenta soci ciascuno. “Precisiamo - spiega il direttore Martin Rodriguez - che non è lo Stato a produrre, ma delle imprese private che hanno ottenuto la licenza per farlo. Noi controlliamo la qualità, la distribuzione e puniamo eventuali abusi”. Due mesi fa è stato chiuso un club a Punta dell’Este che offriva degustazioni a estranei, come se fosse un coffe shop. La legge è nata per spezzare la catena del narcotraffico. Secondo il governo almeno il 30% del totale della vendita di marijuana è stato assorbito dalla via legale. “Il nostro obbiettivo - spiega il Segretario nazionale sulla droga Diego Olivera - è arrivare al 100%, non lasciare più spazio alla vendita illegale”. Ci sono, però, degli effetti collaterali che iniziano a preoccupare la popolazione. Nel primo semestre di quest’anno gli omicidi sono aumentati del 66%, quasi la metà sono da attribuire a conflitti fra gang di delinquenti per il controllo del territorio di fronte alla diminuzione della richiesta. Su questo l’opposizione di destra attacca il presidente socialista Tabaré Vasquez, che si rifiuta di adottare misure straordinarie come l’impiego delle Forze Armate. Sulla marijuana, comunque, non si torna indietro. L’opinione pubblica, all’inizio scettica sulla legge è oggi sostanzialmente favorevole ed esiste anche un discreto indotto fatto di negozi specializzati per i cultori della materia, corsi per la coltivazione fai da te e così via. La consegna a domicilio Uno dei club più rinomati di Montevideo è il “Golden Leaf”. La loro sede è in uno scantinato davanti al palazzo del Municipio, i soci pagano 120 euro al mese per avere un prodotto che, assicurano i due fondatori poco più che ventenni, è di primissima qualità. “Molti di loro sono avvocati, medici, liberi professionisti che non hanno tempo di coltivare né voglia di andare in farmacia; gli portiamo l’erba a casa, 40 grammi al mese, e ci teniamo alla loro opinione, soddisfatti o rimborsati”. A fine giornata, i fiori secchi tenuti in fiaschetti di vetro vengono pesati e poi rinchiusi in una gabbia di ferro con un sistema d’allarme per evitare furti. Un caveau pieno d’erba nel paese-laboratorio di quello che potrebbe essere, se la marijuana fosse legalizzata a livello globale, uno dei grandi business del futuro.