La speranza del diritto di Danilo Paolini Avvenire, 16 settembre 2018 Totò Cuffaro era colpevole. Ma sembra che quel Totò Cuffaro sia morto dietro le sbarre del carcere di Rebibbia, dando la vita a un uomo nuovo. Lo stesso che, partecipando a un convegno sulle carceri nella sede dell’Assemblea regionale siciliana (e nella sala intitolata a Piersanti Mattarella), ha accettato che sotto il suo nome non fosse scritto “ex presidente della Regione” ma “ex detenuto”. Lo stesso che in quella sede ha detto: “La vita mi ha fatto pagare un conto meritato, ma ha rimesso in ordine i miei valori. Non posso lamentarmi se non mi hanno fatto uscire dal carcere per assistere ai funerali di mio padre, perché quando lui mi chiamava per il suo compleanno io non ci andavo perché avevo aula o giunta, o altro da fare”. Un conto salato e disonorevole: sette anni di reclusione per favoreggiamento aggravato a “cosa nostra”. Ma se il risultato è questo, chi si ostina a credere allo Stato di diritto non può che applaudire. Per la rinascita di un uomo, innanzi tutto. E poi perché Cuffaro, l’ex-politico condannato per mafia, oggi è il miglior testimonial possibile dell’articolo 27 della Costituzione. In cui è stabilito - tra l’altro - che le pene “devono tendere alla rieducazione del condannato”. Qualcuno, lo sappiamo, penserà: ma sarà davvero cambiato? Sarà sincero l’uomo al quale alcuni giornalisti affibbiarono il soprannome di “vasa vasa” (“bacia bacia”, in dialetto siciliano) per l’abitudine di salutare baciando praticamente tutti quelli che incontrava? Quest’abitudine, che il diretto interessato ha sempre attribuito a un carattere cordiale, è stata spesso interpretata come astuzia melliflua da politicante senza troppi scrupoli. Tuttavia, come si deve credere alla sentenze e, in questo caso, alla colpevolezza di Cuffaro, allo stesso modo abbiamo l’obbligo morale di credere che sia cambiato sul serio. Del resto, perché mai dovrebbe venirci a raccontare che “il carcere ti porta spesso svergognarti del giudizio che la gente ha di te, e quella vergogna poi si trasforma in rimorso”? Perché sottoporsi di nuovo a quel giudizio, da “ex detenuto”, se non per dire che si tratta ormai di un’altra vita? Una vita che giustamente gli ha presentato il conto, ma che gli ha anche insegnato tanto. Per esempio che “dentro” non ci sono mostri ma “persone vere”, che il carcere “è una comunità”. Dove capita di conoscere compagni “con il cancro, lasciati in cella in attesa di cure per mesi”; di dividere con altri quattro una cella di tre metri per quattro; di non vedere più qualcuno, all’improvviso, perché nella notte si è suicidato. Probabilmente chi ha contestato la presenza di Cuffaro a Palazzo dei Normanni non sa che la legalità non vuol dire vendetta di Stato. Forse non si accorge che lo Stato, e la legalità, vincono nel momento stesso in cui l’ex-detenuto Totò afferma: “So di avere commesso mille errori, e forse non li ho pagati tutti, ma se questo Paese penserà che andare incontro agli altri è importante, alla fine un’idea di speranza potrà vincere”. Un’idea di speranza. La speranza di un diritto certo, di una giustizia giusta. Ma al contrario lo Stato, e la legalità e la Costituzione, sono sconfitti quando -proprio mentre Cuffaro parla a Palermo - i volontari dell’associazione Antigone visitano il carcere di Benevento e certificano la presenza di 394 detenuti a fronte di una capienza regolamentare di 261. Tra loro, solo 243 hanno una condanna definitiva. Vite distrutte dalla (mala) giustizia. Troppi innocenti all’angolo di Paola D’Amico Corriere della Sera, 16 settembre 2018 Stordite, incapaci di reagire, risucchiate in un labirinto senza uscita. Così le vittime di malagiustizia raccontano di essersi sentite il giorno in cui si sono trovate coinvolte in una vicenda giudiziaria di cui erano totalmente all’oscuro. Chi ha dovuto affrontare un giudice fallimentare senza sapere perché, chi è stato portato in carcere per reati mai commessi, chi s’è trovato il decreto di sequestro preventivo sulla casa. Choc destinato a perpetuarsi nel tempo: riavere la fedina penale immacolata può richiedere decenni. Mentre la vittima invischiata in un’oscura vicenda giudiziaria viene trascinata in basso, i risarcimenti (spesso) restano un miraggio. Infine, può suonare come una beffa il fatto che, quand’anche una Corte avrà dettato l’agognata formula (“assolto perché il fatto non sussiste”), non ci sarà tribunale disposto a portare sul banco degli imputati l’autore/autori dell’errore. Tunnel senza uscita - Questa è la storia di Michele Tedesco, imprenditore di Bari assolto con formula piena nove anni dopo l’arresto per traffico internazionale di stupefacenti: nove anni che gli hanno distrutto la vita. Che dire, poi, della vicenda del piccolo Angelo, morto a 3 anni, investito da un pirata della strada: era il maggio 1984. Il risarcimento ai genitori è arrivato 33 anni dopo. E ancora Luca, bollato come delinquente abituale per uno scambio di persona: gli fu vietato di far ritorno nella frazione di Frosinone dove lavorava. Fu riabilitato dopo un’istanza al Ministero dell’Interno. La direzione centrale della Polizia Criminale cancellò i dati erronei. Ma lui ne fu informato solo due anni dopo. Chi entra in questa spirale - spiega Mario Caizzone, che ha fondato nel 2012 l’Associazione italiana vittime di malagiustizia (Aivm) - viene triturato dal sistema”. Ne è testimone diretto. Nel ‘92, nel clima rovente di Mani Pulite, fu arrestato per colpe non sue: “Sono trascorsi 22 anni per poter riavere la fedina penale immacolata”. Per dieci non ha potuto svolgere l’attività di commercialista: “Mi ha salvato la mia famiglia. Ho sempre detto che se ne uscivo vivo - aggiunge - avrei fatto qualcosa per gli altri. Ero benestante, sono finito sul lastrico”. Le vittime, dice, sono i “nuovi poveri”. Come loro, “all’epoca fui sopraffatto dal panico, incapace di reagire”. Nell’ufficio milanese che s’affaccia sulla Stazione Centrale, in piazza Luigi di Savoia 22, ogni giorno s’alternano 4/5 volontari: Valentina, Carlo, Nicola e Tea, che ricorda il caso di un’anziana “alla quale l’amministratore di sostegno sottrasse 40 mila euro”. Molti sono laureandi in giurisprudenza o esperti di marketing e comunicazione. Alle spalle hanno un pool di consulenti. Il supporto alle “vittime” di malagiustizia è totalmente gratuito. Il telefono squilla con insistenza. È una donna: “Non so cosa devo fare”, dice. Da due mesi scrive all’avvocato di fiducia per sapere com’è finita la transazione con l’ex socio. L’udienza in tribunale è imminente. “Chieda al giudice un rinvio, intanto prendiamo in mano il caso”, risponde Caizzone, che precisa: “Non rappresentiamo in giudizio queste persone ma le aiutiamo a sbrogliare la matassa, le facciamo uscire dall’angolo”. Segnalazioni. In sei anni Aivm ha raccolto la segnalazioni di 7 mila persone. Uomini, donne, giovanissimi e pensionati, oltre la metà nei guai con la giustizia penale, altri a causa di banali querelle familiari divenute per incanto tragedie apocalittiche. “Non di rado a monte di tutto c’è la negligenza di un avvocato - aggiunge Caizzone - che perde la causa, perché non fa le giuste contestazioni o non presenta il ricorso nei tempi corretti”. L’associazione, su invito della Commissione Giustizia della Camera ha proposto la revisione della carcerazione preventiva: “Non ha senso, distrugge la persona”. Ha poi chiesto “la creazione di un intergruppo parlamentare per ridiscutere il gratuito patrocinio a spese dello Stato”. Attualmente, per come è strutturato, “non dà garanzia. Chi controlla l’operato dell’avvocato d’ufficio?”. Infine, Aivm sottolinea un aspetto cruciale: “I nomi degli imputati non devono essere divulgati fino all’udienza preliminare o al rinvio a giudizio, per dare la possibilità agli imputati stessi di difendersi”. Il tema al centro è, innanzi tutto, la professionalità di avvocati e magistrati. “La giustizia arranca”. Serve una sorta di “tribunale del malato, una Corte di giustizia - conclude Caizzone - che, oltre a dare supporto a chi si sente abbandonato, possa entrare nel merito del loro operato”. Salvini non perde un colpo. Contro l’Anm anche sulle armi di Andrea Fabozzi Il Manifesto, 16 settembre 2018 Magistrati contrari ad allargare la legittima difesa. Per il ministro è subito invasione di campo. Il contesto è quello di un’Associazione nazionale magistrati che vorrebbe a tutti i costi evitare nuovi e plateali scontri con il governo. Nella riunione del parlamentino delle toghe - la prima dopo il proclama di Salvini contro i pm che lo indagano a Genova (fondi Lega) e ad Agrigento-Palermo (sequestro della Diciotti) - il presidente dell’Anm, il moderato Francesco Minisci di Unicost, prende per buone le mezze correzioni del ministro dell’interno. “Speriamo sia l’inizio di un nuovo corso - dice, vogliamo voltare pagina e non alimentare la polemica”. Ma nella sua relazione introduce il tema della legittima difesa, e ribadisce quella che è sempre stata la linea della magistratura associata: non c’è bisogno di una nuova legge, anzi i correttivi per i quali spinge soprattutto la Lega “possono essere molto rischiosi”. Immediatamente Salvini arma il tweet: “Il sindacato dei magistrati ha attaccato le proposte di legge della Lega sulla legittima difesa perché inutili e rischiose. Invasione di campo? Tutto normale? Io tiro dritto, la difesa è sempre legittima”. L’Anm evita una risposta ufficiale. C’è voluta del resto tutta la tensione polemica del ministro per montare lo scontro. Minisci era stato molto attento, sostanzialmente limitandosi a richiamare (e ringraziare) Mattarella e il suo intervento in difesa delle prerogative dei giudici. Il presidente dell’Anm guida una giunta esecutiva a tre, con dentro anche la componente di destra delle toghe (Magistratura indipendente) e quella di sinistra (Area). Non sono mancati i contrasti. Mesi fa in occasione della difesa che l’Anm volle fare di Mattarella minacciato di impeachment da Di Maio, Magistratura indipendente dissentì, e più recentemente la stessa corrente non ha condiviso la difesa netta che il resto delle toghe ha fatto del procuratore di Agrigento Patronaggio. Criticando le nuove iniziative di legge sulla legittima difesa Minisci sapeva di andare sul sicuro. “Non serve un’altra norma per difendersi dai ladri in casa. È già stata approvata nel 2006 (proprio per iniziativa leghista, ndr), è il secondo comma dell’articolo 52 del codice penale che presume la legittima difesa in caso di reazione a chi si introduce nella propria abitazione”, ha ricordato il presidente dell’Anm. Ben sapendo, però, che l’obiettivo che la Lega condivide con Forza Italia e Fratelli d’Italia - e che il M5S sta dimostrando di assecondare - è “eliminare il principio cardine di proporzionalità tra minaccia e reazione”. Anche sul punto si potrebbe citare Mattarella, che il 26 luglio di quest’anno ha detto chiaramente “l’Italia non può assomigliare al Far West”. Tra le tante proposte di legge all’esame della commissione giustizia al senato (tutte abbastanza simili), Minisci cita in negativo quella della Lega che “rischia addirittura di legittimare reati gravissimi fino all’omicidio”. La risposta immediata di Salvini dimostra una volta di più quanto il vice premier crede nel valore propagandistico della legittima difesa. Ha promesso che la riforma sarà approvata entro l’anno ma il tempo già stringe. Il presidente leghista della commissione ha convocato in audizione ogni genere di categoria (dai farmacisti ai benzinai, dai tabaccai a diverse associazioni di vittime), non i magistrati. Il lavoro procede lento in mancanza di un accordo pieno tra grillini e leghisti, anche se tra le proposte in discussione c’è n’è una di iniziativa popolare e questo per il nuovo regolamento del senato garantisce l’approdo in aula a metà ottobre. Al ministro dell’interno che parla di invasione di campo replica l’ex presidente dell’Anm Eugenio Albamonte, magistrato di Area: “Quando si parla di riforme che poi toccherà a noi applicare, tanto più quando è in gioco il giusto equilibrio tra valori costituzionalmente tutelati come in questo caso, abbiamo tutto il diritto di intervenire e continueremo a farlo”, spiega. A riprova del fatto che quello dei magistrati sia un giudizio “tecnico e non politico” ricorda come proprio lui polemizzò con la maggioranza di centrosinistra, che già nel 2017 aveva provato a cambiare la legge sulla legittima difesa. Legittima difesa, Anm: “non serve nuova legge, riforma rischia di autorizzare l’omicidio” di Liana Milella La Repubblica, 16 settembre 2018 Il presidente Minisci parla del disegno di legge depositato in Senato: “Se un soggetto minaccia di schiaffeggiarmi, non posso sparargli”. L’associazione nazionale magistrati lancia anche l’allarme sulla “liberalizzazione” della vendita di armi. Usano parole forti i magistrati italiani per lanciare l’allarme sulla possibile riforma della legittima difesa, tanto cara al governo gialloverde, in particolare alla sua componente leghista (e con qualche resistenza dei 5Stelle). Il presidente dell’Anm, Francesco Minisci, ribadisce le critiche sul ddl depositato al Senato ed esprime anche preoccupazione per “una eventuale ‘liberalizzazionè della vendita di armi: siamo contrari alla vendita nei supermercati”, dice. Provocando subito la reazione del ministro dell’Interno che parla di “invasione di campo”. Minisci precisa che “la legge regolamenta già in maniera adeguata tutte le ipotesi di legittima difesa”. E ricorda: “All’esame del Parlamento ci sono 8 disegni di legge sulla legittima difesa. Uno di questi, quello che rappresenta il cavallo di battaglia dei proponenti (il n. 652), se approvato, rischierebbe addirittura di legittimare reati gravissimi, fino all’omicidio. Non si può prescindere - spiega - dal principio della proporzionalità fra offesa e difesa e dalla valutazione, caso per caso, del giudice: se un soggetto minaccia di schiaffeggiarmi o di sottrarmi un bene, io non posso reagire sparandogli; se, da fuori casa, vedo un tizio che si arrampica sul mio balcone, non posso essere autorizzato a sparargli”. Poi entra nel dettaglio: “Serve una norma per difendersi dai ladri in casa? Nel 2006 è già stata approvata: è il secondo comma dell’ art. 52 del codice penale, che presume la legittima difesa in caso di reazione a chi si introduce nella propria abitazione e minaccia il proprietario o il furto dei suoi beni. Nel 2006 sono stati già attuati alcuni interventi di modifica prevedendo ipotesi particolari nel caso di legittima difesa all’interno del domicilio. Non vediamo quali possano essere gli ulteriori interventi”. E spiega cosa si rischia: “Tra i disegni di legge vi è uno che prevede che un soggetto che torna a casa la sera può sparare ad una persona che vede arrampicarsi sul proprio balcone. In questo caso sarebbe prevista la legittima difesa, questa è una distorsione inammissibile”. L’Anm poi lancia un altolà anche sulla diffusione delle armi. “Ci allarma una eventuale liberalizzazione della vendita di armi: siamo contrari alla vendita nei supermercati”, dice Minisci. E il pensiero corre subito alla nuova normativa che rende più facile possedere un’arma da guerra. La replica di Salvini arriva, con ritardo di un paio d’ore, su Twitter. “Il sindacato dei magistrati (Anm) oggi ha attaccato le proposte di legge della Lega sulla legittima difesa perché inutili e rischiose. Invasione di campo? Tutto normale? Io tiro dritto, la difesa è sempre legittima”. Per il Pd replica la vicepresidente dei senatori, Valeria Valenti: “Presumere sempre che la difesa sia legittima significa sostanzialmente dire a un cittadino ‘pensaci tu a difenderti perché io, io Stato, non posso, non ce la faccio o peggio ancora non ne sono capacè. Si tratterebbe sostanzialmente di una vera e propria resa. Questa è la cultura leghista”. Il gelo di Bonafede verso la Lega sugli attacchi alle toghe di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 16 settembre 2018 Per conoscere la posizione del ministro della Giustizia sul nuovo scontro tra Salvini e i magistrati, basta recuperare le sue dichiarazioni di una settimana fa, a commento del precedente scontro tra Salvini e i magistrati. O quelle di luglio, sull’ancora precedente scontro tra Salvini e i magistrati. In effetti c’è una certa ripetitività di situazioni, che necessariamente comporta la ripetitività delle reazioni. Sempre uguali: “Chi sta scrivendo il cambiamento non può pensare di far ritornare l’Italia nella Seconda Repubblica”, sostiene il Guardasigilli grillino Alfonso Bonafede. Tradotto, significa che sarebbe meglio evitare i toni del conflitto permanente tra politica e giustizia che rievocano i tempi dei governi Berlusconi, o comunque con Berlusconi protagonista. Del resto, fino alle elezioni di marzo la Lega salviniana era alleata di Forza Italia; ora lo è dei Cinque stelle, ma evidentemente il rapporto con i giudici resta sempre un nervo scoperto. Perché il vicepremier e ministro dell’Interno li considera un ostacolo alla sua azione di governo, o alla sua propaganda. In materia di migranti, con l’indagine scaturita dalla gestione del “caso Diciotti”; in tema di agibilità politica, dopo il sequestro dei fondi del partito deciso dai giudici di Genova; sulla riforma della legittima difesa, vecchia battaglia leghista sulla quale il leader denuncia ora una “invasione di campo” dell’Associazione magistrati. Le opinioni dissenzienti sui provvedimenti giudiziari o sul pensiero di singoli magistrati vanno bene, ma l’attacco generalizzato alle toghe no: questo pensa e sostiene il ministro Bonafede, che però fatica a rincorrere le rumorose uscite del partner leghista. Pur non condividendole, ha spiegato ai suoi collaboratori che preferisce non replicare, fosse pure per ricordargli il rispetto dei ruoli istituzionali. Sarebbe una strategia perdente. Parlare di quello che fanno gli altri, tanto più per difendere non se stesso o il suo Movimento bensì la categoria togata la cui maggioranza non ha un buon feeling con i Cinque stelle, non conviene; né sul piano dei contenuti né sul piano della mera tecnica comunicativa. Meglio ostentare un freddo distacco e parlare delle cose fatte dal suo Dicastero, che gli garantiscono visibilità propria e non mediata dalla presenza di Salvini, nonché la possibilità di rivendicare le riforme promosse da lui. Come il disegno di legge anticorruzione, che però a dieci giorni dall’annuncio in pompa magna dell’approvazione in consiglio dei ministri non ha ancora visto la luce. Pare sia fermo a palazzo Chigi, in attesa di essere trasmesso e calendarizzato alla Camera. Bonafede pensa a quello, prima che alle modifiche alla legge sulla legittima difesa che sono state affidate alla dinamica parlamentare, e su cui si sono concentrate le ultime critiche dell’Anm. È vero che anche quella riforma fa parte dei “contratto” sottoscritto dai due partiti di maggioranza, ma è vero pure che il testo in discussione al Senato è firmato solo da parlamentari leghisti, nessun grillino. Per farlo passare bisognerà trovare un accordo, e quando sarà individuato il punto di incontro tra le esigenze salviniane di far passare il concetto di una “difesa sempre legittima” e la salvaguardia di alcuni principi basilari (come la necessità dell’accertamento giudiziario, in ogni caso, di fronte a una reazione armata), anche il ministro della Giustizia dirà la sua sul punto. Per adesso resta fermo alla necessità di una maggiore chiarezza legislativa, per non lasciare gli indagati nel limbo dell’incertezza, più volte ribadita. Stesso discorso può farsi sul decreto sicurezza a cui stanno lavorando i tecnici del ministero dell’Interno, ai quali i colleghi della Giustizia hanno ricordato i confini costituzionali che non si possono oltrepassare per seguire le indicazioni di Salvini; per esempio sulle espulsioni degli stranieri dopo la presunta consumazione di un reato, o altre questioni di non semplice soluzione. Anche per questo, di fronte alle continue uscite di Salvini che sembra proseguire la sua campagna elettorale permanente, è meglio non reagire pubblicamente. Almeno finché è possibile. “Bastano le leggi vigenti. La corsa alle armi può portare effetti perversi” di Fabrizio Caccia Corriere della Sera, 16 settembre 2018 Caselli: perché respingere contributi alla riflessione? Procuratore Gian Carlo Caselli, davvero l’Anm ha fatto invasione di campo, come sostiene il ministro Salvini? “L’esperienza professionale e concreta dei magistrati sui vari temi della giustizia (compresa la legittima difesa) può fornire a tutti elementi di conoscenza utili e assai preziosi. A tutti, anche al legislatore. Non si tratta di invasione di campo ma di contributo alla riflessione su un tema spinoso. Perché respingerlo a prescindere? Sarebbe come dire che tutti possono parlare di giustizia meno gli esperti del settore. Che invece hanno il diritto-dovere di intervenire. Tanto più in un Paese come il nostro dove tutti parlano di vaccini senza saperne niente o di legionella (come un consigliere regionale leghista) attribuendone l’origine alla legione straniera! In ogni caso, mi preoccupa la tendenza ad imboccare una strada di ostilità crescente verso i poteri indipendenti: la magistratura, l’informazione, certe Authority super partes. Un problema per la qualità della democrazia”. Ma quali sono - o dovrebbero essere - i confini della legittima difesa? “Parlare di difesa legittima “sempre” significa imboccare una strada pericolosa. La legittimità della difesa non può presumersi “sempre”. In uno Stato civile deve essere valutata caso per caso in base al principio della proporzionalità con l’offesa. Le norme vigenti (che i giudici da sempre applicano con rigore e al tempo stesso con la giusta cautela) mi sembrano sufficienti. La corsa alle armi e al loro uso sconsiderato possono alla lunga causare effetti perversi, una specie di corto circuito”. Un suo giudizio sul ddl anticorruzione? “A parte che questa maggioranza tende a cambiare idea troppe volte, per cui converrebbe aspettare un testo definitivo, penso che il progetto vada nella direzione giusta. Perché introduce un pacchetto organico di misure (Daspo compreso) pensate con l’obiettivo di rendere la corruzione più rischiosa e non invece troppo conveniente (quindi allettante) com’è purtroppo ancora oggi”. Negli anni 90 a Palermo lei fece arrestare boss del calibro di Bagarella, Spatuzza, Brusca. Salvini nel prossimo decreto sicurezza ha annunciato “più uomini e soldi per la guerra alla mafia”. “Ben vengano più mezzi e risorse contro la mafia per migliorare ancor più il contrasto delle forze dell’ordine e della magistratura, che dopo le stragi del 1992. Si è costantemente affinato e potenziato. Ma non dimentichiamo le parole di Papa Francesco pronunziate per ricordare padre Puglisi. Un martire che con la sua vita e con il suo sacrificio ci ha insegnato che per sconfiggere la mafia la repressione è sì indispensabile, ma non basta. Bisogna anche, se non soprattutto, garantire ai cittadini i loro elementari diritti, che i mafiosi presenti sul territorio trasformano in favori, trasformando i cittadini - da possibili alleati dello Stato - in sudditi del malaffare. In altre parole, insieme all’antimafia delle manette ci vuole quella sociale, dei diritti”. Commentando gli ultimi sondaggi sulla Lega, Salvini ha detto: “Più mi indagano e più mi danno forza”. “Sono frasi ad effetto, frasi propagandistiche (le medaglie...) che indubbiamente colpiscono il pubblico. Forse anche perché troppo spesso ci si limita a rincorrere passivamente Salvini, senza spiegare alla gente le gravi implicazioni di certe sue sparate”. “Non si può credere in Dio ed essere mafiosi”: il grido di papa Francesco contro i boss di Emanuele Lauria, Salvo Palazzolo e Paolo Rodari La Repubblica, 16 settembre 2018 Il Pontefice ricorda don Pino Puglisi riecheggiando Wojtyla: “Sentire e servire il popolo, senza gridare, accusare e suscitare contese”. Poi un passaggio sul populismo: “L’unico cristiano è servire il popolo senza accusare”. Legge molto lentamente dal testo dell’omelia le parole più dure contro la mafia: “Non si può credere in Dio ed essere mafiosi. Chi è mafioso non vive da cristiano, perché bestemmia con la vita il nome di Dio-amore”. Poi alza la testa e, a braccio, affonda ancora con maggiore forza: “Convertitevi! Il sudario non ha delle tasche, non potrete portare niente con voi!”. Papa Francesco dedica la sua omelia al Foro Italico di Palermo alla mafia e a don Pino Puglisi, il prete ucciso il 15 settembre 1993 da Cosa nostra per il suo impegno sociale, sacerdote che “non viveva per farsi vedere, non viveva di appelli anti-mafia, e nemmeno si accontentava di non far nulla di male, ma seminava il bene, tanto bene”. E denuncia la “litania mafiosa” che è: “Tu non sai chi sono io”. Mentre, dice ancora Francesco, quella cristiana è: “Io ho bisogno di te”. E quindi continua: “Se la minaccia mafiosa è: ‘Tu me la pagherai’, la preghiera cristiana è: ‘Signore, aiutami ad amarè. Perciò ai mafiosi dico: cambiate! Smettete di pensare a voi stessi e ai vostri soldi, convertitevi al vero Dio di Gesù Cristo! Altrimenti, la vostra stessa vita andrà persa e sarà la peggiore delle sconfitte”. Venticinque anni dopo Giovanni Paolo II che nella Valle dei Templi, stringendo il crocifisso e alzando il dito verso il cielo davanti a migliaia di giovani giunti da ogni parte, disse ai mafiosi “convertitevi, una volta verrà il giudizio di Dio”, anche Papa Bergoglio si rivolge agli stessi mafiosi chiedendo loro di cambiare vita. Lo fa nel giorno in cui la Chiesa celebra la memoria liturgica del beato Puglisi: “La sua - dice il Papa - sembrava una logica perdente, mentre pareva vincente la logica del portafoglio. Ma padre Pino aveva ragione: la logica del dio-denaro è perdente”. E ancora: “Guardiamoci dentro. Avere spinge sempre a volere: ho una cosa e subito ne voglio un’altra, e poi un’altra ancora, sempre di più, senza fine. Più hai, più vuoi: è una brutta dipendenza. Chi si gonfia di cose scoppia. Chi ama, invece, ritrova se stesso e scopre quanto è bello aiutare, servire; trova la gioia dentro e il sorriso fuori, come è stato per don Pino”. Venticinque anni fa, quando morì nel giorno del suo compleanno, don Puglisi sorrideva. “Coronò la sua vittoria col sorriso, con quel sorriso che non fece dormire di notte il suo uccisore, il quale disse: ‘C’era una specie di luce in quel sorriso’”, dice il Papa. E oggi, dopo 25 anni, è il vescovo di Ragusa, Carmelo Cuttitta, a rivelare a Tv2000 che alla estumulazione del prete siciliano “lo abbiamo trovato con lo stesso sorriso, era intatto”. Don Puglisi ebbe la “colpa” i togliere dalla strada ragazzi e bambini che, senza il suo aiuto, sarebbero stati risucchiati dalla vita mafiosa, e impiegati per piccole rapine e spaccio. Il fatto che lui togliesse giovani alla mafia fu la principale causa dell’ostilità dei boss, che lo consideravano un ostacolo. Decisero così di ucciderlo, dopo una lunga serie di minacce di morte di cui don Pino non parlò mai con nessuno. Nel 1992 venne nominato direttore spirituale presso il seminario arcivescovile di Palermo. Il 29 gennaio 1993 inaugurò a Brancaccio il centro Padre Nostro per la promozione umana e la evangelizzazione. Il 15 settembre 1993, giorno del suo cinquantaseiesimo compleanno, intorno alle 22:45 venne ucciso davanti al portone di casa in piazzale Anita Garibaldi, traversa di viale dei Picciotti nella zona est di Palermo. Sulla base delle ricostruzioni, don Pino Puglisi era a bordo della sua Fiat Uno di colore bianco e, sceso dall’automobile, si era avvicinato al portone della sua abitazione. Qualcuno lo chiamò, lui si voltò mentre qualcun altro gli scivolò alle spalle e gli esplose uno o più colpi alla nuca. Una vera e propria esecuzione mafiosa. I funerali si svolsero il 17 settembre. Il 19 giugno 1997 venne arrestato a Palermo il latitante Salvatore Grigoli, accusato di diversi omicidi oltre quello di don Pino Puglisi. Poco dopo l’arresto Grigoli cominciò a collaborare con la giustizia, confessando 46 omicidi compreso quello di don Puglisi. Grigoli, che era insieme a un altro killer, Gaspare Spatuzza, gli aveva sparato un colpo alla nuca. Davanti alla folla di 80mila fedeli assiepata al Foro Italico, il Santo Padre fa inoltre un significativo cenno ai “populismi”, con un passaggio che porta dritto all’attualità politica. “L’unico populismo possibile è il populismo cristiano: sentire e servire il popolo, senza gridare, accusare e suscitare contese”. Nel pomeriggio il Papa ha pranzato alla missione di Biagio Conte e poi ha incontrato il clero in Cattedrale: “Il sacerdote - ha detto - deve essere portatore di Gesù, benevolo, misericordioso, ma se il prete è un chiacchierone porterà guerra, odio, rabbia, porterà tante cose negative che faranno dividere il paese”. Poi è tornato sui temi mafiosi: “Vi chiedo un favore, non fate che la religiosità popolare venga influenzata dalla presenza mafiosa. Lo abbiamo visto sui giornali: quando la Madonna si ferma e fa l’inchino davanti alla casa del boss. quello non va. La pietà popolare è il sistema immunitario della Chiesa”. Alla fine il Pontefice si è anche fermato alla stele che ricorda la strage di Capaci del 23 maggio 1992, per rendere omaggio alle vittime: i magistrati Giovanni Falcone e Francesca Morvillo e gli agenti della polizia di Stato Antonino Montinaro, Rocco Dicillo e Vito Schifani. Cagliari: la denuncia di Caligaris (Sdr) “troppi detenuti con problemi psichici” sardiniapost.it, 16 settembre 2018 “Nella Casa Circondariale di Cagliari, ubicata nell’area industriale afferente al Comune di Uta, a circa 23 chilometri dal capoluogo, esiste “un’emergenza quotidiana dovuta alla eccessiva presenza di cittadini privati della libertà con problematiche legate alla droga e a disturbi psichici. Ciò determina una condizione di costante tensione che sempre più spesso sfocia in gravi atti di autolesionismo da parte dei detenuti: ieri l’ultimo episodio che ha avuto come protagonista un detenuto magrebino”. Lo denuncia Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione “Socialismo Diritti Riforme”. “La professionalità degli agenti in servizio, della responsabile della sicurezza dell’Istituto e dei medici - afferma Caligaris - hanno impedito alla delicata situazione di degenerare. Resta tuttavia il fatto che la struttura penitenziaria non può vivere costantemente in stato di emergenza laddove il numero dei detenuti con gravi disturbi psichici risulta ingestibile all’interno di un Istituto penitenziario. Occorre quindi intervenire su più piani - osserva. Innanzitutto è necessario attivare Case Famiglia protette affinché chi deve scontare una pena, ma ha problemi comportamentali, possa farlo senza compiere atti autolesivi che spesso coinvolgono chi è responsabile della sua incolumità. Esiste però l’urgenza di garantire anche un numero di psichiatri e psicologi adeguato al servizio. Attualmente infatti risultano insufficienti anche perché è in costante aumento il numero dei casi problematici e le attività trattamentali sono ridotte”. Napoli: carcere Secondigliano, riaprire la radiologia e ampliare il reparto per detenuti di Renato Pagano cronachedellacampania.it, 16 settembre 2018 “Non possiamo più consentire che in un carcere come quello di Secondigliano, che ospita una popolazione di 1.416 detenuti su una capienza di 1.020, a fronte di 590 agenti in servizio, non venga garantita la necessaria assistenza sanitaria. Bisogna provvedere al più presto alla riapertura di reparti come quello di radiologia, chiuso da tempo per un problema concernente le strumentazioni. Non poter usufruire di un reparto come questo comporta un frequente impiego di mezzi e personale, con costi sempre più onerosi e una ricaduta sull’organizzazione dei turni di lavoro degli agenti penitenziari, per consentire il trasferimento di degenti dalla casa circondariale alle strutture ospedaliere”. È quanto denuncia il consigliere regionale del Movimento 5 Stelle Luigi Cirillo, che nei giorni scorsi ha visitato la struttura penitenziaria accompagnato dal Garante regionale dei detenuti Samuele Ciambriello, allo scopo di “raffrontare la condizione dei detenuti psichiatrici ospiti a Secondigliano, con quella dei detenuti nelle stesse condizioni reclusi nella casa circondariale di Poggioreale”. “A Secondigliano - rivela Cirillo - ho avuto modo di confrontarmi con l’equipe multidisciplinare che svolge un lavoro immane per i 18 detenuti psichiatrici. Un livello di assistenza che va garantito anche a quelli presenti a Poggioreale, dove non esiste un reparto specializzato che li ospiti e l’assistenza è garantita appena tre volte a settimana per poche ore. Sottoporrò il caso al governatore De Luca, nella sua veste di commissario alla sanità, affinché si elimini questa disparità di trattamento, proponendo di ampliare l’articolazione di Secondigliano o istituendone un’altra a Poggioreale. Così come chiederò al commissario alla sanità di intervenire perché sia riaperto al più presto il reparto di radiologia a Secondigliano”. Napoli: il Garante Ciambriello in visita al padiglione dei detenuti presso il Cardarelli linkabile.it, 16 settembre 2018 Denuncia ritardi e inadempienze. Il Garante campano delle persone private della libertà personale Samuele Ciambriello si è recato oggi in visita al padiglione Palermo presso l’ospedale Cardarelli di Napoli dove sono ricoverati-rinchiusi 12 detenuti delle carceri di Secondigliano e Poggioreale. “Oltre ai detenuti ristretti nel reparto Palermo ho incontrato anche due detenuti-degenti presso il pronto soccorso provenienti entrambi da Poggioreale, che si trovano sulle barelle, insieme ad altri degenti Uno è Ciro Rigotti, un sessantenne con un tumore maligno, fisicamente allo stremo, a cui il magistrato ha rifiutato gli arresti domiciliari e i cui parenti non possono assisterlo con continuità. Per i familiari dei detenuti presso gli Ospedali vale la regola carceraria della visita settimanale o di un’altra premiale a discrezione delle autorità competenti. Credo che questa disposizione sia da cambiare”, così il Garante Ciambriello all’uscita dal Cardarelli. Sul tema della sanità penitenziaria l’ufficio del Garante si è attivato con incontri e seminari. Ciambriello denuncia il numero ristretto dei posti a diposizione per i detenuti: “Su 7.419 detenuti nella nostra Regione, ci sono appena 34 posti nelle aziende ospedaliere: vanno incrementati e bisogna garantire nelle strutture sanitarie delle carceri macchinari essenziali, come la tac e la risonanza magnetica, e la presenza stabile del personale medico ed infermieristico perché a chi è diversamente libero va pienamente garantito il diritto alla salute ed un’organizzazione che consenta di dare una risposta sanitaria di qualità. Perché non aprire all’Ospedale del Mare un reparto con almeno 10 posti letto riservati alla popolazione carceraria? Una chirurgia attiva che è una risposta concreta a chi a volte attende anche un anno per essere operato e mesi per essere ricoverato. E poi quando arrivi al Cardarelli attendi anche più di un mese per essere operato perché l’operazione avviene nelle divisioni diverse dal padiglione dove si è ristretti e ci sono conflitti di competenze anche per far arrivare un’autoambulanza all’interno dello stesso ospedale. Insomma anche per i detenuti è in vigore la filosofia Cardarelliana”. Taranto: il pane diventa birra, in carcere di Antonella Millarte Gazzetta del Mezzogiorno, 16 settembre 2018 Sinergie a favore dei detenuti: coltivare i terreni e non fare sprechi. La birra può avere anche il sapore della libertà. Nel carcere di Taranto, produrre birra aiuta a “Riscattarsi con gusto”. È questo il nome del progetto, che verrà presentato stamattina alla Fiera del Levante in Agrimed con l’obiettivo di condividere una “buona pratica” che può aiutare a contrastare un fenomeno drammatico dai costi economici e sociali elevatissimi: le recidive dei detenuti. Ridare una speranza per il futuro, quando si ritornerà là fuori, è una possibilità che - ancora una volta - nel capoluogo ionico si lega a filo doppio con la gastronomia. Fra le mura della casa circondariale di Taranto, da anni, si tengono corsi di cucina e nel quartiere Tamburi è nato il ristorante sociale “Articolo 21” che ha messo in cucina migranti ed ex detenuti. Adesso, attraverso “Riscattarsi con gusto”, la produzione di birra artigianale all’interno del carcere di Taranto permetterà ai detenuti di realizzare un percorso di formazione e inclusione, applicato alla produzione e mescita di birra artigianale a km zero. Carceri serene probabilmente non esistono. Sulle rive dello Jonio la sinergia sta dando risultati tangibili che stamattina verranno illustrati dal provveditore dell’Amministrazione Penitenziaria di Puglia e Basilicata Carmelo Cantore e dal direttore della struttura penitenziaria di Taranto Stefania Baldassari. “Il progetto prevede la sperimentazione produttiva di una birra artigianale preparata dai detenuti con il pane che altrimenti finirebbe nella pattumiera. Sarà una birra chiara, dove la materia prima recuperata (il pane, appunto) va a sostituire in parte il malto d’orzo, conferendo profumi e sapori di crosta di pane a una bevanda dalla gradazione alcolica modestissima”, ci dicono il presidente dell’Associazione MondoBirra Piero Conversano ed il direttore del progetto “Riscattarsi con gusto” Espedito Alfarano. La rete verrà completata dalla collaborazione con l’istituto tecnico agrario di Massafrache permetterà di coltivare orzo e luppolo sui terreni del carcere per produrre birra. Volterra (Pi): l’arte è arte, anche in carcere ildomaniditalia.eu, 16 settembre 2018 Il progetto si articola in una serie di eventi formativi e di workshop, alcuni realizzati a Volterra altri all’interno degli istituti di pena localizzati nei territori di competenza delle Fondazioni partecipanti. Un rito collettivo di purificazione e rinascita? A volte il teatro lo è, non solo in quanto rappresentazione, ma quale momento interagito tra pubblico e artisti, entrambi parte della scena in cui “il fatto” catartico avviene. Senz’altro è questo il caso delle performance della Compagnia della Fortezza, gruppo teatrale, guidato dal drammaturgo e regista Armando Punzo, nato trent’anni fa all’interno della Casa di Reclusione di Volterra. Lo animano attori non professionisti, i detenuti, scelti dal fondatore Punzo non in quanto destinatari di un progetto educativo, ma quali compagni la cui dura realtà del presente e del vissuto contribuisce a creare un teatro nuovo, basato sulla ricerca di strade “altre”, comunque capaci di generare arte e poesia. Un teatro dove il non professionismo degli attori più che un limite è un’opportunità - sembra voler affermare Punzo nelle molteplici dichiarazioni orientate a ribadire l’obiettivo artistico della sua iniziativa, anziché pedagogico, quantunque le ricadute diano belle evidenze anche in questo senso. Un’opportunità che Punzo valorizza in termini di freschezza che il non professionismo può conferire all’atto drammaturgico, anche se nella messa in scena nulla è lasciato al caso. L’esperienza della Compagnia della Fortezza, unica per la sua durata trentennale e il suo successo, che va oltre le sbarre e il 4 agosto ha avuto il suo momento di punta a Larderello (Pi) con la messa in scena de “Le rovine circolari - Cerco il volto che avevo prima che il mondo fosse creato”, ispirato all’opera di Borges, ha avuto in questi anni il sostegno della Fondazione Cassa di Risparmio di Volterra, la quale peraltro non è la sola Fondazione di origine bancaria ad occuparsi di iniziative, culturali e non, realizzate nelle carceri italiane. Si va, infatti, da progetti di assistenza psicologica a laboratori di arti e mestieri, dal tutoraggio per il perseguimento di titoli di studio alla costruzione di percorsi professionalizzanti nell’ambito delle pene alternative. Quella del teatro fatta al Carcere di Volterra è, però, un’eccellenza; sicché Acri ha voluto porla, come best practice, al centro di un progetto sperimentale chiamato “Per aspera ad astra. Come riconfigurare il carcere attraverso la cultura e la bellezza”, al quale attualmente partecipa un piccolo nucleo di Fondazioni: Cariplo, Modena, La Spezia, Volterra, Compagnia di San Paolo e Fondazione con il Sud. Esso nasce con l’obiettivo di tracciare un percorso che consenta di mettere assieme le migliori esperienze e prassi di teatro in carcere presenti in diversi contesti territoriali, farle dialogare e diffonderne l’approccio anche a beneficio di altri contesti e operatori. Il progetto si articola in una serie di eventi formativi e di workshop, alcuni realizzati a Volterra altri all’interno degli istituti di pena localizzati nei territori di competenza delle Fondazioni partecipanti, rivolti a operatori artistici, operatori sociali, partecipanti alla scuola di formazione e aggiornamento del Corpo di Polizia e del Personale dell’Amministrazione Penitenziaria, detenuti. In luglio a Volterra, si son già tenuti i due primi seminari, per i quali sono pervenute complessivamente un centinaio di richieste di partecipazione, soddisfatte al 50%. Ogni workshop prevedeva, infatti, 25 partecipanti che, all’interno del Carcere, hanno potuto fare esperienza diretta del lavoro della Compagnia della Fortezza durante le prove, l’allestimento e le repliche aperte al pubblico esterno della sua nuova produzione teatrale, così da intercettare metodi e percorsi a cui fare riferimento per avviare o consolidare le proprie esperienze di teatro in carcere. l workshop sono stati condotti da Armando Punzo, insieme agli altri partner del progetto Stefano Tè - Teatro dei Venti/Casa Circondariale di Modena e Casa di reclusione di Castelfranco Emilia, Ivana Trettel - Opera Liquida/Casa di Reclusione di Milano Opera, Enrico Casale - Compagnia degli Scarti/Casa Circondariale di La spezia, Daniela Mangiacavallo - Baccanica/Carcere Pagliarelli di Palermo, Claudio Montagna - Teatro e Società/Casa Circondariale di Torino. Stefano Cucchi rivive. Una marea umana si commuove in sala di Eleonora Martini Il Manifesto, 16 settembre 2018 Cinema stracolmi, proiezioni pirata, iniziative spontanee in tutta Italia per vedere “Sulla mia pelle” di Alessio Cremonini. Quei sette minuti di applausi al Festival di Venezia non erano che l’inizio. Uscito il 12 settembre al cinema e contemporaneamente su Netflix, “Sulla mia pelle”, il film di Alessio Cremonini prodotto dalla Lucky Red e da Cinemaundici che racconta l’ultima settimana di vita di Stefano Cucchi, quella trascorsa - in agonia - mentre era in carcerazione preventiva sotto la custodia dello Stato, sta riempiendo le sale di tutta Italia e sta dando luogo a fenomeni di massa inaspettati. “A Milano, Roma, Bergamo, Brescia, Bologna, Parma, Senigaglia, Fano, Riccione, e in molte altre città italiane in questi giorni ci sono state tantissime iniziative spontanee autorganizzate di proiezione del film”, riferisce dal proprio profilo Facebook l’associazione “Stefano Cucchi Onlus” fondata due anni fa da Ilaria, la sorella del giovane morto il 22 ottobre 2009 nel reparto penitenziario dell’ospedale Sandro Pertini di Roma, una settimana dopo essere stato arrestato per detenzione di stupefacenti da cinque carabinieri che attualmente sono imputati nel processo bis. “Come associazione non abbiamo fatto nemmeno in tempo a lanciare il progetto “Stefano Cucchi in ogni città” perché di fatto quella che era l’idea di fare iniziative in tutta Italia anche al di fuori del circuito cinema era già partita spontaneamente non appena uscito il film”. Venerdì sera per esempio a Roma il collettivo studentesco “Sapienza pirata”, che sfidando i divieti dei produttori ha organizzato all’università una proiezione pirata del film (malgrado Netflix), non si aspettava proprio di vedere arrivare dentro la più antica città universitaria della capitale almeno il triplo del migliaio di spettatori preventivati. Una marea umana di studenti e non solo che straripava dal pratone de La Sapienza e riempiva i vicoli limitrofi come durante le storiche occupazioni. In tanti hanno potuto solo ascoltare l’audio, non trovando posto davanti al maxi schermo. Ma molti ragazzi spiegano che in ogni caso torneranno a vedere il film al cinema, “per non perderci alcun dettaglio - ragiona qualcuno, birra e pizza alla mano - ma anche perché è giusto pagare per un lavoro e una produzione cinematografica che ha mostrato tanto coraggio”. Anche le lacrime che Alessandro Borghi ha versato al termine della presentazione ufficiale a Venezia non erano che l’inizio. Il pubblico nelle sale, e perfino quello scomposto e vociante delle piazze, rimane palesemente commosso e particolarmente silente. Come se quel vuoto, quel dolore e quella solitudine che la splendida interpretazione di Borghi (nei panni di Stefano) restituisce efficacemente fosse penetrata sotto lo strato epidermico di ciascun spettatore. E ammutolisce anche la sensazione di impotenza e di scoramento - che è la stessa che deve aver provato lo stesso Stefano Cucchi, sia pur consapevole di aver commesso un reato - davanti all’impunita violazione del diritto proprio da parte dei rappresentanti dello Stato, e all’omertà che paralizza il corso della vera giustizia. Quel sospiro di dolore - nitido nella registrazione originale del tribunale che accompagna i titoli di coda - emesso da Stefano Cucchi durante la sua deposizione davanti al giudice che confermerà la custodia cautelare in carcere senza neppure alzare lo sguardo su quel viso pestato a sangue, è un pugno allo stomaco che soffoca. Venerdì dalla Sapienza è partito un appello a partecipare, il 27 settembre prossimo, ad un sit in davanti a Piazzale Clodio, in occasione della prossima udienza del processo bis durante la quale verranno interrogati i testimoni a difesa degli imputati, i cinque carabinieri che arrestarono Cucchi, tre dei quali (Alessio Di Bernardo, Raffaele D’Alessandro e Francesco Tedesco) accusati di omicidio preterintenzionale, e altri due (Vincenzo Nicolardi e il maresciallo Roberto Mandolini) di falso e calunnia. Ilaria Cucchi: “Nel film ho rivisto mio fratello. E ora so che non siamo più soli” di Eleonora Martini Il Manifesto, 16 settembre 2018 Intervista alla sorella dopo l’uscita del film “Sulla mia pelle”: “L’interpretazione magistrale di Alessandro Borghi ci ha restituito un po’ dell’aspetto umano, intimo, spirituale, con cui Stefano ha vissuto quei giorni del suo calvario”. Ilaria Cucchi, che effetto le fa vedere le file davanti ai cinema e le piazze piene per le tante proiezioni del film che parla di suo fratello organizzate spontaneamente in questi giorni? Queste manifestazioni spontanee sono davvero qualcosa di enorme, che scalda il cuore, ci fa sentire meno soli e soprattutto mostra l’interesse che ruota attorno alla storia di Stefano e ai casi simili di cui ci occupiamo con l’associazione che porta il suo nome. Che siano iniziative clandestine, che lo si veda al cinema oppure su Netflix, ciò che mi sta più a cuore è che questo film venga visto da più persone possibile. Che se ne parli, e faccia discutere di una storia che si voleva negata fin dall’inizio ma che era chiara ed evidente agli occhi nostri e di coloro che si sono approcciati con onestà a questa nostra vicenda. Mi vengono in mente tutti coloro che in questi anni si sono augurati che di Stefano Cucchi non se ne parlasse più. E mi viene in mente che questo film sarà visto in 190 paesi del mondo, su Netflix. Non posso non pensare a dove siamo partiti: a Stefano che muore da solo come un cane nell’indifferenza generale di tutti coloro che gli ruotano attorno in quei sei giorni del suo calvario; a me e ai miei genitori che ci troviamo di fronte ad un agente che ci dice che il ragazzo si è spento, che possiamo solo farcene una ragione perché tutto si è svolto nell’ambito delle regole; ai nove anni di lotta per aprire una breccia nell’oscurità. E adesso mi guardo attorno e mi rendo conto che il lavoro che abbiamo fatto Fabio (l’avvocato Anselmo, ndr) ed io ha raggiunto il risultato di risvegliare le coscienze di tutti, anche di coloro che mai avranno a che fare con vicende simili a quella che è toccata a me e alla mia famiglia. Ma che ora percepiscono che se vinciamo la nostra battaglia sarà una vittoria anche per affermare i loro diritti. Ha notato il silenzio che cala nelle sale e nelle piazze dopo la proiezione? Impressionante. Nemmeno l’applauso come atto liberatorio, scatta. E ho notato anche che gli spettatori fanno fatica ad alzarsi dalle poltrone, come se non volessero andare via. Eppure la figura del tossicodipendente è particolarmente stigmatizzata nella nostra società. E di ciò che accade nelle carceri importa assai poco. Come mai, secondo lei, si è creata questa empatia con Stefano e la sua famiglia? Credo sia il frutto del lavoro fatto in questi anni e della nostra testimonianza. Abbiamo dimostrato che, se sai di essere nel giusto e se non ti pieghi a ipocrisie e ingiustizie, ce la puoi fare. È vero che all’inizio eravamo soli, ma oggi sento la vicinanza di persone diversissime tra loro che hanno visto come propria ogni nostra anche piccola vittoria. Come un senso di rivalsa davanti ai piccoli o ai grandi soprusi che ciascuno di noi può essere costretto a subire nel proprio vivere quotidiano, in ogni ambito. Quando il regista Alessio Cremonini l’ha chiamata per riferirle del suo progetto, si aspettava tutto questo? No, all’inizio ero spaventata. Spaventata di mettere la nostra vita e i nostri sentimenti nelle mani di sconosciuti. Oggi posso dire che, malgrado noi siamo stati del tutto estranei all’operazione, sia nella fattura che nella produzione del film, non potevamo affidarci a mani migliori. Alessio Cremonini è entrato con molto rispetto in sintonia con le nostre vite, fino a conoscere tramite noi anche Stefano. E il risultato è questo splendido film, con l’interpretazione magistrale di Alessandro Borghi, che a tratti, se socchiudo gli occhi, davvero lo confondo con mio fratello. Una capacità interpretativa eccezionale. La voce è identica, come si capisce nella registrazione originale della deposizione di Stefano davanti al giudice che accompagna i titoli di coda del film. La voce, le espressioni, il modo di camminare, certi particolari di mio fratello che conoscevo solo io… Alessandro Borghi è la prima persona che ho chiamato appena ho visto il film, per chiedergli come avesse fatto, visto che non conosceva Stefano, a somigliargli così tanto. Perfino io ho avuto qualche secondo di dubbio nel distinguere la voce di Alessandro da quella di Stefano. Quale è stata la cosa che ha trovato più toccante, nel film? La sofferenza di Stefano, quell’aspetto umano che nessuno potrà mai ricostruire. A fatica, in questi anni, siamo riusciti a riordinare tutte le tappe del suo calvario. Ma l’aspetto umano, intimo, spirituale, con cui Stefano ha vissuto quei giorni non potremo mai saperlo. E in un certo senso questo film me lo fa conoscere. E poi c’è un particolare che mi ha commosso profondamente: quando, verso la fine del film, Stefano pensa ai suoi genitori e dice tra sé e sé che non meritavano un figlio come lui. Ecco, voglio dire che non è vero. Che Stefano si sbagliava. Perché era un essere imperfetto come ciascuno di noi, aveva tanti difetti e tanti pregi come tutti, ma lo vorrei indietro. Pagherei oro per riaverlo qui con tutti i suoi difetti. Cina. Xinjiang, un altro campo di rieducazione per i musulmani di Li Zaili bitterwinter.org, 16 settembre 2018 Le autorità hanno adottato misure severe per camuffare un campo di rieducazione da centro di formazione professionale. Nella contea di Akto, nella prefettura autonoma kirghisa del Kizilsu, nella regione autonoma dello Xinjiang, c’è un complesso di edifici nell’area industriale denominata Light Industrial Park. Nonostante le autorità affermino che si tratti di un centro di formazione professionale, è a tutti gli effetti un “campo di rieducazione” per musulmani, in funzione ormai da più di un anno. Il complesso si estende su un’area di più di 6.000 metri quadri. I cancelli sono sorvegliati giorno e notte da personale di polizia armato. Il perimetro della struttura è recintato con filo spinato alto fino a quattro metri. I detenuti sono confinati in due edifici grigi, mentre parte delle guardie è alloggiata in una torre di sorveglianza rossa. Anche il personale partecipa alle attività, ma il suo vero compito è impedire fughe e rivolte. Per questo ha sempre con sé un’arma da fuoco. Stando alle informazioni raccolte, nella struttura sono reclusi circa 5mila cittadini cinesi. Si tratta in gran parte di musulmani di diverse etnie, come Uiguri, Kirghizi e Tagiki. I detenuti vengono incarcerati per delitti come la fede in Dio, la condivisione di contenuti religiosi su applicazioni di messaggistica, l’aver manifestato malcontento verso il Partito Comunista Cinese e così via. Una volta nei campi, vengono costretti a studiare le politiche del Partito Comunista Cinsese (PCC) e il mandarino, oltre che a lodare il socialismo e il PCC stesso. Le condizioni di vita all’interno del campo sono pessime. I minuscoli dormitori di cinque o sei metri quadri sono stipati con tre letti a castello. Ai detenuti non è permesso avvicinarsi alle finestre: se lo fanno, ricevono subito l’ordine di spostarsi. Sono monitorati da telecamere installate nei dormitori e nei corridoi, sotto la sorveglianza costante da parte di personale di ogni grado, come guardie, poliziotti ausiliari e addetti alla pubblica sicurezza che hanno sempre con sé un manganello elettrico e una ricetrasmittente. Inoltre al personale è proibito utilizzare telefoni cellulari negli edifici e questo per impedire la divulgazione di qualsiasi informazione. Nel frattempo, nella zona c’è un altro campo, molto più grande. Le fonti riferiscono che si estende su un’area di 20mila metri quadri e che vi sono incarcerati quasi 7mila cittadini cinesi. Una fonte interna al governo ha anche rivelato che nella regione è in costruzione un campo ancora maggiore. Si stima che costerà dai tre ai quattro milioni di renmimbi e che conterrà più di 10mila persone.