“Niente svuota-carceri, va migliorata la vita dei detenuti” di Valentina Stella Il Dubbio, 15 settembre 2018 Intervista a Francesco Basentini, nuovo capo del Dap. Da qualche mese Francesco Basentini è a capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria (Dap). Il magistrato, che ha preso il posto di Santi Consolo, ha rilasciato al Dubbio la sua prima intervista da quando ricopre il nuovo incarico. Dottor Basentini quali sono le sue priorità? Gli obiettivi più importanti che vorrei realizzare sono due. Innanzitutto lavorare sulle nuove motivazioni della polizia penitenziaria, di cui bisogna migliorare le condizioni di lavoro oltre che gli organici. E, in maniera altrettanto importante, adoperarsi per migliorare la qualità di vita all’interno delle carceri, creando nuove possibilità di lavoro e di formazione. Il sovraffollamento è in aumento e c’è poi il problema delle numerose celle inagibili. Come rimediare a questa situazione? È un problema strutturale nella misura in cui le strutture carcerarie hanno una capacità recettiva evidentemente non adeguata o sufficiente. È in atto un discorso organico che trae origine dagli esperimenti degli anni passati per la costruzione di nuove carceri. C’era un ex piano carceri - congelato per varie vicissitudini - che prevedeva da un lato la costruzione di un nuovo carcere, ossia quello di Nola che è in fase di realizzazione progettuale, e dall’altro lato la ristrutturazione e ultimazione di molti nuovi reparti all’interno di carceri esistenti. Il ministero della Giustizia ha chiesto al ministero delle Infrastrutture di mettere a disposizione i fondi previsti proprio per quel piano-carceri, accantonati e congelati da tempo, per poterli destinare a vari interventi alle strutture. Ampliare i posti disponibili può aiutare a coprire in parte il fabbisogno. Oltre a questa soluzione organizzativa, esiste una soluzione diplomatica; almeno un terzo della popolazione detentiva è formata da cittadini extracomunitari provenienti soprattutto dal nord Africa, dall’Albania e dalla Romania. Sarebbe importante lavorare sul fronte degli accordi bilaterali con questi Paesi per convincerli o comunque indurli a prendere all’interno dei loro istituti questa consistente fetta di popolazione carceraria. Proprio la cooperazione in materia penitenziaria è stato uno dei temi al centro dell’incontro, a cui ho partecipato qualche giorno fa, fra il ministro Bonafede e la sua omologa albanese Etilda Gjonaj. Da ottobre inizieranno ad arrivare i braccialetti elettronici che permetteranno ai magistrati di sorveglianza di utilizzarli per i detenuti che sono nella condizione giuridica di essere scarcerati... Se si parla di misure alternative, la detenzione domiciliare è possibile a determinate condizioni. Nella recente riforma penitenziaria - parzialmente congelata - era prevista la possibilità di accedere agli arresti domiciliari per chi aveva da scontare una pena fino ai quattro anni. Questo avrebbe portato fuori dalle carceri migliaia di detenuti, ma ci sarebbe stato un esodo all’esterno il cui impatto non sarebbe stato particolarmente edificante agli occhi della popolazione. Esistono già, perché già previste, altre concrete soluzioni: ad esempio la costituzione delle celle di sicurezza nei vari uffici - commissariati, caserme - al cui interno andrebbero collocati gli arrestati in flagranza di reato per i quali è possibile fare un direttissimo. Pochi giorni fa il Dubbio ha realizzato un servizio sul carcere di Parma, evidenziando la criticità relativa alle condizioni di salute di molti detenuti. Quello di Parma è solo un esempio di come spesso il diritto alla salute venga negato in carcere... Si tratta sicuramente di una nota un po’ critica del nostro sistema penitenziario. L’argomento riceverà sicuramente attenzione nelle valutazioni politiche che andremo a fare. Il dato storico ad oggi è davvero poco confortante perché l’assistenza sanitaria è passata nell’autonomia gestionale delle Regioni che hanno l’obbligo di provvedere al servizio, ma fanno i conti con quello che è il personale, l’organico. Lavoriamo con difficoltà anche sotto un altro aspetto, quello del percorso terapeutico dei detenuti psichiatrici. Le sezioni che dovrebbero ospitarli non sono esistenti in tutti gli istituti di pena. Sovraffollamento e diritto alla salute molto spesso negato. La sentenza Torreggiani sembra lontana... La situazione è critica e complessa da gestire. Tuttavia registro da parte di questo governo e in particolare dal ministero della Giustizia una attenzione estremamente mirata e particolarmente sensibile ai problemi che si vivono in carcere. Questo è un dato di fatto molto importante: per la prima volta si vede una forma di intervento e reattività politica rispetto al problema. Facciamo i conti con vari fattori: prima c’era una notevole mancanza di risorse sia umane che finanziarie, spero che questo deficit venga superato attraverso un investimento nel mondo delle carceri. La nota positiva è che sicuramente la sentenza Torreggiani ci ha costretto a rispettare una serie di vincoli, primo tra tutti quello che deriva dal rapporto tra il detenuto e lo spazio da lui fruibile. Questo rapporto è frutto di una valutazione sistematica costante che si fa anche attraverso meccanismi di controllo: al Dipartimento abbiamo un applicativo che ci permette il monitoraggio dello spazio a disposizione per ogni detenuto in ogni singola cella. Se si scende al di sotto dei tre metri quadrati si può intervenire trasferendo il detenuto interessato. Qual è il suo parere sulla proposta di estendere l’uso del taser anche alla polizia penitenziaria? Quando si introduce un’arma in una sezione esistono grossi rischi. Cosa accadrebbe se finisse in mano ad un detenuto? Stiamo valutando delle soluzioni alternative al taser, alcune sono state già individuate e le studieremo nella loro fattibilità concreta: riprendere a lavorare sulla formazione della polizia penitenziaria e sui protocolli di intervento operativo, migliorare le capacità di autodifesa degli agenti; stiamo valutando anche quello che accade in altre Paesi, dove all’interno delle carceri ci sono dei gruppi di intervento composti da personale specializzato e dotato di una attrezzatura completamente protetta e realizzata con materiale tale da non arrecare danno al detenuto e soprattutto non consentire al detenuto di aggredire l’agente. In questi casi gli agenti non hanno armi. Rita Bernardini da Radio Radicale ha lamentato il fatto che il Dap per la prima volta ha negato a una delegazione del Partito Radicale una visita in un carcere, in particolare quello di Taranto con “motivazioni risibili - ossia che non si ravvisano ragioni trattamentali soprattutto sapendo che quello pugliese è un carcere particolarmente sovraffollato”. Bernardini ha dichiarato che questa nuova amministrazione “non opera all’insegna della trasparenza”. Lei come replica? Mi dispiace che sia stato fatto questo tipo di riflessione. Comunque per legge il diritto incondizionato di visita, che spetta a determinate figure istituzionali, è altro rispetto alla facoltà di visita, che può essere concessa dal Dap anche a soggetti diversi, in particolari condizioni. Gli ex parlamentari non hanno lo stesso diritto dei parlamentari. Un’altra grande criticità sono i suicidi in carcere... Si tratta di un fenomeno per certi aspetti incontrollabile. Ribadisco che stiamo facendo il possibile per migliorare la qualità della vita in carcere. Però dovrebbe fare anche notizia il tentato suicidio che viene evitato dall’attività della polizia penitenziaria che ha una incidenza numerica diverse volte superiore a quello che è l’evento suicidario. Come giudica la mancata riforma dell’ordinamento penitenziario? Quella riforma non andava nella direzione giusta; più che una riforma era uno svuota-carceri. Quello che bisogna fare è migliorare la condizione di vita del detenuto nelle carceri, trovargli possibilità di lavoro attraverso dei protocolli che abbiamo già firmato con Roma e che a breve concretizzeremo con Milano e Palermo. L’obiettivo non è quello di dare semplicemente una liberazione o una libertà incondizionata e trasversale per tutti quanti i detenuti indistintamente, perché altrimenti sarebbe uno svuota-carceri. Invece la misura alternativa deve premiare il detenuto meritevole. Come risolvere il problema dell’affettività in carcere? Si sta pensando alla possibilità di ricorrere a tecnologie digitali per ampliare le modalità di colloqui tra il detenuto e la famiglia lontana dal luogo di detenzione in condizioni e modalità anche temporali diverse da quelle previste dalla norma, così da aumentare il numero di colloqui. Il 41bis rispetta ancora l’obiettivo con il quale è nato o si è trasformato in uno strumento di punizione? Se è quello strumento giuridico che ci permette di azzerare o comunque di ridurre notevolmente i rischi legati a particolari soggetti di clan mafiosi o a coloro che fanno propaganda a fini di proselitismo islamico esso allora è uno strumento eccezionale e la sua applicazione non deve essere vista come un eccesso. Però che senso ha avuto far rimanere Bernardo Provenzano in regime di 41bis quando le sue condizioni di salute erano critiche, era privo di coscienza e non riusciva a comunicare con i familiari? Ci dovremmo scandalizzare se a Provenzano non fossero state date le cure e le terapie necessarie. Meno reati e più detenuti, mentre in carcere si continua a morire lettera21.org, 15 settembre 2018 I dati relativi alla situazione carceraria dei primi due terzi del 2018 evidenziano come un’emergenza sicurezza e stranieri si fondino su percezioni errate. Quello che però continua a non diminuire, oltre il numero dei reclusi, sono le morti in carcere. Nel 2018 sino al 14 settembre come riporta il dossier “Morire di carcere” di Ristretti Orizzonti, i suicidi sono stati diciotto nelle carceri del Nord Italia. Quattro in Liguria, due in Piemonte, nove in Lombardia, tre in Friuli Venezia Giulia. Dodici i suicidi nelle carceri del Centro Italia: due in Toscana, uno in Sardegna, uno nelle Marche, quattro nel Lazio, due in Emilia Romagna e altrettanti in Abruzzo. Al Sud si registrano i restanti dodici casi: cinque in Campania, uno in Calabria, quattro in Puglia e due in Sicilia. Quasi il 10% sono donne, 20 italiani e 22 stranieri. Ma i decessi in carcere non si limitano ai suicidi, ci sono anche le morti per malattie, o per cause da accertare che portano il numero totale delle morti in carcere a 74 da inizio 2018 a oggi, erano 71 nello stesso periodo del 2017, 3 in più, con un aumento del 4,2%. Sono questi numeri, 42 suicidi (uno in meno rispetto allo stesso periodo del 2017) e 32 morti per malattia o cause da accertare, a segnalare alcune criticità delle carceri italiane, insieme a quelli della statistica ufficiale dei ministeri della Giustizia e dell’Interno. Dove emerge con forza come alla diminuzione dei reati corrisponde un aumento dei detenuti. Nei primi otto mesi del 2018 il dato complessivo delle persone recluse secondo le statistiche diffuse dal Ministero della Giustizia ha raggiunto quota 59.135, erano 57.393 al 31 agosto 2017, più 1.742 detenuti in 12 mesi, cifra che supera di 8.513 unità la capienza regolamentare degli Istituti penitenziari italiani rilevata alla fine di agosto 2018, era di 6.892 nel 2017. Indicando quindi un aumento del sovraffollamento. A Ferragosto il consueto Dossier del Viminale comparando l’andamento della delittuosità per i periodi compresi tra 1° agosto 2016 - 31 luglio 2017 e 1° agosto 2017 - 31 luglio 2018 (anche se con la nota dati non consolidati), registrava un vistoso calo per tutte le voci monitorate. Con la diminuzione dei delitti passati da 2.453.872 a 2.240.210, degli omicidi da 371 a 319, delle rapine da 31.904 a 28.390 e dei furti da 1.302.636 a 1.189.499. Logica vorrebbe che se da una parte calano i reati dall’altra anche il numero dei detenuti debba diminuire nel tempo. A sostenere il non rapporto di proporzione diretta tra reati e detenuti è anche un altro dato contenuto nel Pre Rapporto dell’Associazione Antigone sulla situazione delle carceri italiane nei primi sei mesi del 2018. Nonostante la diminuzione degli ingressi in carcere dalla libertà, 24.380 rispetto ai 25.144 del primo semestre 2017 (appunto) continuano ad aumentare i detenuti “Segno di una stasi nel numero degli arresti, della maggiore durata della condizione di persona in custodia cautelare, di pene inflitte più lunghe, di un basso investimento nelle misure alternative”. Al contempo quello che emerge dalla lettura del rapporto di Antigone è un’emergenza stranieri che non esiste. Analizzando i dati del Ministero della Giustizia al 31 agosto 2018 la percentuale di detenuti stranieri 35,45% è pressoché invariata rispetto al 2017 quando era 35,99%, anzi in minima flessione. Inoltre Antigone segnala come “il tasso di detenzione degli stranieri in Italia è diminuito di oltre 2 volte negli ultimi 10 anni. I detenuti stranieri sono addirittura diminuiti in termini assoluti rispetto al 2008 e l’inclusione paga, garantisce sicurezza, rendendo una comunità parte integrante dell’economia e della società italiana. In cinque anni sono 1.103 i rumeni detenuti in meno. Inoltre è straniero il 44.64% dei detenuti cui è stata inflitta una pena inferiore a un anno (e dunque per reati di scarsa gravità) e solo il 5,6% degli ergastolani (che sono complessivamente 1.726)”. Numeri che sembrerebbero indicare un orientamento maggiormente securitario, tanto più che sempre nel Pre Rapporto di Antigone risultano “21.807 i detenuti che devono scontare una pena inferiore ai 3 anni ed il 33,4% dei detenuti è in custodia cautelare”. Oltre ventunomila detenuti che potrebbero beneficiare di misure alternative alla detenzione: a fine giugno erano 28.621 i detenuti in misura alternativa: 16.554 in affidamento in prova al servizio sociale, 11.159 in detenzione domiciliare, 908 in semilibertà, mentre 13.785 le persone soggette alla messa alla prova. Esaminando poi alcuni aspetti strettamente correlati alla vita detentiva, frutto delle visite dell’Associazione presso i vari Istituti penitenziari, si intuisce come siano numerose le criticità riguardanti la vita, la salute, il lavoro e, la formazione dentro il carcere. Sono 62 (al 31 agosto 2018 Dati Ministero della Giustizia) i bambini al seguito delle proprie madri detenute ristretti. “Nel 20% delle carceri visitate, in alcune celle non era garantito uno spazio di 3 metri quadri a detenuto. Nel 73,3% dei casi, a differenza di quanto prevede la legge, i giovani adulti (meno di 25 anni) non erano separati dagli adulti, così favorendo processi di adesione a percorsi criminali strutturati. Nel 63,3% delle carceri sono state riscontrate celle senza doccia, al contrario di quanto prevede la legge. Nell’75,9% dei casi mancano luoghi di culto per i detenuti non cattolici. Nel 33,3% dei casi il direttore è responsabile di più di un carcere. Negli istituti visitati la presenza media di educatori è pari a uno ogni 68,9 detenuti. Nel 75% dei casi la cartella clinica era scritta a mano e non digitalizzata e spazi dedicati ai detenuti disabili mancavano nel 60,7% delle visite. A lavorare per ditte private o soggetti esterni erano il 3% dei detenuti”. Le poltrone della giustizia. Palazzo dei Marescialli e la scalata dei grillini di Valeria Di Corrado Il Tempo, 15 settembre 2018 Per il Csm Benedetti il preferito. Ma può spuntarla il Pd. I 5 Stelle a caccia di alleati sul vicepresidente. Finora al motto: “tutti per uno, uno per tutti”, hanno preferito quello: “ognuno per sé”. I tre consiglieri laici del Csm eletti lo scorso luglio in quota Cinque Stelle, con l’obiettivo di vigilare come moschettieri sulle decisioni prese a Palazzo Marescialli, per il momento non hanno dato prova di far squadra. Nella partita per la vice presidenza del Consiglio superiore della magistratura (aperta solo agli 8 componenti di nomina parlamentare), i professori di diritto Alberto Maria Benedetti, Fulvio Gigliotti e Filippo Donati hanno marciato in solitaria, vantando una presunta “benedizione” dal Colle. Ora dal vertice del Movimento ci si è resi conto che, se non si vuole vedersi sfilare questa autorevole poltrona (di norma assegnata a un rappresentante del governo), conviene far convergere i voti su un unico nome e cercare appoggi nei 16 consiglieri togati. Le votazioni sono alle porte: il 27 settembre si riunisce il nuovo plenum per scegliere il vice di Sergio Mattarella a Palazzo Marescialli. È partita così la caccia allo sponsor nelle quattro correnti della magistratura che hanno i loro rispettivi rappresentanti al Csm. Sembra che il sottosegretario agli Affari regionali del M5S, Stefano Buffagni, sia sceso in campo per trovare la giusta sponda. I due voti di Autonomia e Indipendenza sembrano scontati, visto la nota simpatia di Piercamillo Davigo verso le posizioni grilline. I pentastellati dovrebbero poi contare anche sull’appoggio dei 4 consiglieri di Area. La corrente di sinistra, uscita ridimensionata dalle elezioni interne alla magistratura dello scorso luglio, ha messo il veto sui membri laici scelti da Lega e FI. Non è nemmeno scontato che al Csm si replichi, in “seconde nozze”, l’unione giallo-verde di palazzo Chigi. Gli avvocati Emanuele Basile e Stefano Cavanna, pur consapevoli di essere fuori dalla partita a causa delle continue invettive contro le toghe di Matteo Salvini, potrebbero non votare per il “prescelto” tra i colleghi eletti in quota M5S. Sembra che simpatizzano più per il laico di Forza Italia Alessio Lanzi. Ma anche se cambiassero idea, 11 voti non bastano ai grillini per ottenere la poltrona di vice presidente di Palazzo Marescialli, visto che nelle prime due votazioni serve la maggioranza assoluta: ossia 14 preferenze. Per questo la scelta per ottenere il maggiore consenso sembra essere Alberto Maria Benedetti, professore di diritto privato a Genova (la città di Grillo) e allievo del professore Vincenzo Roppo, avvocato di Carlo De Benedetti nella vicenda del Lodo Mondadori. In alternativa c’è Filippo Donati, professore di diritto costituzionale a Firenze, favorevole alla riforma di Renzi. Anche se il ministro alla Giustizia Alfonso Bonafede sembra simpatizzare per il terzo, Fulvio Gigliotti. Ma il blocco più forte è quello che vede alleate le correnti di centro-destra di Magistratura Indipendente e Unicost, che da sole possono contare su un “tesoretto” da 12 voti, compresi quelli dei membri di diritto il primo presidente e il procuratore generale della Cassazione, Giovanni Mammone e Riccardo Fuzio. Sta all’asse Mi-Unicost scegliere il futuro vicepresidente del Csm tra il professore Lanzi, che pur se titolato deve scontare il passato di avvocato di Confalonieri e Mills, e David Ermini, il parlamentare renziano che, a giochi fatti, è il più “papabile” successore. “Ecco perché a noi giudici non interessa entrare in guerra con la politica” di Errico Novi Il Dubbio, 15 settembre 2018 Intervista a Roberto Carrelli Palombi, segretario di Unicost. “Non è il momento delle divisioni, delle contrapposizioni aspre. Né tra magistratura e politica né all’interno della magistratura stessa”. Roberto Carrelli Palombi è il segretario di Unicost, la corrente “di centro” delle toghe. Che non a caso, in linea con le parole del suo vertice, si è tenuta fuori dai contrasti andati in scena al Csm sulle tensioni fra Salvini e la Procura di Agrigento. Ma non si tratta solo di un’opzione “di parte”: Carrelli Palombi, che esercita funzioni di presidente del Tribunale di Siena, è convinto che “i magistrati ora abbiano altre priorità”. Eppure in molti temono un ritorno al clima del ventennio berlusconiano. Anche se oggi manca una parte politica che, come il centrosinistra di allora, si erga a difesa dei magistrati e possa così suscitare equivoci sulla loro imparzialità... Non sono in grado di dire se in passato ci siano state forze politiche che abbiano difeso strumentalmente la magistratura. Sono sicuro però che oggi noi magistrati non abbiamo alcun interesse a uno scontro con la politica. Almeno, io personalmente ne sono convinto ma credo si tratti di un dato generale. Cosa è cambiato? Oggi non è questo che i cittadini chiedono. Ed è chiaro che non vogliamo una guerra con altri poteri dello Stato, ciò anche quando evochiamo i sacri princìpi dell’autonomia e indipendenza della magistratura, che devono essere rispettati da tutti. Anzi, è percepibile per chiunque il fatto che siamo preoccupati di un’altra cosa: avere i mezzi perché il servizio reso possa essere più tempestivo e rispondente alle attese dei cittadini. Non a caso il presidente dell’Anm è impegnato con il ministro della Giustizia a individuare soluzioni tecniche che consentano il raggiungimento di tale obiettivo. E l’attuale presidente dell’Anm, Francesco Minisci, proviene proprio dal suo gruppo. Siete concentrati sull’efficienza anche perché temete che l’insofferenza dell’opinione pubblica possa scaricarsi su di voi? Non è la ricerca del consenso a guidare l’azione della magistratura. Né dei singoli né della magistratura associata. La questione di cui parlo è riferita all’interesse generale del Paese. E però quell’interesse esiste ed è chiaro quale sia. Noi ne siamo consapevoli. E credo appunto che non sia utile disperdere energie e attenzione verso altro che non sia la necessaria risposta alle attese dei cittadini. I richiami del Capo dello Stato basteranno a spegnere polemiche come quella tra il vicepremier Salvini e i magistrati? Da cittadino prima che da giudice non mi stancherò mai di ringraziare il presidente della Repubblica per i suoi richiami. E mi riferisco anche a quelli relativi ai doveri che incombono su ogni singolo magistrato. Nel plenum del Csm, le correnti si sono divise a proposito della Procura di Agrigento: c’è un rischio di disgregazione? Sono rischi sempre presenti, sui quali la vigilanza non è mai troppa. Adesso abbiamo, come dire, un vantaggio: per un po’ non ci saranno elezioni, né per l’organo di autogoverno né per gli organismi dell’Anm. Il che credo potrebbe favorire un clima di maggiore serenità e aiutare tutti a essere costruttivi pur da diverse posizioni. Ma sul confronto tra le componenti nel Csm vorrei ricordare un altro aspetto generale. Prego. Quando il Csm interviene a difesa di un ufficio, o di un singolo magistrato, non lo fa in relazione al merito dell’attività giudiziaria svolta ma esclusivamente con riguardo all’autonomia e all’indipendenza che non vanno mai messe in discussione. Se poi invece ci si inoltra su un altro tipo di dibattito, si rischia di sconfinare in contrasti di natura, in senso lato, politica, ai quali dovremmo restare estranei. Ma il nuovo Csm rischia di trasformarsi in un campo di battaglia? Mi auguro proprio che non accada. Il Csm ha compiti di enorme rilievo, e ora siamo in una fase delicatissima, con la prossima indicazione del vicepresidente. Spero che su questo terreno la componente togata riesca a esprimersi in linea con la propria vocazione di rappresentanza istituzionale della magistratura e arrivi a una scelta condivisa. Anzi spero che la condivisione ci sia anche con i laici: si tratterebbe di un segnale importantissimo. Un’ultima cosa: lei resta convinto di voler lasciare la segreteria di Unicost? Io ho presentato le dimissioni. Il comitato di coordinamento nazionale avrebbe dovuto riunirsi a fine luglio per decidere se accettarle. È stato rinviato a fine ottobre, di fatto mi si chiede di continuare a esercitare le funzioni di segretario almeno fino a quella riunione quando, insieme, si valuterà. Il ritorno di Cuffaro: l’avevo promesso ai compagni di cella di Errico Novi Il Dubbio, 15 settembre 2018 Dopo più di dieci anni Totò Cuffaro, l’ex governatore della Sicilia, riappare nella sala di Palazzo dei Normanni per il convegno “Oltre le sbarre. Uno sguardo ai diritti e alle tutele dei figli dei detenuti”. “L’ultima volta che misi piede in questa sala? Ricordo bene: era il 28 gennaio 2008. E si è sempre emozionati nel tornare in un luogo in cui si è vissuto un pezzo, giusto o sbagliato, della propria vita”. Totò Cuffaro parla con la voce un po’ rotta, però è di buon umore. È sereno. Sembra esserlo più di quanto non ne diano l’impressione i suoi contestatori: in particolare i Cinque Stelle che lì non avrebbero voluto vederlo. E invece dopo più di dieci anni l’ex governatore della Sicilia riappare nella sala di Palazzo dei Normanni intitolata a Piersanti Mattarella. Partecipa al convegno “Oltre le sbarre. Uno sguardo ai diritti e alle tutele dei figli dei detenuti”. Lui sul palco, dopo tanto tempo, fuori il sit-in del Movimento, guidato dal vicepresidente dell’Assemblea regionale siciliana Giancarlo Cancelleri. “Sono qui per mantenere una promessa fatta ai miei ex compagni di cella, ai quali dissi che sarei andato in giro per il Paese a parlare delle carceri e a dire che dentro non vi sono vuoti a perdere, che ci sono non corpi ma anime”, spiega l’ex presidente della Regione. Poi risponde a Cancelleri, principale animatore della protesta contro il suo ritorno nella sala intitolata al martire della mafia: “Non ritengo quella dei grillini una polemica nei miei confronti, è una semplice presa di posizione di persone che sostengono alcune cose, e fanno bene a farlo: ce ne sono diverse altre che invece sostengono il contrario”. L’ex governatore che ha scontato la condanna per concorso esterno ritrova la scena pubblica con pacatezza ed emozione. Con parole appassionate, ma anche con una frase in fondo più amara che inopportuna: “Posso fare una battuta pesante? Da uomo d’onore vi dico che non torno in politica, anche se ho chiesto la riabilitazione. Ovviamente uomo d’onore lo dico con ironia…”. Potrebbero fargli pagare anche questa, dopo essere statto quello che “ha pagato per tutti”, come sostiene Gianfranco Micciché, l’artefice istituzionale della riammissione di Cuffaro, costruita però con pazienza, più di chiunque altro, dall’avvocato Vincenzo Vitale. Micciché, presidente del “Parlamento” siciliano, sale sul palco e abbraccia Totò: “Questa è casa tua”. Non è il solo a difenderlo. In prima fila c’è il deputato regionale dell’Udc Vincenzo Figuccia, che ha organizzato il convegno: “Cuffaro ha scontato tutta la sua pena, chi polemizza ha tutto il diritto di farlo ma anche noi abbiamo il diritto di raccontare le condizioni delle carceri e dei carcerati”. L’ex governatore le conosce per averle sperimentate e per aver organizzato, dietro le sbarre, persino corsi di sostegno per i reclusi che volevano laurearsi in Legge. Adesso ritorna ai quattro anni più duri della sia vita con una consapevolezza che meriterebbe rispetto: “Va bene così”, dice a proposito dell’indignazione grillina, “è giusto che ognuno sviluppi il suo ragionamento: in carcere ho imparato a non giudicare me stesso, figuriamoci gli altri. Accetto la loro posizione anche se non la condivido. Cancelleri è il leader dei pentastellati e va rispettato come tale”. Il tema del convegno non è marginale: sui figli dei detenuti, e ancor più sulla condizione dei minori che vivono in contesti familiari criminali, è stato il Csm a squadernare un confronto difficile, con ipotesi di sradicamento rilanciate nel recente plenum a Napoli. Cuffaro ha suo malgrado acquisito una notevole competenza in materia: distribuisce la prefazione di un libro in cui suo figlio spiega “cosa significa essere figlio di un detenuto”. Poi ripete: “Tento di portare un contributo all’umanizzazione delle carceri. Se l’opinione pubblica capirà che dentro quei luoghi non ci sono corpi ma storie di persone, forse anche la politica se ne occuperà e non saremo più in fondo alla graduatoria per la qualità della vita dei detenuti”. Una passione che non basta a spegnere la rabbia dei contestatori. I Cinque Stelle sostengono che “ragioni di opportunità politica, sociale e istituzionale avrebbero imposto di individuare un altro posto, non una sala intitolata a un martire nella lotta alla mafia”. Nel post che spiega le ragioni del sit-in avanzano un’ipotesi terribile: “La mafia vive di simbologie: portare un ex detenuto, condannato per aver tradito lo Stato, nella sala di chi di mafia è morto significa nel linguaggio mafioso che la mafia è più forte dello Stato e che può sbeffeggiare le più importanti istituzioni”. Micciché la pensa in tutt’altro modo: “La presenza di Totò Cuffaro anche a me fa venire dei brividi, ma sono brividi di emozione, diversi da quelli di qualcun altro”. Contro l’anatema del M5s si pronuncia anche il Pd. Innanzitutto l’ex sottosegretario, ora a Palazzo Madama, Davide Faraone: “Cuffaro non deve varcare la soglia di Palazzo dei Normanni, Salvini però può girare in diretta Facebook, dal Viminale, un video contro la magistratura: come al solito, giustizialisti a corrente alternata”. Poi annuncia di essersi “iscritto ai radicali” e attacca: “I Cinque Stelle non sanno in che condizioni pietose vivono i detenuti e nemmeno gli interessa saperlo: chi ha sbagliato deve marcire in galera e basta, questo vuole la folla urlante con la bava alla bocca e questo bisogna dargli”. Cuffaro dedica la fine del suo intervento al Burundi, dov’è impegnato come volontario: “Sono stato radiato dal’albo dei medici, non posso praticare la professione in Italia, ma in Burundi lo posso fare. Raccoglierò i fondi per costruirci un ospedale”. Sfugge alle polemiche con la dolcezza, Totò. E stavolta l’impressione è che non riusciranno a incastrarlo. Cuffaro, il partito Radicale e i diritti in carcere di Miriam Di Peri meridionews.it, 15 settembre 2018 Intervista a Donatella Corleo, storica esponente del Partito Radicale, accorsa ad assistere al dibattito sulle carceri, “invogliata dagli attacchi giustizialisti a Cuffaro. In lui - aggiunge - ho visto la stessa speranza di Rita Borsellino, li accomunava la fede”. “Non è un caso che dalla Sala Gialla di Palazzo dei Normanni, Totò Cuffaro abbia parlato di pregiudizio e speranza, due concetti ricorrenti nel suo intervento. Non credo che sia un caso perché le parole sono importanti, con le parole si fanno le leggi, si giudica, si crea il pregiudizio”. Non ha dubbi Donatella Corleo, storica esponente del Partito Radicale in Sicilia, che della battaglia per i diritti civili nelle carceri siciliane ha fatto il suo percorso di militanza politica, al fianco di Marco Pannella prima, di Rita Bernardini dopo. “Sono venuta ad ascoltare Cuffaro - ammette a margine del contestato convegno sulla genitorialità oltre le sbarre - in veste di osservatrice e ascoltatrice, invogliata proprio dagli attacchi giustizialisti a Cuffaro che, non dimentichiamo, il suo debito con la giustizia lo ha pagato”. Insomma, estinta la pena, non può restare il marchio a fuoco di Caino... “No, non deve. E mi ha colpito che molti dei relatori abbiano parlato di speranza. Proprio insieme all’associazione Nessuno Tocchi Caino noi del Partito Radicale abbiamo promosso il docufilm Spes Contra Spem, che già dal titolo vuole andare nella stessa direzione, laica, cattolica, ispirata a Gandhi, di quel cambiamento che ciascuno di noi può incarnare. E che può, appunto, dare speranza. In quel docu-film gli attori sono tutti ergastolani ostativi. Persino a loro abbiamo voluto infondere il sentimento di speranza”. Che in quel caso, onestamente, è più difficile da sostenere... “Vede, fuori, all’esterno, non si tiene in considerazione che anche il peggiore criminale viene cambiato dal carcere, perché è lì che si fa un percorso e che, come ha detto Cuffaro, si ridefinisce la propria scala di valori”. Dunque lei pensa che Cuffaro faccia bene a usare la sua popolarità per accendere i riflettori sui diritti civili oltre le sbarre... “Cuffaro, comunque la si pensi, è un personaggio di dominio pubblico, a cui va assolutamente riconosciuto il merito di spendersi per questa causa. E le ripeto, mi ha molto colpita nel suo intervento questo racconto di come proprio in carcere abbia ridefinito la sua scala di valori. Certo, bisogna dire che Totò Cuffaro è un uomo sorretto da una grande fede”. E si torna a quel concetto di speranza di cui parlava prima... “Il ricorso alla parola speranza è tipico di una certa spiritualità e ricorre spesso nel mondo cattolico. Eppura la prima persona che mi ha avvicinata alla parola speranza, e credo che anche lei facesse riferimento alla frase attribuita a San Paolo, è stata Rita Borsellino”. Niente di più distante da Salvatore Cuffaro... “Credo che questa grande fede fosse l’unica cosa che li accomunava. Io l’ho incontrata nel 2006, durante un dibattito pubblico con Pannella. Alla fine mi presentai, non ricordo cosa le dissi. Lei mi guardò coi suoi occhi buoni e mi disse che non dovevo mai perdere la speranza. Io non credo di essermi presentata a lei come una disperata. Certo, ognuno di noi ha il proprio doloroso vissuto, ma non credo che fossi disperata, almeno non in quell’occasione. Eppure lei mi disse che non dovevo perdere la speranza”. Era il 2006 e lei incontrò Rita Borsellino, che proprio quell’anno sfidava alla presidenza della Regione Totò Cuffaro... “Io nel 2006 ho fatto convintamente campagna elettorale per Rita Borsellino, contro Cuffaro, non sono mai stata una Cuffariana. Io con Cuffaro condivido l’iscrizione al Partito Radicale, che lui fa da diversi anni, e la battaglia per i diritti civili nelle carceri”. Cosa ha contribuito all’avvicinamento di Cuffaro al Partito Radicale? “Uno dei pochi deputati che giravano le carceri era Marco Pannella, che non andava a Rebibbia per trovare Cuffaro, ma trovava anche lui. Poi essendoci questo rapporto dialettico, si è instaurato tra i due un legame di stima. E oggi io sono orgogliosa di avere un compagno di partito come Totò Cuffaro. Secondo me è un debito di riconoscenza per le battaglie di Marco Pannella. Credo che abbiano passato diversi Capodanni insieme, dietro le sbarre. Marco iniziava sempre così l’anno nuovo”. Certo, in tempi di codici etici qualcuno potrebbe storcere il naso per una tessera di partito nel portafogli di Cuffaro... “Ma quale codice etico? Il nostro è un partito che non si presenta nemmeno alle elezioni, almeno non nel modo tradizionalmente inteso, è un partito transnazionale e transpartitico e poi chiunque può iscriversi al Partito Radicale. Noi non parliamo di eticità dello Stato, parliamo di temi sensibili che riguardano la società. Il partito radicale è quello che fai, non ci può essere un codice etico, ma non perché siamo degli immorali pervertiti, c’è una morale molto più forte, che va ben oltre un foglio di carta con qualche regola scritta sopra”. Cuffaro ha raccontato di un condannato a 26 anni di carcere che si è suicidato a pochi mesi dal ritorno dalla libertà. Emblematico, non trova? “Il carcere ti svuota. Nel caso delle pene lunghissime lo svuotamento è ancora più evidente, ma anche pochi anni ti cambiano. E questo avviene perché i detenuti non vengono seguiti, perché nessuno si è accorto che quella persona non la andava a trovare nessuno. Dietro le sbarre, purtroppo, dall’ergastolano al ladro di mele, diventano dei numeri, perdono la loro identità e il loro nome, non c’è cura per la persona”. Il questore: “col taser Aldrovandi sarebbe vivo”. L’ira dei genitori: “ucciso a botte” di Fabrizio Caccia Corriere di Bologna, 15 settembre 2018 “Ho tre figli, sono genitore anch’io e quando ho detto quella frase speravo solo di trasmettere tutto il mio dolore per la morte di un ragazzo. Invece...”. Al telefono, il questore di Reggio Emilia, Antonio Sbordone, il giorno dopo sembra sinceramente amareggiato: “Non sono stato compreso e mi dispiace moltissimo”, continua a ripetere. Ieri, sul Resto del Carlino, aveva detto: “Federico Aldrovandi, se ci fosse stato il taser, sarebbe ancora vivo”. I genitori di Federico hanno reagito indignandosi: “Mi dispiace che si possa giustificare uno strumento pericolosissimo come il taser con questo paragone che non ha senso - si è sfogata con l’agenzia Ansa Patrizia Moretti, la mamma di Federico. Mio figlio è morto perché quella mattina hanno continuato a pestarlo, schiacciarlo e a dargli calci nella testa quando era già stato immobilizzato e stava chiedendo aiuto. Credo che il taser, piuttosto, avrebbe dovuto essere utilizzato contro i poliziotti, perché in quel momento avevano perso il senso della realtà e stavano uccidendo un ragazzo...”. Federico Aldrovandi, studente di 18 anni, il 25 settembre del 2005 a Ferrara muore al termine di una colluttazione durante un controllo di polizia. Sono passati tredici anni dalla tragedia ma tra familiari e amici il suo ricordo è ancora vivo. Vivissimo. Per sabato 29 settembre, tra due settimane, papà Lino e mamma Patrizia hanno già dato appuntamento su Facebook annunciando un grande concerto nella sua città, Ferrara, in viale Alfonso I d’Este: suoneranno, tra gli altri, Lo Stato Sociale e Marina Rei. Ma soprattutto ci saranno quanti in questi anni non hanno mai dimenticato Federico. Per la morte del giovane, accusati del reato di “eccesso colposo nell’uso legittimo delle armi”, il 21 giugno 2012 quattro poliziotti sono stati condannati con sentenza definitiva della Cassazione a 3 anni e 6 mesi di reclusione. Tre anni, però, sono stati cancellati poi dall’indulto. Antonio Sbordone è stato anche il questore di Ferrara, ma non era lui in carica quando morì Aldrovandi: “Sapete perché nell’intervista al Carlino ho fatto riferimento a Federico? - prova ora a spiegarsi - Perché stavamo parlando della sperimentazione del taser in corso a Reggio Emilia e mi è stato chiesto un parere sull’uso alternativo del manganello. Io allora ho risposto quello che penso da sempre e cioè che il manganello va bene per l’ordine pubblico e non contro la singola persona. Il manganello in passato ci ha già creato dei guai. E così ho ricordato la morte di Aldrovandi, ho detto che contro di lui furono usati proprio i manganelli. E da padre ho concluso che quella morte, col benedetto o maledetto taser, si sarebbe potuta evitare. I quattro poliziotti hanno sbagliato e hanno pagato”. Tre giorni fa, proprio in Questura a Reggio Emilia, il taser è entrato per la prima volta in azione, fermando un 34enne: “Era esagitato e si è scagliato contro gli agenti - racconta Sbordone. Ma il colpo non è partito. Il giovane ha ricevuto una piccola scossa quando è finito contro la canna del taser. La pistola infatti era carica e anche da ferma emette elettricità”. “Nei corsi e nelle circolari viene spiegato con chiarezza che la pistola elettrica deve essere essenzialmente mostrata - tiene a precisare il questore-, perché si ritiene che basti la sua visione, per il colore acceso e la linea di elettricità visibile, a funzionare come deterrente. Il rischio, però, c’è sempre: perciò è sbagliato puntarla alla cassa toracica delle persone”. Terni: detenuto 38enne muore in cella. La famiglia: “era pieno di lividi e sangue” di Giorgia Baroncini Il Giornale, 15 settembre 2018 “Era tutto pieno di lividi, con il sangue che usciva dal naso, dalla bocca e dalle orecchie”. I genitori del 38enne di nazionalità moldava deceduto nel carcere di Terni non credono che sia stato un infarto a colpire loro figlio. L’uomo è stato trovato questa mattina nella sua cella dagli agenti della polizia penitenziaria senza vita. “È stato un malore”, hanno spiegato. Ma la famiglia vuole vederci chiaro. “Circa un anno fa ha commesso un piccolo furto ed è finito a processo - ha raccontato un amico del 38enne a ilGiornale.it -. Lui però non si è presentato in Aula e ha lasciato l’Italia. Quando ha messo piede a Malpensa è stato subito arrestato e condannato a un anno e otto mesi. Dopo due mesi in carcere a Milano lo hanno trasferito. Da lì sono iniziati i problemi”. Ieri mattina l’uomo è stato trovato morto nella sua cella. “Da sei mesi, da quando è in carcere a Terni, ha iniziato a lamentare dei dolori alla pancia. Così si è fatto visitare due volte, ma i medici non hanno riscontrato niente di anomalo. Anzi, gli hanno dato una medicina che ha suo parere ha fatto peggio. Quando ha chiesto di essere portato da un altro dottore, gli hanno risposto che non lo avrebbero mandato”, ha spiegato l’amico. Si lamentava delle condizioni in carcere. Diceva: “Le galere qui sono peggio che in Africa. Qui è il Terzo mondo” e si chiedeva soldi alla sorella a Londra per comprarsi da mangiare. Denaro che lei dava all’avvocato ma che non sono mai arrivati a lui. “Lunedì la sua famiglia è arrivata in Italia dalla Moldavia e quando sono andati a trovarlo in carcere la situazione era tranquilla - ha continuato l’amico. Oggi sarebbe dovuto andare a farsi visitare da un altro dottore, ma quando sono andati a prenderlo hanno visto che era morto. Avea la pancia gonfissima, come un pallone”. Ancora ignote le cause del decesso. La famiglia ha chiesto spiegazioni e dal penitenziario hanno risposto “che era stato un infarto”, ha raccontato l’amico. “All’inizio non volevano neanche farlo vedere ai genitori. Poi hanno cambiato idea. Era tutto pieno di lividi, con il sangue che usciva dal naso, dalla bocca e dalle orecchie. Non può essere stato un infarto”, ha spiegato. Lunedì verrà eseguita l’autopsia sul corpo del 38enne moldavo che farà luce su quanto accaduto. Reggio Calabria: arrestato dai Carabinieri, muore durante l’interrogatorio in Tribunale lacnews24.it, 15 settembre 2018 È successo a Reggio Calabria. Il 62enne è deceduto mentre si trovava di fronte al giudice Pirruccio. La Procura ha aperto un fascicolo d’inchiesta. Un malore lo ha stroncato mentre provava a difendersi dall’accusa di spaccio di sostanze stupefacenti. Così è morto ieri Francesco Naccarato, 62 anni, deceduto improvvisamente all’interno del Tribunale di Reggio Calabria. L’uomo, arrestato il giorno prima dai carabinieri, è crollato mentre si trovava di fronte al giudice Paolo Pirruccio che aveva il compito di vagliare le accuse mosse a suo carico dai militari dell’Arma. Proprio loro, fra l’altro, sono stati i primi a tentare i soccorsi, una volta intuito cosa stava capitando a Naccarato, che era difeso dagli avvocati Mariateresa e Demetrio Pratticò. Vani i tentativi di rianimarlo da parte di un medico presente nei locali del Cedir, così come quello dei sanitari del 118. Sulla morte di Naccarato, la Procura ha aperto un fascicolo affidato al pm di turno Diego Capece Minutolo, intervenuto poco dopo per constatare il decesso. Al sostituto procuratore il compito di comprendere se ci sia stato qualche ritardo nel prestare soccorso a Naccarato. Napoli: curato male a Poggioreale, adesso è in fin di vita di Fabio Postiglione Corriere del Mezzogiorno, 15 settembre 2018 La denuncia dei parenti di un detenuto: il tumore individuato soltanto con il ricovero al Cardarelli. “Mio padre sta morendo perché al carcere di Poggioreale non lo hanno curato. Abbiamo denunciato la struttura e siamo pronti a dare battaglia”. A parlare è Nunzia Rigotti, la figlia di Ciro, un uomo di 62 anni di Ponticelli che deve scontare nove anni di carcere per droga, ma che da un mese è ricoverato in rianimazione all’ospedale Cardarelli perché ha un tumore alla faccia e al cervello. “È in stadio terminale”, dice la figlia. Tutto sarebbe partito quattro mesi fa quando Rigotti ha iniziato a sentire i primi dolori all’orecchio e a perdere sangue dal naso. “Mi ha raccontato che gli avevano somministrato antidolorifici e tamponato la perdita con dell’ovatta, ma ad ogni colloquio era sempre più magro e nessuno si degnava di curarlo”. A metà luglio la famiglia ha chiesto una visita specialistica: “Un nostro medico ha riscontrato un polipo nel naso e ha chiesto una tac urgente che gli è stata fatta solo la settimana scorsa”. Implacabile il risultato: tumore maligno e non operabile. “Poteva essere curato, poteva essere salvato, poteva essere operato ma adesso è troppo tardi”, denunciano i familiari di Rigotti. Dello stesso parare anche Pietro Ioia, presidente dell’associazione degli ex detenuti, impegnato in battaglie per il rispetto dei loro diritti. “Posso dire che siamo potenzialmente davanti ad un altro caso di malasanità nel carcere di Poggioreale, che io chiamo il mostro. Quando scorre sangue a qualche detenuto, da qualunque parte del suo corpo, non ci vogliono antidolorifici o la cosiddetta pillola di Padre Pio, ma medici specialistici, interventi celeri. Lì non ce ne sono e così facendo si continuerà a morire nelle mani dello Stato e il caso di Rigotti è l’ennesima riprova. Si poteva intervenire prima e non si è fatto”. Poi lancia un appello: “Adesso fatelo tornare a casa. Vuole morire nel suo letto”. Al momento la famiglia ha presentato un esposto alla Procura che potrebbe aprire un fascicolo a breve per accertare così sia avvenuto tra le mura di quella cella e se ci siano stati ritardi nella diagnosi, se insomma Rigotti poteva essere salvato. Napoli: contro le baby-gang le istituzioni devono agire insieme di Franco Roberti* Il Mattino, 15 settembre 2018 Prima la risoluzione approvata dal Csm nel plenum di Napoli, poi l’intervento del ministro Bonafede, rappresentano segnali positivi di attenzione all’emergenza baby-gang a Napoli e in generale al problema della devianza minorile nei nostri territori. Si tratta di iniziative che possono dare un contributo, ci auguriamo concreto, nell’affrontare la complessità di un problema che - sembra il caso di ricordarlo al ministro, poiché non vi fa alcun cenno nella sua nota - è da tempo oggetto di azioni congiunte e sinergiche anche da parte degli enti territoriali. Non da ieri, infatti, sono state messe in campo azioni concrete, su diversi fronti, che hanno già ottenuto risultati positivi e in prospettiva potranno ancora di più incidere in questa battaglia che non può essere soltanto giudiziaria, ma innanzitutto sociale e culturale. Quando il ministro Bonafede, come ha annunciato, verrà in Campania, potrà rendersi conto di quanto è stato realizzato e si sta realizzando in tema di sicurezza e di politiche sociali. Potrà verificare, per esempio, le azioni che riguardano la videosorveglianza, da Forcella al Rione Sanità, destinate nei prossimi mesi ad essere estese anche ad altri quartieri. Potrà soprattutto informarsi di quanto si sta facendo nelle scuole e nei quartieri con iniziative e progetti che puntano alla diffusione della cultura della legalità. Ad esempio, per il terzo anno consecutivo il progetto “Scuola Viva” consente di tenere a livello regionale oltre 400 istituti aperti oltre l’orario di lezione con progetti sociali che coinvolgono insegnanti e famiglie. Il ministro potrà anche verificare quello che si sta attuando per l’implementazione di azioni di inclusione sociale e di innovazione territoriale nel Rione Sanità, promuovendo i progetti in tema di contrasto alla dispersione scolastica e in favore della formazione professionale. Tanto in attuazione del protocollo di intesa sottoscritto il 20 giugno scorso tra il ministero dell’Interno, la Regione Campania, il Comune di Napoli, la prefettura di Napoli, l’Ufficio scolastico regionale e l’Anci nazionale. Proprio ieri si è riunita in prefettura la cabina di regia prevista dal protocollo per coordinare e dare impulso, con assunzione di responsabilità dei vari attori e certezza nei tempi di realizzazione, alle varie iniziative del progetto. Anche questo modello verrà esteso agli altri quartieri a rischio non soltanto della città di Napoli. Vorrei anche ricordare che il 2 agosto scorso gli assessorati regionali alle Politiche sociali ed a quelle integrate di sicurezza e legalità hanno avuto un primo incontro con i vertici degli uffici giudiziari minorili sulle problematiche poste delle comunità minorili, spesso scuole di violenza più che luoghi di rieducazione e tutela dei minori. Un argomento la cui rilevanza certamente non sfugge al ministero della Giustizia e sul quale la Regione intende offrire il proprio contributo nel rispetto delle competenze. Insomma, non siamo all’anno zero e il ministro non troverà il deserto. Consapevoli tutti che sul contrasto alla devianza minorile occorrono impegno costante e collaborazione istituzionale. E che occorre fare sempre di più, anche nella realizzazione di impianti sportivi che consentano di togliere i ragazzi dalla strada indirizzandoli alla pratica agonistica nel rispetto delle regole. *Assessore regionale alla Sicurezza Limbiate (Mb): Rems per detenuti psichiatrici, si va avanti con il progetto ilsaronno.it, 15 settembre 2018 Si è tenuta in settimana la valutazione di impatto ambientale (Vas) relativamente alla trasformazione dei padiglioni “Ronzoni” e “Forlanini” dell’ex Antonini di Mombello in residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza (Rems), dove troveranno posto 40 detenuti con problemi psichiatrici. Un progetto della Regione Lombardia di cui si sente parlare a Limbiate da più di tre anni, avversato dall’allora amministrazione De Luca, contraria alla realizzazione di edifici che vanno a sostituire gli ospedali psichiatrici giudiziari (Opg), aboliti nel 2013 e chiusi definitivamente nel 2015. Di diverso parere però, la giunta Romeo, che non ha mai nascosto il proprio interessamento alla riqualificazione dell’area dell’ex Antonini, prioritaria per contrastare l’abbandono e il degrado, che diventano volani di delinquenza, spaccio e sporcizia. Il documento ha evidenziato la riqualificazione dei due padiglioni (che non possono essere abbattuti in quanto soggetti a vincoli storico-architettonici), ciascuno di 1.250 metri quadrati circa con area verde annessa di 18mila metri quadrati. Le strutture, che non avranno sbarre interne, conteranno in tutto 40 posti letto, assegnati per l’appunto ad altrettanti malati psichici condannati per reati. Non ci saranno guardie, ma medici e personale sanitario. Solo videocamere di sorveglianza installate per il controllo. Il costo complessivo dell’intera operazione, dalla progettazione al recupero, dalla suddivisione degli spazi agli arredi, è di circa 17 milioni di euro, finanziati dallo Stato e, per una quota parte pari a 860mila euro, da Regione Lombardia. Roma: compie 4 anni il birrificio che impiega detenuti e ricicla il pane di Teresa Valiani Redattore Sociale, 15 settembre 2018 Cotta pubblica e degustazione di prodotti dell’Economia Carceraria nell’evento organizzato a Roma per i primi 4 anni di vita del progetto “Vale la Pena”. Paolo Strano: “Le nostre birre sprigionano profumi e persone”. “RecuperAle”, la birra “che recupera cibo e persone”, sarà protagonista indiscussa dell’evento promosso per festeggiare i primi quattro anni del birrificio che impiega detenuti ammessi al lavoro esterno e riutilizza il pane. La struttura apre le porte al pubblico organizzando una cotta pubblica (dimostrazione di come si produce birra in casa) e una degustazione di prodotti dell’Economia Carceraria con un appuntamento fissato per domani, sabato 15 settembre, dalle 11.00 alle 15.00, in via della Colonia Agricola, 41. “Chi vorrà venirci a trovare - spiega Paolo Strano, presidente della Onlus Semi di Libertà che gestisce il progetto - potrà visitare la struttura, scoprire i segreti della birra fatta col pane destinato a essere sprecato, pranzare con noi e degustare i prodotti dell’Economia Carceraria”. “Birra Vale la Pena” è un progetto di inclusione cofinanziato dal Ministero dell’Università e ricerca e dal ministero della Giustizia e realizzato dalla Onlus che impiega detenuti ammessi al lavoro esterno, provenienti dal carcere romano di Rebibbia. “Queste persone - racconta il presidente - vengono formate e avviate all’inclusione professionale nella filiera della birra. Il fine è contrastare le recidive, che salgono al 70 per cento tra chi non gode di misure alternative e scendono al 2 per cento tra coloro che vengono inseriti in progetti produttivi come questo. Le nostre birre sprigionano profumi, e persone. Un prodotto di qualità e valori”. Il Birrificio era stato inaugurato il 15 settembre 2014 dall’allora ministro dell’Università e Ricerca, Stefania Giannini. L’impianto si trova nei locali dell’Ita Sereni di Roma, con gli studenti che partecipano insieme ai detenuti alle attività formative, ricevono lezioni di legalità e consumo alcolico consapevole e vengono allenati ai valori dell’accoglienza e dell’inclusione. L’etichettatura delle bottiglie ed il packaging sono realizzati in team con i ragazzi autistici di “L’emozione Non Ha Voce Onlus” mentre partecipano come formatori alcuni tra i più grandi Birrai italiani che si alternano, anche, nell’impianto, firmando ricette uniche. “In carcere sopravvivi da emarginato - spiega Paolo Strano. A pane e acqua. Come l’esubero di un banchetto, come il pane che ogni giorno si butta perché in avanzo. E invece, ai bordi di una società che dimentica in fretta, che spesso ci fa sentire un’eccezione, c’è ancora posto per chi crede nel riscatto, in quella seconda possibilità che per alcuni detenuti è stata prima imbottigliata e poi etichettata, per renderla “socialmente utile” e “sostenibile”. RecuperAle è la birra artigianale che riabilita quel 70 per cento dei detenuti che torna a delinquere dopo aver scontato la pena soltanto in carcere, e che recupera ogni giorno un terzo del pane altrimenti sprecato. I benefici del progetto nobilitano l’artigianalità del luppolo made in Italy sia dal punto di vista sociale, con il reinserimento in società dei detenuti, sia dal punto di vista ambientale, arginando l’eccesso del lievitato e facilitando il suo stesso smaltimento”. L’evento ha posti limitati, la partecipazione prevede un contributo di 20 euro. Necessaria la prenotazioni a: info@valelapena.it, Whatsapp: 3201527708. Milano: oasi verde nel carcere di San Vittore di Marianna Vazzana Il Giorno, 15 settembre 2018 Nasce un giardino curato da detenuti e associazioni. Non solo passeggiate tra pavé e pareti di cemento. Una piccola oasi ha preso vita nel carcere di San Vittore: è un giardino condiviso, curato da detenuti affiancati da addetti ai lavori e rappresentanti di associazioni verdi. Un progetto presentato lo scorso anno e che ora si mostra alla città: il velo si toglierà in occasione di Green City il 29 settembre. È già tutto pronto, come spiega Ilaria Scauri, curatrice del progetto “Parole in circolo (in città)” nel centro clinico di San Vittore, finanziato con un bando europeo, finalizzato ad abbattere le barriere tra istituto penitenziario e città. “Il nostro obiettivo - spiega Scauri, che promuove e cura progetti sociali nelle aziende - è quello di far entrare la città nel carcere. E nello stesso tempo di creare relazioni umane tra le persone. Sono venuti a trovarci diversi cittadini, da rappresentanti di associazioni a figure istituzionali, che ci hanno raccontato la propria esperienza”. Sotto gli occhi di tutti, il giardino che è proprio attorno al reparto del centro clinico, “che rimaneva chiuso per motivi di sicurezza e non fruibile neppure durante l’ora d’aria”, sottolinea Scauri. Da qui, l’idea di trasformarlo in un giardino condiviso con oltre un centinaio di piante perenni di 40 specie diverse, messe a dimora in collaborazione con gli stessi detenuti. “Ringraziamo Nespoli Vivai - sottolinea Scauri - che gratuitamente ha donato le piante e messo a disposizione escavatori, strumenti e manodopera, ma anche tutta la rete di condivisione che si è creata per dare vita all’opera, a partire dalla direzione del carcere che ha subito abbracciato l’idea”. In prima linea il Municipio 1, il Comune e tutti gli esperti che hanno dato una mano: dall’agronomo Carlo Marinoni, del Comune, a Manuel Bellarosa di Italia Nostra, da Franco Beccari degli Orti di via Padova (Legambiente) a Susanna Magistretti di Cascina Bollate. Così il sogno è diventato realtà. “Si può ben dire - sottolinea Elena Grandi, vicepresidente del Municipio 1 - che questo progetto rappresenta la perfetta realizzazione dell’idea che sta alla base dei giardini condivisi. Siamo di fronte, infatti, alla collaborazione di tanti: associazioni, Comune, Municipio 1, sponsor, direzione e personale del carcere e non ultimi i detenuti”. Verona: il carcere apre alla città, raccolta fondi a sostegno del reparto di oncologia venetonews.it, 15 settembre 2018 Si chiama “Domenica: carceri porte aperte” ed è l’iniziativa che permetterà a tutti i cittadini (purché maggiorenni) di entrare nella Casa circondariale di Verona. L’appuntamento è fissato per domenica 30 settembre, dalle 10 alle 13. Per partecipare è necessario inviare una mail di richiesta, assieme a una fotocopia della carta d’identità, a camerapenaleveronese@gmail.com, entro il 16 settembre. Il progetto, infatti, nasce dalla collaborazione tra Camera penale veronese e Casa circondariale di Verona - Montorio, con il patrocinio del Comune di Verona. “Le porte aperte sono un’importante occasione - ha spiegato l’assessore agli Affari legali Edi Maria Neri - per conoscere la realtà carceraria e per sensibilizzare alle problematiche che riguardano questo mondo. Ma anche per confrontarsi e per vedere le molte attività che vengono realizzate all’interno del carcere, dalla ristorazione al teatro, con la finalità di recuperare i detenuti”. Il programma prevede una visita guidata all’interno degli spazi del carcere, prosegue con una presentazione artistica e si conclude con un aperitivo, realizzato dai detenuti - studenti dell’Istituto Alberghiero Berti, e l’assaggio di alcuni abbinamenti di prodotti tipici veronesi. La giornata ha anche uno scopo benefico: le offerte raccolte saranno devolute al progetto “Convivio” per sostenere le iniziative di umanizzazione delle cure. Il progetto è destinato ai pazienti del reparto di oncologia dell’Azienda ospedaliera. “Talvolta - ha sottolineato il direttore della Casa circondariale di Verona Mariagrazia Bregoli - ciò che non conosciamo ci spaventa, ma il carcere è parte del territorio ed è giusto che le persone possano vederlo. L’iniziativa permetterà a ogni cittadino di avvicinarsi a questa realtà e ai detenuti di sentirsi parte attiva della società perché partecipi di un importante progetto solidale”. Alla presentazione della giornata di “porte aperte” hanno partecipato anche l’avvocato Elena Pranio e le dottoresse dell’ospedale di Borgo Roma Clelia Bonaiuto e Daniela Cafaro, ideatrici del progetto “Convivio”. Ancona: la Compagnia Art’O di Montefano nella Casa di Reclusione del Barcaglione ilcittadinodirecanati.it, 15 settembre 2018 5 le associazioni impegnate in 9 laboratori teatrali nei 6 istituti penitenziari marchigiani. www.teatrocarcere-marche.it è il nuovo sito del Coordinamento Regionale Teatro in Carcere Marche, iniziativa condivisa da cinque associazioni no-profit impegnate da anni in attività di promozione culturale e sociale nelle case circondariali e luoghi di detenzione del territorio. Nasce sotto l’egida della Regione Marche e d’intesa con l’Amministrazione Penitenziaria. Un Protocollo interistituzionale dà l’avvio nel 2011 all’organizzazione in rete delle attività, con l’ATS1 di Pesaro come Ente Capofila e l’Associazione Aenigma come soggetto esecutore/gestore del “Progetto unitario Teatro in Carcere per le Marche”, interamente finanziato dalla Regione Marche, Servizio Politiche Sociali. Promotori, oltre al Teatro Universitario Aenigma di Urbino (nelle Case Circondariali di Pesaro e Ancona Montacuto) sono la Compagnia Art’O di Montefano/MC (nella Casa di Reclusione di Ancona Barcaglione), la Compagnia La Pioletta di Cagli (nella Casa di Reclusione di Fossombrone), l’Associazione sassi nello stagno (nella Casa Circondariale di Fermo), l’Associazione culturale Kinematosti (nel carcere di Marino del Tronto/Ascoli Piceno). Oltre al Provveditorato interregionale dell’Amministrazione Penitenziaria di Emilia Romagna e Marche e alle Direzioni dei 6 istituti penitenziari marchigiani coinvolti, partecipano alla realizzazione dell’intervento anche gli Ambiti Territoriali Sociali n. 1 di Pesaro, n. 7 di Fossombrone, n. 11 di Ancona, n. 19 di Fermo, n. 22 di Ascoli Piceno insieme ad altre 24 istituzioni coinvolte (Università, Scuole, Teatri, Comuni, Province, ASL, Uffici di Esecuzione Penale esterna). Con il convincimento che le attività sceniche a favore delle persone recluse producano uno scambio tra “dentro e fuori” che evidenzia l’importanza di costruire ponti tra il carcere e il proprio territorio in chiave educativa e inclusiva, i promotori indicano alcuni numeri che qualificano il progetto: 55 è la somma degli anni d’esperienza teatrale in carcere degli organismi che si sono coordinati nel progetto, 31 gli operatori coinvolti con differenziate competenze, 160 in media i detenuti e detenute che partecipano annualmente ai laboratori, 1800 gli spettatori che mediamente in un anno aderiscono agli esiti conclusivi rappresentati (cittadini che assistono agli spettacoli proposti in carcere o a quelli che riescono ad essere rappresentati nei teatri cittadini, a volte anche nell’ambito di programmazioni ufficiali). Il Sito presenta in modo dettagliato le iniziative che sono state attuate nel 2017/2018 nella Regione Marche, i promotori delle stesse e il loro collegamento, nell’ambito del panorama nazionale, alle sperimentazioni rilevanti in atto (il Teatro Aenigma è capofila anche del Coordinamento Nazionale delle esperienze di Teatro in Carcere fondato nel 2011). Il lavoro qualitativamente alto della Regione Marche è stato messo a sistema grazie a quella che può essere considerata una buona pratica nazionale per gli interventi socio-culturali a favore dell’ambito penitenziario: la Legge Regionale 28 del 2008 per un “Sistema regionale integrato degli interventi a favore dei soggetti adulti e minorenni sottoposti a provvedimenti dell’Autorità giudiziaria ed a favore degli ex detenuti”. Migranti. Il Viminale accelera con la Tunisia: subito rimpatri sui charter di Fiorenza Sarzanini Corriere della Sera, 15 settembre 2018 Verrà applicato l’accordo già esistente che prevede il trasferimento con i voli organizzati dalla Direzione immigrazione della polizia: due alla settimana per 40 posti ciascuno, con relativa scorta a bordo. I primi partiranno nelle prossime ore. Il primo charter con 40 migranti potrebbe partire tra poche ore. Gli altri voli decolleranno la prossima settimana fino a riportare in Tunisia i 180 stranieri sbarcati due giorni fa a Lampedusa. “Stiamo studiando misure innovative ed efficaci”, aveva detto in mattinata il ministro dell’Interno Matteo Salvini. In realtà l’unica possibilità è applicare l’accordo con Tunisi che prevede appunto il trasferimento con i voli organizzati dalla Direzione immigrazione della polizia: due alla settimana per 40 posti ciascuno, con relativa scorta a bordo. La linea seguita in questo caso prevede però di non far passare nessuno per i centri di identificazione completando la procedura subito dopo l’approdo e prevedendo l’espulsione immediata. Da Vienna - dove partecipa all’incontro con i ministri europei dell’Interno - Salvini spiega di aver “parlato con il collega tunisino per il mio prossimo viaggio. Stiamo lavorando, dopotutto la Tunisia non è un paese in conflitto”. Attacca invece il governo maltese: “Ancora in questi minuti un Paese membro dell’Unione europea, Malta, se ne sta fregando dei suoi doveri e continua ad accompagnare barche cariche di migranti in acque italiane alla faccia della solidarietà europea”. Dichiarazioni che si riferiscono appunto a quanto accaduto due giorni fa, quando il centro di coordinamento aveva segnalato la presenza in mare di alcune imbarcazioni dirette verso la Sicilia. E il titolare del Viminale si era affidato a un messaggio su Facebook: “Almeno 7 di questi barchini veloci e con pochi immigrati a bordo, sono in questo momento in acque maltesi (62 persone). Queste non sono navi in difficoltà, questo è evidentemente traffico di esseri umani. Abbiamo contattato le autorità maltesi perché facciano il loro dovere, in caso contrario farò tutto il possibile perché i clandestini non sbarchino in Italia. Porti Chiusi e che mi indaghino pure”. Malta non ha risposto alle richieste italiane e qualche ora dopo i migranti sono arrivati in Sicilia. Le verifiche della polizia hanno accertato che si trattava di tunisini, forse ad eccezione di una famiglia di siriani, e sono stati avviati i contatti per il rimpatrio immediato. In questi casi la Direzione per l’immigrazione deve attivare la procedura di gara con le compagnie aeree e quando arriva l’offerta più vantaggiosa si prenota il volo che generalmente viaggia il lunedì e il giovedì. Fino a ieri sera Tunisi non aveva autorizzato un charter straordinario da far decollare subito, ma ha comunque accettato che si procedesse velocemente. “Come arrivano se ne vanno”, dichiara in serata Salvini consapevole che comunque l’accelerazione è stata possibile perché con la Tunisia c’è già un accordo che funziona. Un’intesa rafforzata nelle ultime settimane con la disponibilità del governo italiano a riparare le due navi da 35 metri da utilizzare per i pattugliamenti che erano state donate negli anni scorsi. Migranti. A Vienna “scintille” fra Salvini e ministro Lussemburgo di Valentina Santarpia Corriere della Sera, 15 settembre 2018 Scambio feroce di battute tra il vicepremier e il ministro degli Esteri del Lussemburgo, che cerca di interrompere più volte Salvini. Per poi farsi scappare una frase poco ortodossa: “Merde alors”. Il ministro dell’Interno: “Volgare”. E poi: “Presto governeremo l’Europa con Orban”. Battibecco fra Matteo Salvini e il collega lussemberghese Asselborn durante l’intervento alla Conferenza di Vienna sulla sicurezza e l’immigrazione. Il titolare del Viminale, a un certo punto, ha sottolineato che l’Italia non ha “l’esigenza di avere nuovi schiavi per soppiantare i figli che non facciamo più” e Asselborn lo ha interrotto più volte per poi farsi scappare una frase poco ortodossa: “Merde alors”. Il vicepremier, che ha postato il video su Facebook, non si è scomposto e qualche ora dopo, in conferenza stampa, ha sottolineato: “Stiamo aspettando a minuti il ministro del Lussemburgo per continuare il dibattito con toni pacati, lui prima è stato volgare”. Il racconto - Dice Salvini: “Ho sentito da qualche collega dire che c’è bisogno di immigrazione perché la popolazione europea invecchia, io ho una prospettiva completamente diversa. Io penso di essere al governo e di essere pagato per aiutare i nostri giovani a tornare a fare quei figli che facevano qualche anno fa e non per espiantare il meglio dei giovani africani per rimpiazzare i giovani europei che per motivi economici oggi non fanno più figli. Magari in Lussemburgo - prosegue Salvini - c’è questa esigenza, in Italia invece abbiamo l’esigenza di aiutare i nostri figli a fare degli altri figli e non ad avere nuovi schiavi per soppiantare i figli che non facciamo più. Siamo assolutamente disponibili a dialogare con tutti”. A questo punto, il ministro lussemburghese interrompe Salvini dicendo: “Io sono il ministro del Lussemburgo e controllo le mie finanze, voi in Italia dovete occuparvi dei vostri soldi per aiutare a dare da mangiare ai vostri figli”. E poi ancora: “In Lussemburgo, caro signore, avevamo migliaia di italiani che sono venuti a lavorare da noi, dei migranti, affinché voi in Italia poteste avere i soldi per i vostri figli”. Replica di Salvini: “Rispondo pacatamente al suo punto di vista che non è il mio. Se in Lussemburgo avete bisogno di nuova immigrazione, in Italia preferisco aiutare gli italiani a tornare a fare figli”. Chi è Asselborn - Jean Asselborn, 69 anni, del Partito operaio socialista, è dal 2004 ministro degli Esteri del Lussemburgo, l’unico Granducato esistente al mondo, con una superficie di appena 2500 km quadrati e una popolazione di circa 550 mila abitanti. Asselborn attualmente è il ministro degli Esteri dell’Unione europea in carica da più tempo. Nel settembre 2016 creò una polemica quando invocò la sospensione o l’espulsione dell’Ungheria dall’Unione europea a causa del suo trattamento dei rifugiati, suscitando critiche da parte di altri ministri europei. “Le sanzioni contro il popolo ed il Governo ungherese sono un atto politico, una follia di quell’Europa di sinistra che non si rassegna al cambiamento e sono convinto che tra qualche mese ci troveremo a governare l’Europa in compagnia di Viktor Orban”, ha commentato sull’argomento Salvini. Cannabis terapeutica. “Governo rompa monopolio, coltiviamola a Milano” di Chiara Baldi La Stampa, 15 settembre 2018 La proposta del Consigliere di Fi. Alessandro De Chirico ha presentato una mozione a Palazzo Marino: “Il parco Sud è il più grande parco agricolo d’Europa, creeremmo posti di lavoro e aiuteremmo i malati. Sala ci pensi”. Coltivare a Milano la cannabis terapeutica e invitare così il Governo a “rompere il monopolio” della produzione: attualmente, infatti, la coltivazione e la produzione di cannabis per scopi terapeutici nel nostro paese è in mano all’Esercito. È questa la mozione presentata in consiglio comunale a Milano da Alessandro De Chirico, vice capogruppo di Forza Italia. “Contattato dal Partito Radicale e vista la delibera approvata lo scorso agosto dall’assessore al Welfare della Regione Lombardia, Giulio Gallera, per il riconoscimento della rimborsabilità da parte del sistema sociosanitario regionale, mi sono documentato su un tema che tocca da vicino oltre 20 mila persone in tutta Italia affette da malattie gravi, dai pazienti oncologici ai malati di sclerosi multipla, dagli infetti di Hiv a chi è colpito dalla sindrome di Gilles de la Tourette”. In realtà, secondo un report della Cia (la Confederazione Italiana Agricoltori) presentato qualche mese fa, in Italia ci sarebbero 20 milioni e 772 mila persone che soffrono di patologie (dal tumore all’epilessia fino alla sclerosi multipla) che possono essere trattate con la cannabis terapeutica. Per De Chirico si tratta di persone che “necessitano di medicinali a base di cannabis per il trattamento sintomatico di supporto ai medicinali tradizionali. Lo stabilimento farmaceutico militare di Firenze (quello dell’Esercito, ndr) non è in grado di far fronte alla richiesta e per questo motivo il ministero della Salute ha recentemente rafforzato l’import dall’Olanda”. Un altro paese di importazione è il Canada: a inizio anno l’Italia ha acquistato 100 chilogrammi di cannabis terapeutica da questo paese e ogni chilo importato è costato alle casse dello Stato 6 mila euro. Per questa ragione, l’esponente forzista fa notare che “il Parco Sud di Milano è il più grande parco agricolo d’Europa” e che “dislocate in tutta Milano ci sono decine di cascine di proprietà comunale. Se il Governo autorizzasse la coltivazione controllata della cannabis terapeutica, da una parte si soddisfarebbe la domanda proveniente da malati gravi e dall’altra parte si creerebbero posti di lavoro e profitti utili a preservare il patrimonio delle cascine milanesi, per cui manca la disponibilità di fondi pubblici necessari a urgenti ristrutturazioni”. La proposta potrebbe essere realizzata attraverso il coinvolgimento di “Coldiretti, Consorzio Dam e gli altri operatori attivi nel settore agricolo milanese. Sono certo che il sindaco Sala, sensibile al tema, abbia a cuore la salute dei milanesi e che con orgoglio possa far diventare Milano capofila della richiesta di abbattimento del monopolio militare della coltivazione di cannabis terapeutica”. Brasile. Il giallo del 35enne bresciano trovato morto in carcere tpi.it, 15 settembre 2018 Massimiliano Tosoni, di Brescia, è stato trovato morto in una cella nel carcere di Fortaleza in Brasile. I parenti italiani credono che sia stato ucciso. Lo hanno trovato senza vita i compagni di cella. Per i medici del carcere Ippo 2 di Fortaleza le cause del decesso sono naturali. Ma la morte di Massimiliano Tosoni, 35enne di Montichiari recluso in Brasile, è avvolta dal mistero. I parenti italiani non credono alla versione della morte naturale. L’ipotesi che sostiene la famiglia è che Massimiliano Tosoni, detenuto a Fortaleza dove stava scontando una pena a 31 anni, sia stato ucciso. Tosoni, padre di un bambino di sei anni avuto da una donna brasiliana, un passato bresciano da assicuratore, si era trasferito a Fortaleza per scappare dalla giustizia italiana. Cinque anni fa viene arrestato con l’accusa di duplice omicidio per un fatto di sangue avvenuto a Fortaleza il 31 gennaio. Tra la scoperta del cadavere - avvenuta martedì 11 settembre - e la comunicazione ufficiale della morte all’avvocato e ai familiari, arrivata solo mercoledì sera, sono trascorse oltre 24 ore. Un lasso di tempo in cui è stata disposta ed eseguita l’autopsia. Le autorità si sono mosse tra l’altro solo dopo che la compagna brasiliana di Massimiliano Tosoni era venuta a conoscenza della disgrazia in modo del tutto casuale da persone che gravitano attorno al carcere. Ad alimentare i dubbi e le inquietudini della famiglia i “precedenti” del luogo teatro della tragedia, avvenuta in un carcere dove negli ultimi dodici mesi - tra tentativi di evasione, insurrezioni e omicidi tra detenuti - sono morte ammazzate 12 persone. Tosoni è stato condannato grazie alle testimonianze di due minorenni ritenuti gli esecutori materiali dell’omicidio. Armati di pistola, ammanettarono le vittime e, dopo averle derubate di 44 milioni di reais, le sgozzarono con una violenza tale da lasciarle semi decapitate. Al momento del fermo, la polizia non escluse che i ragazzini fossero sotto effetto di allucinogeni, facendo degenerare in un raccapricciante bagno di sangue quella che forse doveva essere una semplice rapina. Tosoni si è sempre dichiarato innocente, sostenendo di essere stato a sua volta incastrato dai due ragazzi”. Libia. All’Onu passa la linea Italia-Usa: no al voto a dicembre di Rachele Gonnelli Il Manifesto, 15 settembre 2018 Prorogata la missione Unsmil che assume il controllo di Tripoli, Haftar ottiene il ritiro dell’ambasciatore di Roma, Giuseppe Perrone. Negli ultimi giorni tutta una serie di meccanismi sono scattati in Libia, diciamo da dopo l’assalto al quartier generale della National Oil Corporation, la compagnia statale del petrolio, con sede a Tripoli. Lo scatto più rumoroso è venuto dalla decisione del Consiglio di sicurezza dell’Onu, presa a New York giovedì sera, su proposta della Gran Bretagna, di prorogare di un anno - il voto è stato all’unanimità - la missione Unsmil di stabilizzazione della Libia. Nel testo della risoluzione non è stato fatto alcun accenno al 10 dicembre prossimo come data delle elezioni. Al contrario, il Consiglio di sicurezza auspica che le elezioni libiche avvengano “il prima possibile purché siano presenti le necessarie condizioni di sicurezza, tecniche, legislative e politiche”. Ha vinto dunque la linea della diplomazia italiana, con gli Stati Uniti che hanno fatto la loro parte al Palazzo di Vetro sulla base, evidentemente, degli accordi strappati dal premier Conte nella sua visita al presidente Trump per concordare una sorta di “camera di regia” comune sulla Libia a fine luglio. La data del 10 dicembre a dire il vero nero su bianco non era stata mai scritta in nessun documento ufficiale, ma si trattava di un impegno verbale preso a maggio a Parigi dal premier libico riconosciuto internazionalmente Serraj e dal generale “ribelle” Haftar. Tanto che ancora ieri la portavoce del ministro degli Esteri francese Le Drian, Agnes von del Muhll, ripeteva che Parigi continua a sostenere “gli sforzi delle autorità libiche e delle Nazioni Unite per arrivare a elezioni entro l’anno”. Il primo ministro Fayez Serraj pochi giorni fa in una intervista al Corriere della Sera aveva però chiarito come non ci fossero le condizioni per andare al voto in tempi così stretti. E non solo a causa della mancanza di sicurezza nelle strade di Tripoli, dove in una settimana di combattimenti tra le milizie ci sono stati una sessantina di morti, ma anche - insisteva Serraj - perché per andare alle urne bisogna che tutte le parti in gioco siano disposte ad accettare i risultati e quindi avere regole condivise. “Come si fa ad andare a votare senza una Costituzione?”, era la sua domanda retorica. In verità proprio l’altro ieri la Camera dei rappresentanti di Tobruk, cioè l’unico parlamento eletto ma che finora ha fatto capo alle forze del generale Haftar, ha approvato la legge per effettuare il referendum costituzionale su tre circoscrizioni (est, ovest e sud) e lunedì prossimo è convocata una nuova seduta per emendare la Dichiarazione costituzionale che invece prevedeva un’unica circoscrizione nazionale. Si tratta di un primo sblocco dopo mesi, anni, di melina istituzionale, anche se un gruppo di deputati di Brega, in Cirenaica, sostengono si sia trattato di un blitz parlamentare di deputati della Tripolitania da rimettere in discussione. Così com’è in bozza adesso la Costituzione non prevede che il generale Haftar possa candidarsi come presidente. Decisioni importanti a Tripoli sono state prese sempre nella giornata di giovedì e sempre con il coinvolgimento della numero due della missione Unsmil, Stephanie Williams. In un summit tecnico durato alcune ore è stato messo a punto un piano di riordino degli incarichi e della suddivisione delle aree di controllo delle milizie che fanno capo al governo Serraj in modo da rendere effettivo il cessate il fuoco concordato dall’Onu ma finora non attuato: i miliziani delle varie “bande” dovranno consegnare le armi in un deposito unico che saranno ripartite a seconda delle aree di competenza e degli incarichi. Serraj insieme al direttore della Banca centrale hanno poi fissato regole sui prezzi dei carburanti e sui tassi di cambio e il dinaro libico si è subito rivalutato. Haftar per ora ha ottenuto che l’ambasciatore italiano Giuseppe Perrone, da lui considerato “persona non gradita”, per ora in ferie prolungate per “mancanza di sicurezza a Tripoli”, sarà sostituito. Ancora non si sa da chi. Siria. Si prepara la guerra che non vuole nessuno di Chiara Cruciati Il Manifesto, 15 settembre 2018 La Turchia media, Damasco rallenta, Mosca parla di corridoi umanitari. Ma tutti dispiegano le truppe e gli Stati uniti fanno esercitazioni nel sud del paese. Il presidente turco Erdogan non molla e continua nel giro delle sette chiese per salvare se stesso dalla battaglia di Idlib. Annunciata, preparata, ma ancora sospesa. Lunedì Erdogan sarà a Sochi per incontrare di nuovo il russo Putin dal quale, il 7 settembre, ha ricevuto un secco no alla richiesta di tregua sulla provincia nord-ovest siriana. E ieri ha ospitato a Istanbul un vertice con francesi, tedeschi e russi per impedire la battaglia finale tra governo e milizie islamiste. Per ora di scontri non ce ne sono: dopo le prime bombe governative piovute sulla provincia-hub jihadista i primi di settembre, l’offensiva di Damasco è andata in stand by. I governativi, arroccati lungo il perimetro di Idlib, non entrano mentre ieri il ministro degli Esteri russo Lavrov annunciava l’intenzione di aprire un corridoio umanitario. Secondo l’Onu, sono 38mila i civili finora fuggiti su tre milioni, il triplo della popolazione originaria: è qui che si sono ammassati islamisti e qaedisti e i loro familiari dopo le evacuazioni da Aleppo, Ghouta, Deraa. Si posizionano anche gli altri: la Turchia sta rafforzando la presenza militare al proprio confine sud e quella interna alla Siria, tra la provincia di Hama e Idlib. E, dicono fonti delle opposizioni, sta inviando armi da fuoco, munizioni e missili Grad ai gruppi islamisti che da anni sponsorizza e che ha utilizzato a piene mani per occupare il cantone curdo di Afrin, a Rojava. Non è detto che lo scontro ci sarà: i russi sono cauti, i siriani rallentano (“L’operazione non è cancellata, ma abbiamo tempo”, diceva ieri una fonte governativa), i turchi cercano di impedire una battaglia che potrebbe mettere fine all’idillio con Mosca. A sud invece si muove un attore che da Idlib pare assente: gli Stati uniti, fa sapere un gruppo di opposizione creato nel 2015 dalla Cia, Maghawir al Thawra, hanno concluso otto giorni di esercitazione con marines e miliziani anti-Assad a Tanf. Località affatto casuale: qui transita l’autostrada Damasco-Baghdad. E ci transitano gli aiuti militari dall’Iran. È a Teheran che gli Usa mandano un messaggio. Siria. I profughi di Idlib (dopo l’assalto) sono già un incubo per gli europei di Franco Venturini Corriere della Sera, 15 settembre 2018 Si teme che un milione di nuovi migranti prenda la via dell’Europa proprio ora, mentre si avvicinano le elezioni europee di maggio e i nazional-populisti avanzano ovunque. L’Europa ha paura di Idlib, l’ultima roccaforte dell’Isis in Siria. Teme che un assalto finale delle forze di Assad, della Russia e dell’Iran provochi, come ha previsto l’Onu, “la più grande catastrofe umanitaria del ventunesimo secolo”. Ma paventa anche, e qualcuno dice soprattutto, la possibilità che un milione di nuovi migranti prenda la via dell’Europa proprio ora, mentre si avvicinano le elezioni europee di maggio, mentre i nazional-populisti avanzano ovunque dicendo “no” ai migranti, africani o mediorientali che siano. Idlib aveva 700.000 abitanti, ma oggi ne ha 3 milioni perché lì sono confluiti i civili e jihadisti cacciati da altre città. I governi di Damasco, Mosca e Teheran dicono che l’ultima fonte di infezione terroristica va estirpata ad ogni costo. Ma i bombardamenti di assaggio, non troppo pesanti, hanno già messo in fuga 30.000 profughi. E si calcola che quando il vero attacco verrà, i fuggiaschi verso la vicina Turchia diventeranno oltre un milione. Qui entra in gioco Erdogan, che in Siria è di solito alleato degli iraniani, di Assad e di Putin. La Turchia, ha avvertito il Presidente, non potrà assorbire quei profughi, ne abbiamo già tre milioni sulla base dell’accordo concluso con l’Europa. Come dire: noi li lasceremo passare. Verso la Grecia, verso le rotte mediterranee che portano in Nord Africa e poi in Italia, oppure, di preferenza, verso le rotte balcaniche secondarie che ancora esistono e che sbucano dalle parti della Germania, e da lì in Svezia? In Europa, e soprattutto a Berlino, l’equazione “attacco contro Idlib = migranti = voti populisti” sta diventando un incubo sempre meno segreto. Per una volta si è d’accordo con Trump, che agita il bastone contro l’attacco. E dopo tante critiche si tiene per Erdogan, che si batte per una tregua e per la ricerca di soluzioni non militari. Ma tutti sanno che soltanto Putin può davvero decidere. E che il confronto decisivo avrà luogo dopodomani lunedì, a Sochi, tra il Sultano e lo Zar.