Ordinamento penitenziario, gli emendamenti delle Regioni al progetto di riforma Report Difesa, 14 settembre 2018 Parere favorevoli delle Regioni alla riforma dell’Ordinamento penitenziario. È un via libera non del tutto completo ma condizionato all’accoglimento di alcune richieste di emendamenti riportati in un documento approvato dalla Conferenza delle Regioni e delle Province autonome che è stato consegnato al Governo nella Conferenza Unificata dello scorso 6 settembre. Per le Regioni non viene affrontato il tema della salute mentale (come anche l’abrogazione articolo 111 e 112 comma 2 dell’Ordinamento penitenziario, la soppressione di istituti e di sezioni per infermi o minorati psichici). Una tematica che, secondo il parere delle Regioni, è sempre stata di grande attenzione e criticità. Ed oggi è tornata di grande attualità dopo la chiusura degli Ospedali psichiatrici giudiziari (Opg) che, in passato, hanno svolto funzione di assistenza e di gestione dei detenuti affetti da problematiche psichiatriche. Le Regioni segnalano, inoltre, che la modifica dell’articolo 2 comma 2 lettera d. del Decreto legislativo 230 del 99 con l’introduzione della parola “marginalità” inserisce una previsione secondo la quale il Servizio sanitario nazionale dovrebbe assicurare al detenuto ed all’internato interventi di contrasto alla marginalità sociale. Una previsione che i rappresentanti regionali ritengono “decisamente eccedente rispetto al mandato del Servizio sanitario nazionale”. La modifica dell’articolo 11, comma 8, attribuisce allo stesso Servizio sanitario “competenze tipiche del medico del lavoro o del medico competente”. Il comma recita; “controlla periodicamente l’idoneità dei soggetti ai lavori cui sono addetti”. Tuttavia questa attività, sempre secondo le Regioni, prevista dal Decreto legislativo numero 81 del 2008, è specifica “del medico competente (medico specialista in medicina del lavoro o affini) e non del medico che gestisce la salute dei detenuti”. Comitato prevenzione tortura: il Taser si può usare, ma non se ne deve abusare di Elisabetta Zamparutti* Il Dubbio, 14 settembre 2018 Ha preso avvio in 12 città italiane la fase di sperimentazione di quella pistola elettrica, denominata Taser che al momento è in dotazione a Polizia di Stato, Arma dei carabinieri e Guardia di finanza. Tra chi denuncia la pericolosità del Taser e chi ne invoca un più esteso impiego, come ad esempio da parte della polizia penitenziaria, è importante conoscere le linee guida che il Comitato europeo per la prevenzione della tortura ha adotto nel 2010 sull’utilizzo di queste armi elettriche. Si tratta di un documento predisposto a fronte delle controversie (sulle circostanze in cui possono essere utilizzate e sui potenziali effetti negativi per la salute) che ne hanno accompagnato l’introduzione in vari Stati europei, tenuto conto che l’utilizzo di queste armi, per loro natura, si presta ad abusi. Il Comitato europeo per la prevenzione, riconoscendo che le autorità nazionali vogliano dotare le forze dell’ordine di mezzi tali da graduare la risposta nelle situazioni di pericolo, afferma innanzitutto che la loro introduzione deve essere il risultato di un ampio dibattito pubblico sul piano parlamentare e dell’esecutivo in modo che i criteri per l’utilizzo delle armi elettriche siano fissati per legge e specificati poi in regolamentazioni apposite. Un dibattito che nel nostro Paese ha seguito piuttosto che precedere la decisione del Ministro dell’Interno del 4 luglio scorso sull’avvio della sperimentazione del Taser e le linee guida sul suo impiego emesse dal Dipartimento della Pubblica sicurezza ancora prima, il 28 febbraio 2018. I principi generali individuati dal Comitato europeo per la prevenzione sull’impiego di queste armi sono quelli di necessità, sussidiarietà, proporzionalità, dissuasione e precauzione. Il che significa, tra le altre cose, che vi devono essere adeguate attività di formazione sul loro utilizzo e che questo deve ispirarsi ai principi in materia di armi da fuoco, come fanno le linee guida del Dipartimento della Pubblica sicurezza. L’impiego delle armi elettriche deve limitarsi a situazioni di rischio concreto ed attuale di vita o di gravi lesioni. È quindi inammissibile il loro utilizzo al solo scopo di assicurare l’esecuzione di un ordine. Afferma giustamente il Comitato europeo per la prevenzione che se le armi elettriche diventassero progressivamente lo strumento per far fronte ad un comportamento recalcitrante al momento dell’arresto, allora vi potrebbe essere un profondo effetto negativo su come la gente percepisce le forze dell’ordine. L’impiego delle armi elettriche va autorizzato solo quando altri metodi meno coercitivi come la negoziazione, la persuasione, il controllo manuale e altre tecniche, non hanno prodotto risultati o sono impraticabili e quando il ricorso alle armi elettriche è l’unica alternativa a mezzi che comportano un più elevato rischio di lesione o alla vita. In concreto, il Comitato europeo per la prevenzione ha affermato che le armi elettriche non possono essere usate in operazioni di espulsione di immigrati così come è fuori discussione che non debbano essere usate dal personale che lavora a diretto contatto con detenuti o con persone private della libertà personale. Solo in casi eccezionali, come ad esempio la presa di ostaggi, si possono usare queste armi in strutture chiuse, come il carcere, e comunque solo da parte di personale specializzato. Nei limiti del suo mandato, il Comitato europeo per la prevenzione ha detto che ne va limitato l’uso anche in operazioni di mantenimento dell’ordine pubblico (ad esempio in occasione di manifestazioni) ai casi di minaccia alla vita o di lesioni gravi, facendo presente che alcune forze di polizia in Europa ne hanno escluso l’uso in operazioni di ordine pubblico durante le dimostrazioni. L’utilizzo delle armi elettriche deve essere regolamentato quanto a numero, durata e intensità delle scariche elettriche, come in effetti fanno le linee guida del Dipartimento della Pubblica sicurezza. Inoltre, per il Comitato europeo per la prevenzione, ci devono essere delle dotazioni che consentano la registrazione del loro utilizzo, affinché le informazioni raccolte siano sistematicamente visionate dalle competenti autorità a intervalli regolari (almeno ogni tre mesi). Tenuto conto degli indiscutibili rischi per la salute che l’uso delle armi elettriche comportano per la salute e nell’assenza di dettagliati studi sugli effetti che queste armi hanno su persone vulnerabili, il Comitato europeo per la prevenzione ritiene che ne debba essere escluso in ogni caso l’impiego nei confronti di persone particolarmente vulnerabili come anziani, donne incinte, ragazzi, cardiopatici etc. Così come deve esserci cautela nei confronti di chi si trova in una condizione di intossicazione o di delirio, perché queste persone potrebbero non comprendere i messaggi dissuasivi o agitarsi ancora di più fino ad aumentare il rischio di lesioni o di morte. Le linee guida del 28 febbraio, si limitano a dire che le condizioni di visibile vulnerabilità delle persone, come lo stato di gravidanza o la disabilità motoria, vanno “considerate” e si dilungano molto di più sulle precauzioni nei confronti delle cose inserite nell’ambiente, per evitare incendi od esplosioni, che sulle persone. Un dottore dovrebbe essere sempre visitare la persona colpita dall’arma elettrica, come anche le linee guida italiane richiedono. Un dettagliato rapporto sull’utilizzo dell’arma elettrica deve poi essere sempre fatto per l’autorità interna preposta al controllo, tenuto conto che andrebbe prevista anche una supervisione da parte di un soggetto esterno ed indipendente. In buona sostanza, il Taser si può usare e non se ne deve abusare. Lo si può usare in base a principi e criteri ben circostanziati, introdotti a seguito di un dibattito pubblico; non va usato in carcere se non in casi del tutto eccezionali e lo può usare personale preparato adeguatamente in modo che delle forze dell’ordine ci si possa fidare perché “armate” innanzitutto della consapevolezza di quelli che sono i diritti delle persone nei cui confronti si intende utilizzare questa arma elettrica. *Nessuno Tocchi Caino Baby gang. Il Csm lancia la linea dura: “arresti più facili” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 14 settembre 2018 Passa all’unanimità del plenum straordinario la risoluzione sull’emergenza minori a Napoli. I magistrati che si occupano della giustizia minorile sono invitati ad applicare una spinta repressiva e non più “morbida”. Non solo in termini cautelari, ma in via preventiva anche attraverso un inasprimento pre-cautelare. Questo è in sintesi ciò che c’è viene indicato nel documento licenziato dal plenum straordinario del Consiglio superiore della magistratura in trasferta a Napoli dell’ 11 settembre. Si tratta di una risoluzione in materia di attività degli uffici giudiziari nel settore della criminalità minorile approvato dal Csm sull’emergenza minori a Napoli, documento che fa seguito alle audizioni della primavera scorsa per individuare misure di contrasto al fenomeno delle “baby gang”. Il documento, curato dal presidente della sesta commissione Paola Balducci e dei tre membri togati napoletani Antonelo Ardituro, Lucio Aschettino e Francesco Cananzi, sarà all’attenzione del capo dei presidenti di Camera e Senato, di vertici del governo e degli enti locali. Inasprimento settore penale - È nel nome del bilanciamento tra il recupero del minore e la tutela sociale dalla sua condotta deviante, che il Csm dimostra di volere ricalibrare l’intervento giurisdizionale in modo che il contrasto sia effettivo e non sia pregiudicato dalla finalità rieducativa. È senza mezzi termini che vengono sollecitati i magistrati a tenere in conto, nei casi generalmente descritti di “pericolosità sociale elevata”, che una blanda risposta giudiziaria potrebbe solo ingenerare un senso di impunità, anziché la sua funzione rieducativa. L’obiettivo di questa spinta repressiva? Chiaramente espresso: far percepire ai minori l’autorità dello Stato e della magistratura fin dal loro primo contatto con la polizia giudiziaria. È per questo che il Csm mette in conto di proporre di intervenire sui limiti edittali di applicabilità delle misure cautelari ma anche pre-cautelari oltre che sulla loro durata. Scrive infatti il Csm “Da questo punto di vista la magistratura minorile calibra la propria azione, valutando la gravità dei fenomeni in atto e dei singoli reati attraverso un’attenta e rigorosa utilizzazione degli strumenti a disposizione, siano essi di natura cautelare o quelli peculiari del settore minorile, con l’obiettivo di contra- il senso d’impunità sempre più diffuso nel mondo, di sottovalutazione delle conseguenze (..) che rischia di rappresentare un volano e un moltiplicatore di condotte delittuose”. In soldoni il Csm rivolge lo sguardo, per dare maggior enfasi alla finalità repressiva dell’intervento giurisdizionale, anche alle misure cautelari e pre-cautelari, come se non fossero abbastanza incisive in ragione dell’affidamento che i minori ripongono sul fatto che possono sottrarsi all’arresto o al fermo della polizia giudiziaria. È su questo piano di pensiero che il Csm allude ad un doveroso ripensamento circa l’adeguatezza della disciplina: i limiti edittali di applicabilità delle misure cautelari e pre-cautelari, sarebbero per il Csm inadatti per una risposta repressiva, al punto da valutare la proposta di modifica legislativa che allungherebbe i termini di custodia cautelare con una proroga. Le misure pre-cautelari, ricordiamo, sono l’arresto e il fermo, quindi provvedimenti limitativi della libertà personale che eccezionalmente vanno a limitare la libertà della persona sancita all’articolo 13 della Costituzione. Parliamo, appunto di eccezione perché soltanto il giudice, con un suo provvedimento, può limitare la libertà della persona, mentre nei casi di necessità ed urgenza tale limitazione può essere posta in essere da agenti ed ufficiali di polizia giudiziaria purché in presenza di determinati presupposti. Il Csm dà l’indicazione di inasprire anche queste misure per evitare che i giovani violenti dicano alla polizia: “Tanto che mi fate”. Ultimo, ma non per ordine di importanza, c’è l’invito ai magistrati, in nome della discrezionalità di cui dispongono in tema di valutazione della recidivanza, di considerare l’applicazione delle misure cautelari anche se si tratti di fattispecie di reato sanzionate con pene inferiori al limite edittale previsto in via generale, purché si “presentino connotazioni di allarmante gravità in concreto”. Carenza assistenti sociali - Se da una parte c’è il lato repressivo, dall’altra il Csm evidenza come il fattore ambientale incida molto sui minori violenti. Viene spiegato che le baby gang provengono, per la gran parte, da contesti familiari segnati da disgregazione o da gravi forme di disagio affettivo, economico o abitativo e vivono in periferie o in centri degradati, con alti tassi di disoccupazione e di dispersione scolastica, privi di presenze istituzionali deputate al sostegno delle famiglie e alla cura delle problematiche giovanili e persino di strutture che possano favorire momenti di aggregazione tra i minori. Ampia è l’estensione del territorio campano connotato da queste caratteristiche. Nel circondario napoletano numerose e vaste aree di disagio sono presenti, oltre che nelle “enclavi storiche” della delinquenza (tra le altre, i Quartieri Spagnoli, Forcella, la Sanità, il Vasto, il Mercato, il Pallonetto di Santa Lucia), nei numerosi quartieri della periferia urbana (Scampia, Secondigliano, Barra, Ponticelli, San Giovanni a Teduccio, Rione Traiano, Pianura), sviluppatisi a seguito di fallimentari politiche urbanistiche, come quella del decentramento delle famiglie disagiate del centro storico nel periodo del dopoterremoto, non accompagnate da adeguate misure di sostegno sociale e territoriale. Ma sono i numeri degli assistenti sociali che fotografano la mancanza di prevenzione. Nella regione Campania il numero totale in servizio presso o per conto dei comuni nell’anno 2018 ammonta a 1.042 unità, per una popolazione di 5.839.084 abitanti, di cui 3.117.000 insediati nella Città metropolitana di Napoli e 966.425 nel comune di Napoli, vale a dire un assistente sociale per 5600 abitanti. Secondo i dati ufficiali forniti dalla Regione alla Sesta Commissione referente, fortemente disomogenea è la presenza di assistenti sociali nei diversi territori: nel comune di Giugliano, terza città della Campania, vi sono 6 assistenti sociali (a tempo determinato), per una popolazione di 124.139 abitanti (un assistente sociale per 20.600 abitanti circa), mentre il comune di Napoli, con le sue 10 municipalità, ne conta 359, di cui 358 a tempo indeterminato (un assistente per 2.600 abitanti circa). Ancor più allarmante è la condizione dei comuni della Provincia di Napoli appartenenti alla fascia vesuviana: Torre del Greco, Torre Annunziata, Pompei, Castellammare di Stabia, Trecase, Boscoreale, Boscotrecase, Gragnano, Agerola, Pimonte, Lettere, Casola di Napoli, Santa Maria la Carità, Sant’Antonio Abate, stando ai dati, sono del tutto sprovvisti di assistenti sociali. Perciò Il Csm invita le istituzioni comunali e centrali, anche con l’adozione di misure straordinarie che comportino il superamento dei limiti finanziari, a implementare gli organici del personale destinato a una funzione così rilevante, “allo stato - sottolinea il Csm - assolutamente insufficienti a fronte delle descritte emergenze, nonostante l’encomiabile impegno professionale e la dedizione di molti”. Io, ministro, contro le baby gang andrò nelle scuole di Alfonso Bonafede* Il Mattino, 14 settembre 2018 Non possiamo lasciare soli i nostri figli più deboli e meno fortunati. Perché non è colpa loro e lo Stato deve fare la sua parte. Deve prenderli per mano e dimostrare loro che u n’altra via esiste. Ho seguito con attenzione il plenum del Csm ospitato a Napoli e la “risoluzione in materia di attività degli uffici giudiziari nel settore della criminalità minorile nel Distretto di Napoli” approvata dal Consiglio Superiore della Magistratura: un significativo contributo all’impegno di tutti noi per combattere la criminalità minorile. È un tema che mi sta particolarmente a cuore e non è un caso che il primo dipartimento del ministero che ho visitato non appena insediato sia stato proprio quello della giustizia minorile. Ritengo, infatti, che questo sia il settore in cui dobbiamo investire di più. Non parlo di finanziamenti, parlo di un investimento politico e sociale. Dobbiamo profondere il massimo sforzo per strappare i giovani cittadini dalle grinfie della criminalità e per reindirizzarli verso un percorso di vita ispirato ai valori della legalità e del lavoro onesto. Un investimento che è anche in sicurezza, e più in generale, per il futuro della nostra comunità nazionale. Affrontare la questione della devianza minorile significa, innanzitutto, farsi carico dell’enorme fardello della dispersione scolastica. Senza il coinvolgimento di quella grande agenzia educativa e formativa che è la scuola, infatti, non è possibile immaginare di conseguire risultati tangibili e duraturi. Fra le prime azioni che ho avviato c’è un protocollo, ormai in via di definizione, con il ministero dell’Istruzione per implementare la cultura della legalità nelle scuole italiane. Un giro per i tanti istituti lungo lo Stivale con magistrati, avvocati ma anche personaggi della cultura e dello spettacolo che si sono distinti nella promozione della cultura della legalità. Potrà sembrare una goccia nel mare, ma ogni ragazzo che riusciamo a sottrarre a una vita criminale non è solo un successo per lo Stato, è un’opportunità di crescita e sviluppo. Un concetto che va moltiplicato esponenzialmente se parliamo della giustizia minorile. Per questo uno degli impegni-cardine del mio lavoro al Ministero è stato e sarà sempre quello relativo alla promozione e alla valorizzazione dei progetti di inclusione sociale basati sulla formazione e avviamento professionale, sullo sport, sulle attività artistiche e culturali. Sono profondamente convinto, infatti, che questa sia una componente decisiva dello sforzo che intendiamo portare avanti per migliorare la resa complessiva del sistema-giustizia italiano e garantire prospettive di sicurezza e legalità a tutti i cittadini. Non nascondo che i dati riportati dal procuratore presso il tribunale dei Minorenni, Maria de Luzenberger, destano preoccupazione. A un’intensificazione dei reati contro la persona commessi da parte delle cosiddette baby gang, si affianca una diminuzione delle iscrizioni di procedimenti a carico di minorenni nell’area metropolitana di Napoli. Sia che si tratti di scarsa fiducia nella giustizia o di un clima di assoggettamento al cri mi ne, siamo di fronte a un pessimo segnale che merita di ricevere una risposta netta e tempestiva degli operatori della giustizia e dello Stato nel suo complesso. Ho accolto, per questi motivi, con soddisfazione e interesse le considerazioni egli spunti d’intervento contenuti nella Risoluzione elaborata e approvata dal Csm, soprattutto laddove si sottolinea la necessità di potenziare i servizi socio-assistenziali, le iniziative didattico-formative, sociali e culturali. e i progetti di avviamento alla pratica sportiva. Alla cruciale opera di repressione e sanzione dei fenomeni di devianza minorile va infatti associata l’altrettanto decisiva attività di prevenzione delle cause che concorrono a determinare l’insorgere dei comportamenti illegali. Nascere e crescere in un determinato contesto non può diventare una condanna preventiva colposa. Tutti, e ancor più i minori, hanno il diritto di poter scegliere una vita onesta. Faremo di tutto, per quanto in nostro potere, per contribuire a raggiungere questo obiettivo. *Ministro della Giustizia Storie di baby criminali che carcere e comunità sono riusciti solo a peggiorare di Rosaria Capacchione fanpage.it, 14 settembre 2018 Chi commette uno sbaglio ed entra nel tritacarne della giustizia dei minori spesso ne esce peggiorato. Bravi ragazzi che in alcuni contesti soccombono o scappano. O si adeguano, imparando dai “giudiziari” le regole del gioco sporco. Soprattutto a spacciare droga. Era un anno fa, per l’esattezza il 7 settembre del 2017. Il ragazzo, prossimo a diventare maggiorenne, era stato arrestato pochi mesi prima, per la seconda volta. E per la seconda volta era finito in comunità. Per qualche tempo era stato ospite di “Oltre”, a Telese, Benevento. E aveva iniziato a convincersi che quella vita, quella del piccolo spacciatore, non era poi tanto bella. Voleva fare il pizzaiolo, la famiglia - gente modesta ma onestissima - lo appoggiava. Anche il fratello più grande, che vive e lavora al Nord, voleva dargli una mano. Lo avrebbe ospitato e gli avrebbe cercato un lavoro. Poi arrivò quell’altro, il nipote del boss napoletano (Salvatore Dragonetti, poi ucciso in un agguato), con le sue bizze e le sue resistenze a ogni programma educativo. Poi arrivò la lamentela dei genitori, che chiedevano coccole e carezze per quel figlio finito nel quasi carcere della coop sociale e nessuna rieducazione, nonostante l’arresto per rapina aggravata. Poi arrivò la strana sospensione della convenzione tra “Oltre” e il Centro per la giustizia minorile di Napoli. E i due ragazzi furono mandati altrove: il parente del boss in una comunità del Napoletano, l’altro ragazzo a Casapesenna, nella comunità Sant’Elena. Il 7 settembre del 2017 è ancora là, nel paese del capo dei Casalesi. In teoria gli dovrebbero essere preclusi i contatti con l’esterno non autorizzati dal magistrato. E non potrebbe usare telefonino e connessione internet. E invece. E invece scrive, pubblica foto, manda messaggi a qualcuno: “Buona notte, puzzat ‘e famme. Ti posso solo piscare in testa (sic)”. Un amico gli risponde e lo invita a non fare di nuovo il violento. Nei giorni successivi scrive ancora, e poi ancora. Prima e dopo la messa alla prova, anticamera della scarcerazione. E su Facebook cambia il suo stato, con uno slogan che è la preoccupante avvisaglia di quanto potrebbe ancora accadergli: “La morte arriva quando arriva, mi basta solo morire libero”. Il ragazzo torna a casa, viene nuovamente arrestato. Questa volta è maggiorenne. È ancora in comunità, il trattamento è però affidato (ma solo di giorno), all’unico centro del ministero della Giustizia in provincia di Caserta, l’ex carcere minorile “Angiulli”. Non è più andato al Nord, del lavoro non ha più parlato. Qualcuno avrebbe dovuto vigilare sulla sua condotta in comunità. E accorgersi delle scritte postate nel cuore della notte. E avrebbe dovuto proseguire il trattamento iniziato a Telese. E avrebbe dovuto segnalarne i comportamenti irregolari. E invece. Invece niente. Di storie uguali a quelle del ragazzo ce ne sono a centinaia. La cronaca racconta con cadenza settimanale di droga e telefonini nelle celle delle carceri minorili, droga e telefonini che girano anche nelle comunità. Non in tutte, ma in quelle considerate meno severe e più accoglienti. Ed è a questo lassismo, a questa irresponsabilità, che si sono riferiti i magistrati Antonello Ardituro e Francesco Cananzi (relatori, assieme a Paola Balducci, del documento sull’emergenza minorile in Campania presentato dal plenum del Csm riunitosi a Napoli) denunciando la mano morbida dell’intero comparto: le leggi, che vietano l’arresto dei minori anche per reati gravi; i controlli e la vigilanza; la tendenza (anche dei magistrati) a un generoso perdono anche in mancanza di un effettivo programma di reinserimento; l’accondiscendenza di taluni assistenti sociali nei confronti delle richieste delle famiglie. A sedici, diciassette anni, hanno detto, non sono più bambini e non è possibile trattare come tali ragazzi che spesso hanno commesso fatti molto gravi. E che ancora più gravi - come le stese e gli omicidi - ne commettono quando tornano in libertà, ormai definitivamente indottrinati dalle logiche di camorra: “Se vuoi rispetto devi portare rispetto”, scriveva sempre il ragazzo nelle sue notti a Casapesenna. La macchina non funziona e si frantuma perché, in realtà, pochi sono i centri (carceri o comunità) in cui il trattamento viene effettuato con continuità ed efficacia. Prendiamo gli operatori, per esempio. Salvo alcune eccezioni esemplari, sono selezionati dai responsabili amministrativi delle cooperative, che spesso e volentieri non hanno alcuna formazione socio-assistenziale: sono ragionieri, commercialisti, avvocati, artigiani. Lavorano anche dodici ore al giorno per non più di ottocento euro al mese. “Siamo una sorta di bidello, di inserviente, di cameriere. Dobbiamo - racconta un giovane psicologo che ha lavorato a lungo in varie comunità delle province di Caserta e Benevento - badare al pranzo e alla cena, pulire le stanze. Con i ragazzi parliamo a tempo perso”. E così all’interno delle comunità si ricreano i rapporti di forza e di dominio che hanno lasciato all’esterno. Anche perché nelle coop che li ospitano ci sono anche i minori stranieri non accompagnati, i più deboli e ricattabili. “Ne ho conosciuti tanti - racconta Alessandro Tebano, responsabile di alcuni progetti teatrali sia all’Angiulli sia in alcune coop - e in prevalenza sono ragazzi che vengono in Italia per lavorare. Soprattutto gli egiziani. A loro è dedicato lo spettacolo “Su al Sud” che abbiamo messo in scena con la Compagnia della Margherita assieme ai ragazzi della comunità Leo Amici di Valle di Maddaloni (si occupa di recupero dei tossicodipendenti, ndr.)”. Bravi ragazzi che in alcuni contesti soccombono o scappano. O si adeguano, imparando dai “giudiziari” le regole del gioco sporco. Soprattutto a spacciare droga. E si torma al punto di partenza: chi controlla? Chi vigila? Chi ispeziona? Decreto sicurezza, stretta sul noleggio furgoni per prevenire attentati di Alberto Custodero La Repubblica, 14 settembre 2018 E Daspo per sospetti terroristi. In anteprima il testo del Dl Sicurezza che sarà portato alla prossima riunione del Consiglio dei ministri. Fra i punti, interventi per evitare attacchi come quelli di Nizza e Barcellona, per migliorare il funzionamento dell’Agenzia beni confiscati, e per attuare il “Piano nazionale sgomberi”: i prefetti dovranno agire entro 60 giorni. Salvini: “Incremento della spesa e degli uomini che combattono la mafia” Una norma specifica per prevenire attentati terroristici fatti con automezzi affittati e scagliati sulla folla, come nel caso del Tir di Nizza e del furgone di Barcellona. Repubblica ha in anteprima la bozza (datata 4 settembre) del decreto sicurezza del ministro dell’Interno Matteo Salvini, che sarà portato la prossima settimana al Cdm. In sostanza, le aziende che affittano veicoli dovranno “comunicare al Centro elaborazione i dati identificativi riportati nella carta di identità del soggetto che richiede il noleggio di un autoveicolo”. La notifica dovrà avvenire “contestualmente alla stipula del contratto o comunque con congruo anticipo rispetto al momento della consegna del veicolo”. Questo documento è lo “schema delle disposizioni urgenti in materia di sicurezza pubblica, prevenzione e contrasto al terrorismo e alla criminalità mafiosa, e affronta anche il tema delle “modifiche al codice delle leggi antimafia”. Non si parla di immigrazione. Tra i provvedimenti anti terrorismo, è prevista l’estensione del “Daspo per le manifestazioni sportive” anche ai soggetti sospettati di far parte di organizzazioni di terrorismo internazionale. In particolare, “a coloro che, operanti in gruppi o isolatamente, pongano in essere atti preparatori, obiettivamente rilevanti, diretti a sovvertire l’ordinamento dello Stato, con la commissione dei reati con finalità di terrorismo anche internazionale”. Ma il decreto sicurezza del vicepremier leghista affronta anche altri delicati argomenti. “Nel dl ci sarà un notevole incremento della spesa e degli uomini che combattono la mafia e che gestiscono i beni confiscati alle cosche mafiose in tutta Italia”, ha annunciato il vicepremier da Bari. Queste le linee guida del suo progetto sicurezza. “Nel decreto sicurezza che arriva in Cdm la prossima settimana - ha detto il titolare del Viminale - taglieremo un po’ di costi, taglieremo un po’ di sprechi, taglieremo un po’ di tempi”. Oltre a norme antiterrorismo, nella bozza del dl ci sono provvedimenti mirati al rafforzamento dell’Agenzia dei beni confiscati alla mafia, struttura burocratica per molti versi non ancora a regime. Provvedimenti mirati al contrasto delle infiltrazioni criminali negli appalti pubblici (tema caro ai 5Stelle), e al contrasto delle infiltrazioni criminali negli enti locali. Quest’ultimo tema è una nota dolente per la Lega in particolare: il precedente ministro dell’Interno leghista, Roberto Maroni, infatti, si vide negare dal cdm allora presieduto da Berlusconi lo scioglimento del consiglio comunale di Fondi (Latina), infiltrato da camorra, ‘ndrangheta e mafia, nonostante tre sue richieste. Fu quello un caso unico nella storia della legge approvata nel 1991. Per quanto riguarda le infiltrazioni mafiose negli enti locali, il prefetto potrà commissariare specifici settori delle amministrazioni “qualora dalla relazione prefettizia emergano, in relazione ad uno o più settori amministrativi, situazioni anomale o comunque sintomatiche di condotte illecite o di eventi criminali tali da determinare un’alterazione delle procedure e da compromettere il buon andamento e l’imparzialità delle amministrazioni comunali e provinciali”. Capitolo a parte riguarda la sicurezza urbana, tema a cuore dei leghisti. E qui l’attenzione di Salvini, come peraltro più volte annunciato, si concentra sul problema degli edifici occupati. “Il Ministro dell’interno - si legge nella bozza del decreto - al fine di innalzare i livelli della sicurezza urbana, definisce, con proprio decreto, il piano operativo nazionale per la prevenzione e il contrasto del fenomeno delle occupazioni arbitrarie di immobili (Piano operativo nazionale). Il piano operativo nazionale stabilisce le modalità per la ricognizione delle situazioni di occupazione arbitraria di immobili esistenti nel territorio dello Stato e per il suo periodico aggiornamento con cadenza almeno semestrale”. In sostanza, il prefetto, entro sessanta giorni, definisce, con propria direttiva, “il programma provinciale per l’esecuzione degli interventi di sgombero (‘programma provincialè) anche con l’impiego della Forza pubblica”, previo parere del comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza pubblica alle cui sedute parteciperà anche “un magistrato designato dal Procuratore della Repubblica presso il Tribunale competente per territorio per le eventuali situazioni di occupazione arbitraria per le quali è stato avviato un procedimento penale”. Per le situazioni di occupazione arbitraria di immobili esistenti nel territorio delle Città metropolitane, “gli elementi di valutazione sulle predette capacità della Regione e degli Enti locali sono acquisiti nell’ambito di apposite riunioni del Comitato metropolitano”. Innalzare i livelli della sicurezza urbana per i fenomeni che concernono le occupazioni arbitrarie di immobili con l’impiego della forza pubblica è, per il segretario del Silp Cgil Daniele Tissone, qualcosa di già visto che non ha risolto né risolverà i problemi. Questo perché è necessario, in via preliminare, definire le diverse tipologie di occupazione: per esempio, se si tratta di edifici che, una volta sgomberati, andranno custoditi per un riuso, chi li dovrà successivamente custodire e quale ente li avrà in carico? Secondo Tissone la galassia delle situazioni riguardanti gli alloggi è così vasta che, per ogni situazione, andrebbe preliminarmente stabilita la rete che se ne occupa. Pensare che la polizia diventi l’imbuto dove confluiscono tutte le competenze non esercitate da chi ne ha la titolarità, conclude Tissone, è profondamente sbagliato trattandosi di un problema per il quale le amministrazioni centrali e locali devono fare la propria parte. Mafia Capitale? di Riccardo Arena ilpost.it, 14 settembre 2018 1. Il metodo. Serve un approccio laico alla vicenda. Quasi distaccato. Mentre non serve una guerra di religione disancorata dalla realtà. Serve il coraggio, o meglio il senso di realtà, di capire che oggi i reati associativi, oltre a essere gravi, sono soprattutto tutti uguali. Mafiosi o non. Mentre non serve mantenere il dogma del 416 bis come male assoluto. E questo perché, tranne casi eccezionali, la Mafia di oggi non è più quella di 30 anni fa e opera diversamente rispetto a 30 anni fa. Ecco. Più utile è capire che oggi noi continuiamo a combattere i nuovi fenomeni “mafiosi” con la stessa arma che è vecchia e spuntata. 2. Il merito. Mafia o non mafia, l’elemento centrale della sentenza di ieri è la prova di un fatto gravissimo e del tutto nuovo. Ovvero che sotto la giunta Alemanno avevamo un sistema politico corrotto non da un imprenditore, ma avevamo un sistema politico corrotto dalla malavita. Anzi. Dal dispositivo della sentenza sembra di capire che nel sistema comunale romano di allora era entrata la malavita. Un fenomeno questo nuovo, orribile e inaccettabile, anche a prescindere dalla mafiosità. 3. Il Paradosso. Carminati in primo grado è stato condannato a 20 anni per associazione a delinquere semplice, mentre in Appello la sua pena è stata ridotta a 14 anni e mezzo anche se è stato riconosciuto colpevole di un reato più grave, come l’associazione delinquere di stampo mafioso. Domando: ma se il fatto grave e importante era provare l’esistenza di un metodo mafioso a Roma, perché la pena è stata ridotta? E ancora: come fa un cittadino comune a orientarsi dinanzi a certe risposte della Giustizia? Corte di giustizia europea. Protezione sussidiaria, esclusione con prove forti Italia Oggi, 14 settembre 2018 Una persona non può essere esclusa dal beneficio della protezione sussidiaria se ritenuta aver commesso un reato grave sulla sola base della pena stabilita ai sensi del diritto dello Stato membro interessato. L’autorità che statuisce sulla domanda di protezione sussidiaria deve valutare la gravità dell’illecito procedendo a un esame completo delle circostanze del caso individuale di cui trattasi. Così la Corte di giustizia europea con sentenza nella causa C-369/17 Shajin Ahmed / Bevándorlási és Menekültügyi Hivatal. La questione era stata sollevata dal Tribunale amministrativo e del lavoro di Budapest, il quale ha appunto chiesto alla Corte di giustizia se la gravità del reato possa essere determinata sulla sola base della pena prevista per un reato specifico ai sensi del diritto dello Stato membro interessato. La Corte indica, innanzitutto, che il legislatore dell’Unione ha inteso instaurare uno status uniforme a favore di tutti i beneficiari di una protezione internazionale e che, per quanto riguarda le cause di esclusione, si è ispirato alle norme applicabili ai rifugiati per estenderle, ove possibile, ai beneficiari dello status di protezione sussidiaria. La Corte richiama, poi, la propria giurisprudenza secondo cui qualsiasi decisione di escludere una persona dallo status di rifugiato deve essere preceduta da un esame completo di tutte le circostanze relative al caso individuale e non può essere adottata in modo automatico. Una siffatta necessità deve essere trasposta alle decisioni di esclusione dalla protezione sussidiaria. In tale contesto, la Corte considera che, sebbene il criterio della pena prevista ai sensi della legislazione penale nazionale sia di particolare importanza nel valutare la gravità del reato che giustifica l’esclusione dalla protezione sussidiaria, l’autorità competente dello Stato membro interessato può invocare la causa di esclusione solo dopo aver effettuato, per ciascun caso individuale, una valutazione dei fatti precisi di cui essa ha conoscenza, al fine di determinare se sussistano fondati motivi per ritenere che gli atti commessi dalla persona interessata, che per il resto soddisfa i criteri per ottenere lo status richiesto, rientrino in tale causa di esclusione. In tali circostanze, la Corte conclude nel senso che il diritto dell’Unione osta a una legislazione di uno Stato membro in forza della quale si considera che un richiedente protezione sussidiaria abbia “commesso un reato grave” il quale può escluderlo dal beneficio di una siffatta protezione, sulla sola base della pena prevista per un determinato reato ai sensi del diritto nazionale. Spetta all’autorità o al giudice nazionale competente che statuisce sulla domanda di protezione sussidiaria valutare la gravità dell’illecito considerato, effettuando un esame completo di tutte le circostanze del caso individuale di cui trattasi. Giornalisti intercettati, condanna della Cedu di Marina Castellaneta Il Sole 24 Ore, 14 settembre 2018 Le intercettazioni a danno dei giornalisti violano la Convenzione europea dei diritti dell’uomo perché compromettono il diritto alla confidenzialità delle fonti. Lo ha stabilito la Corte di Strasburgo con la sentenza Big Brothers Watch e altri contro il Regno Unito, depositata ieri. Al centro della vicenda arrivata alla Corte europea e che è costata la condanna di Londra, il sistema di intercettazioni svelato da Edward Snowden a causa del quale molte informazioni, raccolte a strascico, erano state condivise dai servizi segreti inglesi e statunitensi. La Corte parte dal presupposto che le intercettazioni di massa non sono in sé vietate dalla Convenzione. Gli Stati, inoltre, hanno ampio margine di apprezzamento se le intercettazioni sono strumentali alla sicurezza nazionale. Detto questo, però, la Corte impone agli Stati il rispetto dei parametri già fissati nella sentenza Weber. Pertanto, se le intercettazioni sono effettuate senza un organo indipendente che supervisioni la selezione e il processo di ricerca, con mancanza di trasparenza sui criteri per filtrare le comunicazioni, è violato l’articolo 8 della Convenzione sul diritto al rispetto della vita privata. La Corte ha anche stabilito che è stato violato l’articolo 10 della Convenzione che garantisce il diritto alla libertà di espressione. Questo perché le autorità nazionali non hanno adottato alcuna misura per tutelare il diritto alla confidenzialità delle fonti dei giornalisti. Violenza privata impedire l’uscita di un auto da un parcheggio privato di Enrico Bronzo Il Sole 24 Ore, 14 settembre 2018 È reato parcheggiare la propria auto impedendo la chiusura di un cancello impedendo a una persona di transitare, sedendosi in prossimità dei battenti. Un signore dopo il tribunale di Trapani e la Corte d’appello di Palermo ha presentato ricorso in Cassazione proclamandosi innocente. Ma la suprema Corte, con sentenza 40482 del 12 settembre 2018, ha confermato il delitto di violenza privata che per unanime giurisprudenza “si identifica in qualsiasi mezzo idoneo a privare coattivamente l’offeso della libertà di determinazione a di azione, potendo consistere anche in violenza “impropria”, che si attua attraverso l’uso di mezzi anomali diretti a esercitare pressioni sulla volontà altrui, impedendone la libera determinazione”. Quindi, la palese forza intimidatrice dell’imputato, insieme all’azione ostruzionistica, seppur priva della violenza o della minaccia strictu sensu, è stata equiparata al parcheggio improprio nel posto riservato ai disabili (Cassazione 17794/2017) o all’impedimento agli operai di utilizzare gli strumenti di lavoro in un’opera pubblica (Cassazione 48369/2017). Per cui il ricorso è stato respinto. L’amministratore subentrante risponde del reato di omessa dichiarazione per anni precedenti Il Sole 24 Ore, 14 settembre 2018 Reati tributari - Omessa dichiarazione - Amministratore subentrante - Anni precedenti la sua nomina - Risponde del reato. Il nuovo amministratore risponde del reato di omessa dichiarazione anche per gli anni nei quali l’amministratore era un altro soggetto. Risponderà del reato di mancato versamento delle imposte in precedenza non versate e del reato di omessa presentazione della dichiarazione qualora ometta il controllo della contabilità, dei bilanci e delle dichiarazioni antecedenti. • Corte di Cassazione, sezione III, sentenza 29 agosto 2018 n. 39230. Reati tributari - Amministratore di fatto - Nozione - Presupposti (Decreto legislativo 10 marzo 2000 n. 74). In tema di reati tributari, ai fini della attribuzione a un soggetto della qualifica di amministratore “di fatto” non occorre l’esercizio di “tutti” i poteri tipici dell’organo di gestione, ma è necessaria una significativa e continua attività gestoria, svolta cioè in modo non episodico od occasionale. A tal fine, per delineare la figura dell’amministratore di fatto è perciò necessario attingere ai criteri stabiliti dall’articolo 2639 del codice civile, con la conseguenza che amministratore di fatto è dunque colui il quale eserciti in modo continuativo e significativo i poteri tipici inerenti alla qualifica o alla funzione: “significatività” e “continuità” non comportano necessariamente l’esercizio di “tutti” i poteri propri dell’organo di gestione, ma richiedono l’esercizio di un’apprezzabile attività gestoria, svolta in modo non episodico od occasionale. • Corte di Cassazione, sezione 3, Sentenza del 3 luglio 2017, n. 31906. Finanze e tributi - In genere - Reati tributari - Omesso versamento di IVA - Amministratore subentrante dopo la dichiarazione e prima della scadenza del termine per il versamento - Reato di cui all’art. 10ter D.Lgs. n. 74 del 2000 - Elemento soggettivo - Configurabilità - Ragioni. Risponde del reato di omesso versamento di IVA (art. 10-ter, D.Lgs. 74 del 2000), quanto meno a titolo di dolo eventuale, il soggetto che, subentrando ad altri nella carica di amministratore o liquidatore di una società di capitali dopo la presentazione della dichiarazione di imposta e prima della scadenza del versamento, omette di versare all’Erario le somme dovute sulla base della dichiarazione medesima, senza compiere il previo controllo di natura puramente contabile sugli ultimi adempimenti fiscali, in quanto attraverso tale condotta lo stesso si espone volontariamente a tutte le conseguenze che possono derivare da pregresse inadempienze. Corte di Cassazione, sezione III, sentenza 18 agosto 2015 n. 34927. Tributi erariali indiretti - Iva (Imposta sul valore aggiunto) - Omissione di versamento - Reato - Consumazione - Dichiarazione annuale - Importo superiore a euro 50.000,00 - Sanzioni. Il reato di omesso versamento dell’imposta sul valore aggiunto (articolo 10-ter D.Lgs. n. 74 del 2000), la cui consumazione avviene nel momento in cui l’imposta dovuta in virtù della dichiarazione annuale non viene pagata, per un importo superiore ad € 50.000,00, entro il termine previsto per il saldo dell’acconto relative al periodo di imposta dell’anno successive, non è in rapporto di specialità, bensì in rapporto di progressione illecita con l’articolo 13, 1° comma, D.Lgs. n. 471 del 1997 che prevede la sanzione amministrativa per il mancato versamento periodico dell’imposta entro il mese successive in cui è maturato il debito mensile iva. Ne consegue l’applicazione al trasgressore di entrambe le sanzioni. • Corte di Cassazione, sezioni Unite, sentenza 12 settembre 2013 n. 37424. Tributi erariali indiretti - Iva (imposta sul valore aggiunto) - Omissione di versamento - Irretroattività della norma penale - Inadempimento dell’0bbligazione - Versamento dell’acconto. Con riferimento alle omissioni di versamento dell’imposta sul valore aggiunto per l’anno 2005, si configura, senza che da ciò derivi violazione del principio di irretroattività della norma penale, il reato di omesso versamento dell’imposta sul valore aggiunto (articolo 10-ter D.Lgs. n. 74 del 2000), entrato in vigore il 4/7/2006 e che punisce l’inadempimento dell’obbligazione tributaria entro la scadenza del termine per il versamento dell’acconto relativo al periodo di imposta dell’anno successive. • Corte di Cassazione, sezioni Unite, sentenza 12 settembre 2013 n. 37424. Tributi e finanze (in materia penale) - Imposta sui redditi - Omesso versamento di ritenute certificate - Periodo d’imposta 2004 - Configurabilità del reato di cui all’art. 10 bis D.Lgs. 74/2000 - Esclusione - Ragioni - Inadempimento costituente illecito amministrativo - Fondamento. Stante la irretroattività delle leggi penali, l’omesso versamento delle ritenute alla fonte operate nel periodo di imposta il 2004 non integra il reato di cui all’articolo 10 bis del D.L.lgs. 10 marzo 2000, n. 74 (introdotto dall’articolo 1, comma 414, della legge 30 dicembre 2004, n. 311, entrato in vigore il 10 gennaio 2005 e che ha prorogato il termine per il versamento fino al 30 settembre 2005), ma resta qualificato come illecito amministrativo sanzionato dall’articolo 13 del D.Lgs. n. 18 dicembre 1997, n. 471, in quanto secondo le norme all’epoca vigenti le ritenute dovevano essere versate entro il giorno 15 del mese successivo e, pertanto, gli illeciti da omesso versamento si erano consumati e perfezionati prima dell’entrata in vigore della nuova norma penale. • Corte di Cassazione, sezione III, sentenza 16 maggio 2012 n. 18757. Umbria: in Consiglio Regionale la Lega contro il Garante dei detenuti “va abolito” umbrialeft.it, 14 settembre 2018 In Terza commissione è stata discussa la proposta di legge di modifica la Testo unico in materia di sanità (L.R. “11/2015) riguardante l’abolizione della figura del Garante dei detenuti, presentata dal consigliere della Lega Valerio Mancini. L’assessore regionale Luca Barberini ha espresso contrarietà alla proposta. Il presidente della Commissione, Attilio Solinas, ha dato incarico agli uffici di avviare l’istruttoria sul testo. “La proposta di modifica - ha spiegato Mancini - prevede di eliminare dalla legge la figura del garante dei detenuti, risparmiando 17mila euro e affidando i compiti in materia al magistrato di sorveglianza, che potrà svolgerli altrettanto bene”. Di tutt’altro avviso l’assessore Barberini: “la commissione - ha detto - prima di togliere un organo dal nostro ordinamento valuti gli effetti e i risultati conseguiti sulla base della relazione fornita contenente le attività svolte, che è aggiornata fino a fine 2017. Ricordo che si tratta di un profilo nazionale. Il Garante è inserito nell’apposita legge e le funzioni che svolge hanno importanti risvolti sociali e socio educativi. Una delle misure del Fondo sociale europeo che ha dato risultati migliori è proprio quella sul reinserimento sociale dei detenuti che, impiegati nel sistema produttivo, continuano a mantenere il lavoro. Inoltre, istituzionalmente ci viene chiesto di puntare sulla dignità della persona e sul suo recupero. In questo il garante ci ha molto sostenuto”. Napoli: detenuto malato terminale di cancro, la famiglia “fatelo morire a casa” vivicentro.it, 14 settembre 2018 Ciro Rigotti, 62 enne detenuto nel carcere di Poggioreale, sta trascorrendo questi giorni all’ospedale Cardarelli di Napoli perché malato di cancro in forma terminale. Fino a poco fa trascorreva il suo tempo in una cella e ora, invece, nel nosocomio e la famiglia afferma duramente: “Se la malattia fosse stata affrontata prima forse si sarebbe potuto salvare. Lasciate che torni a casa”. Sguardo basso, stanco ma con ancora un po’ di forza per chiedere un gesto di umanità: lasciare che il padre, Ciro Rigotti, 62enne che sta scontando 9 anni di carcere per spaccio, possa morire a casa e non in un letto d’ospedale. Annunziata Rigotti racconta a fatica un incubo cominciato quattro mesi prima e che probabilmente si sarebbe potuto evitare. Ciro Rigotti accusava dei dolori all’orecchio e frequenti mal di testa che pare, stando a quanto racconta la figlia, non siano stati curati a dovere. Successivamente, a luglio, l’uomo viene visitato, racconta la donna, e il responso è un polipo benigno accanto al naso. Viene richiesta una Tac che è stata poi effettuata a settembre, quando è stato portato all’ospedale Cardarelli, dove tutt’ora si trova. Il risultato non lascia scampo a Ciro Rigotti: un tumore maligno che ha invaso tutto il viso, impedendogli anche di mangiare. Sostenuta dall’attivista per i diritti dei detenuti Pietro Ioia, la figlia di Rigotti chiede a gran voce che il padre possa morire tra le mura di casa sua circondato dall’amore della sua famiglia. Campobasso: Antigone apre sportello di sostegno per i detenuti e le loro famiglie informamolise.com, 14 settembre 2018 Lunedì 17 settembre l’Associazione Antigone Molise darà il via ad una attività di sostegno per le esigenze dei detenuti del carcere di Campobasso e per le loro famiglie. Lo Sportello sarà operativo, per il momento, nelle sole giornate di martedì e giovedì (dalle ore 11 alle ore 13) presso la sede di Via Gioberti 20 (Passaggio a Livello San Pietro, Via Mazzini). Un gruppo di esperti, avvocati, medici, assistenti sociali, assicura consulenza a tutti i detenuti ed alle loro famiglie per l’approccio e la soluzione di problemi legati alle difficili opportunità di gestione. Lo sportello è a disposizione dei detenuti per le loro richieste: un impegno che non finisce nelle ore di presenza. I nostri cellulari infatti sono a disposizione anche al di fuori degli orari dello sportello. In particolare ci si impegna alla gestione dei contatti con gli uffici della pubblica amministrazione (per richieste certificati o autocertificazioni); contatti con gli uffici della sanità pubblica e degli uffici del tribunale. Un modo per agevolare i difficili ritmi dei familiari dei detenuti e soprattutto di coloro che non hanno nessuna possibilità di usufruire del supporto di familiari o amici. Torino: Servizio civile nell’ufficio Garante comunale dei detenuti Ristretti Orizzonti, 14 settembre 2018 Replicando l’esperienza del 2018, anche quest’anno l’Ufficio del Garante delle persone private della libertà personale del Comune di Torino offre la possibilità, ai giovani di età compresa fra i 18 e i 28 anni, di prestare un anno di servizio civile, partecipando al progetto “Stranieri, adulti e minori in carcere tra esclusione ed inclusione”. Il progetto propone ai giovani volontari l’incontro e il confronto con il mondo della reclusione, attraverso attività che mirano al reinserimento della popolazione carceraria nella società civile, con particolare attenzione ai detenuti stranieri ed alle loro difficoltà. Gli istituti penitenziari di Torino: la Casa circondariale “Lorusso e Cutugno” e il minorile “Ferrante Aporti”, saranno i luoghi dove i giovani selezionati potranno sperimentare le loro competenze ed attitudini, guidati e accompagnati dagli operatori dell’Ufficio Garante. Interventi previsti anche all’interno del CPR (Centri di Permanenza per i Rimpatri) per favorire la tutela dei diritti fondamentali degli stranieri trattenuti, anche attraverso percorsi da realizzare in collaborazione con gli enti territoriali preposti. Per partecipare al bando di selezione, che scade il 28 settembre, è necessario seguire le procedure meglio specificate sulla pagina di Informagiovani del Comune di Torino, all’indirizzo internet: comune.torino.it/torinogiovani/bando-2018-stranieri-adulti-e-minori-in-carcere-tra-esclusione-ed-inclusione. Per ulteriori informazioni, è possibile contattare l’Ufficio del Garante al numero telefonico 011.011.23449 dal lunedì al venerdì dalle ore 9 alle ore 16. La Garante, Monica Cristina Gallo Foggia: volontariato in carcere, dal Csv 7mila euro a disposizione delle associazioni immediato.net, 14 settembre 2018 Il Centro di Servizio sosterrà le iniziative proposte grazie anche al sostegno della Fondazione dei Monti Uniti. 7mila euro, 10 progetti, tre carceri. Sono questi i numeri del nuovo bando del CSV Foggia “Iniziative di volontariato negli Istituti Penitenziari di Capitanata - Avviso per manifestazione di interesse 2018”. Il CSV Foggia, con il sostegno della Fondazione dei Monti Uniti di Foggia, perseguendo l’obiettivo di valorizzazione del volontariato penitenziario intende promuovere e sostenere iniziative laboratoriali, di spettacolo e di solidarietà negli Istituti Penitenziari di Foggia, Lucera e San Severo, con particolare attenzione alla popolazione detenuta in situazione di grave indigenza. “L’obiettivo del bando pubblicato sul sito del CSV - sottolineano dal Centro di Servizio per il volontariato - è promuovere l’impegno delle associazioni di volontariato all’interno del carcere, al fine di contribuire al progresso civile e alla finalità rieducativa dell’esecuzione della pena. L’idea è quella di favorire la collaborazione dei volontari con le figure istituzionali degli istituti penitenziari e degli uffici di esecuzione penale esterna, promuovendo lo sviluppo dei contatti tra la comunità carceraria e la società libera. Si potrà così fornire, attraverso il volontariato, un supporto concreto alla popolazione detenuta, con particolare attenzione ai ristretti con scarsi riferimenti familiari e affettivi tali da determinare una condizione di maggior solitudine e in stato di profonda indigenza”. Il CSV Foggia sosterrà le iniziative proposte da organizzazioni di volontariato con sede legale e/o operativa nella provincia di Foggia e nei Comuni di Trinitapoli, Margherita di Savoia e San Ferdinando di Puglia, anche in partenariato. L’avviso prevede il finanziamento di iniziative inerenti laboratori manuali (con particolare attenzione alla sezione femminile del Carcere di Foggia), teatro, danza, musica, anche interdisciplinari (eventualmente replicabili, in considerazione dell’alto numero di detenuti): l’ammontare complessivo del sostegno per i progetti è di 7mila euro; ciascun progetto potrà beneficiare di un sostegno per l’importo massimo di 700 euro. “Le proposte progettuali presentate - evidenziano gli operatori del CSV Foggia - dovranno essere precedentemente concordate dall’associazione con il Direttore e con l’Area Trattamentale del Carcere di riferimento; la Commissione di Valutazione si riserva di richiedere, in via preliminare, un documento che attesti il suddetto consenso da parte della direzione dell’Istituto”. La richiesta dovrà pervenire all’indirizzo pec csv.foggia@pec.it entro le ore 24.00 del 7 dicembre 2018. Crotone: diritti dei detenuti, incontro al Comune con i Garanti De Robert e Ferraro cn24tv.it, 14 settembre 2018 Ieri mattina il sindaco Ugo Pugliese ha incontrato nella Casa Comunale Daniela de Robert, componente del collegio del Garante Nazionale dei Diritti delle persone detenute o private della libertà personale. La De Robert era accompagnata Federico Ferraro, che recentemente ha assunto la nomina di Garante comunale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale e già attivamente impegnato in un ruolo particolarmente delicato che l’amministrazione Pugliese ha recentemente istituito attraverso un provvedimento adottato dal Consiglio Comunale. Presente all’incontro il presidente del Consiglio Comunale Serafino Mauro. In precedenza de Robert, l’avvocato Ferraro con il presidente Mauro e il consigliere comunale Mario Megna avevano visitato la Casa Circondariale di Crotone. La figura dell’Autorità Garante dei detenuti o delle persone private della libertà personale rappresenta un organismo di garanzia, una sorta di difensore civico di settore, in grado di costruire un rapporto di collaborazione propositiva con le autorità responsabili, attraverso il monitoraggio e la visita, nei luoghi di privazione della libertà personale come le carceri, i luoghi di polizia, ed i centri per gli immigrati. In Calabria attualmente soltanto la Città Metropolitana di Reggio Calabria e la città di Crotone, si sono dotate della figura del garante comunale dei diritti delle persone detenute. Inoltre il garante opera per migliorare le condizioni di vita e di inserimento sociale delle persone private della libertà personale anche mediante la promozione dell’esercizio dei diritti e delle opportunità di partecipazione alla vita civile e fruizione di servizi comunali e promuove iniziative volte ad affermare per le persone sottoposte a misure restrittive il pieno esercizio dei diritti garantiti dalla Costituzione. Nel corso dell’incontro si è ribadita la massima sinergia istituzionale tra il Comune e l’organismo nazionale. Eboli (Sa): un diploma da Operatore socio-sanitario, per ricostruirsi la vita di Laura Naimoli La Città di Salerno, 14 settembre 2018 Commozione, soddisfazione e orgoglio. Queste le emozioni che hanno riempito la Sala Teatro dell’Icatt durante la cerimonia di consegna dei diplomi ai ragazzi, agli uomini “diversamente liberi”. È così che li ha definiti Samuele Ciambriello, Garante dei diritti dei detenuti, che ha voluto essere presente in questo giorno di festa che rappresenta un ponte che traghetterà i detenuti nel loro futuro fuori dalle mura del Castello Colonna. “Stiamo inguaiati - spiega ai ragazzi il carismatico Ciambriello - perché troppo spesso non abbiamo il coraggio di guardare le nostre storie da un altro punto di vista. Chi è qui dentro, voi, siete fortunati. Se non vi avessero preso e portato qui, cosa sarebbe potuto accadervi? È possibile che non avreste avuto questa opportunità di riscatto. Potevate finire male e invece, ecco il vostro diploma, lo strumento più utile per trovare lavoro e riprendere il filo della vostra vita”. È un diploma professionale conseguito grazie alla disponibilità ed alla professionalità dell’Ente di formazione Nuova Scuola. “Siamo alla fine di un percorso importante - spiega Giuseppe Bisogno, patron di Nuova Scuola - e impegnativo. Questi ragazzi hanno, in pochissimo tempo, non solo centrato l’obiettivo della formazione, Oss e Osa, ma anche squarciato il velo consistente della diffidenza. Ora bisogna creare, sinergicamente con il Comune una rete che possa realmente creare possibilità di lavoro”. La direttrice Rita Romano dovrà, a breve, lasciare i suoi ragazzi e la struttura di rieducazione per trasferirsi altrove: “Mi sono spesa e battuta per fornire tutti gli strumenti necessari affinché possano ricominciare la vita in società”. Presente l’associazione “Amiche Buongustaie” che, con i ragazzi, ha allestito un delizioso buffet. “Li conosco uno ad uno - racconta Carmen Autuori, presidente delle Buongustaie - sono orgogliosa di ciascuno di loro”. Verona: il carcere si apre ai cittadini veronanetwork.it, 14 settembre 2018 Si chiama “Domenica: carceri porte aperte” ed è l’iniziativa che permetterà a tutti i cittadini maggiorenni di entrare nella Casa circondariale di Verona. L’appuntamento è fissato per domenica 30 settembre, dalle 10 alle 13. Il progetto nasce dalla collaborazione tra Camera penale veronese e Casa circondariale di Verona - Montorio, con il patrocinio del Comune di Verona. Il programma prevede una visita guidata all’interno degli spazi del carcere, prosegue con una presentazione artistica e si conclude con un aperitivo, realizzato dai detenuti - studenti dell’Istituto Alberghiero Berti, e l’assaggio di alcuni abbinamenti di prodotti tipici veronesi. La giornata ha anche uno scopo benefico: le offerte raccolte saranno devolute al progetto “Convivio” per sostenere le iniziative di umanizzazione delle cure. Il progetto è destinato ai pazienti del reparto di oncologia dell’Azienda ospedaliera. “Le porte aperte sono un’importante occasione - ha spiegato l’assessore agli Affari legali Edi Maria Neri - per conoscere la realtà carceraria e per sensibilizzare alle problematiche che riguardano questo mondo. Ma anche per confrontarsi e per vedere le molte attività che vengono realizzate all’interno del carcere, dalla ristorazione al teatro, con la finalità di recuperare i detenuti”. “Talvolta - ha sottolineato il direttore della Casa circondariale di Verona Mariagrazia Bregoli - ciò che non conosciamo ci spaventa, ma il carcere è parte del territorio ed è giusto che le persone possano vederlo. L’iniziativa permetterà a ogni cittadino di avvicinarsi a questa realtà e ai detenuti di sentirsi parte attiva della società perché partecipi di un importante progetto solidale”. Alla presentazione della giornata di “porte aperte” hanno partecipato anche l’avvocato Elena Pranio e le dottoresse dell’ospedale di Borgo Roma Clelia Bonaiuto e Daniela Cafaro, ideatrici del progetto “Convivio”. Per partecipare è necessario inviare una mail di richiesta, assieme a una fotocopia della carta d’identità, a camerapenaleveronese@gmail.com, entro il 16 settembre. L’Italia? Per i giovani è il Paese delle disuguaglianze di Valentina Gentile La Stampa, 14 settembre 2018 L’Italia è il paese delle disuguaglianze nell’opinione degli under 35: è quanto emerge dalla ricerca Oxfam-Demopolis, nell’ambito del progetto “People Have the Power, attivarsi contro la disuguaglianza”. Il 75% degli intervistati pensa che negli ultimi cinque anni le disparità in Italia siano aumentate. Non è un Paese per giovani. E non lo è da troppo tempo. Almeno da due generazioni, lontane anni luce dalle promesse di benessere e stabilità raggiunte dai loro genitori baby boomers. Una situazione chiara ai suoi protagonisti: dall’indagine condotta dall’Istituto Demopolis per Oxfam Italia su un campione di italiani tra i 18 e i 34 anni, due giovani su tre ritengono che chi oggi studia o sta iniziando a lavorare in futuro occuperà una posizione sociale ed economica peggiore rispetto alle generazioni precedenti. L’Italia quindi, e la cosa in verità non ci sorprende, è il Paese delle disuguaglianze. Generazionali, sicuramente. Ma anche geografiche, con un divario fortissimo tra le varie regioni di provenienza. E poi sociali e di genere. In questo quadro l’accesso al mondo del lavoro è di per sé già un privilegio. La ricerca Oxfam-Demopolis, condotta in collaborazione con Opinion Lab nell’ambito del progetto “People Have The Power, attivarsi contro la disuguaglianza”, racconta di una generazione cosciente, con l’80% degli intervistati preoccupati per la disuguaglianza generazionale. Per il 78% le maggiori penalizzazioni sono nella precarietà di un lavoro che, quando c’è, ha tutele contrattuali sempre minori. Il 75% indica l’incertezza sul futuro al primo posto nella classifica della disuguaglianza: è la convinzione di non poter contare in prospettiva sulle stesse certezze di cui ha goduto la generazione dei propri genitori. Ben 7 su 10 segnalano la retribuzione bassa e inadeguata, due terzi manifestano preoccupazioni fondate per il loro futuro previdenziale, il 63% indica nella difficoltà di accesso al mercato del lavoro una ulteriore ragione di penalizzazione rispetto alla precedente generazione. Dati che dicono molto sulla situazione sociale e economica nel nostro Paese. Le disparità sono vissute in prima persona dalla maggior parte dei giovani intervistati. Un ascensore sociale guasto, fermo da anni. E non è una percezione. Un ruolo importante, emerge dallo studio, è assegnato all’orientamento; il 40% dei giovani intervistati ammette di non possedere molte informazioni sul mondo del lavoro, necessarie per scelte consapevoli. Solo poco più di un terzo dichiara di aver avuto un percorso formativo che gli ha fornito indicazioni adeguate per scegliere consapevolmente un percorso di studio o un lavoro. Le disuguaglianze più forti sono nella distribuzione del reddito per l’82% degli intervistati e nelle opportunità di accesso al mercato del lavoro per il 70%, con la consapevolezza del divario tra le diverse aree del Paese. Due giovani su tre vorrebbero, in questo scenario, che nell’agenda di Governo ci fossero come priorità delle politiche concrete, mirate a ridurre le disuguaglianze. Interessanti anche le possibili contromisure da adottare per cambiare la situazione: il 70% chiede più attenzione alla lotta contro evasione fiscale e corruzione, mentre la maggioranza auspica ancora una volta politiche attive del lavoro e di orientamento più efficienti, insieme al salario minimo orario e maggiori tutele contrattuali. Di sicuro c’è che il 75% degli italiani tra i 18 e i 34 anni pensa che negli ultimi cinque anni le disuguaglianze in Italia siano aumentate. Una percentuale su cui riflettere non è più sufficiente. Occorre agire. Le statistiche offrono la misura di un sentire comune che in questo caso non è solo percezione, ma consapevolezza. Le disuguaglianze generazionali, geografiche e sociali, in Italia sono innegabili, lo studio di Oxfam-Demopolis dimostra quanto sia urgente affrontarle. Quello che le statistiche non dicono, e che non possono raccontare, è il vissuto di giovani e meno giovani che di queste disuguaglianze fanno quotidianamente esperienza. A dimostrazione dell’attendibilità delle opinioni degli intervistati, c’è l’ultima indagine di Bankitalia sui bilanci delle famiglie italiane, da cui risulta aumentata la disuguaglianza nella distribuzione dei redditi, insieme al numero di individui a rischio povertà, ovvero quelli che dispongono di un reddito equivalente inferiore al 60% rispetto a quello medio. Ed è una condizione che, nell’analisi comparativa 2006-2016, è aumentata nei segmenti di popolazione under 35 e under 45. C’è poi la questione del divario previdenziale, ulteriormente approfondita da un’analisi su dati Istat effettuata da Censis e Confcooperative, Millenials, lavoro povero e pensioni: quale futuro?, che annuncia una “bomba sociale da disinnescare con urgenza”. Basta un esempio banale e sotto gli occhi di tutti: il confronto tra la pensione di un padre e quella ipotizzabile di un figlio a parità di prestazioni, segnala una decisa divaricazione. Ci sono anche altre fragilità a caratterizzare il nostro Paese in questo momento: esistono oltre 3 milioni di Neet tra i 18 e 34 anni, giovani che hanno rinunciato a qualsiasi prospettiva lavorativa o di apprendimento. A questi numeri sconfortanti si aggiungono i milioni di giovani che un lavoro lo hanno, ma con un rendimento economico troppo ridotto, e con formule contrattuali lontane dal lavoro standard. Studiare le percezioni delle disuguaglianze fra i giovani ha consentito all’Istituto Demopolis di verificare le conseguenze delle trasformazioni degli ultimi vent’anni sulle dinamiche di transizione alla vita adulta e di ingresso nel mondo del lavoro. Il quadro attuale è quello di una generazione che tra molte incertezze e poche tutele sociali, è indotta a vivere nel presente, in bilico tra tendenza alla difesa e capacità di adattamento. In attesa che qualcuno ripari l’ascensore. Salvini chiude ancora i porti, però sui migranti è in difficoltà di Alessandra Ziniti La Repubblica, 14 settembre 2018 Annunciata la linea dura contro 7 barchini. Il decreto è fermo: rischio di incostituzionalità. Sette barchini con 62 migranti in navigazione in acque maltesi verso l’Italia. Matteo Salvini è pronto ad una nuova battaglia: “Malta faccia il suo dovere, in Italia non sbarcheranno. Porti Chiusi, mi indaghino pure”. Non basta, il ministro commenta anche con sarcasmo la notizia che 42 migranti che erano a bordo della nave Diciotti potrebbero costituirsi parti civili contro di lui. “Siamo alle comiche. Su ordine della Procura di Palermo la polizia di Ventimiglia sta cercando decine di clandestini scomparsi perché possano denunciare per sequestro di persona il ministro dell’Interno. Per me sono altre 42 medaglie”. Ma la strategia anti-migranti del vicepremier sta incontrando più di una difficoltà. E non è detto che i decreti con cui vuole imprimere la sua stretta approderanno la prossima settimana in Consiglio dei ministri come pure ha annunciato: quello sulla sicurezza sì, quello sull’immigrazione forse. Molte sono le riserve politiche (di parte del M5S) e tecniche (dei funzionari del Viminale) soprattutto alla luce del nuovo monito del presidente della Repubblica. E alcuni dei punti del decreto immigrazione sembrano decisamente “saltare” quei principi costituzionali dei quali il Capo dello Stato, che il decreto deve firmare, è il custode. La “moral suasion” tecnica al Viminale continua, anche l’Alto commissario Onu per i rifugiati Filippo Grandi, che ha incontrato Salvini e Conte, si appresta a fornire “osservazioni tecniche” sul decreto. Le parti contestate sono quelle che riguardano l’abrogazione della protezione umanitaria, la revoca dei permessi senza aspettare la condanna definitiva per una serie molto estesa di reati e il trattenimento dei migranti irregolari non solo nei centri per il rimpatrio (che è una detenzione amministrativa) ma anche in strutture delle questure. Il testo del decreto che contiene invece 34 articoli di “disposizioni urgenti in materia di sicurezza pubblica, prevenzione e contrasto al terrorismo e alla criminalità mafiosa”, è ormai definito. E la novità è una norma per prevenire attentati di stampo terroristico come quelli compiuti a Nizza, Berlino o Barcellona, con Tir lanciati sulla folla. Le aziende di noleggio saranno obbligate a comunicare al Centro elaborazione delle forze di polizia, con anticipo rispetto alla consegna del mezzo, i dati identificativi riportati nella carta di identità di chi ne fa richiesta. Tra i provvedimenti il potenziamento dei sistemi informatici con uno stanziamento di 16 milioni per il 2018 e di altri 300 fino al 2025, ma anche l’estensione del Daspo urbano ai soggetti sospettati di far parte di organizzazioni di terrorismo internazionale. Dunque anche una misura amministrativa per chi può essere già colpito da espulsione per motivi di sicurezza. C’è poi il capitolo della lotta alle occupazioni abusive. Innanzitutto pene raddoppiate per chi occupa, da due a 4 anni di carcere, predisposizione di un piano nazionale che dispone la ricognizione degli edifici da liberare ogni sei mesi. Tocca poi ai prefetti, entro 60 giorni, provvedere agli sgomberi anche con la forza pubblica. Il decreto prevede poi il rafforzamento delle strutture impegnate nella lotta alla criminalità organizzata, a cominciare dalle nuove 70 unità che verranno assegnate all’Agenzia dei beni confiscati. Droghe. Milano, overdose da eroina sintetica: “Primo caso. Allerta sanitaria” di Gianni Santucci Corriere della Sera, 14 settembre 2018 La causa della morte del 39enne era stata catalogata come overdose da eroina. Invece ora, 18 mesi più tardi, l’Istituto superiore di sanità ha diramato un’allerta perché s’è trattato del primo decesso in Italia per “Ocfentanil”, un oppioide sintetico. Vicino al cadavere trovarono una siringa, un accendino, una bustina con dentro un po’ di polvere marrone, scura. Al peso, qualche decimo di grammo. A prima vista, era identica a quella che i tossicodipendenti chiamano la nera, l’eroina che si spaccia a Rogoredo e negli altri campi ai confini della città. La morte di quell’uomo, 39 anni, dentro una casa di Milano, ad aprile 2017 venne catalogata come overdose da eroina. E invece ieri, quasi un anno e mezzo dopo, l’Istituto superiore di sanità ha diramato un’allerta di “grado 3” (il massimo) perché s’è trattato del primo decesso in Italia per “Ocfentanil”, un oppioide sintetico. Che un’allerta tale venga diffusa a quasi 18 mesi dall’evento racconta già quanto il sistema sanitario sia impreparato e lacunoso nell’affrontare la nuova epidemia di eroina della quale si vedono i segnali. La notizia apre però un interrogativo al quale, per ora, nessuno è in grado di dare una risposta: cosa contiene l’eroina che viene spacciata a Milano? La sostanza - Prima di rispondere a questo interrogativo, bisogna però chiarire cosa siano i “fentanili” e cosa stiano provocando negli Stati Uniti. Si tratta di oppiodi sintetici, dunque sviluppati in laboratorio, largamente usati per la terapia del dolore, ma che in America del Nord sono stati pesantemente spinti dalle case farmaceutiche come antidolorifici quasi da banco. Il fentanyl è di fatto il parente sintetico della morfina, ma 100 volte più potente. Negli Stati uniti la diffusione di quegli antidolorifici ha creato una sorta di dipendenza diffusa, che è stata la base per la più massiccia diffusione dell’eroina nella storia del mondo occidentale (l’epidemia è attualmente in piena esplosione). Dato che però gli oppioidi sintetici sono potentissimi, il rischio di overdose è molto più alto. Da quando hanno iniziato a diffondersi in maniera massiccia negli Stati Uniti, gli oppiodi sintetici hanno provocato una strage: le overdose mortali, in poco più di 3 anni, sono salite da 3-4 mila, alle oltre 29 mila del 2017. L’allarme - La comparsa di quella sostanza a Milano è dunque un segnale che gli esperti ritengono molto preoccupante. Come preoccupante è la diffusione dell’allerta con tanto ritardo. Anche perché la sostanza era tagliata con paracetamolo e caffeina, gli stessi additivi che si usano per l’eroina: sarebbe dunque importante capire se l’uomo che se l’è iniettata sapeva di cosa si trattasse. Di questi temi il Corriere ha già più volte discusso con Riccardo Gatti, direttore del Dipartimento interaziendale dipendenze di Milano, che fa capo alla Asst Santi Paolo e Carlo, che ha spiegato: “Iniziano a esserci segnali di un fenomeno che dall’altra parte del mondo sta provocando una strage. Il vero problema è dunque attrezzarsi per tempo. Il rischio è che la situazione non sia più stabile, ma si stia muovendo in una direzione preoccupante. Il sistema di allerta, oltre che nazionale e collegato con l’Europa, dovrebbe essere radicato a livello locale per diffondere informazioni immediate. Non è semplice, ma si potrebbe fare, e una città come Milano dovrebbe farlo”. Le morti per overdose di eroina in città sono state 6 nel 2018, 5 delle quali avvenute nella zona di Rogoredo. Libia, Ue e interesse nazionale di Angelo Panebianco Corriere della Sera, 14 settembre 2018 È sbagliato pensare che l’unica soluzione per noi è di contrapporsi alla Ue ed è evidente che dobbiamo cercare un compromesso con la Francia. Gli Stati falliti cessano di essere tali solo se qualcuno riesce a imporre - di solito con la violenza - il disarmo dei gruppi armati che infestano il Paese ricostituendo così il (perduto) monopolio centrale della forza. Accadrà, se accadrà, anche in Libia. La Conferenza che l’Italia vuole organizzare in autunno per contribuire a pacificare il Paese avrà successo o no, verosimilmente, a seconda che ci sia stato o meno, sul terreno, un definitivo chiarimento su chi siano i vincitori e i perdenti, sullo stato dei rapporti di forza fra i principali gruppi armati (della Cirenaica e della Tripolitania). Solo così finiscono i conflitti. Per l’Italia sono in gioco interessi vitali (energia, flussi migratori, eccetera). È un aspetto - per noi assai importante - della partita libica, la nostra rivalità con la Francia. Una rivalità che conta sia per la cosa in sé (riuscirà la Francia a sostituirci, con i conseguenti vantaggi, nel ruolo di patron della Libia?) sia per ciò che riguarda i più generali rapporti fra i membri dell’Unione europea. Al momento, sembra che i francesi siano in vantaggio: il governo di Sarraj su cui noi abbiamo puntato a lungo è in grave difficoltà mentre il generale Haftar (signore della guerra e boss della Cirenaica), sostenuto dai francesi, appare più forte. Forse non riusciremo a ottenere il rinvio delle elezioni (che vogliono sia Haftar che i suoi sponsors francesi e egiziani) e, per conseguenza, a impedire il probabile tramonto politico di Sarraj. L’attuale governo italiano, pur impegnato in varie forme di discontinuità rispetto alla tradizionale politica estera italiana, sul dossier libico ha invece confermato una linea già adottata dai precedenti governi Renzi e Gentiloni (salvo su un punto che poi dirò). A conferma del fatto che esistono interessi nazionali permanenti, i quali restano tali chiunque sia di volta in volta al governo. Il dossier libico mostra quanto sia stato inadeguato in passato, e quanto lo sia oggi, il modo in cui noi italiani ci atteggiamo nei confronti dell’integrazione europea. Siamo solo stati capaci di passare da un estremo all’altro, dall’europeismo acritico all’antieuropeismo altrettanto acritico: due posizioni, entrambe, sbagliatissime. Lasciando da parte gli addetti ai lavori (i diplomatici), noi italiani - classe politica e opinione pubblica - non siamo mai riusciti ad assumere in Europa la giusta “postura”, una posizione equilibrata capace di tutelare al meglio i nostri interessi. Si guardi al comportamento della Francia nella vicenda libica. Furono i francesi (con Sarkozy) a volere l’intervento (del 2011) contro Gheddafi. Buttati fuori dalla Tunisia (loro tradizionale cliente), a seguito della rivoluzione, decisero di rifarsi in Libia a spese degli italiani. Proprio loro che più di tutti vollero “fare fuori” Gheddafi oggi sostengono (con Macron) il generale Haftar che ha dietro di sé tanti nostalgici del vecchio regime. A riprova del fatto che la Francia sa perseguire nel modo più spregiudicato il proprio vantaggio. E noi? Noi ci accodammo a un intervento della Nato che era contro i nostri interessi. Ricordate quei giorni? Una gran parte del Paese si schierò con entusiasmo a favore dell’intervento militare al solo scopo di colpire Berlusconi, allora capo del governo. Costoro mentirono spudoratamente sostenendo che solo Berlusconi (il famoso bacio dell’anello) era stato amico del dittatore. In realtà, tutti i governi italiani, di qualunque colore, consapevoli dei nostri interessi, avevano cercato di avere relazioni amichevoli con Gheddafi. In quel frangente, troppo impegnati a prendere a pugni Berlusconi, molti non si accorsero che stavano prendendo a pugni (a beneficio dei francesi) anche se stessi. La prima differenza è dunque che mentre la Francia ha sempre saputo fare (o per lo meno ci ha provato) il proprio interesse nazionale, gli italiani, presi dalle loro ottuse faziosità, sono a volte capaci di dimenticare il proprio. Questa vicenda segnala però anche un problema più generale. Per decenni - traumatizzati dal ricordo della sconfitta nella Seconda guerra mondiale - abbiamo proposto alla nostra opinione pubblica un’immagine irrealistica dell’integrazione europea. Irrealistica e acritica. L’abbiamo santificata. Ci siamo raccontati che l’integrazione metteva fuori gioco la necessità dei governi di perseguire i propri interessi nazionali. Abbiamo sovrapposto il falso al vero. È vero che esiste un “interesse europeo”, un interesse comune, di tutti, alla cooperazione sempre più stretta. Ma era ed è falso che il suddetto interesse europeo sia in grado di “superare”/inglobare senza residui gli interessi dei singoli Stati. In Europa, invece, ci sono sempre state sia cooperazione che competizione: a volte i vari interessi nazionali coincidono (è il minimo comun denominatore detto interesse europeo) e a volte divergono. La Francia, con una certa coerenza, ha per lo più saputo conciliare perseguimento dell’interesse europeo, dell’integrazione, e affermazione dei propri interessi nazionali. È un equilibrio che noi non siamo mai stati capaci di trovare. Nemmeno ora che il pendolo è passato dall’europeismo acritico all’antieuropeismo. La parte del Paese rappresentata da questo governo pensa che sia possibile perseguire il nostro interesse solo se ci contrapponiamo frontalmente all’Europa, se trattiamo l’Europa da nemico. Ma neppure questa scelta va a nostro vantaggio. È evidente, ad esempio, che nella vicenda libica dobbiamo cercare un compromesso con la Francia. È un passo in quella direzione il recente incontro fra il nostro ministro degli Esteri Moavero e il generale Haftar. Neanche i francesi possono combinare molto se non si accordano con noi. Così come non serviva un tempo fingere che non esistesse un interesse nazionale italiano distinto dall’interesse europeo, non serve ora fingere che sia possibile difenderlo facendo a meno dell’Europa e, nel caso libico, cercando solo la rissa con la Francia (o meglio: la rissa può andare bene ma solo a patto che poi sfoci in un compromesso). Una tutela sapiente dei nostri interessi in Libia esige una visione realistica dell’integrazione europea e del nostro modo di parteciparvi. Chissà se un giorno ci sarà qualcuno capace di proporla all’opinione pubblica. Egitto. Un anno fa il ritorno dell’ambasciatore italiano al Cairo di Riccardo Noury Corriere della Sera, 14 settembre 2018 Su Giulio Regeni nessun passo avanti. Alla vigilia del 14 settembre, anniversario del ripristino di normali relazioni diplomatiche tra Italia ed Egitto attraverso il ritorno dell’ambasciatore italiano al Cairo, il direttore generale di Amnesty International Italia Gianni Rufini ha inviato una lettera al presidente del Consiglio Giuseppe Conte e al ministro degli Affari esteri Enzo Moavero Milanesi, chiedendo quali passi avanti, negli ultimi 12 mesi, siano stati chiesti e ottenuti per conoscere la verità sul sequestro, la sparizione, le torture e l’uccisione di Giulio Regeni. “Dobbiamo constatare che a un anno di distanza, purtroppo, le indagini non hanno visto nessuno sviluppo significativo. Il materiale messo a disposizione - con grave ritardo - da parte della procura del Cairo alla procura di Roma non ha infatti consentito di identificare alcun elemento utile alle indagini, con la conseguenza che dopo due anni e mezzo non è stato compiuto nessun progresso”, si legge nella lettera. Rufini ha sottolineato come, da parte del governo italiano, vi sia “un dovere politico e istituzionale, non solo per la memoria di Giulio e per la sua famiglia, ma anche e soprattutto in virtù dei principi di libertà e giustizia su cui si fonda la nostra democrazia, di arrivare alla ricostruzione della verità”. Nell’ambito della sua campagna “Verità per Giulio Regeni”, Amnesty International Italia continuerà a monitorare con scadenza mensile l’azione del governo italiano, anche attraverso l’ambasciata al Cairo, nei confronti delle autorità egiziane, nell’auspicio di ricevere notizie positive circa l’individuazione degli esecutori e dei mandanti del barbaro omicidio del ricercatore italiano avvenuto ormai 32 mesi fa. Il 12 settembre il portavoce di Amnesty International Italia Riccardo Noury è stato ricevuto alla Camera dei deputati anche in rappresentanza di A buon diritto Giulio, Giulio Siamo Noi e Articolo 21, dal presidente Roberto Fico al quale ha rivolto l’auspicio che l’imminente sua visita in Egitto possa essere un’importante occasione per parlare di violazioni dei diritti umani. Le tre organizzazioni e il collettivo Giulio Siamo Noi avevano promosso un presidio di fronte alla Camera per manifestare la preoccupazione per l’attivista e prigioniera di coscienza egiziana Amal Fathy, arrestata l’11 maggio al Cairo e alla quale sono stati imposti ulteriori 15 giorni di detenzione preventiva. Stati Uniti. In tre mesi il 500% in più di bimbi migranti in cella di Marina Catucci Il Manifesto, 14 settembre 2018 Da maggio il numero è salito da 2.400 a 12.800. Non perché ne entrino di più illegalmente, ma perché i familiari senza documenti hanno paura a farsi avanti per riprenderli. Il New York Times ha rivelato che, nonostante centinaia di bambini separati dalle loro famiglie dopo aver attraversato il confine Usa siano stati rilasciati per ordine del tribunale, il numero di minorenni immigrati detenuti nelle prigioni federali statunitensi dalla scorsa estate, si è quintuplicato, raggiungendo il livello più alto mai registrato: la cifra record di 12.800 minori in custodia. A maggio 2018 ce n’erano “solo” 2.400. A quanto pare l’aumento non è dovuto al fatto che più bambini attraversino il confine statunitense, ma a una riduzione del numero di minori rilasciati per andare a vivere con i familiari che fanno da sponsor: i parenti senza i documenti in ordine hanno sempre più paura di farsi avanti e di sponsorizzare i minori, molti dei quali entrano nel Paese da soli. I lavoratori delle reti di accoglienza hanno dichiarato al quotidiano newyorchese che questo sistema, che sparge timore nelle comunità di immigrati, sta mettendo a dura prova tanto i bambini quanto le strutture che si prendono cura di loro. La maggior parte dei minori che attraversano il confine da soli sono adolescenti provenienti dall’America centrale e sono ospitati in oltre 100 centri di accoglienza sparsi per gli Stati uniti, con la più alta concentrazione vicino al confine sud-occidentale. Da maggio in poi i centri si sono riempiti fino a raggiungere il 90% della loro capacità, mentre un anno fa erano occupati per circa il 30%. “Più ci si avvicina al 100%, meno si è capaci di gestire qualsiasi flusso di ingressi imprevisto”, ha dichiarato Mark Greenberg, che supervisionava la cura dei bambini migranti per il Dipartimento della salute e dei servizi umani sotto il presidente Obama. L’amministrazione Trump ha annunciato che, per far fronte al problema, entro la fine dell’anno triplicherà le dimensioni di una tendopoli temporanea a Tornillo, in Texas, che può ospitare fino a 3.800 bambini. I difensori degli immigrati e i membri democratici del Congresso hanno reagito alle notizie con angoscia, perché le condizioni di queste grandi strutture sono molto più rigide rispetto ai centri di accoglienza tradizionali. Le autorità federali hanno dichiarato di avere a che fare con un grosso numero di attraversamenti illegali delle frontiere e richieste di asilo. “Il numero di bambini stranieri non accompagnati è un sintomo della più ampia questione di un sistema di immigrazione difettoso”, ha detto Evelyn Stauffer, segretario stampa del Dipartimento di salute e servizi umani. Il sistema di protezione dei bambini migranti è entrato sotto esame quest’estate, quando oltre 2.500 bambini separati dai genitori sono stati ospitati in centri di accoglienza federali sparsi per il Paese, a causa della politica di tolleranza zero di Trump che usa la separazione delle famiglie come deterrente per gli ingressi illegali e le richieste di asilo. Quei bambini ora sono solo una frazione del numero totale dei minori attualmente detenuti. Marocco. Volenza contro le donne: c’è la legge ma le mogli non sono tutelate di Marta Serafini Corriere della Sera, 14 settembre 2018 Gli abusi domestici non saranno puniti. Il testo in vigore dopo lo stupro della giovane 17enne Khadija. Dopo un lungo rimpallo tra le Camere che nel febbraio scorso portò alla sua approvazione, è entrata in vigore in Marocco la nuova legge che criminalizza la violenza contro le donne. Un passo in avanti anche alla luce del caso, terribile, Khadija Akkarou, la diciassettenne marocchina rapita e stuprata per una settimana da un gruppo di uomini. I fatti, avvenuti nel villaggio di Oulal Ayad, risalgono a diverse settimane fa, ma la notizia è diventata di dominio pubblico solo a fine agosto, quando l’emittente Web chouftv.ma ha diffuso un video in cui la giovane denuncia gli orrori subiti e chiede giustizia. Il caso ovviamente ha scosso l’opinione pubblica e ha provocato un forte dibattito tanto più che un recente sondaggio ha rilevato che sei donne marocchine su 10 abbiano subito un qualche tipo di violenza. Fino all’approvazione ieri della legge Hakkaoui - dal nome della ministra della Famiglia e della Solidarietà, Bassima Hakkaoui che l’ha promossa - estende il termine violenza agli atti di aggressione, alle molestie anche via sms, messaggi vocali o foto, allo sfruttamento sessuale, all’aggressione sul posto di lavoro e agli abusi e inasprisce le punizioni in casi di situazioni aggravanti quali la gravidanza o nel caso che la violenza sia perpetrata da persone conosciute, come per esempio un collega di lavoro. La nuova legge include anche un divieto ai matrimoni forzati e alle molestie sessuali in luoghi pubblici con pene che vanno da uno a 5 mesi di carcere e multe dai 200 ai 1.000 dollari. C’è però un punto dolente e motivo di scontro con la società civile, la legge non prende in considerazione la violenza coniugale. Il testo non include infatti lo stupro commesso dai mariti o la violenza coniugale, né tantomeno definisce la violenza domestica lasciando così le donne vulnerabili dal punto di vista legale. Pur riconoscendo i meriti della nuova normativa Human Rights Watch - riporta la Bbc - denuncia la presenza di “grandi lacune e difetti che lasciano le donne in Marocco a rischio di violenza domestica e non fornisce assistenza finanziaria alle vittime e non chiarisce quale sia il sostegno e i servizi che devono ottenere dallo stato”.”Non ci fermeremo qui: questa legge è un vantaggio rispetto al passato, ma ha delle carenze su cui dobbiamo lavorare”, ha promesso Samira Raiss, una dei principali attivisti che ha lottato per arrivare a questo testo di legge. Myanmar. Vietato parlare dei Rohingya di Valerio Sofia Il Dubbio, 14 settembre 2018 Da Nobel della pace a leader liberticida: San Suu Kyi applaude l’arresto dei reporter. “C’è una sentenza e va rispettata”. La leader di fatto del Myanmar e Premio Nobel per la pace Aung San Suu Kyi ha difeso l’arresto dei due giornalisti birmani dell’agenzia Reuters condannati a sette anni per aver raccolto segreti di stato, Wa Lone, 32 anni, e Kyaw Soe Oo, 28, il cui arresto è stato unanimemente condannato in tutto il mondo. I due reporter sono stati arrestati lo scorso dicembre mentre erano impegnati a raccogliere informazioni per una inchiesta sul massacro dei Rohingya nel Rakhine, cui è seguita la migrazione forzata verso il Bangladesh. Fra la fine di agosto e il settembre dell’anno scorso, secondo Medici senza Frontiere, almeno 6.700 Rohingya sono stati uccisi dai militari. Dal 24 agosto dell’anno scorso, quasi un milione di Rohingya sono stati costretti a fuggire in Bangladesh. “Non sono stati arrestati perché sono giornalisti, ma perché è stata pronunciata una sentenza dopo che avevano violato la legge sui segreti di Stato”, ha affermato la Premio Nobel per la pace. Una legge per inciso che risale agli anni coloniali ed è stata mantenuta dal regime militare che dopo aver guidato il Paese per decenni è ancora presente ai vertici dello Stato. Aung San Suu Kyi ha ammesso che la crisi dei Rohingya avrebbe potuto essere “gestita meglio”. La leader politica era già stata pesantemente criticata nel corso della crisi perché era rimasta a lungo in silenzio e quando aveva parlato non aveva condannato le violenze contro i Rohingya. Per questo motivo più di una voce si era levata indignata a chiedere il ritiro del Premio Nobel a Aung San Suu Kyi, ma i responsabili del Premio hanno spiegato che anche volendo non è possibile. I rohingya un popolo musulmano che il Myanmar/Birmania non riconosce come cittadini del paese ma considera immigrati illegali. L’Onu ha classificato quelle violenze contro la minoranza musulmana del Paese asiatico come “genocidio”. Il nuovo Alto commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani, Michelle Bachelet, nel suo primo intervento al Consiglio per i diritti umani ha chiesto la creazione di un organo internazionale incaricato di raccogliere “prove” sui crimini commessi dal regime di Myanmar contro la minoranza Rohingya, “in modo da accelerare l’organizzazione di un processo”. Pochi giorni prima, con una sentenza inattesa, anche i giudici della Corte penale internazionale, che ha sede all’Aia, in Olanda, hanno deciso di poter esercitare la loro competenza sulla “presunta deportazione del popolo Rohingya”. Infatti per quanto il Myanmar non aderisca alla Corte penale internazionale, il Bangladesh invece sì, ed è lì che si sono rifugiati i profughi. E poiché gli effetti di quella che l’Onu ha ripetutamente definito una “pulizia etnica” si riverberano sul Bangladesh il Tribunale ha poteri di indagine. A fine agosto 2017, l’Onu aveva chiesto l’incriminazione dei vertici dell’esercito birmano mentre l’alto commissario per i diritti umani aveva chiesto alla leader di fatto di Myanmar Aung San Suu Kiy di dimettersi dall’incarico che ricopre come “consigliere di stato”.