A sostegno di Ristretti Orizzonti asspantagruel.org, 13 settembre 2018 Le sottoscritte associazioni, letto l’articolo a firma di Ornella Favero in merito alla situazione intervenuta di Ristretti Orizzonti, esprimono grande preoccupazione per le notizie che giungono dal carcere di Padova, ove è in atto un’operazione avversa a Ristretti Orizzonti. È un’operazione intesa al ridimensionamento delle sue attività in quel carcere e in quella città, universalmente riconosciute preziosissime per avere saputo aprire, appunto, il carcere alla città, e in particolare al mondo della scuola e degli studenti, e per l’impegno volto a promuovere la responsabilizzazione dei detenuti, condizione indispensabile per una loro reintegrazione nella società. Anche importantissima è la rassegna stampa quotidiana e la documentazione offerta dal periodico di informazione e dal sito, materiale preziosissimo che viene utilizzato da tutte le realtà che si occupano del carcere, anche per organizzare attività nelle scuole e per contribuire alla formazione del volontariato in carcere. Per tutte queste ragioni, le sottoscritte associazioni invitano il vasto mondo del volontariato, enti ed associazioni sensibili alla necessità di una restituzione della condizione carceraria alla sua finalità costituzionale, a sostenere Ristretti Orizzonti, aderendo anche alla campagna di abbonamenti al periodico di informazione per salvaguardarne la sopravvivenza. Associazione Pantagruel; Caritas Firenze; Cooperativa Ulisse; Associazione Liberarsi; Associazione CIAO; Susanna Enriques e Renzo Ottaviani, Ministri di culto della chiesa Evangelica Battista; Associazione Ebenezer; Casa del Melograno; Coordinamento Toscano Marginalità; C.A.T. Cooperativa Sociale; Centro Sociale Evangelico di Firenze; Cooperativa Sociale Intessere (progetto “Incontrarsi dentro”); Associazione Volontariato Penitenziario - AVP onlus Firenze; Associazione L’Altro Diritto; Conferenza regionale volontariato giustizia; Cooperativa Sociale San Martino; Cooperativa sociale San Pietro a Sollicciano; Comunità delle Piagge/Ass.Il Muretto; Associazione Periferie al Centro - Fuori Binario; Associazione Stefano Cucchi Onlus; Comitato “Fermiamo la guerra” e Rete Antirazzista Fiorentina. Un’altra bocciatura per la riforma Orlando di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 13 settembre 2018 La Commissione giustizia della Camera ha bocciato il testo sulla giustizia riparativa. Secondo i deputati non assicurerebbe alla vittima efficaci forme di riparazione delle conseguenze del reato sul provvedimento, invece, il garante si era espresso favorevolmente. Vogliono riscrivere anche lo schema di decreto della giustizia riparativa. Si tratta di uno dei quattro schemi di decreto legislativo trasmessi alle Camere lo scorso 21 maggio dal governo Gentiloni per chiedere l’espressione del parere, in attuazione della delega per la riforma dell’ordinamento penitenziario. La Commissione giustizia della Camera, durante la seduta di lunedì, ha espresso parere contrario, perché non assicurerebbe alla vittima efficaci forme di riparazione delle conseguenze del fatto di reato, non essendo riconosciuta alla stessa un effettiva centralità nel procedimento, come invece richiesto dalla direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio dell’Unione europea n. 29 del 25 ottobre 2012. La commissione ha sottolineato che “la valorizzazione della vittima, infatti, e la necessità di tutelarla, costituiscono un vincolo derivante dall’ordinamento dell’Unione europea capace di orientare le scelte del legislatore nazionale”. La Commissione quindi non invierà il testo al Consiglio dei ministri e teoricamente dovrebbe riscriverlo. Siamo alla seconda riscrittura di un testo, oltre al decreto principale della riforma dell’ordinamento penitenziario dove è stato cancellato il capitolo dedicato alle pene alternative, eliminato l’equiparazione tra i detenuti con patologie psichiche con quelle fisiche, oltre a vari cambiamenti lessicali che modificano completamente lo spirito della riforma elaborata dopi gli stati generali per l’esecuzione penale. La giustizia riparativa si inserisce in un quadro normativo caratterizzato, anche sulla spinta di obblighi e sollecitazioni di natura europea ed internazionale, da una sempre maggiore attenzione nei confronti del ruolo della persona offesa all’interno della vicenda penale. Architrave della normativa europea in materia è la Direttiva 2012/ 29/ Ue che - sostituendo la decisione quadro 2001/220/Gai - ha stabilito norme minime che assicurino alle vittime di reato adeguati livelli di tutela e assistenza, sia nelle fasi di accesso e partecipazione al procedimento penale, sia al di fuori e indipendentemente da esso. Oltre al rafforzamento del diritto della vittima all’informazione, del diritto di comprendere e essere compresi, di essere ascoltati nel processo e di usufruire di eventuali misure di protezione, la direttiva (art. 8) impone agli Stati membri di dare accesso a specifici servizi di assistenza riservati, gratuiti e operanti nell’interesse della vittima, prima, durante e per un congruo periodo di tempo dopo il procedimento penale. Architrave della normativa europea in materia è la Direttiva 2012/ 29/ UE che - sostituendo la decisione quadro 2001/220/Gai - ha stabilito norme minime che assicurino alle vittime di reato adeguati livelli di tutela e assistenza, sia nelle fasi di accesso e partecipazione al procedimento penale, sia al di fuori e indipendentemente da esso. Lo schema di decreto legislativo costituisce attuazione della delega di cui alla lett. f) del comma 85 dell’articolo unico della legge 23 giugno 2017 n. 103 la quale, come si è detto, prevede, tra i criteri direttivi per la riforma dell’ordinamento penitenziario, l’attività di giustizia riparativa e le relative procedure “quali momenti qualificanti del percorso di recupero sociale sia in ambito intramurario sia nell’esecuzione delle misure alternative. In particolare, lo schema bocciato dalla commissione fornisce la nozione di giustizia riparativa, da attuare su base volontaria e consensuale; individua le garanzie per i partecipanti ai relativi programmi e le principali tipologie di mediazione; disciplina le linee fondamentali del procedimento, l’oggetto e i possibili esiti dei programmi riparativi; stabilisce specifici requisiti dei mediatori e i loro obblighi formativi. Sul provvedimento, il 23 luglio scorso, ha espresso parere positivo il Garante nazionale delle persone private della libertà. Ha osservato che l’ultima stesura del decreto ha recepito, in parte, le osservazioni allora formulate dal Garante nazionale sull’inutilizzabilità processuale delle dichiarazioni rese nell’ambito dei programmi di giustizia riparativa. L’unica perplessità è per l’articolo 2, comma 3 che secondo il Garante contiene ancora il limite del riferimento al “fatto per cui si procede” che lascerebbe aperta la possibilità di utilizzare le dichiarazioni in altri procedimenti penali per altri fatti. Nel frattempo è ancora in corso l’esame del decreto principale riscritto dal governo. Giulia Sarti, presidente e relatrice, avverte che non sono ancora stati trasmessi i pareri della Conferenza Unificata e anche quelli del Garante nazionale delle persone private della libertà. La commissione ha rimandato l’esame ad oggi. In cella col biberon: mancano strutture. Sono 50 i figli di detenute nelle carceri italiane di Marina Lomunno Avvenire, 13 settembre 2018 A guardarle bene, quelle 50 fotografie di bimbi ritratti dietro le sbarre, figli di mamme detenute, viene spontaneo pensare: “Ma che infanzia è questa?”. Così non c’è titolo più azzeccato perla mostra fotografica inaugurata lunedì a Torino e e aperta fino al 17 ottobre presso l’Ufficio relazioni con il pubblico della Regione (via Arsenale 14): “Che ci faccio io qui? I bambini nelle carceri italiane”. Una situazione poco conosciuta che per fortuna, ad oggi, riguarda “solo” poco più di 50 mamme con figli fino a 6 anni (su 2.551 donne detenute in Italia). Ecco un passeggino vuoto fuori da una cella (lo scatto è la copertina del catalogo, curato dall’Agenzia Contrasto), poi un pallone su una branda, mamme che tengono per mano il figlioletto aggrappate alle sbarre, che allattano nel cortile del penitenziario o che disegnano con i loro bimbi nello spazio angusto dei corridoi delle sezioni. Sono alcune delle immagini della rassegna che, opera di un gruppo di fotografi e organizzata con la Conferenza dei volontari della giustizia di Piemonte e Valle d’Aosta e l’associazione di volontariato “A Roma, Insieme”, nell’intenzione del curatore Bruno Mellano, garante regionale del Piemonte, “offre uno spaccato di vita delle donne con figli piccoli in carcere”. “La mostra - ha sottolineato Francesca Romana Valenzi, direttore dell’ufficio Detenuti e trattamento del Provveditorato dell’Amministrazione penitenziaria piemontese - vuole sensibilizzare l’opinione pubblica su quanto ci sia ancora datare per applicare la legge che nel 2011 dettava la realizzazione di Istituti a custodia attenuata per detenute madri (Icam): luoghi che avessero le caratteristiche di una casa-famiglia, all’interno del penitenziario ma fuori dalle sezioni in modo che i bambini potessero crescere accanto alle loro mamme nell’età delicata della prima infanzia ma lontani dal clima carcerario”. Una legge necessaria per non far ricadere sui figli le colpe delle madri, ma che ancora non è stata attuata: attualmente sono solo 5 gli Icam, su 15 carceri in cui sono presenti mamme con figli in età prescolare. Tra i penitenziari con progetto Icam c’è Torino che - ha ricordato la garante dei detenuti del Comune, Monica Cristina Gallo - “ospita 11 mamme e 15 bimbi in una palazzina separata, un ambiente simile a una casa, e i piccoli frequentano nido o asilo comunale del vicino quartiere Vallette. Inoltre dallo scorso anno abbiamo inserito all’Icam due giovani in servizio civile: un’esperienza positiva che ha favorito la conoscenza di una realtà sommersa”. Conferma la necessità di “spazi mamma-bambino ad hoc” nei penitenziari anche don Domenico Ricca, salesiano, cappellano del minorile torinese “Ferrante Aporti”: “I figli delle ragazze detenute, per lo più nomadi, hanno portato alla vita dell’istituto benefici ben superiori ai disagi organizzativi; sono una presenza che ci ha obbligato a organizzare la vita detentiva secondo il modello della comunità (per esempio dotandoci di uno spazio cucina per biberon e pappe) ma soprattutto sono serviti a svelenire il clima, a renderlo meno carcerario. Era naturale che diventassero figli di tutte le detenute e anche del personale di custodia, spesso giovani mamme, che sentivano naturale insegnare alle madri ancora adolescenti come si accudisce un bimbo”. Gli Icam La legge 62/2011 per valorizzare il rapporto tra le madri in carcere e i loro figli ha disposto l’istituzione di “Istituti a custodia attenuata per detenute madri” (Icam) che permettono di scontare la pena in ambienti con un ruolo di comunità e che non siano un semplice nido. Attualmente però sono solo 5 gli Icam - Milano San Vittore (dove è stato avviato il primo progetto),Venezia Giudecca, Torino “Lorusso e Cutugno”, Avellino Lauro e Cagliari - che, secondo la legge, possono ospitare mamme con bambini fino ai 6 anni in ambiente famigliare mentre, dove non esistono, i bimbi vengono reclusi nelle sezioni “nido” (in questo caso fino ai 3 anni) allestite presso le sezioni femminili dei penitenziari. Secondo i dati forniti dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, le detenute madri con figli al seguito presenti nelle carceri italiane al 31 agosto 2018 erano 52, con 62 bambini (di cui 33 italiani e 29 stranieri). Presso gli Icam è garantita l’assistenza sanitaria attraverso il coinvolgimento della rete dei servizi materni infantili sanitari e territoriali e dei medici che operano nei penitenziari. “Mamme e bimbi sono ristretti in 12 strutture penali, di cui 4 Icam (nella comunità del carcere di Cagliari al momento non sono presenti mamme con prole) mentre 8 sono ancora le vecchie sezioni nido nei reparti femminili - precisa Bruno Mellano, garante dei detenuti della Regione Piemonte. Purtroppo ancora una trentina di bimbi non hanno la possibilità di scontare la loro “pena forzata” con le mamme negli Icam, vivendo in condizioni che non rispettano i diritti dei fanciulli. La speranza è che in tutte le sezioni femminili delle carceri italiane vengano allestite comunità Icam come prevede la legge, per permettere a tutte le madri detenute di assicurare un’infanzia simile agli altri bambini”. Le carceri e la radicalizzazione: il vero pericolo per l’Italia di Giovanni Giacalone occhidellaguerra.it, 13 settembre 2018 I luoghi oggi più a rischio in Italia per quanto riguarda la radicalizzazione di matrice islamista non sono più i centri islamici (per quanto restino comunque luoghi sensibili) bensì le carceri. È nei penitenziari sparsi in territorio italiano infatti che si annidano i maggiori pericoli e coloro che vengono reclusi in seguito a condanne per terrorismo rischiano di uscirne ulteriormente radicalizzati. In realtà il fenomeno non è nuovo in Europa, soprattutto in Francia, Belgio e Gran Bretagna, oltre ad essere ben noto negli Stati Uniti come “Prison Islam”. Una tipologia di islam spesso “fai da te” con predicatori improvvisati che divulgano la visione ideologico-dottrinaria più radicale, complice anche la condizione detentiva che genera isolamento, frustrazione e senso di rivalsa nei confronti delle autorità. Bisogna inoltre tener presente che diversi soggetti coinvolti negli ultimi anni in Europa in fatti di terrorismo (attentati, arruolamento con gruppi jihadisti in Siria) hanno alle spalle condanne per altri reati (prevalentemente spaccio di stupefacenti e atti violenti). Nonostante al momento non sia ancora stato dimostrato alcun nexus chiaro ed evidente tra criminalità e jihadismo, i casi sono presenti, attuali e ne va dunque tenuto conto; casi come quello di Mohamed Merah, l’attentatore di Tolosa del 2012; Anis Anachi, arrestato nel 2017 a Ferrara su segnalazione della polizia francese (in Italia non risultava radicalizzato ma le autorità francesi indicavano una sua presenza in Siria con i gruppi jihadisti tra il 2014 e il 2016, prima di rientrare in Europa); Anis Amri, l’attentatore al mercatino di Natale a Berlino nel 2016, giusto per citare alcuni dei casi più noti. La situazione italiana - Il fenomeno nelle carceri italiane non è diffuso come in altri Paesi europei quali Francia, Belgio e Gran Bretagna, ma la situazione è comunque seria, con numerose segnalazioni di detenuti che durante la permanenza dietro le sbarre si radicalizzano, come dimostra ad esempio il caso del cittadino egiziano Ahmed Hassam Rakha, 31 anni, arrestato nel giugno 2015 per spaccio di cocaina e uscito a fine 2017 come detenuto a rischio di proselitismo e radicalizzazione violenta, nonché espulso. Lo scorso giugno veniva rimpatriato un trentaduenne cittadino egiziano; dopo l’arresto nel 2014 per associazione per delinquere finalizzata al favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, nel 2016 il soggetto in questione era emerso come leader di un gruppo di detenuti che divulgavano l’Islam radicale cercando di fare proseliti in carcere. A Sanremo invece un 42enne tunisino detenuto per reati comuni veniva inserito nel più alto livello di monitoraggio in quanto trovato in possesso di materiale che inneggiava alla supremazia dell’islam oltre a un disegno con la bandiera dell’Isis. Se fino al 2008 nelle carceri italiane i detenuti per terrorismo erano inseriti assieme ad altri reclusi per differenti reati, oggi si presta maggior attenzione a determinati profili sensibili ed è anche attivo un sistema di monitoraggio su tre livelli (monitoraggio, attenzionamento, segnalazione) che permette un controllo maggiore dei potenziali radicalizzati. Il rischio della diffusione propagandistica di stampo jihadista resta comunque elevato anche a causa della potenziale presenza di predicatori in qualche modo riconosciuti dagli altri detenuti, sia per carisma, sia per una minima conoscenza di fonti religiose, che possono far breccia nelle menti dei detenuti con la propaganda radicale. Come illustra il prof. Paolo Branca, islamologo presso l’Università Cattolica di Milano: “È sufficiente che un detenuto ne sappia un po’ più degli altri per diventare guida; nel momento in cui poi riesce a intercettare i sensi di colpa di altri detenuti che non sentono redenzione nella pena carceraria allora si presenta il potenziale problema. Del resto vengono segnalati soggetti che si fanno arrestare appositamente per andare a radicalizzare altri detenuti nei penitenziari”. Pene lievi e difficile reinserimento in società - A questo punto è lecito chiedersi cosa succederà a quei detenuti arrestati per terrorismo tra il 2015 e il 2016, in procinto di tornare in libertà come conseguenza di condanne lievi e sconti di pena per buona condotta. In Italia l’associazione con finalità di terrorismo (270 bis) prevede fino a 16 anni di reclusione, ma deve essere dimostrata tramite rapporto tra organizzazione ed effettivo affiliato. Con un’adesione sul piano prettamente ideologico il fenomeno diventa problematico in quanto non previsto dal sistema giudiziario italiano. Non a caso i soggetti stranieri accusati di propaganda filo-jihadista vengono espulsi con provvedimento amministrativo firmato dal ministero dell’Interno, anziché posti in stato di arresto. Vi sono però casi di condanne lievi, come precedentemente citato. Cosa succede dunque una volta scontate queste pene? In teoria molti di loro dovrebbero essere immediatamente rimpatriati nei Paesi d’origine; in pratica però la legge italiana permette di comparire nuovamente davanti a un giudice che valuterà se ancora sussistono i motivi per ritenere fondata la pericolosità sociale. Ovviamente in questo gap temporale tutto può succedere. Il rischio è dunque che i soggetti arrestati con l’accusa di terrorismo si radicalizzino ulteriormente nelle carceri per poi decidere di colpire una volta liberi; un’eventualità da prendere seriamente in considerazione, soprattutto in assenza di un valido ed efficace programma di de-radicalizzazione per i detenuti che possa permettere loro di reinserirsi positivamente nel contesto sociale. “Le toghe non facciano politica e la politica rispetti le sentenze” Il Dubbio, 13 settembre 2018 L’intervento del Capo dello Stato. Intervento del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella alla cerimonia in occasione del 100° anniversario della nascita del Presidente emerito della Repubblica, Oscar Luigi Scàlfaro. Ricordare il Presidente Oscar Luigi Scalfaro nel centenario della nascita significa non solo onorare la memoria di un protagonista della vita pubblica nazionale, ma anche ripercorrere più di mezzo secolo di storia repubblicana. Scalfaro, al Quirinale, si trovò, immediatamente, a gestire una delle transizioni più profonde e, per qualche aspetto, drammatiche del nostro sistema politico, quello delle diverse crisi dei partiti tradizionali, eredi della Resistenza e arte- fici della Costituzione, che fino a quel momento avevano retto, in sostanziale continuità, le sorti del Paese. (...) Scalfaro seppe tenere la barra dritta in un momento in cui il diffuso discredito dei partiti, con la diffidenza e la protesta dell’opinione pubblica, la crisi economica e monetaria, le bombe della protervia della mafia facevano temere il collasso del sistema democratico, trascinando, insieme al mondo politico, le stesse istituzioni della Repubblica. Con la nascita dei governi Amato e Ciampi, il presidente Scalfaro riuscì a condurre il Paese verso una fase politica nuova (...). A rileggere i suoi interventi precedenti alla sua non prevista elezione a Capo dello Stato, ci si accorge che aveva denunciato, con grande lucidità, la crisi, innanzitutto morale, del sistema politico e aveva espresso, con largo anticipo, allarmi per evitarne il collasso. Anche il suo predecessore al Quirinale, Francesco Cossiga aveva indicato anzitempo, con acume, faglie che, di lì a breve, avrebbero provocato la rottura del quadro politico. Ma mentre Cossiga spingeva nettamente sulla necessità di un profondo cambio di sistema istituzionale, di un passaggio a una fase ordinamentale nuova della Repubblica, Scalfaro attribuiva la causa del malessere non alla presunta arretratezza della Carta Costituzionale, ma piuttosto ai comportamenti di chi era chiamato a interpretarla. Nel suo magistero presidenziale, il rispetto vicendevole tra i poteri dello Stato rappresentava, insieme, dovere istituzionale e condizione essenziale di buon funzionamento dello Stato. E’ buona regola, del resto, che i poteri statali non si atteggino ad ambienti rivali e contrapposti ma collaborino lealmente al servizio dell’interesse generale. Nel primo discorso di fine anno, il 31 dicembre del 1992, osservava: “Occorre che vi sia intesa, collaborazione, convergenza fra i poteri dello Stato. Questa è la democrazia. Ciascuno dei poteri nella propria responsabilità, nel proprio essenziale compito e ambito costituzionale, ma tutti convergenti al bene comune, che è servire il cittadino”. La sua visione, di equilibrio, distinzione e collaborazione tra politica e magistratura, partiva da lontano. Scalfaro, che apparteneva, con grande orgoglio, all’ordine giudiziario, intervenne durante i lavori della Costituente nella discussione sulla funzione della magistratura, affermando: “La magistratura non può e non deve fermarsi mai nella sua opera di giustizia nei confronti di chicchessia; ma non si deve neppure dare l’impressione che in questa opera vi possa essere la contaminazione di una ragion politica”. Per scongiurare questo pericolo si oppose, in quella sede - insieme, tra gli altri, a Calamandrei e Leone - alla tendenza, espressa da parte comunista, che proponeva giudici eletti dal popolo, e contrastò quella di chi avrebbe voluto sottoporli al diretto controllo del ministero della Giustizia. Scalfaro sostenne che i cittadini sono chiamati a eleggere in Parlamento e negli enti locali i propri rappresentanti politici ma che questo non poteva essere “possibile in tema di giustizia che deve essere una”. E aggiungeva: “Non potrà mai esservi giustizia di destra, di centro o di sinistra. Guai a porre a fianco del sostantivo giustizia un qualunque aggettivo. Alla base della democrazia due colonne stanno, entrambe salde: la libertà e la giustizia”. Come hanno disposto i costituenti, nel nostro ordinamento non esistono giudici elettivi. I nostri magistrati traggono legittimazione e autorevolezza dal ruolo che loro affida la Costituzione. Non sono, quindi, chiamati a seguire gli orientamenti elettorali ma devono applicare la legge e le sue regole. Come spesso ebbe a ricordare anche il presidente Scalfaro, queste valgono per tutti, senza aree di privilegio per nessuno, neppure se investito di pubbliche funzioni; neppure per gli esponenti politici. Perché nessun cittadino è al di sopra della legge L’antimafia dimenticata nel silenzio di tutti di Isaia Sales Il Mattino, 13 settembre 2018 Ad oggi non è stata ancora ricostituita la Commissione parlamentare antimafia, a sei mesi dalle ultime elezioni e a tre mesi e mezzo dalla costituzione del nuovo esecutivo. Nell’Italia delle mafie questa non è una buona notizia. Ciò potrebbe sembrare “normale” per un governo che ha fatto della lotta all’emigrazione la principale strategia dell’ordine pubblico, in linea con le nuove gerarchie della sicurezza per le quali un immigrato è più pericoloso di un mafioso. Ma per le forze di opposizione all’attuale maggioranza Lega-Cinque Stelle si tratta di una superficialità e di una sciatteria imperdonabili, un’occasione mancata per evidenziare le contraddizioni di chi nel governo da un lato inneggia alla sentenza sul riconoscimento della trattativa tra Stato e mafie e dall’altro trascura di dare priorità alla ricostruzione di quell’organismo parlamentare che ha contribuito negli anni a rendere le mafie meno sconosciute e a segnare con alcuni suoi atti non solo la vita parlamentare ma la stessa storia d’Italia. Certo, la legge costitutiva è stata già approvata all’inizio di agosto, ma mancano ancora le designazioni dei gruppi parlamentari e un accordo sulla presidenza. Certo, anche nella legislatura precedente si arrivò alla composizione dei membri della commissione (e alla nomina del presidente) in forte ritardo. Ma la scelta di Rosy Bindi, una presidente dotata di una forte personalità, aveva creato una forte ostilità in forze politiche. Ora, invece, il ritardo non sembra motivato da uno scontro sui nomi (almeno finora) ma dalla indifferenza con cui la maggioranza tratta la “questione mafiosa” rispetto ad altri emi, e dalla distrazione da parte delle forze di opposizioni dai temi che potrebbero rilanciarne l’identità e la incisività politica. Contrariamente a quello che si potrebbe pensare, la commissione antimafia non esiste fin dall’avvio del Parlamento repubblicano. Essa infatti non è un organismo permanente delle due Camere, ma viene costituita di volta in volta con apposita legge, e non sempre ha avuto poteri di inchiesta che, come recita l’articolo 82 della Costituzione, le consentiva di procedere “nelle indagini e negli esami con gli stessi poteri e le stesse limitazioni dell’autorità giudiziaria”, sentendo testimoni e acquisendo prove e documentazioni. Questo perché per molti decenni si è ritenuto che la mafia non fosse un problema serio della democrazia italiana ma solo di “esagerazioni” delle opposizioni. Una lunga fase di negazionismo sulle mafie ha accompagnato la nascita e l’avvio dell’Italia repubblicana. L’allora ministro dell’interno il democristiano e siciliano Mario Scelba ne11949 disse, in un celebre intervento al Senato, “si parla della mafia condita in tutte le salse ma, onorevoli senatori, mi pare che si esageri in questo”. Pochi mesi prima era stata presentata dai comunisti la prima proposta di istituzione della commissione parlamentare d’inchiesta, che non fu presa in considerazione. Poi fu Ferruccio Parri, che era stato il primo presidente del Consiglio a capo di un governo di unità nazionale istituito alla fine della seconda guerra mondiale, a farsi promotore della proposta, ma la sua venne definita da un senatore democristiano, Mario Zotta, come “inutile, antigiuridica e inidonea”. Solo alla fine del 1962 fu approvata la legge istitutiva che prendeva le mosse appunto dalla proposta di Ferruccio Parri e da una analoga del socialista Simone Gatto. Dovettero passare, dunque, ben15 anni dall’elezione del nuovo Parlamento repubblicano per vedere operante la prima commissione antimafia. Eppure le mafie non se ne erano state silenti in quel lasso di tempo, anzi in particolare quella siciliana aveva prodotto un numero di morti impressionanti, soprattutto di sindacalisti ed esponenti del mondo contadino e bracciantile appartenenti alla sinistra socialista e comunista. E inizialmente le commissioni antimafia si occuparono solo della mafia siciliana, non ritenendo le altre tre meritevoli di attenzione. Solo nel 1988, durante la X legislatura, la commissione ebbe come obiettivo quello di occuparsi anche di “altre associazioni criminali similari” e dalla XV la competenza si è ampliò fino alle “associazioni similari straniere”. Una prima e completa relazione sulla camorra si è avuta solo nel dicembre 1993 ad opera della commissione presieduta da Luciano Violante, e una relazione specifica sulla ‘ndrangheta solo nel 2008 ad opera di quella presieduta da Francesco Forgione, mentre il primo serio approfondimento del rapporto mafie e massoneria lo si deve al lavoro di quella guidata da Rosy Bindi, così come la straordinaria attenzione sulle mafie nel Centro- Nord. L’ultima commissione ha avuto anche la forza di aprire un’indagine sui limiti del movimento antimafia. E fu Gerardo Chiaromonte a pubblicare il primo elenco di amministratori “impresentabili” a causa di condanne per mafia o per reati contro la pubblica amministrazione. La prima relazione parlamentare sulla mafia fu resa pubblica solo nel 1976, a quattordici anni dalla istituzione della commissione. Nella versione finale si parlava apertamente di collegamenti tra mafia e politica locale siciliana e, ai primi degli anni Settanta, di una diffusione dell’organizzazione anche fuori dalla Sicilia. Furono prodotti ben 42 volumi di atti che inchiodavano le responsabilità politiche, nonostante il democristiano Luigi Carraro concludesse i lavori parlando di un fenomeno mafioso “limitato e da non sopravvalutare”. Nonostante gli imbarazzi dei rappresentanti dei partiti più coinvolti nelle relazioni mafiose, bisogna prendere atto che le commissioni antimafie hanno pubblicato sempre delle puntuali analisi e hanno promosso una legislazione antimafia tra le più attrezzate ed estese in Occidente. E qualche volta si è riusciti a riaprire le indagini su episodi delittuosi restati impuniti o su cui c’era stato un depistaggio, come nel caso dell’assassinio di Peppino Impastato o del ritrovamento del corpo di Placido Rizzotto, fatto scomparire da Luciano Liggio. Addirittura nell’ultima relazione è stata dedicata un paragrafo alla scomparsa di un celebre quadro di Caravaggio, giusto per capire come le azioni mafiose possono incidere anche nel campo artistico e culturale, oltre che in quello economico e sociale. E oggi che le mafie hanno assunto un ruolo economico mai avuto in tutta la storia precedente e si è raggiunto un livello di presenza delle mafie in tutte le regioni italiane, il lusso di perdere altro tempo non ce lo possiamo consentire. Le mafie sono formate da italiani, chi le protegge e usa sono italiani. Gli immigrati non controllano le mafie, come qualcuno vorrebbe farci credere. Fenomeno baby gang. L’avv. Ciruzzi: “bene attenzione Csm, no a inasprimento pene” di Andrea Aversa vocedinapoli.it, 13 settembre 2018 L’emergenza criminalità minorile, la situazione nelle carceri e il nuovo governo. Ne abbiamo parlato con il Presidente della Fondazione Premio Napoli. Presidente della Fondazione Premio Napoli, ex Presidente della Camera Penale di Napoli ed ex vice Presidente dell’Unione delle Camere Penali Italiane, Domenico Ciruzzi è uno degli avvocati più importanti del prestigioso foro di Napoli. Oltre a essere uomo di legge è anche docente e persona molto attiva e partecipe alle diverse iniziative sul tema giustizia in tutto il territorio nazionale. La sua vena garantista e di estrema fedeltà a quelli che sono i dettati costituzionali, non è affatto un mistero. Abbiamo discusso con lui, grazie a questa intervista rilasciata a VocediNapoli.it, riguardo le proposte avanzate dal Csm (Consiglio Superiore della Magistratura), durante il plenum che si è svolto ieri a Napoli, in merito al contrasto del fenomeno delle baby gang. In proposito c’è stata la grande soddisfazione del presidente Giovanni Legnini che ha espresso l’importanza di un pacchetto di misure che guarderebbe all’unità di intenti tra tutti gli attori istituzionali. Ma oltre a provvedimenti di intervento sociale sono previsti anche arresti “facili” e un inasprimento delle pene. Tornando all’intervista, una parentesi è stata dedicata alla situazione nelle carceri che soprattutto a Poggioreale è diventata davvero esplosiva. Infine, abbiamo chiesto a Ciruzzi, un parere sull’operato dell’attuale governo in materia di giustizia e sul ruolo che l’avvocatura dovrebbe avere rispetto agli altri poteri dello Stato previsti dalla Costituzione. Avvocato Ciruzzi ieri c’è stato un plenum del Csm a Napoli. Cosa pensa delle proposte avanzate per contrastare il fenomeno delle baby gang? Innanzitutto sono molto contento che il Csm abbia organizzato il plenum a Napoli. È un segnale importante il fatto che l’organo principale della magistratura abbia dedicato la sua attenzione alla città e alla problematica della criminalità minorile. Tuttavia, almeno da quello che ho letto rispetto alle prime impressioni pubblicate oggi sui giornali, sembra che le misure più importanti siano rivolte all’inasprimento delle pene e su questo non sono d’accordo. Si tratta di provvedimenti che non servono, anzi, otterrebbero effetti contrari. A Napoli c’è bisogno di un forte intervento a livello sociale, soprattutto in alcuni quartieri e strati della popolazione dove lo Stato è stato assente per molto tempo. Che idea si è fatto sulla possibilità di allontanare i figli dei genitori appartenenti a famiglie camorristiche? Una disposizione verso la quale non sono affatto d’accordo. Anzi la ritengo dannosa, sia dal punto di vista politico - legale che da quello sociale. Insomma, ma immaginiamo la reazione di un minore strappato al proprio genitore. Stiamo parlando di misure che dovrebbero rappresentare l’estrema ratio. Provvedimenti che uno stato dovrebbe adottare dopo che aver fatto l’impossibile per risolvere questi problemi da un punto di vista sociale. In questo modo creiamo dei nemici dello Stato, ancora più furiosi nei suoi confronti. La sensazione che verrebbe percepita sarebbe quella di uno Stato che punisce due volte i suoi cittadini più giovani, prima condannandoli a vivere in contesti sociali criminali e poi punendoli portandoli via dalla loro famiglia. Se dovessimo fare una statistica per verificare l’efficacia di tale norma non so che risultati potremmo ottenere ma quello che è certo è che i genitori di questi ragazzi, anche se nell’ambiente in cui vivono, fanno di tutto per i loro figli. Non stiamo parlando di casi di violenze, patologie o tossicodipendenze che impediscono alle famiglie di prendersi cura dei propri ragazzi. Si tratta di una casistica del tutto diversa. Per questo mi chiedo: ma dove sono le categorie dei psicologi e degli analisti? Perché non si mobilitano sul tema e creano un dibattito? Eppure il discorso non è soltanto politico e giuridico ma è, appunto, soprattutto sociale. La situazione nelle carceri è esplosiva. Perché siamo arrivati a questo punto e cosa bisognerebbe fare per spegnere l’incendio? Ma era tutto previsto, la politica fa finta di non sapere. I dati, i numeri, le sanzioni dell’Europa contro l’Italia che hanno mortificato il nostro paese, sono tutti indicatori di una situazione devastante. Il problema è che i politici hanno preferito coltivare il consenso nei confronti degli elettori piuttosto che agire con giustizia. L’ultimo governo ha varato, senza poi approvarlo, un pacchetto di decreti legge sull’ordinamento penitenziario che avrebbero permesso a molti detenuti di avere pene alternative. Ma dal punto di vista della propaganda volevano pescare sia dal bacino elettorale dei garantisti, sia da quello dei giustizialisti. Una vergogna pagata lo stesso alle elezioni del 4 marzo. E oggi? Aspettiamoci altre sanzioni europee che continueranno a umiliare l’Italia. La pena deve avere uno scopo di reinserimento sociale e non di vendetta da parte dello Stato verso chi ha commesso un errore. In materia giustizia si sente ottimista o pessimista rispetto al nuovo governo grillo-leghista? Se gli slogan elettorali saranno trasformati in legge, non posso che definirmi preoccupato. Ma in generale sul futuro sono sempre ottimista. Nel senso, o le cose cambieranno oppure arriveremo ad uno sfascio giuridico, politico e sociale senza fine. Per questo mi auguro che tutti gli attori coinvolti, dagli operatori sociali, a coloro che sono impegnati nel volontariato e nelle carceri, al mondo della chiesa e dell’associazionismo ma anche al mondo delle istituzioni con i direttori delle carceri e i garanti dei detenuti e a tutti i politici e parlamentari che la pensano in modo diverso, bisogna che alzino la voce e si facciano sentire. In fondo basterebbe rispettare la Costituzione. In questo contesto quale potrebbe essere il ruolo dell’Avvocatura? L’avvocatura deve avere un ruolo di forte garanzia rispetto all’equilibrio dei poteri previsto nel nostro paese nella Costituzione. Oggi più che mai ques’organo deve rendersi conto del ruolo importante che ha e che dovrà avere. Mafia capitale: ritorna la giurisprudenza di scopo di Cataldo Intrieri Il Dubbio, 13 settembre 2018 Molto stupore ha suscitato la sentenza d’Appello che ha riconosciuto il marchio di mafiosità all’associazione criminale facente capo al duo Buzzi-Carminati. Tra i motivi di sorpresa vi è l’apparente incongruenza per cui pur riconoscendo il massimo di pericolosità come definizione del reato ad esso si è accompagnata una robusta diminuzione delle pene. Laddove in primo grado decenni di carcere erano stati salutati da scene di giubilo calcistico tra i destinatari, in appello il taglio delle pene, anche robusto come i 6 anni in meno a Carminati, ha suscitato rabbiose reazioni. L’apparente stranezza trova spiegazione nel ricorso alle vecchie sanzioni previste per il 416 bis prima del 2015, in qualche assoluzione dai reati minori e dalla concessione “a pioggia” delle attenuanti generiche totalmente negate in primo grado. In questo scenario il rovesciamento della decisione in tema di qualificazione mafiosa, paradossalmente è l’aspetto meno sorprendente perché gli addetti ai lavori sanno che da diverso tempo prima nelle commissioni parlamentari e poi nelle aule di Cassazione è in corso una “ rivoluzione silenziosa” nata da una serie di analisi sociologiche (i libri di Rocco Sciarrone sulle “Mafie del Nord” e di Vittorio Martone su “Le mafie di mezzo”) tradotte poi nel linguaggio del diritto da una tenace battaglia di alcuni magistrati (il procuratore di Roma Giuseppe Pignatone e l’ex Procuratore Nazionale Anti- Mafia Franco Roberti oggi inopinatamente sbarcato nella giunta regionale del governatore campano De Luca) e soprattutto da alcune pronunce della Suprema Corte di Cassazione. Il “nuovo modello di Mafia” è un’organizzazione leggera che può consistere di piccoli gruppi, non legata al controllo del territorio e non bisognevole di manifestare la propria violenza intimidatrice in quanto perfettamente omogenea e solubile nella società civile che la circonda di suo predisposta alla corruzione ed alla connivenza E così “la permeabilità del contesto sociale all’uso strumentale dell’intimidazione mafiosa è una variabile fortemente condizionata dal più o meno spiccato senso civico e dallo sviluppo di un adeguato livello di legalità che portano ad un inevitabile scollamento tra l’obiettiva espressione intimidatoria dell’associazione e l’effettiva penetrazione sociale, sicché il postulato di una necessaria incisione della realtà in termini macroscopici non appare rispondente ai parametri di concreta offensività della fattispecie” (Sez. 2, n. 24851 del 04/ 04/ 2017, Garcea e altri, Rv. 270442). Al netto del linguaggio criptico il concetto è perfettamente sovrapponibile al più rozzo “pensiero” di Alfonso Bonafede: la corruzione permea ampi strati della società cosi da rendere inutile la violenza e l’intimidazione, specchiandosi le componenti criminali e sociali l’una nell’altra. Lo “stigma” mafioso funge dunque da Daspo giudiziario, perché alla pena non eccessiva (in quanto commisurata ad una pericolosità “debole”) si sostituisce con ben maggiore efficacia il complesso delle preclusioni e delle misure di sicurezza per pervenire alla “sanzione sociale” della esclusione dal mondo produttivo dal colpevole. Appunto, “chi sbaglia paga”. Si sta celebrando dunque tra settori della Magistratura e della politica al governo una saldatura motivata dalla esigenza di bonifica dalla corruzione. Eppure non sono passati che pochi mesi da quando la Corte Costituzionale ha ribadito la sua ferma contrarietà alla “Giurisprudenza di scopo” ed al ruolo del giudice come argine sociale contro i fenomeni criminali. Il rischio, osserva la Consulta di causare la perdita della necessaria terzietà e va aggiunto l’elevata probabilità di conflitti politici di cui i contrasti con la Lega di Salvini possono essere un’avvisaglia. Chi scrive recensioni false su Tripadvisor rischia il carcere di Elisa Forte La Stampa, 13 settembre 2018 Nove mesi di reclusione a un truffatore. Il caso di una società del Salento: titolare condannato. Scrivere recensioni false utilizzando un’identità falsa è un crimine secondo la legge italiana. Lo ha stabilito il Tribunale Penale di Lecce, in uno dei primi casi legali nel suo genere. Il proprietario di Promo Salento, che vendeva pacchetti di recensioni false ai business dell’ospitalità in Italia, è stato condannato a 9 mesi di prigione e al pagamento di circa 8.000 Euro per spese e danni. La community di viaggi Tripadvisor ha supportato il procedimento contro Promo Salento costituendosi parte civile e ha condiviso le prove raccolte dal suo team interno di investigazione frodi e fornito il supporto dei suoi consulenti legali italiani. “Crediamo che si tratti di una sentenza storica per internet - commenta in una nota Brad Young, VP, Associate General Counsel di TripAdvisor. Scrivere recensioni false ha sempre rappresentato una violazione della legge ma questa è la prima volta che, come risultato, il truffatore è stato mandato in prigione. Investiamo molto nella prevenzione delle frodi e siamo efficaci nell’individuarle: dal 2015 abbiamo bloccato le attività di più di 60 aziende di recensioni a pagamento nel mondo. Ma non possiamo fare tutto da soli ed è per questo che desideriamo collaborare con le autorità competenti e le forze dell’ordine per supportare i loro procedimenti penali”. Grazie “alle nostre tecniche evolute di individuazione delle frodi e ai nostri deterrenti, il numero di tentativi di truffa su TripAdvisor è estremamente basso - spiegano da Tripadvisor. Nel 2015, il nostro team di investigatori delle frodi ha identificato un’azienda di nome Promo Salento che operava illegalmente in Italia. Questa azienda si offriva di scrivere recensioni false per i business dell’ospitalità col fine di migliorare il loro profilo su TripAdvisor”. Durante il corso delle indagini “le nostre analisi tecniche ci hanno portato ad identificare prima e poi a rimuovere o bloccare oltre 1.000 tentativi di invio di recensioni su TripAdvisor ad opera di Promo Salento relative a centinaia di strutture”. Il team ha inviato una segnalazione a queste strutture e le ha penalizzate declassandole nelle nostre classifiche”. Nei casi in cui “abbiamo visto che le attività sospette non cessavano, il passo successivo è stato quello di applicare un bollino rosso, che è un messaggio pubblicato sulla pagina di un business su TripAdvisor che informa i viaggiatori dei tentativi di manipolazione delle recensioni da parte del business”. Poi il sito ha lavorato con il proprio team di legali per mettere fine alle attività di Promo Salento: “Nei casi più tenaci, lavoriamo con le forze dell’ordine e con le autorità competenti di tutto il mondo per condividere le prove raccolte e invitarli a perseguire questi trasgressori seriali. Nel caso di Promo Salento, la Polizia Postale e delle Comunicazioni italiana stava già investigando sulla loro attività”. Nel giugno 2018 il Tribunale penale di Lecce ha condannato il titolare di Promo Salento “a 9 mesi di prigione, senza il beneficio della sospensione condizionale, e al pagamento di circa 8.000 Euro come risarcimento del danno e rimborso di spese legali in favore di TripAdvisor”. Le recensioni online “rivestono un ruolo fondamentale nel turismo e nelle decisioni di acquisto dei consumatori - dice Pascal Lamy, Chairman del World Committee on Tourism Ethics, Unwto - ma è importante che tutti seguano le regole”. Bancarotta impropria addio. Gli amministratori di società possono evitare condanne di Dario Ferrara Italia Oggi, 13 settembre 2018 Il delitto è di danno e non di pericolo. Falso in bilancio ininfluente. Niente bancarotta impropria da reato societario nonostante il falso in bilancio. Gli amministratori della società poi fallita possono ancora evitare la condanna perché dopo la riforma del 2002 il delitto contestato è di danno e non di pericolo: il nesso causale con la dichiarazione d’insolvenza ne risulta elemento costitutivo e la responsabilità penale si configura soltanto se le false comunicazioni sociali hanno contribuito ad aggravare il dissesto dell’impresa. Ed è difficile crederlo quando gli amministratori sono costretti a portare i libri in tribunale subito dopo il bilancio truccato. È quanto emerge dalla sentenza 40489/18, pubblicata il 12 settembre dalla Cassazione (V sez. pen.). Accolto il ricorso dei vertici della società fallita per colpa della capogruppo, cui era legata a doppio filo da rapporti commerciali e creditori. Intendiamoci, il falso comunicativo c’è eccome: nel bilancio straordinario del 30 novembre il valore delle rimanenze è gonfiato tanto che nel bilancio di esercizio approvato solo un mese dopo, a fine anno, emerge una perdita di oltre 1,8 milioni di euro grazie a una valutazione più corretta che fa accertare una differenza “enorme”. Non giova dedurre che in quel momento la capogruppo potrebbe ritenersi ancora solida grazie al tentativo di salvataggio da parte di un pool di banche: dunque le rimanenze e i crediti della società satellite avrebbero rispettivamente un valore di mercato e una residua esigibilità. In realtà si tratta del disperato tentativo di dare una boccata d’ossigeno a una società decotta sperando in un recupero in extremis con nuovi creditori e commesse: recupero molto improbabile in quanto la capogruppo ha un buco da 78 milioni. Ma attenzione: nel reato contestato la condotta deve avere “cagionato o contribuito a cagionare il dissesto” dopo che il decreto legislativo 61/2002 ha modificato il secondo comma dell’articolo 233 1.f. E non c’è solo un vizio di motivazione nella sentenza che liquida in poche righe il nesso causale col fallimento: desta perplessità il peso del lancio truccato nell’aggravamento del dissesto laddove la falsificazione interviene a ridosso della dichiarazione di insolvenza. Parola al giudice del rinvio. Sindaci, non basta la denuncia occorre sollecitare i soci o il Pm di Nicola Cavalluzzo e Alessandro Montinari Il Sole 24 Ore, 13 settembre 2018 Corte di cassazione - Sentenza 21662/2018. La Corte di cassazione, con la sentenza 21662/18, depositata il 5 settembre 2018, conferma la responsabilità dei sindaci inerti e che non hanno operato fattivamente per evitare l’illecito gestorio. I sindaci devono utilizzare concretamente tutti i poteri messi a loro disposizione dalla legge per evitare la commissione, da parte degli amministratori, di atti volti a cagionare e successivamente a coprire il dissesto della società. Nel caso particolare, ai fini dell’esonero da responsabilità, non è stato sufficiente per i sindaci aver denunciato nella relazione al bilancio lo squilibrio della struttura patrimoniale e finanziaria e l’esigenza di un risanamento in quanto è stato ritenuto che ciò fosse conseguenza dell’omesso controllo (concretizzatosi anche con il parere favorevole all’approvazione) sul bilancio dell’anno precedente in cui sono stati commessi i fatti censurati agli amministratori. È stato inoltre ritenuto determinante dai giudici, ai fini della responsabilità dell’organo di vigilanza, che alla denuncia nella relazione non si fosse accompagnata la sollecitazione dei soci in assemblea o, come allora consentito, del pubblico ministero ai fini della denuncia ex articolo 2409 del Codice civile. L’elemento della colpa rileva quindi sotto due profili: colpa nella conoscenza, allorché il sindaco non rilevi colposamente la condotta inadempiente dell’organo gestorio; e colpa nell’attivazione se, pur a conoscenza dei fatti, si omette, almeno per colpa, di esercitare prontamente ed efficacemente i suoi poteri impeditivi. La Suprema corte sottolinea che a fronte di iniziative contra legem da parte dell’organo amministrativo di una società per azioni, i sindaci hanno l’obbligo di porre in essere, con tempestività, tutti gli atti necessari e di utilizzare ogni loro potere di sollecitazione e denuncia, interna ed esterna alla società. Ciò sino a pretendere dagli amministratori le azioni correttive necessarie, non essendo “sufficiente limitarsi ad una blanda, inefficace critica”. In mancanza essi concorrono nell’illecito civile commesso dagli amministratori della società per omesso esercizio dei poteri-doveri di controllo loro attribuiti dalla legge. Nei casi in cui risulti compromessa l’integrità del patrimonio sociale e si verifichi l’insufficienza del medesimo a soddisfarli, in particolare, la responsabilità sussiste nei confronti dei creditori sociali; il nesso causale va provato da parte attrice, secondo l’accertamento rimesso all’apprezzamento discrezionale del giudice di merito. Il corretto adempimento dell’incarico conferito per i sindaci non si esaurisce quindi nell’espletamento delle attività specificatamente indicate dalla legge, ma comporta l’obbligo di adottare ogni altro atto - seppur non tipizzato - necessario al diligente assolvimento dell’incarico. In tal senso rileva la segnalazione all’assemblea dei soci delle irregolarità di gestione riscontrate e persino, ove ne ricorrano gli estremi, la segnalazione al pubblico ministero allora consentita per consentirgli di formulare la richiesta ai sensi dell’articolo 2409 del Codice civile (Cass. 22911/2010; 252/1997) nonché, post riforma, la denunzia al tribunale. La riforma del diritto societario ha espressamente indicato, all’articolo 2403 Codice civile, l’esigenza del controllo, da parte dei sindaci, “sull’osservanza della legge e dello statuto, sul rispetto dei principi di corretta amministrazione ed in particolare sull’adeguatezza dell’assetto organizzativo, amministrativo e contabile adottato dalla società e sul suo concreto funzionamento”. Ma già prima della riforma, precisano i giudici poiché i fatti si riferiscono al 1990 e 1991, i doveri di controllo imposto ai sindaci dall’articolo 2403 e successivi del Codice civile erano configurati con ampiezza ed estesi a tutta l’attività sociale, con funzione di tutela non solo dell’interesse dei soci, ma anche di quello, concorrente, dei creditori sociali. Tale dovere non può limitarsi al mero e formale controllo sulla documentazione messa a disposizione dagli amministratori, ma deve concretizzarsi nel potere-dovere di chiedere notizie sull’andamento generale e su specifiche operazioni, intervenendo attivamente per mutare condotte reputate non conformi alla legge (Cass. 2772/99 e 5287/98). Poi con specifico riferimento a talune strutture societarie, tali controlli devono essere più intensi: come accade allorché si tratti, ad esempio, di società a ristretta base familiare o società cooperativa. Puglia: suicidi in carcere, serve maggiore ricorso a misure alternative di Maria Pia Scarciglia* Corriere Salentino, 13 settembre 2018 A Taranto e a Lecce così come nel resto del nostro Paese si muore di carcere, siamo a quattro detenuti che ad oggi si sono tolti la vita complessivamente nei due Istituti Penitenziari. Ritorna il sovraffollamento con percentuali allarmanti (Taranto 191,2% e Lecce 174,1%), a ricordarci che il carcere non è e non può essere l’unica pena per chi commette reati. In Italia, sanzioni non carcerarie sono possibili e vengono applicate in diversi Istituti: semilibertà, affidamento in prova al servizio sociale e detenzione domiciliare. Queste misure alternative però riguardano un numero esiguo di detenuti per via di numerose restrizioni, nell’Istituto di Taranto a fronte dei 545 detenuti solo 9 usufruivano di semilibertà e anche nell’Istituto di Lecce su 1006 detenuti solo 9 detenuti sono in semilibertà; una sproporzione che solleva parecchi dubbi ma che non deve scoraggiare, anzi si può e si deve fare di più per raggiungere livelli come quelli di Francia e Gran Bretagna dove solo il 24% dei condannati sconta la pena in carcere. Aumentano i detenuti ma gli operatori restano sempre in numero nettamente inferiore; a Taranto sono presenti 3 educatori sui 6 previsti mentre nella Casa Circondariale di Lecce ne sono presenti 9 su 9. Un carico di lavoro considerevole per le poche unità che inevitabilmente si ritrovano ingolfate e sommerse da centinaia di “domandine” alle quali rispondere sottraendo del tempo che potrebbe essere impiegato per l’ascolto e progetti d’istituto. Anche le ore dedicate alla terapia psicologica sono insufficienti, si parla di 38 ore di presenza per gli psicologi a Taranto e 107 a Lecce, lasciando vuoti e fragilità nei detenuti che prima ancora di essere “criminali” sono persone che un giorno rientreranno nel tessuto civile e sociale ma senza grandi opportunità. Nel 2017 viene approvato il “Piano nazionale per la prevenzione delle condotte suicidarie nel sistema penitenziario per adulti”. G.U. n. 189 del 14 agosto 2017; volto alla costruzione di una rete tra i diversi livelli nazionali, regionali e locali per la costruzione di piani regionali e locali di prevenzione delle condotte suicidarie dove sono indicate diverse aree d’intervento quali : Area dell’attenzione e del sostegno tecnico - clinico, Area dell’attenzione atecnica dove si fa riferimento al personale di polizia penitenziaria, agli stessi compagni di detenzione e ai volontari ed infine Area della decisione che compete al Direttore dell’Istituto e in sua assenza al Comandante del reparto o agli addetti alla Sorveglianza Generale. Questo protocollo è applicato in tutti gli Istituti Pugliesi ma la cronaca ci dimostra purtroppo che si deve fare ancora molto prima di poter dare a tutti il giusto sostegno di cui hanno bisogno. L’Associazione Antigone ritiene distanti dal processo di umanizzazione intrapreso dal precedente Ministro della Giustizia Orlando le dichiarazioni espresse dal Sappe di Lecce che sostiene “la poca sicurezza nelle nostre carceri dopo la Riforma Orlando”. Al contrario del Sappe crediamo importante e doverosa quella mini Riforma, ma più in generale il lavoro poi interrotto dopo gli Stati Generali sull’Esecuzione penale che avrebbero dovuto diventare occasione di una grande e civile Riforma dell’Ordinamento penitenziario. Ci teniamo a precisare che i nostri Istituti sono quelli con il maggior numero di Agenti di PPE con un rapporto di 1 detenuto ogni 3 agenti. Questo non significa che la P.P. gode di ottima salute ed anzi la invocata riforma sarebbe una boccata d’ossigeno anche per i nostri agenti e garantirebbe loro una maggiore qualità di vita e di lavoro all’interno degli Istituti di pena. *Avvocato, responsabile Associazione Antigone Puglia Sardegna: nelle carceri mancano direttori e agenti, appello al ministro linkoristano.it, 13 settembre 2018 Lettera aperta della presidente di Sdr Maria Grazia Caligaris. “In Sardegna c’è una situazione “storica” che ha la necessità di trovare una soluzione immediata. Confidando nel “cambiamento” asserito e sostenuto dal Governo di cui Lei è espressione, le rivolgo un sentito appello affinché ciascun Istituto Penitenziario sardo possa disporre innanzitutto di un Direttore in pianta stabile”. Lo ha chiesto al Ministro della Giustizia Alfonso Bonafede la presidente di “Socialismo Diritti Riforme” con una lettera aperta. “La carenza di responsabili delle carceri - ha scritto Maria Grazia Caligaris - si aggiunge a quella degli Agenti della Polizia Penitenziaria, in numero gravemente insufficiente, e degli Educatori. In particolare negli ultimi mesi quotidianamente le diverse sigle sindacali segnalano continue tensioni all’interno degli Istituti con atti lesivi verso gli Agenti in servizio e di autolesionismo da parte dei detenuti. Gli eventi più pesanti si sono manifestati nella Casa Circondariale di Cagliari-Uta e di Sassari-Bancali, dove il numero dei ristretti è sempre al limite della capienza regolamentare e il numero delle persone con problemi di tossicodipendenza e di natura psichiatrica sono elevati. Ma la situazione non è migliore in altre realtà come la Casa di Reclusione di Oristano-Massama in cui il personale carente e “anziano” limita pesantemente le attività trattamentali creando condizioni di tensione che spesso sfociano in battitura dei ferri e in scioperi della fame”. “Ribadisco, come ho sottolineato in una nota inviata alla Sua attenzione nel mese di luglio, che la Sardegna - ha sottolineato ancora Caligaris - continua a vantare il primato negativo di 4 Direttori penitenziari stabili per 10 Istituti. Pierluigi Farci (Oristano-Massama), è anche Vice Provveditore; Patrizia Incollu (Sassari-Bancali e Nuoro Badu ‘e Carrus), Marco Porcu (Cagliari-Uta, Isili e Lanusei) nonché l’Ufficio Contenzioso del Provveditorato regionale; Elisa Milanesi (Alghero). Altri due Direttori hanno incarichi temporanei a Tempio, Caterina Sergio; a Mamone e Is Arenas, Simona Mellozzi, peraltro direttore aggiunto alla Casa Circondariale di Regina Coeli”. “In estate si è raggiunta un’alta criticità per permettere anche ai Direttori di usufruire delle ferie. Con i ranghi ridotti all’osso oggi la dott.ssa Milanesi ricopre 4 incarichi perché il dott. Porcu è in ferie. In quattro (+ 2) dunque devono gestire dieci Istituti con 2.257 detenuti (731 stranieri). Tutto ciò è scandaloso anche perché viene umiliata la funzione della detenzione. Richiamo infine un altro aspetto che fa dell’isola una cenerentola. Dal 1989, quasi 20 anni, è assente un Provveditore sardo dell’Amministrazione Penitenziaria. L’ultimo, Francesco Massidda, è andato in pensione nel 2010. E’ giunto il momento - conclude la presidente di Sdr - di assegnare un incarico di Dirigente Generale a un sardo o a una sarda che conosce il territorio, i colleghi, potenzialità e criticità della realtà detentiva isolana”. Napoli: Poggioreale, allarme per i detenuti malati psichici e per i transgender di Carmine Alboretti comunicareilsociale.com, 13 settembre 2018 La situazione dei detenuti malati psichiatrici e dei transgender nel carcere di Poggioreale continua ad essere critica. Nei giorni scorsi il Garante Regionale delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale, Samuele Ciambriello, ha accompagnato il consigliere regionale Luigi Cirillo e la parlamentare Flora Frate, componente della VII Commissione della Camera dei Deputati, in un sopralluogo, effettuato unitamente ad alcune rappresentanti dell’Associazione “Trans Napoli”. Il quadro emerso è abbastanza critico tanto che gli esponenti istituzionali hanno lanciato un vero e proprio allarme discriminazioni. “Anche tra i detenuti - denunciano - c’è una comunità di serie B, per la quale il carcere rappresenta esclusivamente reclusione e la detenzione non ha nulla a che vedere con un processo rieducativo e di reinserimento nel tessuto sociale”. Chiaro il riferimento a quanto è stato documentato nel corso della visita nella struttura di pena napoletana. L’attenzione dei visitatori si è concentrata sulla categoria dei transgender “che sono parte integrante della nostra società, ma che sono escluse da qualunque progetto di formazione e istruzione”. Insomma per alcune persone l’espiazione della pena, anziché innescare - così come dovrebbe essere, in base alle previsioni della nostra Carta costituzionale - un meccanismo di trasformazione della propria indole, si rivela un processo di progressivo abbruttimento, di discesa in un girone infernale dal quale difficilmente riemergeranno. Una situazione assolutamente inaccettabile che impone misure rapide ed efficaci a tutela dei diritti degli internati violati. “Non possiamo consentire - ha affermato la deputata Frate al termine della visita - che i detenuti transgender siano privati della possibilità di svolgere attività di socializzazione, istruzione e formazione professionale. Molti ricorrono anche a gesti estremi, come il tentato suicidio, per combattere l’indifferenza e lo stato di abbandono nel quale versano. Un impegno che mi assumo è quello di rappresentare tale questione al Dipartimento di Amministrazione Penitenziaria per concertare una soluzione che coniughi sicurezza e socialità”. Analogo impegno va profuso anche per i detenuti con problemi psichiatrici “che usufruiscono di un’assistenza a mezzo servizio in quanto a Poggioreale l’assistenza specialistica viene loro garantita soltanto tre volte la settimana, a differenza del carcere di Secondigliano, dove esiste un reparto attrezzato con posti letto ed è garantita un’assistenza h24. Dal suo canto il consigliere regionale Cirillo ha lanciato un appello per i carcerati malati psichiatrici al governatore Vincenzo de Luca, nella veste di commissario per la sanità regionale, affinché riveda “la programmazione in relazione all’effettivo fabbisogno”. Tra le soluzioni al vaglio, si potrebbe pensare a un ampliamento del settore del carcere di Secondigliano che già ospita detenuti nelle stesse condizioni, ma con un attuale soglia di 18 posti letto. Un’altra ipotesi potrebbe essere quella di trasformare in un reparto specializzato per questa tipologia di detenuti l’ala del padiglione Firenze che attualmente li ospita. “Si tratta - ha chiarito l’esponente regionale - di gente che ha bisogno di poter accedere a percorsi assistenziali in qualunque momento e non per poche ore a settimana”. Taranto: carcere, produrre birra aiuta a “riscattarsi con gusto” blunote.it, 13 settembre 2018 Venerdì 14 settembre alle ore 11.15 presso la sala conferenze del padiglione 18 della Fiera del Levante (Agrimed) verrà presentato alla stampa il progetto “Riscattarsi con gusto”. Il progetto metterà in campo tutta una serie di iniziative finalizzate a contrastare un fenomeno drammatico dai costi economici e sociali elevatissimi, ovvero quello delle recidive dei detenuti. La produzione di birra artigianale all’interno del carcere di Taranto permetterà ai detenuti di realizzare un percorso di formazione e inclusione applicato alla produzione e mescita di birra artigianale a km zero. Nel corso della conferenza stampa di presentazione del progetto, il Provveditore dell’Amministrazione Penitenziaria di Puglia e Basilicata il dott. Carmelo Cantore, unitamente al direttore della struttura penitenziaria di Taranto la dott. Stefania Baldassari, evidenzieranno come l’incremento di attività lavorative all’interno delle strutture penitenziarie, attraverso attività imprenditoriali come il birrificio, possano diventare uno strumento che faciliti non solo il reinserimento, ma può fornire occasioni d’impiego al termine della pena, con conseguente abbattimento del rischio di recidiva. Sarà presente, il Presidente dell’Associazione MondoBirra ing. Piero Conversano, il direttore del Progetto “Riscattarsi con gusto” il giornalista Espedito Alfarano. E’ previsto un saluto del presidente della Regione Puglia Michele Emiliano. Il progetto prevede la sperimentazione produttiva di una birra artigianale preparata dai detenuti con il pane che altrimenti finirebbe nella pattumiera. Sarà una birra chiara, dove la materia prima recuperata (il pane, appunto) va a sostituire in parte il malto d’orzo, conferendo profumi e sapori di crosta di pane a una bevanda dalla gradazione alcolica modestissima. Come verrà spiegato nella conferenza stampa, il progetto prevedere una collaborazione con l’istituto tecnico agrario di Massafra in provincia di Taranto che permetterà, sui terreni del carcere, di coltivare orzo e luppolo per produrre birra. Modena: inumana detenzione al Sant’Anna, 5 mesi di sconto al carcerato di Valentina Reggiani Il Resto del Carlino, 13 settembre 2018 L’uomo aveva presentato ricorso lamentando celle troppo piccole. Tempo a disposizione ne ha avuto e ne avrà ancora e parecchio. E fino ad ora, a quanto pare, lo ha sfruttato nel migliore dei modi: studiando la sua condizione e, soprattutto, i suoi diritti e il modo per farli valere. E così è riuscito, presentando reclamo contro il carcere Sant’Anna per inumana detenzione, ad ottenere uno sconto di pena pari a 154 giorni. A disporre la riduzione dei giorni di detenzione nei confronti di un siciliano di 56 anni, oggi in carcere a Pavia, è stato il magistrato di sorveglianza che, attraverso un’ordinanza, ha emesso il provvedimento a titolo del risarcimento del danno. L’uomo, con fine pena nel 2022 per reati contro il patrimonio, spaccio e rapine, come si legge nell’ordinanza, lamentava infatti di essere stato sottoposto ad un trattamento inumano durante la detenzione modenese, nel periodo compreso dal 2004 al 2009. Parliamo di oltre mille giorni vissuti in una cella troppo piccola rispetto al numero di detenuti - ha conteggiato e messo nero su bianco il carcerato, senza né doccia né bidet e con aria e luce scarse. Infatti, secondo quanto emerge dal provvedimento, su un periodo di 1786 giorni, 1736 l’uomo li ha scontati nelle celle del reparto di alta sicurezza insieme ad un altro carcerato, in uno spazio di 10,6 metri. Oltre un metro e mezzo, però, risultava occupato dai servizi igienici. Contando il mobilio, lo spazio calpestabile era complessivamente di 7,56 metri. Quindi appena sufficienti rispetto ai parametri indicati dalla normativa. Il comitato europeo per la prevenzione della tortura stabilisce infatti come il detenuto debba poter usufruire di uno spazio calpestabile di almeno quattro metri. E nell’ordinanza con cui si dispone il risarcimento si precisa che si può parlare di violazione dell’articolo tre della convenzione europea dei diritti dell’uomo quando, alla permanenza in una cella che si attesta tra i tre e i quattro metri, si combinano ulteriori aspetti di inadeguatezza della detenzione. Tra questi l’impossibilità di svolgere attività all’aria fresca o presenza di luce o aria nella cella. Infatti, oltre ai fattori legati alla cella vera e propria, il 56enne ha lamentato di aver subito la convivenza forzata con i fumatori “ai quali viene lasciata la libertà di fumare all’interno della cella creando grave pregiudizio, anche sul piano della salute, agli altri detenuti”. “Posso dire che siamo soddisfatti del risultato ottenuto - spiega il legale del detenuto, l’avvocato Pierluigi Vittadini - peraltro su dati forniti dallo stesso carcere di Modena. E’ una causa pilota che aprirà la strada per analizzare posizioni di altri detenuti in tutte le carceri italiane. Ci si augura che nel frattempo a Modena il penitenziario sia stato adeguato alla normativa europea. Il mio assistito - spiega - per la prima parte del periodo detentivo trascorreva infatti anche venti ore al giorno in cella, non potendo usufruire del regime celle aperte e quel poco spazio a disposizione era occupato dal mobilio”. Ma il carcerato “ribelle” non solo ha ottenuto lo sconto sulla pena modenese, perché lo stesso 56enne è riuscito a farsi “abbonare” altri cinquantacinque giorni anche dopo aver presentato reclamo contro il tribunale di Pavia per inumana detenzione. E’ dopo quell’episodio, infatti, che il detenuto ha deciso di portare davanti al giudice anche l’amministrazione penitenziaria di Modena. Modena: inaugurazione della mostra “Oltre la confessione. L’Italia delle prigioni” Il Dubbio, 13 settembre 2018 “Sono fortemente convinto che il compito delle fotografie sia anche quello di porre delle domande piuttosto che dare delle risposte, così come è mia ulteriore convinzione che le fotografie debbano saper essere anche fastidiose, creare un certo sentimento di disagio. In tutto questo tempo trascorso accanto a tutte queste vite, per non soffrire troppo ho imparato a raccontare le emozioni”. Così Francesco Cocco, autore delle foto che saranno in mostra dal 14 settembre al 7 ottobre all’ex Ospedale Sant’Agostino di Modena, presenta in maniera chiara e diretta il suo lavoro nelle nostre carceri. Domani alla inaugurazione della mostra “Oltre la confessione. L’Italia delle prigioni”, voluta e curata dalla Camera penale di Modena, parteciperà anche il Garante nazionale delle persone private della libertà personale. I visitatori potranno ammirare circa 100 foto tratte dal progetto di Francesco Cocco “Prisons”, realizzato dal fotografo di fama internazionale tra gli anni 2002- 2006 e pubblicato da Logos nel 2006. Cocco è un fotografo che da sempre guarda con attenzione la marginalità sociale e l’universo infantile, con una particolare attenzione per l’Africa e il continente asiatico, collaborando con “Medici senza frontiere” ed “Emercency”. La Mostra è inclusa nel programma della 18esima edizione del Festival Filosofia, che si svolgerà a Modena, Carpi e Sassuolo dal 14 al 16 settembre, realizzata in collaborazione con la Fondazione Cassa di Risparmio di Modena e con il Patrocinio del Comune di Modena, che ha come tema guida la verità. Il progetto fotografico di Francesco Cocco risulta di grande attualità e offre la opportunità di coniugare l’esigenza di un serio dibattito attorno ai temi del carcere con la potenza visiva di frammenti di vita dimenticata, o semplicemente nascosta agli occhi della società. Di qui la decisione della Camera penale di Modena di costruire insieme alla “Associazione Porta Aperta Onlus” - impegnata in progetti di accoglienza di persone svantaggiate - un percorso che accompagnasse le immagini struggenti di questo mondo dimenticato a momenti di riflessione e dibattito su diversi aspetti della vita dei detenuti e sui loro diritti. Le immagini accompagnano il visitatore in un percorso doloroso, quasi incredibile, per chi non abbia mai varcato le soglie di un istituto di pena: una verità inconfessabile, che attraverso gli scatti esposti genera sgomento ed incredulità. Per realizzare il proprio lavoro, il fotografo aveva potuto toccare con mano la realtà di molti istituti penitenziari italiani, immortalando le prigioni di Torino (Lorusso e Cutugno), Milano (Opera - San Vittore), Modena (Sant’Anna), Bologna (Dozza), Prato, Pisa, Trani, Roma (Rebibbia), Palermo (Ucciardone) Messina (Gazzi) Cagliari (Buoncammino) e Alghero. Un lavoro fatto di comprensione, attesa e condivisione di ambienti ristretti e tempi dilatati. Un lungo viaggio che invita a scoprire una condizione umana di privazione, dolore, sofferenza, disagio, ma anche di affetti e speranza. Sentimenti che emergono oltre che dalle splendide foto anche dalle parole di Francesco Cocco: “Ho incontrato decine di persone, donne e uomini, detenute e detenuti, che mi hanno accolto tra queste mura. Talvolta con ovvia diffidenza, talvolta con espansiva spinta emotiva. È a tutti loro che sento di dover esprimere il mio profondo ringraziamento per avermi concesso di entrare nelle loro vite, regalandomi il privilegio di poter ascoltare le loro storie. Mi hanno parlato di amore, di odio, di sentimenti, di sogni spesso infranti, di offese subite, di maltrattamenti, di angosce e di speranze, ma anche della consapevolezza dei loro trascorsi, di quanto avevano commesso davanti a me hanno pianto, hanno sorriso, hanno urlato, hanno bestemmiato, ma tutti indistintamente hanno rivendicato la loro identità”. Il visitatore è portato a scoprire interminabili e rumorosi corridoi e celle ricolme di oggetti personali che raccontano le vite di persone dimenticate, in attesa. Mostrano ore interminabili e vuote, nuove amicizie e la forza dei raggi di sole che alimentano l’anima e la speranza nei rari sprazzi all’aperto. Stracciano un velo sulla condizione dei bambini che accompagnano le madri nelle loro esperienze detentive e su quella dei detenuti malati. Gli avvocati modenesi hanno curato interamente la realizzazione della mostra, vedendo i più giovani impegnati in tutte le sue fasi, dalla elaborazione del progetto espositivo fino all’allestimento vero e proprio, comprensivo della realizzazione di una vera e propria cella che sarà visitabile. Ha collaborato anche un gruppo di richiedenti asilo ospite di “Porta Aperta”, provvedendo alle tinteggiature. L’iniziativa sarà arricchita da momenti di dibattito che si svolgeranno tutti i venerdì con la partecipazione di esperti nonché delle associazioni che sul territorio modenese svolgono attività volontaristiche all’interno della Casa Circondariale di Sant’Anna. L’obiettivo dichiarato è quello di riuscire a portare un tema tanto complesso e respingente fuori dall’ambito dei tecnici per sensibilizzare i cittadini all’importanza dei diritti dei detenuti e della libertà personale I diritti dei detenuti e i costi sociali Venerdì 14 settembre alle 16 sarà inaugurata la mostra “Oltre la confessione. L’Italia delle prigioni”, presenterà Roberto Ricco, avvocato della Camera penale di Modena. Alle 17 ci sarà la tavola rotonda “I diritti dei detenuti”, moderata da Gianpaolo Ronsisvalle, avvocato della Camera penale di Modena, con Mauro Palma, garante nazionale dei detenuti, Carlo Fiorio, ordinario di Procedura penale dell’Università di Perugia e lo scrittore Carmelo Musumeci. Venerdì 21 alla ore 17 la tavola rotonda sarà dedicata a “Il diritto alla salute” e moderata da Nicola Tria, presidente della Camera penale di Reggio Emilia. Ne discutono Marco Pelissero, ordinario di Diritto penale dell’Università di Torino, Massimo Ruaro, docente di Diritto penitenziario dell’Università di Genova. Venerdì 28 il tema è quello del “Diritto alla affettività”. Alla tavola rotonda, moderata da Massimo Brigati, presidente della Camera penale di Piacenza, parteciperanno Fabio Gianfilippi, magistrato di sorveglianza di Spoleto, e Michele Passione, avvocato della Camera penale di Firenze. Venerdì 5 ottobre la tavola rotonda avrà come tema “I costi sociali della detenzione”, sarà moderata da Valentina Tuccari, presidente della Camera penale di Parma e vi prenderanno parte Francesca Pesce, assegnista di ricerca di Diritto penale dell’Università di Trento e Luca Barbari, presidente dell’associazione “Porta Aperta”. Gli appuntamenti si concluderanno domenica 7 ottobre alle 10 con il dibattito “L’importanza del volontariato in carcere” con la partecipazione del fotografo Francesco Cocco e delle associazioni “Carcere città”, “Kalipé”, “Il carcere possibile Onlus”, “Movimento per il rinnovamento dello spirito”, “Csi” e “Uisp”. “Sulla mia pelle”, di Alessio Cremonini. Una visione necessaria di Federica Tourn articolo21.org, 13 settembre 2018 In principio era il corpo. E il corpo che si vede all’inizio del film di Alessio Cremonini “Sulla mia pelle” è quello di Stefano Cucchi, cadavere, nel reparto detenuti dell’ospedale Sandro Pertini di Roma, a una settimana dall’arresto, avvenuto il 15 ottobre 2009 per la detenzione di 20 grammi di sostanze stupefacenti. Un film importante, presentato in concorso alla sezione “Orizzonti” alla Mostra del Cinema di Venezia, diretto e recitato benissimo, senza un sbavatura, senza un cedimento alla retorica o all’autocompiacimento, un film sulla morte di Stefano Cucchi, che non santifica ma denuncia, senza uscire mai dai binari di quello che si sa dagli atti dei procedimenti giudiziari; un film che comincia dalla fine - peraltro risaputa - e che prova ad andare a ritroso scandendo gli accadimenti accertati, gli spostamenti, gli intoppi burocratici e infine il rapido declino del ragazzo in seguito alle ferite riportate e non adeguatamente curate. Si vede il calvario della famiglia, dei genitori che provano a far visita al figlio ma vengono sempre respinti per mancanza delle autorizzazioni necessarie; si vede la rabbia iniziale della sorella Ilaria, convinta che Stefano sia di nuovo dipendente dalla droga, tramutarsi in preoccupazione impotente; si vede soprattutto Stefano, che non parla di quello che gli è successo e rifiuta le cure. Quello che non si vede è il pestaggio in caserma che lo porterà in fin di vita, perché ancora manca la parola definitiva in giudizio (l’anno scorso il Gup del Tribunale di Roma ha disposto il rinvio a giudizio di tre carabinieri per omicidio preterintenzionale nell’ambito dell’inchiesta bis sulla morte, mentre il 19 aprile 2017 la Cassazione aveva annullato la sentenza che assolveva i cinque medici dell’ospedale Pertini, appena un giorno prima della prescrizione del reato) ma lo spettatore è comunque costretto ad assistere, impotente lui stesso, alla tortura fisica e psicologica che Stefano Cucchi subì in carcere a causa della violenza prima e dell’indifferenza poi. Quando entra a Regina Coeli, dopo la convalida dell’arresto, ha ecchimosi in volto e sulle gambe, lesioni al torace, la mascella e una vertebra rotta. Tutori dell’ordine, guardie, medici, infermieri, tutti se ne lavano le mani. Eppure quello che Cremonini ti schiaffa in faccia grazie anche alla splendida interpretazione di Alessandro Borghi, è che era impossibile non notare il corpo di un giovane uomo cedere e consumarsi ogni giorno di più fino alla morte. Ecco allora che il film è anche una Passione, che ancora una volta si consuma davanti alla cecità di chi passa di lì e dovrebbe accorgersi di cosa accade. Il corpo macilento di Cucchi, che a nessuno interessa, mentre i genitori bussano all’ingresso inconsapevoli e inascoltati, è una tortura per lo spettatore e ricorda che la sua morte è anche una responsabilità collettiva di cui dobbiamo farci carico. Come Cucchi, su cui il regista non ha uno sguardo indulgente ma lo rappresenta come un ragazzo fragile, ex tossicodipendente e dedito ancora allo spaccio di hashish e cocaina, altre centinaia di detenuti muoiono in carcere in Italia (quasi mille morti dal 2002 al 2012, soprattutto suicidi, ma la categoria “da accertare” riguarda il 19% dei casi, secondo i dati Ministero della Giustizia), in silenzio e senza clamore, magari perché non hanno avuto in sorte una famiglia con la capacità di battersi per loro, ma non per questo meno degni di essere difesi in uno Stato di diritto. Cremonini riesce a dire proprio questo: non è che Cucchi doveva essere risparmiato perché alla fine era un bravo ragazzo un po’ debole; semplicemente Cucchi non doveva subire violenza e indifferenza in una struttura carceraria. Come invece succede, ogni giorno. Il film inizia e finisce sulla stessa scena, il corpo esanime di Stefano Cucchi, perché è lì che dobbiamo tornare tutti. E se, a spulciare fra i commenti sui social, sono in molti a dire che non andranno a vederlo al cinema (o su Netflix, in distribuzione dal 12 settembre) perché sarebbe troppo penoso, io credo invece che essere costretti alla visione di che cosa significhi soffrire per i calci ricevuti - di come non si riesca a urinare, a girarsi sulla schiena, a dormire o a mangiare - sia il minimo che dobbiamo a una fine tanto ingiusta. Fa male vederlo? Anche questa è l’Italia, signore e signori: guardate. Suicidio assistito, in 600 hanno chiesto di morire come Dj Fabo di Caterina Pasolini La Repubblica, 13 settembre 2018 “Ma il parlamento a 5 anni dalla presentazione del disegno di legge sull’eutanasia non ha mai discusso” dice Cappato della Associazione Coscioni che domani incontra il presidente della Camera Fico. Manifestazione in piazza Montecitorio. Le storie di Laura e Luigi che vogliono andare in Svizzera. A ottobre un convegno sulle libertà. Laura ha cinquant’anni e una gravissima malattia neurodegenerativa che le ha ridotto giorno dopo giorno il suo spazio di vita a una sedia a rotelle. Reso i movimenti, i respiri sempre più faticosi fino a toglierle ogni autonomia. Per anni ha lottato, tenendo il segreto per non coinvolgere la famiglia, si è laureata, ha fatto l’avvocato. Ma ora, non ce la fa più “Rivoglio la mia dignità, voglio morire. Aiutatemi”. Laura è una delle duecento persone che ogni anno, 600 dal marzo 2015, chiedono informazioni, aiuto per ottenere l’eutanasia. Scrivono, chiamano l’Associazione Coscioni per essere indirizzati, aiutati ad andare a morire. In Svizzera. Perché in Italia, dove con 70mila firme nel 2013 è stata depositata una proposta di legge per la legalizzazione della “dolce morte”, in 5 anni il Parlamento non ne ha discusso neppure un minuto del diritto di scegliere come morire”, dice Marco Cappato, tesoriere della Coscioni. In Italia dopo anni di discussioni, dibattiti e polemiche sono state approvate le Dat, le disposizioni anticipate di trattamento nel dicembre del 2017. Prevedono che uno possa lasciar scritto, per quando non avrà il modo di comunicare, le sue scelte di cura. A quali terapie si vuole rinunciare, comprese idratazione e nutrizione. L’eutanasia non è prevista nel biotestamento ed è ancora oggi è illegale in Italia. “Perché venga messa all’ordine del giorno della Camera dei Deputati la discussione del ddl”, prosegue Cappato. Mentre poco prima una delegazione composta da Marco Cappato, Mina Welby, Carlo Troilo, Filomena Gallo, Marco Perduca e Marco Gentili incontrerà il Presidente della Camera Roberto Fico consegnandogli le 130.000 firme dei cittadini italiani a sostegno della proposta di legge di iniziativa popolare. Una raccolta di firme che prosegue, e continuerà sino a quando il parlamento non discuterà il ddl. Nel pomeriggio è convocato alla Camera l’intergruppo per le scelte di fine vita che conta 34 parlamentari impegnati nella richiesta di immediata discussione della legge popolare. “Vogliamo richiamare ciascun parlamentare a confrontarsi con la grande questione sociale che Marco Pannella definiva della “morte all’italiana”, cioè dell’eutanasia clandestina e dell’accanimento contro i malati - dichiara Cappato -. In attesa dell’udienza della Corte costituzionale sul processo a mio carico, vogliamo che ora anche il Parlamento si faccia vivo e discuta la nostra legge di iniziativa popolare”. “Abbiamo lasciato passare i primi 100 giorni di Governo, dice Filomena Gallo, segretario della Coscioni. Ora però è arrivato il momento anche di prendere in considerazione temi che tra l’altro sono stati sollevati attraverso lo strumento delle iniziative popolari. Siamo grati al Presidente della Camera per l’incontro concesso, perché l’attenzione del Parlamento alle iniziative popolari, di qualunque segno esse siano, è un fatto istituzionale prima ancora che una questione di parte”. Perché sono tanti gli italiani che vorrebbero andarsene senza dover buttarsi giù da una finestra di ospedale come il regista Mario Monicelli. Ma morire in pace, nel proprio letto, con gli amici, i parenti accanto. Cosi scrivono alla Coscioni o direttamente a Cappato, che è stato inquisito proprio per aver accompagnato in Svizzera Dj Fabo che, dopo anni di sofferenza per un incidente che lo aveva reso tetraplegico, non riteneva la sua vita più vivibile. Lettere che arrivano quasi ogni giorno - Laura scrive che quando da ragazzina ha scoperto la sua condanna ha taciuto: “Non volevo che la famiglia entrasse in una cappa di tristezza e disperazione. Decisi quindi di tenere questo segreto per me e quando cominciarono a vedersi le prime difficoltà avevo una serie di scuse pronte e quando iniziarono a diventare più pesanti dirottavo tutto sul fatto che probabilmente qualcosa non aveva funzionato durante l’intervento alla colonna vertebrale che avevo fatto molti anni prima. Passarono così gli anni, mi sono laureata. Lavoro ma ora è diventato davvero tutto difficile a livelli insopportabili. Ormai è difficilissimo anche stare seduta, scrivere alla tastiera del computer. Ogni anno che è passato da quel lontano giorno ha portato via un pezzo di me, dei miei sogni e della mia autonomia. In poche parole non hai più la sacrosanta libertà, libertà di scegliere, di andare, di fare, di essere. Ed ecco il motivo per cui la contatto. Dopo anni in cui ho lottato, stretto i denti e protetto chi mi stava vicino, ora voglio la libertà di scegliere! E voglio rivolgermi in Svizzera fino a quando avrò le forze nelle braccia per non dover da coinvolgere nessuno. Rivoglio la mia dignità. La ringrazio e sin dora mi scuso per il disturbo per le informazioni che vorrà darmi”. Lettere scritte da figli per i genitori malati - Come Luigi che scrive: “Dal capezzale di mio padre, che mi ha chiesto di farlo. Da mesi tra atroci sofferenze e in uno stato di assoluta lucidità, sta combattendo la sua ultima battaglia contro un carcinoma gastro esofageo. Ha creduto di poter domare la belva, così ha chiamato il suo male. Qualche ora fa, dopo due giorni di sofferenze tremende, con un filo di voce mi ha sussurrato: “Voglio morire, così non posso vivere. Chiama Marco Cappato”. So che non puoi fare niente perché la crudele ipocrisia di chi decide che in questo Paese non si può scegliere di morire con dignità, ti impedisce di aiutare mio padre, ma l’amore che mi lega a lui mi ha spinto a scriverti e diventare la sua voce”. Libertà ed eutanasia saranno anche protagonisti del XV Congresso mondiale per la libertà di ricerca scientifica, in programma dal 5 al 7 ottobre a Milano all’Università degli Studi di Milano, col titolo “Le libertà in persona”. Al centro della tre giorni ci saranno temi della libertà di ricerca, che coinvolgono genoma, stupefacenti, staminali, biotecnologie, aborto, disabilità, intelligenza artificiale, eutanasia, laicità. L’emigrazione? Bloccarla non aiuta di Danilo Taino Corriere della Sera, 13 settembre 2018 Secondo gli studiosi Clemens e Postel, occorrono politiche non tanto tese a fermare i flussi (a loro avviso non funzionano) ma a gestirli al meglio sia per i Paesi di partenza sia per quelli di accoglienza. Prima o poi, la discussione sull’emigrazione dall’Africa verso l’Europa dovrà fare qualche salto di qualità sostanziale. Se il dibattito molto politico sulle responsabilità dei Paesi della Ue ad affrontare la questione è importante, non meno lo può essere una visione di lungo periodo. Perché sarà un problema di lungo periodo. A stabilirlo è, semplicemente, la demografia: le stime più prudenti indicano che tra ora e il 2050 nell’Africa Subsahariana entreranno nel mercato del lavoro 800 milioni di persone. Non è solo altamente improbabile che trovino occupazione. Succede anche che il modello che si è affermato o si sta affermando in questi Paesi a lento sviluppo è basato proprio sull’immigrazione: come speranza di emancipazione individuale e come sostegno alle famiglie rimaste attraverso le rimesse. La pressione sarà dunque continua e quasi certamente crescente. Certo è che però in Europa non è chiaro come affrontare la crisi. Una delle idee è quella di “aiutarli a casa loro”. In questa rubrica (lo scorso 14 febbraio) si è già dato conto di una tendenza che fa vacillare questa ipotesi. Uno studio effettuato da Michael Clemens e Hannah Postel per il Center for Global Development di Washington ha notato la cosiddetta “gobba della migrazione”: a reddito pro capite basso, sotto i 2000 dollari (a parità di potere d’acquisto), pochi emigrano; a quel punto, però, il flusso in uscita da un Paese che sta migliorando i propri redditi cresce e continua a crescere fino agli 8-10 mila dollari; solo dopo cala. Ai ritmi di sviluppo attuali, i flussi migratori inizierebbero a diminuire nel 2198; se la crescita triplicasse, nel 2067. Questa tendenza è stata rivista da Mauro Lanati e Rainer Thiele per lo European University Institute di Firenze usando procedure diverse: con il risultato di mettere in dubbio la radicalità di quei risultati e di stabilire che forme di aiuto possono avere esiti positivi nel limitare le emigrazioni. In entrambi i casi, però, gli autori sottolineano l’importanza per i Paesi europei di sviluppare politiche che studino i meccanismi di trasmissione tra aiuti e migrazione. Soprattutto, indicano Clemens e Postel, occorrono politiche non tanto tese a fermare i flussi (a loro avviso non funzionano) ma a gestirli al meglio sia per i Paesi di partenza sia per quelli di accoglienza. Che fosse un problema molto complesso lo immaginavamo. Stati Uniti. Violenza delle armi da fuoco “una crisi dei diritti umani” di Riccardo Noury Corriere della Sera, 13 settembre 2018 Il governo statunitense ha permesso alla violenza delle armi da fuoco di diventare una crisi dei diritti umani: è questa l’accusa contenuta nel rapporto “Sulla linea di fuoco: diritti umani e la crisi della violenza delle armi da fuoco negli Usa”, pubblicato oggi da Amnesty International. Il rapporto descrive come praticamente tutti gli aspetti della vita americana siano minacciati in qualche modo dall’incontrastato accesso alle armi da fuoco, in assenza di qualsiasi seria regolamentazione a livello nazionale. “La possibilità di vivere giorno per giorno in condizioni di sicurezza e dignità, liberi dalla paura, è un caposaldo dei diritti umani. Nessuno potrà considerare i suoi diritti umani al sicuro fino a quando i nostri leader continueranno a non fare nulla nei confronti della violenza delle armi da fuoco”, ha commentato Margaret Huang, direttrice generale di Amnesty International Usa. Nel 2016, l’ultimo anno per il quale vi sono statistiche a disposizione, oltre 38.000 persone sono morte e 116.000 hanno riportato ferite non letali negli Usa a seguito dell’uso delle armi da fuoco. È importante sottolineare che episodi pur gravissimi come le sparatorie di massa - peraltro facilmente prevenibili grazie a un bando sui fucili d’assalto e sulle armi da fuoco ad elevata capacità - causano neanche l’uno per cento delle vittime. Più comuni e assai meno pubblicizzati sono i casi individuali che dominano la vita quotidiana di milioni e milioni di americani. Il rapporto di Amnesty International esamina in che modo la violenza delle armi colpisce le comunità di colore, dove la violenza delle armi è la causa principale della morte di adulti e ragazzi tra i 15 e i 34 anni, che hanno una probabilità di essere uccisi da un’arma da fuoco 20 volte superiore a quella delle loro controparti bianche. Tra i gruppi colpiti in modo sproporzionato vi sono le donne che subiscono violenza domestica e i bambini. A differenza della maggior parte dei paesi in cui sono in vigore normative sulla licenza di possedere e usare armi da fuoco, negli Usa manca un registro federale e 30 stati della federazione consentono di possedere armi da fuoco senza necessità di una licenza o di un permesso. Il rapporto illustra inoltre le conseguenze cui vanno incontro le migliaia di persone che sopravvivono alla violenza delle armi da fuoco. In media ogni giorno le armi da fuoco feriscono 317 persone. L’impatto emotivo, fisico ed economico del loro ferimento permea la loro vita per sempre. Si tratta di una crisi della sanità pubblica di dimensioni incredibili e il governo fa veramente poco per lenire gli effetti lasciati in modo permanente su molti sopravvissuti alla violenza delle armi da fuoco. Il rapporto offre molte raccomandazioni specifiche a seconda delle varie problematiche, ma la richiesta principale è quella di adottare leggi a livello federale che eliminerebbero quell’insieme di norme inadeguate e arbitrarie a livello statale che rendono le persone più o meno vulnerabili alla violenza delle armi da fuoco a seconda dello stato in cui vivono. Oltre a monitorare l’attuazione delle raccomandazioni a livello federale e statale suggerite nel suo rapporto, Amnesty International lavorerà con una serie di partner locali a livello di singoli stati, a partire da iniziative in programma in Ohio, Illinois e Michigan. In Illinois, i soci di Amnesty International solleciteranno il governatore a far passare la Legge per il contrasto al traffico illegale di armi, che contribuirebbe a interrompere il giro illegale di armi e vieterebbe l’apertura di negozi di vendita delle armi nei pressi delle scuole e degli ospedali. In Ohio, gli attivisti s’impegneranno a fermare una proposta di legge che, se approvata, faciliterebbe i confronti violenti con le armi da fuoco. In Michigan, ci s’impegnerà per l’approvazione di una legge che consentirebbe alle famiglie di prendere misure per impedire ai loro parenti di fare danno a sé stessi o a terzi. Altre campagne chiederanno a sindaci e governatori di investire all’interno delle comunità finanziando in modo adeguato programmi basati sulla ricerca delle soluzioni, che hanno dimostrato di essere i più efficaci interventi per ridurre la violenza delle armi da fuoco nei centri urbani in tutti gli Usa. Francia. Con il nuovo piano penitenziario 8mila detenuti in meno nelle carceri Nova, 13 settembre 2018 Il nuovo piano penitenziario riuscirà a far calare la popolazione carceraria in Francia di 8mila persone grazie a una ridefinizione delle pene. Lo ha affermato il ministro della Giustizia, Nicole Belloubet, in un’intervista rilasciata al quotidiano francese “Les Echos”. Il piano verrà presentato oggi dal governo. “La legge permetterà di spostare di qualche giorno la data di inizio detenzione di un condannato in uno stabilimento sovrappopolato. “Alcune persone arrivate al termine della pena sono autorizzate ad uscire alcuni giorni prima, a condizione che si presentino tutte e garanzie necessarie” ha affermato il ministro. Belloubet ha poi sottolineato la necessità di “diversificare” il parco delle prigioni affinché si adattino meglio ai differenti regimi di detenzione. Marocco. Svolta (a metà), la violenza sulle donne è reato di Chiara Cruciati Il Manifesto, 13 settembre 2018 Entra in vigore la legge approvata a febbraio. Ma per i movimenti femministi è debole. Carcere per abusi domestici e matrimoni forzati, ma non rifugi sicuri per chi denuncia. Da ieri in Marocco le violenze contro le donne sono un reato penale. Anni di mobilitazione delle organizzazioni delle donne sono riusciti ad archiviare un risultato storico, sebbene alcuni giudichino la nuova legge ancora troppo debole. Approvata a febbraio dal parlamento di Rabat, non senza difficoltà tra un passaggio e l’altro tra le camere e a ben dodici anni dalla prima lettura (all’epoca votarono a favore 83 deputati contro 22), la legge Hakkaoui - dal nome della ministra della Famiglia che l’ha proposta - inasprisce e in alcuni casi introduce per la prima volta pene da un mese a cinque anni e multe da 200 a mille dollari per stupro, violenze domestiche, matrimoni forzati, molestie sessuali o via web. Un passo avanti in un paese scosso ad agosto da una disumana brutalità: una gang di 15 uomini, tutti giovani tra 18 e 27 anni, ha tenuto prigioniera per due mesi la 17enne Khadija. Due mesi di inferno: è stata torturata, picchiata, stuprata, marchiata con un numero indefinito di tatuaggi (disegni, nomi, addirittura una svastica). Fino alla “liberazione” in cambio del silenzio. Khadija non è stata zitta, però: è andata in tv a mostrare il suo corpo devastato, marchiato come fosse proprietà di qualcun altro. Tanto forte è stato lo choc che la società marocchina si è mobilitata con manifestazioni e raccolte firme per chiedere giustizia. Il Marocco e le sue donne combattono da tempo contro le violenze di genere, spesso trasformate - come avvenuto anche in Egitto, negli anni caldi della rivoluzione, e nella vicina Tunisia - in strumento di limitazione della partecipazione femminile alla vita politica, economica e sociale del paese. Nel 2009 lo Stato promosse un sondaggio che evidenziò una dinamica strutturale: il 62,8% delle donne tra i 18 e i 65 anni aveva dichiarato di aver subito abusi di tipo sessuale, psicologico, fisico o economico; il 55% di essere stata vittima del partner, il 13,5% di un familiare. Ieri le battaglie nelle piazze, le campagne in rete, le pressioni sui partiti politici si sono tradotte in una prima vittoria. Perché la legge non è completa: non riconosce lo stupro commesso dal marito né definisce con precisione la violenza domestica. E soprattutto non prevede sostegno legale o finanziario alle donne che denunciano. Insomma, lo Stato condanna ma poi non fornisce i servizi necessari a sostenere la vittima, quali rifugi sicuri e denaro, misure fondamentali in una società che si porta ancora dietro il peso di pratiche tradizionali patriarcali e, come accade anche dall’altra parte del Mediterraneo, con il trasferimento della colpa dall’aggressore alla vittima. Se in molti dei 1.600 stupri denunciati nel 2017 (il doppio rispetto al 2016), la donna ha avuto il sostegno della famiglia, questo può venire meno nelle zone rurali e più marginalizzate, dove una denuncia può tradursi nell’isolamento e nella perdita della propria rete di affetti. Una realtà raccontata dal film Beauty and the Dogs, della regista Kaouther Ben Hania, ambientato in Tunisia ma universalmente applicabile al Nord Africa post-primavere. È la storia di Mariam, studentessa universitaria violentata da un gruppo di poliziotti, e del suo viaggio all’interno di una burocrazia patriarcale e misogina che la rivoluzione non ha ancora sradicato. Ma che le donne continuano a combattere, passo dopo passo.