Sostegno a Ristretti Orizzonti asspantagruel.org, 12 settembre 2018 Le sottoscritte associazioni, letto l’articolo a firma di Ornella Favero in merito alla situazione intervenuta di Ristretti Orizzonti, esprimono grande preoccupazione per le notizie che giungono dal carcere di Padova, ove è in atto un’operazione avversa a Ristretti Orizzonti. È un’operazione intesa al ridimensionamento delle sue attività in quel carcere e in quella città, universalmente riconosciute preziosissime per avere saputo aprire, appunto, il carcere alla città, e in particolare al mondo della scuola e degli studenti, e per l’impegno volto a promuovere la responsabilizzazione dei detenuti, condizione indispensabile per una loro reintegrazione nella società. Anche importantissima è la rassegna stampa quotidiana e la documentazione offerta dal periodico di informazione e dal sito, materiale preziosissimo che viene utilizzato da tutte le realtà che si occupano del carcere, anche per organizzare attività nelle scuole e per contribuire alla formazione del volontariato in carcere. Per tutte queste ragioni, le sottoscritte associazioni invitano il vasto mondo del volontariato, enti ed associazioni sensibili alla necessità di una restituzione della condizione carceraria alla sua finalità costituzionale, a sostenere Ristretti Orizzonti, aderendo anche alla campagna di abbonamenti al periodico di informazione per salvaguardarne la sopravvivenza. Associazione Pantagruel; Caritas Firenze; Cooperativa Ulisse; Associazione Liberarsi; Associazione CIAO; Susanna Enriques e Renzo Ottaviani, Ministri di culto della chiesa Evangelica Battista; Associazione Ebenezer; Casa del Melograno; Coordinamento Toscano Marginalità; C.A.T. Cooperativa Sociale; Centro Sociale Evangelico di Firenze; Cooperativa Sociale Intessere (progetto “Incontrarsi dentro”); Associazione Volontariato Penitenziario - AVP onlus Firenze; Associazione L’Altro Diritto; Conferenza regionale volontariato giustizia; Cooperativa Sociale San Martino; Cooperativa sociale San Pietro a Sollicciano; Comunità delle Piagge/Ass.Il Muretto. Riforma penitenziaria. La giustizia riparativa si blocca al Senato di Enrico Bronzo Il Sole 24 Ore, 12 settembre 2018 Bocciato l’incontro tra la vittima e l’autore del reato con l’aiuto del mediatore. La commissione Giustizia del Senato ha espresso parere negativo sullo schema di decreto legislativo della riforma dell’ordinamento penitenziario riguardante la giustizia riparativa. Si tratta di uno dei quattro schemi di decreto legislativo trasmessi alle Camere lo scorso 21 maggio dal governo Gentiloni per chiedere l’espressione del parere, in attuazione della delega per la riforma dell’ordinamento penitenziario, contenuta nella legge 103/2017. Il provvedimento, che intende inserirsi in un quadro normativo in cui la posizione della vittima assumerebbe un ruolo sempre più centrale, fornisce oltre alla nozione di giustizia riparativa, la disciplina dei presupposti dell’attività, l’oggetto e l’esito dei relativi programmi nonché gli obblighi di formazione dei mediatori. L’obiettivo della riforma consisterebbe quindi non nel punire il reo, bensì quello di rimuovere le conseguenze del reato attraverso l’incontro tra vittima e l’autore del reato con l’assistenza di un mediatore, terzo e imparziale, che si occuperebbe di gestire la ricomposizione del conflitto. A questo punto lo schema bocciato del Dlgs non sarà più trasmesso al Consiglio dei ministri per l’approvazione finale ma dovrà essere riscritto. Le fake news del carcere italiano che nessuno può smentire di Sandra Berardi* agoravox.it, 12 settembre 2018 Negli ultimi anni sembrano essersi moltiplicati gli episodi di aggressioni nelle carceri ai danni del personale di polizia penitenziaria. Nell’ultimo anno, in particolare, non passa giorno senza che esca un comunicato a firma di un qualche sindacato di polizia penitenziaria in cui vengono denunciate violenze e aggressioni ai danni degli agenti o, addirittura, tentativi di rivolte dei detenuti. E altrettanto spesso notiamo che le notizie relative a questi episodi vengono salutate entusiasticamente da molti attivisti e rimbalzate sui social, sicuramente in buona fede, quasi ci trovassimo in altra epoca storica e gli articoli fossero volantini ciclostilati narranti conflitti reali. Il leit motiv di quasi tutti gli articoli che quotidianamente leggiamo, veri o falsi che siano, verte su alcuni aspetti particolari come la sorveglianza dinamica, i detenuti stranieri, il rischio radicalizzazione e la riapertura di Pianosa e l’Asinara. “La spirale di violenza nelle carceri (..) continua senza tregua, la ormai cronica carenza degli organici di Polizia Penitenziaria, ad xxx come altrove, espongono a gravi rischi l’incolumità degli Agenti, per non parlare della sorveglianza dinamica con conseguente apertura indiscriminata dei detenuti che ha fatto lievitare il numero degli eventi critici nelle carceri”. Oppure: “Una rissa tra carcerati, così violenta che sono rimasti feriti due agenti della polizia penitenziaria. Un fatto grave, secondo il segretario regionale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria (il Sappe), Alfonso Greco: “Detenuti italiani e stranieri si sono picchiati con violenza (….)”. Così, invece, Donato Capece (Sindacato autonomo polizia penitenziaria, Sappe): “Negli ultimi dieci anni c’è stata un’impennata dei detenuti stranieri nelle carceri italiane, passati a oltre 20mila presenze. Sollecitiamo il Governo e il Ministro della Giustizia su questa situazione critica. Far scontare agli immigrati condannati da un tribunale italiano con una sentenza irrevocabile la pena nelle carceri dei Paesi d’origine può essere un forte deterrente nei confronti degli stranieri che delinquono in Italia. (…) E credo si debba iniziare a ragionare di riaprire le carceri dismesse, come l’Asinara e Pianosa, dove contenere quei ristretti che si rendono protagonisti di gravi eventi critici durante la detenzione”. Questi sono solo alcuni recenti esempi, ma basta aprire un qualsiasi motore di ricerca ed inserire come chiave di ricerca le parole “aggressione carcere” per poter leggere la quantità e la qualità di agenzie che ogni giorno vengono battute. Tra i siti ricorrenti spiccano quello del Sappe, della Polizia penitenziaria, di Fratelli d’Italia con un Cirielli in gran rispolvero (ricordate? Quello della ex-Cirielli che raddoppiava la pena sulle recidive) e infine gli hastag della lega #ciminalingalera e #bastaclandestini che campeggiano in post inneggianti forche e galere per tutti e in presidi di solidarietà alla bistrattata polizia penitenziaria. La diramazione serrata di comunicati di questo tenore inizia all’indomani dell’introduzione della cd “sorveglianza dinamica”, misura obbligata dalle numerose raccomandazioni del CPT, dalle Regole penitenziarie europee e dalle sentenze di condanna verso l’Italia da parte della Corte europea per trattamenti inumani e degradanti che si perpetravano (e si perpetrano ancora oggi) ai danni dei prigionieri in Italia. Con la circolare Pu-GDap-1a00-29/01/2013-0036997-2013, il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, realizzava i “circuiti regionale ex art. 115” in base al d.p.r. 30 giugno 2000 n. 230 con cui assumeva “l’impegno ineludibile, considerate anche le ricorrenti pronunce della Corte di Strasburgo di condanna dell’Italia per trattamento inumano e/o degradante”. Questi alcuni punti descriventi la sorveglianza dinamica che prevedono l’introduzione graduale in tutte le carceri ma, di fatto fermatasi ad alcune sezioni di pochi istituti: 4.2. - L’adozione in taluni istituti, o sezioni di esso, del cd. “regime aperto”, non può significare che nelle rimanenti strutture, in particolar modo in quelle a Media Sicurezza, si possa ammettere, all’inverso, un “regime chiuso”, intendendo, con questo, una contrazione degli spazi e dei momenti di socialità della popolazione detenuta. 4.3. - II trattamento nelle sue diverse accezioni va rafforzato in tutti gli istituti sviluppando una diversa, e più ampia, articolazione e utilizzazione degli spazi ove concentrare le attività indicate dall’art. 16 reg.to esecuzione 230/2000 (o anche i servizi quali i locali mensa ex art.13 e. 3 stesso regolamento) di modo che i detenuti vi possano trascorrere una parte via via maggiore della giornata così da agevolare non solo l’intervento delle professionalità dell’area pedagogica e della società esterna, ma anche il controllo da parte della polizia penitenziaria. 4.4. - L’asserita carenza di personale, che ove riconosciuta valutando la tipologia dell’istituto e la forza presente si cercherà di limitare con le future assegnazioni, non può essere considerata motivo per procrastinare l’apertura dei reparti o per limitare le attività trattamentali. Ma prima ancora, già in fase di elaborazione, le resistenze da parte dei sindacati di polizia penitenziaria si fecero pressanti tant’è che nel 2011, Massimo de Pascalis (all’epoca direttore dell’ISSP-DAP) in una lettera aperta indirizzata all’allora segretario della UIL penitenziaria, ne spiegava la natura insistendo su uno dei principi cardine dei regimi aperti: liberare la custodia dall’ossessione del controllo. “Sorveglianza dinamica” quindi significa recuperare il senso “della conoscenza del detenuto” secondo la volontà del legislatore del 1975 ed eliminare perciò tutte le procedure che la prassi ha fatto consolidare intorno ad un’esigenza deviata: il “controllo assoluto del detenuto”. La sorveglianza dinamica richiede, pertanto, interventi correttivi sul piano organizzativo e gestionale dell’area della sicurezza per creare strumenti utili ai processi di conoscenza e, in tal modo, qualificare meglio i compiti istituzionali della polizia penitenziaria, a beneficio della sicurezza ma anche del trattamento. E, tra questi, anche la custodia può essere finalizzata e partecipe di quei processi, se liberata dall’ossessione del controllo assoluto della persona”. Con il “regime aperto” si contrappone al controllo totale del detenuto la conoscenza della persona detenuta cercando di dare dignità pedagogica alla funzione del poliziotto penitenziario prima di quella di mero controllore. Ma è esattamente questo il principio che le forze di polizia penitenziaria avversano registrando il “dover liberare la loro funzione dall’ossessione del controllo assoluto sulla vita dei prigionieri” come perdita di potere. Il “regime aperto” quindi come perdita di potere da una parte, la loro e, di contro, acquisizione di diritti e, di conseguenza, potere, da parte dei detenuti. Una vera e propria débâcle dal loro punto di vista. Oggi i sindacati penitenziari rivendicano orgogliosamente di aver contribuito alla scrittura del contratto di governo tra Lega e M5S incentrata sull’ossessione del controllo assoluto e sulla chiusura di tutti gli spazi di confronto e crescita dati dalla presenza del volontariato. Tornare al pugno di ferro, agli anni (bui) di Pianosa e l’Asinara, avere, finalmente, le “mani libere” sono i desideri espliciti di buona parte della polizia penitenziaria. Ma per legittimare le ossessioni bisogna creare le condizioni ideali, bisogna creare l’emergenza ad uso e consumo dell’obiettivo dato. In un sistema chiuso e pressoché impenetrabile qual è il carcere, diventa gioco facile costruire notizie e allarme: nessuno può smentire. I detenuti in quanto tali non sono degni di esser creduti e altrettanto i familiari, i (pochi) volontari sono obbligati all’omertà, pena revoca dell’autorizzazione. La Magistratura di Sorveglianza, che pure dovrebbe garantire la correttezza dell’esecuzione penale (e se così fosse, verrebbe meno anche la necessità dei garanti), ha pressoché rinunciato alle proprie funzioni e poteri riducendo il proprio ruolo a firma-carte. Chi resta? I garanti? Ma anche loro, nonostante il lavoro encomiabile, rispetto ai dati delle emergenze reali nelle carceri (sovraffollamento, malasanità, malagiustizia in primis), arrivano a monitorare solo una parte delle strutture e solo per il tempo limitato della visita o, ancora, solo a posteriori nel caso di suicidi o eventi critici. I parlamentari? Questi sconosciuti che avrebbero il diritto/dovere di ispezionare le carceri a sorpresa ma non lo esercitano e nel migliore dei casi si limitano a mere visite di cortesia preannunciate e pilotate. Unica eccezione, attualmente, l’europarlamentare Eleonora Forenza. Nei primi giorni dell’attuale governo circolava finanche la proposta di revoca del potere ispettivo delle carceri per i parlamentari. Il paradigma securitario e totalizzante costruito negli ultimi 30 anni attorno ad “emergenze” vere, presunte e/o pilotate, ha via via affinato sempre più gli strumenti di controllo penale della società fino a modellarli aprioristicamente in base alle contingenze storiche e socio-economiche, anche attraverso campagne mediatiche mirate a tracciare il profilo del “nemico” sociale di turno che, quasi sempre, finisce col creare la stigmatizzazione di uno specifico gruppo sociale, dei modus operandi a questo destinati e dei risultati attesi. Tale dispositivo è ben visibile, e raffrontabile, tanto sul piano penale che su quello dell’accoglienza. Su entrambi i piani i media focalizzano l’attenzione su numeri “emergenziali” dei fenomeni criminali e migratori, mentre i dati statistici smentiscono nettamente le emergenze propagandate salvo, appunto, enfatizzare singoli episodi eclatanti; la mostrificazione del “regime aperto” e delle misure alternative nelle carceri e dell’accoglienza dei profughi attraverso campagne disinformative serrate tese a dimostrare il fallimento e la pericolosità di questi modus operandi da “buonisti”, nonostante i risultati straordinariamente positivi ottenuti presso altre, a questo punto, civiltà avanzate. Per quanto riguarda i risultati attesi dal sistema penale e di accoglienza, se fino a qualche anno fa un certo garantismo ne caratterizzava i presupposti, almeno sulla carta e parzialmente nell’esecuzione, oggi si punta all’abolizione tout court del soggetto in quanto portatore di diritti e destinatario di azioni tese a garantirne una effettiva (ri) socializzazione e/o integrazione. Le parole d’ordine che oggi ruotano insistentemente attorno alla detenzione e all’accoglienza sono “certezza della pena/pena sempre certa” (andando a mistificare quanto già di fatto avviene) e “tolleranza zero/basta sbarchi”. L’introduzione del taser nelle città e nelle carceri, così come l’introduzione del reato di legittima difesa/difesa sempre legittima o, ancora, la volontà di cancellare la “bufala” del reato di tortura e l’introduzione dei sistemi di controllo nelle scuole, vengono qua solamente annotate sebbene parte integrante dello Stato penale che stanno costruendo i mercanti della (in) sicurezza. Infine viene invocata l’Europa con la medesima formula a “casa loro”, in merito all’accoglienza e alla costruzione di nuove carceri: se l’Italia continuerà ad essere costretta ad accettare i vincoli normativi europei e le sentenze di condanna emesse da Strasburgo per le continue violazioni dei diritti umani anche, e soprattutto, in materia penitenziaria si potrebbe assistere ad una sorta di Brexit giuridica e liberarsi una volta per tutte dal fardello del diritto internazionale. La costruzione della comunicazione, oggi più che mai, mira quindi all’eliminazione di alcuni modus operandi penitenziari primo, fra tutti il “regime aperto”, con tutto il portato di apertura delle celle e al territorio che, per i cultori dell’istituzione totale, nell’era della certezza della pena esclusivamente carceraria, rappresenta un pericoloso occhio critico di controllo del controllore. Da questa riflessione l’invito ad evitare di enfatizzare notizie di rivolte o aggressioni in quanto costruite con l’unico obiettivo di occultare sempre più il carcere, e l’umanità che vi è rinchiusa, alla società “libera”. Processo questo iniziato con l’abolizione delle esecuzioni in pubblica piazza sul finire del ‘700 perché la “spettacolarizzazione” della morte, in una società che mutava rapidamente, poneva lo spettatore quasi in empatia con il condannato, ed arrivato ai giorni nostri dove le carceri vengono costruite nelle periferie, la pena di morte è stata trasformata nella più discreta pena fino alla morte e l’applicabilità del regime di isolamento, da cui ne deriva l’esclusione totale da qualsiasi contatto umano, viene estesa anche ai minori. *Associazione Yairaiha Onlus Ora tocca alla prescrizione: “Stop dopo il primo grado” di Errico Novi Il Dubbio, 12 settembre 2018 L’uno-due di Bonafede: il ministro annuncia per dicembre un altro ddl da brividi. Era nell’aria. Era il convitato di pietra delle riforme sulla giustizia da settimane, ma ancor di più dopo il varo del ddl anticorrotti. Sulla prescrizione, ora il ministro Alfonso Bonafede assicura: “Presenterò il progetto di legge entro dicembre, il punto di partenza è quello di interromperla dopo la sentenza di condanna in primo grado”. Non si può parlare di fulmine a ciel sereno. Ma neppure di annuncio scontato. Bonafede esce dall’equivoco in diretta su Rai3, ad Agorà, nel pieno di un intervento su diversi temi: dalle polemiche, aspre, di parte della magistratura nei confronti di Matteo Salvini al richiamo dell’Onu sul razzismo, che “è totalmente infondato”. Ma quel breve passaggio sui termini di estinzione dei reati si staglia ben al di là dei temi di giornata, del mainstream dell’ultimo minuto. “Lo Stato ha fatto le indagini, ha iniziato un processo, è andato avanti, si è arrivati a una sentenza di condanna in primo grado e dopo finisce a tarallucci e vino, andiamo tutti a casa dicendo che non è successo nulla? Questo non è rispettoso dell’onestà e dei soldi degli italiani”. Non ci sono subordinate, nell’approccio del ministro al tema. L’intervento su uno dei principi di diritto sostanziale cruciali dell’ordinamento non è più condizionato al “rafforzamento degli organici”, come invece era sembrato nelle precedenti occasioni. Nella sua prima uscita dinanzi alle commissioni Giustizia di Camera e Senato, per esempio, quando sulla prescrizione Bonafede aveva scelto di “sospendere il giudizio” perché “del principio della ragionevole durata del processo deve farsi carico lo Stato, non devono pagarlo i cittadini”. Voleva dire: la prescrizione va sì bloccata dopo la condanna in primo grado ma a quel punto sarò lo Stato a evitare che la rimozione della ghigliottina temporale prolunghi il processo all’infinito. Intanto la mossa di quello che si conferma ogni giorno di più come uno dei ministri chiave dell’esecutivo va letta anche in riferimento al ddl anticorruzione. In particolare alla norma forse più discussa e controversa, il Daspo, che il presidente dell’Anm Francesco Minisci aveva definito addirittura “inutile”, visto che, con la spada di Damocle della prescrizione, quel tipo di pena accessoria non sarebbe arrivato quasi mai. Il vertice del “sindacato” dei giudici, il giorno dopo il via libera alla “legge Bonafede” in Consiglio dei ministri, aveva di fatto messo in mora il governo con un’intervista al Corriere della Sera zeppa di perplessità, ma segnata in particolare dal disappunto per la fragilità delle misure in vista dell’estinzione dei reati. A volerle leggere con banalità, le parole del ministro di Giustizia sembrerebbero venire incontro proprio alle sollecitazioni di Minisci. Ma non è così. Piuttosto sembra chiara la rimonta che i Cinque Stelle intendono compiere ai danni del socio leghista proprio grazie ai temi della giustizia. Dopo un’estate con pochi provvedimenti ma molti protagonismi di Salvini, il Movimento guidato da Di Maio sembra intenzionato a rifarsi con gli interessi. E sul terreno delle decisioni concrete. A cominciare dalla stretta su indagini e processi. Che ci sia un piglio fermo e una determinazione a indicare la linea, in campo giudiziario, è segnalato anche dal modo in cui il guardasigilli liquida la vicenda dei 49 milioni sequestrati al Carroccio: “Sono il ministro della Giustizia, non posso commentare un caso singolo attualmente al vaglio dei giudici: dico semplicemente che le sentenze vanno rispettate”. Parole severe tanto più che di ordinanza e non di sentenza definitiva si tratta. E però Bonafede bilancia la porta chiusa sulla questione sequestro con una sostanziale difesa di Salvini dagli attacchi di una corrente delle toghe, Magistratura democratica: quando ad Agorà gli ricordano che il gruppo progressista dei magistrati aveva riscontrato una “portata eversiva” nelle parole del vicepremier, il ministro della Giustizia replica: “La magistratura deve fare molta attenzione a non esporsi su temi politici che non riguardino strettamente la magistratura: non è questo il caso, ma chiedo rispetto dell’autonomia della magistratura e dell’autonomia della politica”. È quasi un modo per dire che l’ultima parola spetta alla forza di governo in netta rimonta sull’alleato lumbard. Bonafede e i Cinque Stelle hanno il vento che soffia nella loro direzione. Sicurezza che però tradisce il guardasigilli quando torna sul ddl anticorruzione e propone un discutibile stato d’eccezione per il contrasto al malaffare: “La riabilitazione può esserci rispetto a tutti gli altri settori della vita, ma non per chi ha avuto il privilegio di avere un appalto con la pubblica amministrazione e si è macchiato di un fatto grave come pagare una mazzetta”. Costui, per Bonafede, “non potrà più avere a che fare con la pubblica amministrazione, mi pare un principio sacrosanto”. Affermazione relativa al famigerato Daspo e non sorretta da presupposti granitici. Ma in questo momento i pentastellati paiono immuni da tutto. Anche sulla nazionalizzazione delle autostrade, e non solo, tema al quale Bonafede non si sottrae per ribadire che “si tratta di una strada in grado di garantire sicurezza a tutti i cittadini che viaggiano, e che permetterebbe al governo di prendersi la responsabilità del sistema infrastrutturale”. “L’odio non vinca: la legittima difesa non va cambiata” di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 12 settembre 2018 Cnf e Ocf in Commissione Giustizia. “Non c’è alcun bisogno di modificare la legittima difesa, facendosi travolgere dalle aspettative di chi ha fatto del linguaggio dell’odio il proprio credo. La norma attualmente in vigore va bene così”. È questo, in estrema sintesi, l’invito rivolto ieri mattina ai componenti della Commissione giustizia del Senato da parte del Consiglio nazione forense e dell’Organismo congressuale forense. L’avvocatura istituzionale era stata chiamata a dare un parere sui vari disegni di legge sulla riforma dell’art. 52 cp attualmente in discussione in Parlamento. Sono cinque i disegni di legge depositati: uno d’iniziativa popolare, due presentati da Forza Italia, uno dalla Lega ed uno da Fratelli d’Italia. L’interlocuzione preventiva è stata voluta dal presidente della Commissione, il leghista Andrea Ostellari. Oltre ai soggetti istituzionali, il dialogo si è esteso anche le vittime che, per aver reagito a forme di aggressioni, si sono viste accusate di eccesso nella legittima difesa subendo lunghi e complessi iter giudiziari. In rappresentanza degli avvocati Andrea Mascherin e Antonio Rosa, rispettivamente presidenti del Cnf e dell’Ocf, erano presenti gli avvocati Antonio De Michele e Alessandro Vaccaro. “L’attuale formulazione dell’art. 52 cp appare essere adeguata a bilanciare i contrapposti interessi, tra la difesa posta in essere da chi viene ingiustamente aggredito e il diritto alla vita e all’incolumità dell’aggressore”, hanno dichiarato De Michele e Vaccaro, secondo cui “non pare opportuno indulgere all’ampliamento delle facoltà di difesa da parte dell’aggredito al punto di negare il diritto fondamentale alla vita o all’integrità fisica dell’aggressore”. L’attuale impianto normativo, modificato nel 2006 durante il secondo governo Berlusconi, “garantisce in maniera piena chi reagisce e si difende da un’aggressione ingiusta” in quanto “si fonda su due paradigmi: l’attualità del pericolo e la proporzionalità della reazione rispetto all’offesa”. La riforma del 2006 ha poi introdotto nell’ordinamento la “presunzione di proporzione” nel caso del reato di violazione di domicilio. La modifica, in pratica, aveva già allargato le maglie della legittima difesa, introducendo una forma di autotutela non prevista e rendendo la reazione sempre proporzionata. “Il cittadino - con i dovuti paletti - può usare un’arma anche a difesa di un diritto patrimoniale”, hanno precisato quindi i due avvocati. Inoltre, “di fronte a questo quadro consolidato, le ipotesi di riforma proposte sono quasi tutte finalizzate ad eliminare con il requisito della proporzionalità tra offesa e difesa, anche la discrezionalità del magistrato nella valutazione della sussistenza della legittima difesa. Ampliare i margini di operatività della legittima difesa reca con sé il rischio di legittimare, nella prassi, l’immagine di un “cittadino-giustiziere”, chiamato a coadiuvare o al limite, sostituire, l’azione statuale di prevenzione e repressione dei reati”, hanno poi concluso i delegati del Cnf e dell’Ocf, prima di passare di evidenziare in dettaglio le varie criticità dei singoli articolati dei ddl. Come, ad esempio, la previsione dell’inserimento del furto in abitazione nel novero dei reati di cui all’art. 4 bis ordinamento penitenziario che esclude l’accesso alle misure alternative al carcere per i reati più gravi. Sul progetto di riforma della legittima difesa, oltre all’avvocatura, in questi mesi era intervenuta con giudizi molto critici anche l’accademia. L’Associazione italiana dei professori di diritto penale aveva espresso “profonda preoccupazione per i messaggi ingannevoli che sul tema si stanno diffondendo nell’opinione pubblica”. E la professoressa Angela Della Bella dell’Università statale di Milano, intervistata su questo giornale aveva avanzato il dubbio che una modifica del genere potesse superare il vaglio di costituzionalità. “La situazione attuale - aveva invece spiegato il presidente dell’Anm Francesco Minisci - è quella che tutela sia l’aggredito che l’aggressore, indicando parametri precisi in cui c’è legittima difesa. La norma proposta va nella direzione che legittima di sparare a chiunque. Starei attento e farei una riflessione seria: se togliamo la proporzionalità e non facciamo accertamenti rigorosi, c’è il rischio concreto di una giustizia fai da te”. “Non si esclude un intervento sulla legittima difesa per eliminare le zone d’ombra dell’attuale normativa in materia”, aveva dichiarato prima della pausa estiva il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede. Evidentemente consapevole che il percorso di riforma dell’art. 52 non si annuncia facile. “Si vedrà se un provvedimento per la revisione della materia avverrà attraverso progetti di origine parlamentare o iniziative legislative governative” aveva poi aggiunto, sollevando le ire dei promotori dei ddl citati. Baby gang e giustizia minorile, il Csm approva risoluzione all’unanimità Corriere del Mezzogiorno, 12 settembre 2018 I membri del Consiglio superiore della Magistratura si sono riuniti a Napoli per un Plenum straordinario. Cananzi: “Sarebbe bello se il ministro Salvini venisse a Napoli”. Il Consiglio Superiore della Magistratura si riunisce a Napoli, in Plenum straordinario nell’aula Arengario del Palazzo di Giustizia, per affrontare il nodo delle “baby gang” e della devianza giovanile in città. Al termine dell’incontro è stata approvata all’unanimità la risoluzione in materia di giustizia minorile proposta dai i consiglieri Balducci, Ardituro e Cananzi, membri della VI Commissione. Maggiore coordinamento tra le istituzioni e gli organi in vario modo preposti a contrastare il fenomeno, più impegno sul fronte della lotta alla dispersione scolastica, attraverso segnalazioni puntuali da parte dell’ufficio scolastico alla procura minorile. Il documento approvato sarà inviato ai presidenti del Senato e della Camera; al presidente della Commissione Parlamentare Antimafia, ai ministri della Giustizia e dell’Istruzione, alla Regione Campania, cui si chiede l’istituzione di un ufficio di coordinamento dei servizi socio-assistenziali dei minori, al Coni, al Procuratore Generale presso la Corte di Cassazione, ai Dirigenti degli Uffici giudiziari, al Procuratore Nazionale Antimafia. Il consigliere Ardituro ha sottolineato l’esigenza di abbandonare un certo “buonismo” perché “un ragazzo che delinque a 16 anni è consapevole di quello che sta facendo”. Da Francesco Cananzi è partito invece l’invito al ministro dell’Interno Matteo Salvini: “Sarebbe bello se venisse a Napoli”. I Verdi: ai boss vanno tolti i figli - “L’apertura del vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura, Giovanni Legnini, nei confronti dell’adozione della revoca della potestà genitoriale a camorristi e mafiosi, è un importante riconoscimento alla nostra battaglia che portiamo avanti da tempo per arginare il drammatico fenomeno delle baby gang. Anche i vertici della magistratura si stanno rendendo conto che l’unico modo per sottrarre linfa vitale alle organizzazioni mafiose è quello di impedire che trasmettano i codici di violenza, illegalità e sopraffazione ai loro figli. Con l’allontanamento di questi ultimi dalle famiglie d’origine otteniamo un duplice risultato: salviamo il futuro di questi ragazzi e indeboliamo i clan. Mi auguro che i tribunali dei minori recepiscano a pieno questa necessità”. Lo ha dichiarato il consigliere regionale dei Verdi, Francesco Emilio Borrelli, che ha presenziato al Plenum del Csm insieme al consigliere comunale del Sole che Ride e alcuni militanti e sostenitori della raccolta firme per la revoca della potestà genitoriale ai camorristi esponendo cartelli dentro e fuori il tribunale con su scritto: la camorra non cresce figli ma criminali. Stretta baby gang. Il Csm alle Camere: “arresti più facili” di Leandro Del Gaudio Il Mattino, 12 settembre 2018 Sull’abbassamento dell’età imputabile non c’è accordo. Ardituro: bisogna però ridimensionare l’approccio buonista. Passa all’unanimità la risoluzione sull’emergenza minori a Napoli. Un lungo applauso al termine del plenum straordinario del Consiglio superiore della magistratura in trasferta a Napoli, a chiudere un’istruttoria iniziata mesi fa, sotto i colpi di stese, agguati, omicidi di camorra, atti di bullismo o violenza fine a se stessa, consumati da minori. Ha spiegato il vicepresidente del Csm Giovanni Legnini, al termine dei lavori napoletani: “Se dopo questa iniziativa, salveremo un solo giovane saremo soddisfatti”. A partire da oggi il documento (frutto di una iniziativa del presidente della sesta commissione Paola Balducci e dei tre membri togati napoletani Antonelo Ardituro, Lucio Aschettino e Francesco Cananzi) sarà all’attenzione del capo dei presidenti di Camera e Senato, di vertici del governo e degli enti locali. Sala Arengario del Tribunale di Napoli, tocca ai consiglieri motivare un documento che punta ad incidere. Tutti insistono sulla necessità di superare la condizione di impunità che consente ai minori di sfuggire al carcere, anche dopo essersi macchiati di fatti gravissimi. Spiega il consigliere Ardituro: “Bisogna ridimensionare l’approccio buonista e garantire l’effettività della pena. Un giovane di 16 o 17 anni ha le idee chiare. Dobbiamo dire a questi ragazzi che hanno sempre la possibilità di scegliere. Chi è in condizioni disperate e sceglie il bene va tutelato, chi sceglie il male va sanzionato”. Insomma, il Csm chiede al Parlamento meno vincoli e meno discrezionalità negli arresti dei minori, a differenza di quanto accade oggi (mesi fa, il figlio di un boss di San Giovanni venne rilasciato su decisione di un magistrato dei minori, nonostante fosse armato e avesse opposto resistenza al termine di un lungo inseguimento). Ne è convinto anche il procuratore generale Luigi Riello: “Fermezza e recupero non sono termini configgenti ma si devono coniugare tra loro. Deve essere consentito l’arresto di un minorenne armato che consuma reati gravi”. Quanto alla possibilità di sospendere la potestà genitoriale, il pg Riello chiarisce: “Non si tratta di una deportazione di massa, ma di casi estremi, adottati in presenza di bambini messi a confezionare droga, a inalare stupefacenti. Così lo Stato interviene a salvarli non a punirli”. Parere favorevole sulla possibilità di introdurre modifiche normative per sanzionare con maggiore rigore anche i minori da parte del presidente di Corte di Appello Giuseppe De Carolis, che ricorda anche l’importanza della prevenzione, anzi, del lavoro di prevenzione condotto dalle istituzioni scolastiche sul territorio. Un tasto, quello della scuola, sul qual battono tutti gli interventi. Tocca a un altro napoletano, l’ex gip Francesco Cananzi motivare il documento ieri approvato dall’assemblea di Palazzo dei Marescialli: “Napoli ha bisogno dell’attenzione del ministro dell’interno Salvini perché la questione Napoli si riflette sul Paese. Noi siamo qui per dare un segno la delibera non riguarda solo Napoli ma tratta un’emergenza che riguarda anche Palermo, Bari, Milano, Torino, tutto il Paese”. Insomma, cambiare rotta, senza però affidarsi a scappatoie come potrebbe essere inteso l’abbassamento dell’età imputabile, facile slogan sfoderato in tempi di emergenza. Spiega Paola Balducci: “L’abbassamento dell’età imputabile? Non penso sia questo il problema. Ci sono molti miei colleghi che pensano che questa sia la soluzione migliore, io penso che occorra, con regole forti, con sanzioni forti, che il ragazzo rientri in società”. Tocca all’ex gip napoletano Lucio Aschettino passare in rassegna gli altri punti della risoluzione della sesta. E in questo senso che il magistrato ricorda l’importanza di valorizzare “la specializzazione dei colleghi magistrati impegnati sul fronte della devianza minorile”. Aula gremita, tra i posti riservati il procuratore di Napoli Gianni Melillo, che in questi mesi ha battuto sull’esigenza di un’azione in sinergia tra pm ordinari e pm dei minori, oltre ai vertici degli uffici giudiziari del distretto di Corte di appello di Napoli, a partire dalla procuratrice dei minori Maria De Luzemberger. In aula si scorgono le sagome dei tre nuovi consiglieri eletti al Csm (Ciambellini, Lepre, Suriano), oltre al consigliere laico, il veterano dei penalisti napoletani Michele Cerabona. Non mancano i vertici delle forze dell’ordine e di polizia giudiziaria, esponenti della chiesa e del volontariato, oltre a Maria Luisa Iavarone, madre di Arturo, lo studente brutalmente aggredito in via Foria lo scorso dicembre, che ha esposto un manifesto al fianco del consigliere regionale dei Verdi Francesco Borrelli: un manifesto di sostegno sull’importanza di togliere i figli ai camorristi, di fronte ai casi ritenuti irrecuperabili. Hanno chiuso i lavori i consiglieri Morgigni, Balduzzi e Morosini, che hanno insistito sulla necessità di impedire che un altro minore pronunci quella frase beffardo al cospetto delle forze dell’ordine: “Tanto a me che mi fai?”. Il “metodo Carminati” era mafia. In Appello sentenza ribaltata di Ilaria Sacchettoni Corriere della Sera, 12 settembre 2018 La mafia, intesa come capacità di intimidire, condizionare e imporre regole e decisioni, era anche nella capitale. Secondo la corte d’appello presieduta da Claudio Tortora (la stessa che un anno fa aveva negato la mafia del clan Fasciani ad Ostia, con un verdetto poi annullato dalla Cassazione) l’associazione capeggiata da Salvatore Buzzi e Massimo Carminati non era il semplice sodalizio fra un imprenditore che distribuiva tangenti e un ex Nar che recuperava crediti. Ma un’associazione capace di minacce e sopraffazioni grazie alla (considerevole) reputazione criminale di uno dei suoi sodali. Le armi? Nella ricostruzione dei magistrati Cascini, Ielo, Tescaroli e Prestipino c’erano anche quelle, ma in molti casi era sufficiente evocare la minaccia a imporre obbedienza. Le pene, tuttavia, sono state generalmente ribassate, probabilmente perché calcolate sulla base di quelle previste dalla legge precedentemente all’arresto degli imputati: così, per quanto possa sembrare paradossale, il “Nero” Carminati ha avuto 14 anni con l’accusa di mafia anziché i 20 inflitti in primo grado per corruzione, e Buzzi è sceso da 19 a 18. Rivive l’accusa di associazione mafiosa nei confronti dell’ex capogruppo di centrodestra Luca Gramazio, sia pure condannato a 8 anni e 8 mesi invece di undici, e nei confronti - fra gli altri - dell’ex compagna di Buzzi, Alessandra Garrone, della socia Emanuela Bugitti (ex terrorista rossa), dell’amico di Carminati Riccardo Brugia e di Matteo “spezzapollici” Calvio. Unica assoluzione piena, quella della segretaria di Buzzi, Nadia Cerrito che dice: “Il mio calvario finisce oggi: credevo di rischiare un’ispezione per evasione fiscale, mi hanno accusato di essere una mafiosa”. Era iniziata con una retata di 37 persone il 2 dicembre 2014. Era proseguita con altri 44 arresti a giugno 2015. Quindi il fenomeno di Mafia Capitale aveva tenuto banco con un ex sindaco (Gianni Alemanno) prosciolto dalla mafia ma finito a processo per corruzione, un alto funzionario di Stato (Luca Odevaine) condannato a 2 anni e 8 mesi di carcere e decine di funzionari alla sbarra per aver alimentato un sistema corruttivo che era entrato nel cuore dell’amministrazione capitolina. In primo grado i giudici avevano stabilito che il cosiddetto Mondo di Mezzo era solo un’associazione finalizzata alla corruzione e/o all’estorsione, ma non mafiosa, e adesso l’avvocato Alessandro Diddi, difensore di Buzzi, protesta: “Ribassate le pene dei funzionari pubblici? Questa sentenza preoccupa”. Duro anche il giudizio di Ippolita e Giosuè Naso, avvocati del “Nero”: “La mafia è un’invenzione della Procura”, mentre Carminati commenta: “Abbiamo fatto il possibile ma lo Stato è più forte”. “Oggi - dice il governatore del Lazio Nicola Zingaretti - si scrive una pagina nuova della storia della nostra città, mentre la sindaca Virginia Raggi, in aula, a caldo parla di “Città devastata da Mafia Capitale. Ora, avanti con il nostro lavoro”. È stato cambiato il reato di mafia, e adesso tutto può essere mafia di Massimo Bordin Il Foglio, 12 settembre 2018 Ci sarà tempo per valutare più analiticamente il dispositivo della sentenza pronunciata dalla Corte di appello che ha accolto il ricorso della procura romana sul processo Mafia Capitale, ma il cuore del problema, l’elemento che ha spostato il giudizio nel suo secondo grado sta probabilmente nell’analisi del fatto piuttosto che nella sistemazione degli elementi e dei precedenti in punto di diritto. Qui si era avvertito il lettore, all’inizio del processo d’Appello, che, dalla sentenza di primo grado, le cose in Cassazione erano mutate sul tema della utilizzabilità del reato di mafia per associazioni a delinquere attive anche lontano dai luoghi tradizionali dell’insediamento mafioso e non necessariamente connotate da pratiche esplicitamente violente. Più di una sentenza definitiva della Suprema Corte aveva convalidato decisioni di alcune Corti di appello, non solo romane, che avevano applicato estensivamente il famoso articolo 416 bis anche a piccole associazioni criminali, in più di un caso formate neppure da italiani. La giurisprudenza della Cassazione, insomma, si era mossa in controtendenza rispetto alla sentenza del tribunale su Carminati e soci. Naturalmente nella discussione il fenomeno è stato valorizzato dalla pubblica accusa e analizzato criticamente dalle difese, che hanno cercato di sganciarlo dal merito del processo romano. Qui arriviamo al punto vero che non è, o almeno non è solo, una dotta disquisizione giuridica, ma principalmente è l’interpretazione dei fatti processuali. In soldoni il giudice di primo grado, nelle motivazioni della sentenza, aveva fatto un discorso di questo tipo: “Cari pm, non ci avete convinto sull’associazione mafiosa perché, prima ancora dell’aggettivo, è il sostantivo singolare che non va. Doveva essere plurale, perché qui le associazioni a delinquere sono due. Hanno una persona in comune, Carminati, ma non basta secondo noi a unificarle e se sono divise sono due gruppi di associati che commettono reati magari anche gravi senza arrivare in nessuno dei due casi a rappresentarsi come fenomeni mafiosi”. Non si diceva esplicitamente che anche la procura in fondo la pensava così, ma alla fine l’interpretare come artificiosa l’unificazione operata dall’accusa alludeva proprio a questo. Siccome ogni processo è fatto di persone, di storie, di comportamenti e intrecci, per parlare con cognizione di causa di questa sentenza occorre davvero aspettare di leggere come la Corte di appello li ha interpretati e combinati per contraddire sul punto di fatto decisivo la sentenza di primo grado. Comunque dal dispositivo si capisce nitidamente anche un’ altra cosa. Il fatto che alcuni imputati, Carminati più di tutti, vedano ridotta la loro pena malgrado la condanna per una nuova imputazione, mostra come la sentenza di primo grado, pur non considerando la mafia, con gli imputati non era stata affatto tenera. Questa nuova sentenza sembra dire addirittura che aveva ecceduto. Buona condotta pesante. Vale più della gravità del reato commesso di Valerio Stroppa Italia Oggi, 12 settembre 2018 Per l’affidamento in prova ai servizi sociali la buona condotta mantenuta in carcere vale più della gravità del reato commesso. Pertanto il giudice non può negare il beneficio basandosi solo sull’entità degli illeciti, ma deve sempre tenere conto della “condotta successivamente serbata dal condannato”. Così la I sezione penale della Cassazione con la sentenza n. 40341/18 di ieri. Un uomo era stato condannato a due anni e otto mesi di reclusione per bancarotta fraudolenta. L’imprenditore si era dichiarato incapiente e non era stato in grado di ricostituire il capitale distratto, versando un contributo simbolico di 1.500 euro. Tuttavia, aveva svolto nell’istituto penitenziario attività di volontariato. Il tribunale di sorveglianza capitolino aveva respinto in due occasioni l’istanza di pena alternativa “per mancanza di prova di qualsiasi risarcimento, per l’assenza di revisione critica e per l’inadeguatezza del lavoro volontario prospettato”. Secondo la Suprema corte, però, tali elementi non sono sufficienti a bocciare in automatico la richiesta, poiché “è indispensabile l’esame anche dei comportamenti attuali del condannato”. In tale ottica, rilevanza particolare viene assunta dalle relazioni provenienti dagli organi deputati all’osservazione del detenuto. Il tribunale ha dato eccessiva importanza al prima, cioè al reato di bancarotta e all’omessa ricostituzione del patrimonio, senza però compiere la “contestuale ed effettiva valutazione” del dopo, che assume “non meno importanza” per capire se il soggetto “ha maturato la sufficiente consapevolezza della necessità di rispettare le leggi penali e di ispirare la propria condotta al rispetto dei doveri inderogabili di solidarietà”. Da qui l’annullamento dell’ordinanza impugnata. Concordato con continuità sempre rilevante penalmente di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 12 settembre 2018 Corte di cassazione, Quinta sezione penale, sentenza 3 settembre 2018 n. 39517. Il reato previsto in materia di concordato preventivo e accordo di ristrutturazione del debito vale anche nel caso di concordato con continuità aziendale. Lo chiarisce la Corte di cassazione con la sentenza n. 39517 della Quinta sezione penale. La pronuncia sterilizza così gli effetti delle modifiche effettuate nel 2012 sulla legge fallimentare con l’innesto dell’articolo 186 bis. Una modifica che, nella interpretazione della Cassazione, va letta correttamente come la semplice previsione in dettaglio di benefici speciali collegati all’istituto del concordato con continuità aziendale. Fattispecie peraltro quest’ultima già prevista tra le varie articolazioni dell’istituto del concordato preventivo. È vero che la norma penale non fa un esplicito richiamo al concordato con continuità aziendale, ma non si tratta dell’espressione della volontà del legislatore di procedere a una sorta di esenzione penale per condotte anche gravi consumate prima o attraverso la procedura. Sarebbe infatti del tutto “irragionevole ritagliare una pretesa area di impunità in riferimento a condotte distrattive pose in essere prima dell’ammissione o nel corso del concordato preventivo, in qualunque declinazione l’istituto operi”. E a una diversa conclusione non si può arrivare neppure se si intende valorizzare l’elemento della continuità visto che la funzione di conservazione del patrimonio d’impresa rappresenta l’obiettivo cui tende l’istituto, mentre, invece, la ratio della misura penale prevista dall’articolo 236 della legge fallimentare si basa sull’avere provocato, attraverso operazioni dolose di distrazione, lo stato di crisi che rappresenta il presupposto di ammissione alla procedura, oltre a rappresentare un concreto pericolo per i creditori. Irrilevante di conseguenza, sul punto, la natura conservativa e non liquidatoria dell’istituto. Respinta quindi la tesi della difesa che invocava un diverso regime penale per l’ipotesi di concordato in continuità. Esiste sì una distinzione, ma è valida solo sul piano civilistico per assicurare la prosecuzione dell’attività imprenditoriale. La corruzione per l’esercizio della funzione scatta anche se l’atto oggetto dello scambio è lecito Il Sole 24 Ore, 12 settembre 2018 Corte di Cassazione - Sezione VI - Sentenza 11 settembre 2018 n. 40344. Non è una cortesia ma corruzione per l’esercizio della funzione l’assunzione di una persona segnalata dal consigliere dell’Autorità di vigilanza dei lavori pubblici che ha fatto approvare una delibera a favore della società. Lo ha precisato la sesta sezione penale della Cassazione con la sentenza n. 40344 depositata ieri. I giudici di legittimità hanno accolto il ricorso presentato del Pm contro l’assoluzione di Alfredo Meocci. Il dirigente pubblico, in qualità di consigliere dell’Avcp, aveva fatto approvare una delibera a favore di una società e subito dopo fatto pressioni sulla stessa società per ottenere l’assunzione di una persona. Assunzione che era stata effettuata anche se poi il rapporto di lavoro è durato solo un mese. Sia il tribunale che la corte di Appello di Roma avevano assolto Meocci perché la delibera approvata è risultata legittima e perché l’assunzione sarebbe stata una “lecita cortesia nei confronti di una persona di elevato livello politico istituzionale”. Una posizione non condivisa dal procuratore generale che ha fatto ricorso in Cassazione sostenendo che Meocci ha ricevuto dalla società l’assunzione del suo protetto in cambio dell’approvazione della delibera che interessava la società “violando il dovere di correttezza e imparzialità del pubblico ufficiale e così commettendo il reato di corruzione per l’esercizio di funzione”. Una ricostruzione condivisa dai magistrati di legittimità che hanno ricordato come la riforma del 2012 ha modificato l’illecito previsto dall’articolo 318 del codice penale e la configurazione del reato “è possibile a prescindere dal fatto che l’esercizio della funzione assuma carattere legittimo o illegittimo, ne è necessario accertare l’esistenza di un nesso tra la dazione indebita e uno specifico atto dell’ufficio”. Ora il nucleo centrale della disposizione è “l’esercizio della funzione pubblica, svincolato da ogni connotazione ulteriore e per il quale vige il divieto assoluto di qualsivoglia retribuzione da parte del privato”. Bollate (Mi): nel carcere modello si teme il cambio di guardia di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 12 settembre 2018 In pochi mesi ci sarà un avvicendamento ai vertici e lascerà anche il provveditore pagano. Tutti quelli che hanno contribuito a creare il modello vincente del carcere di Bollate, con un tasso di recidiva straordinariamente più basso rispetto alla media nazionale, nel giro di pochi mesi se ne andranno. Ci sarà un avvicendamento totale ai vertici. Come tutti i momenti di passaggio, c’è l’inquietudine che tutto possa cambiare, perfino in peggio. Per questo i giornalisti Susanna Ripamonti, Luigi Corvi, Claudio Lindner, Federica Neeff, Paolo Aleotti e Silvia Palombi che si occupano come volontari di CarteBollate, il giornale fatto dai detenuti del carcere di Bollate, sono preoccupati e giustamente invitano la stampa a tenere i riflettori puntati, con la speranza che la futura dirigenza possa mantenere in vita il modello che finora è risultato vincente. A torto, per molto tempo, era stato definito un carcere sperimentale, mentre in realtà si atteneva al principio costituzionale. I giornalisti che curano CarteBollate spiegano che in meno di un anno, tutte le persone che sono state protagoniste del Progetto Bollate e che hanno creato il carcere più innovativo del nostro Paese lasceranno il loro incarico. L’avvicendamento ai vertici è già iniziato con il direttore Massimo Parisi promosso a Provveditore delle carceri della Calabria, ma sarà un cambiamento epocale perché anche il suo braccio destro, Cosima Buccoliero è destinata a un nuovo incarico. A febbraio andrà in pensione il comandante della polizia penitenziaria Antonino Giacco, e lascerà il suo posto a Samuela Cuccolo, attuale comandante del Beccaria. A maggio infine il provveditore Luigi Pagano, che in tutta la sua carriera è stato un irriducibile leader della rivoluzione del sistema carcere, uscirà di scena per sopraggiunti limiti di età. In sostanza, tutti i dirigenti che negli ultimi vent’anni sono stati i principali interpreti e ideatori, non solo del progetto Bollate, ma di una nuova idea di espiazione della pena, passeranno la mano e dunque il carcere non perderà solo “la testa” ma anche gran parte della sua memoria storica. Come avviene in tutti i momenti di cambiamento, le preoccupazioni quindi non mancano, controllate da una rassicurante razionalità che porta a dire che un modello di carcere che ha dimostrato la sua efficacia e il suo buon funzionamento non può essere messo in discussione. Un’altra certezza - come sottolineano i volontari del giornale - è che Bollate può contare su una comunità penitenziaria, fatta da operatori, poliziotti, detenuti, educatori e volontari che quotidianamente porta avanti questo progetto e che continuerà a lavorare con le modalità che la caratterizzano. CarteBollate, nel numero di luglio, ha intervistato il provveditore Pagano, che si è impegnato personalmente affinché il cambio ai vertici sia non solo indolore ma anche sotto il segno della continuità. Sull’ultimo numero di CarteBollate viene fatta una fotografia del carcere in cifre. A partire dalla recidiva. Mentre al livello nazionale risulta al 70 %, nell’istituto alle porte di Milano scende al 17%. Questo significa che il carcere funziona ed è in grado di inserire le persone nella società. Altro dato significativo è l’assenza dei suicidi. Anche il sovraffollamento è contenuto, con una criticità per quanto riguarda la sezione femminile dove si è costretti ad aggiungere un quinto letto. Questo avviene perché si sono chiusi i reparti femminili di alcune carceri della Lombardia. Il giornale spiega che fortunatamente la situazione è alleggerita dal fatto che tutte le ospiti del carcere durante le ore diurne possono circolare liberamente nel reparto e seguire varie attività. Interessante anche apprendere come a Bollate la magistratura di sorveglianza applica con coraggio le misure alternative. Sono infatti 200 i detenuti e le detenute ammessi al lavoro esterno e lo scorso anno 330 persone sono state affidate ai servizi sociali o hanno comunque ottenuto forme di esecuzione esterna della pena, mentre 350 hanno iniziato a uscire periodicamente in permesso. Questo e altro ancora viene riportato da CarteBollate. Si spera che con il prossimo cambio dei vertici, tutto possa rimanere così com’è, o addirittura migliorare. Venezia: detenuta 50enne muore in cella, disposta l’autopsia di Daniela Ghio Il Gazzettino, 12 settembre 2018 È deceduta nel carcere femminile della Giudecca a causa di una crisi cardiaca verificatasi la sera di sabato scorso. Elisabetta Tesan, 50 anni, di Marghera, era stata arrestata lo scorso agosto assieme ad Alberto Carlesco con l’accusa di aver messo a segno una rapina ai danni del supermercato Prix, in fondamenta dei Cereri, a Dorsoduro. Rapina che, secondo gli inquirenti, è stata materialmente messa a segno dall’uomo, indossando una parrucca colorata da Carnevale e gli occhiali da sole per mascherare il volto: bottino 1.200 euro. Per questa mattina, di fronte al Tribunale del riesame, si sarebbe dovuta celebrare l’udienza per discutere l’istanza presentata dal suo difensore, l’avvocato Florindo Ceccato, il quale aveva chiesto la remissione in libertà della donna. Elisabetta Tesan si era sentita male la scorsa settimana ed era stata portata in ospedale per alcuni accertamenti, per poi essere dimessa qualche giorno più tardi e riaccompagnata in carcere. Quindi, sabato notte, è stata colta da un improvviso malore, risultato fatale. Il decesso è stato comunicato al magistrato di turno, il dottor Fabrizio Celenza, il quale ha deciso di disporre l’autopsia per accertare le cause della morte e verificare se non possano essere contestate responsabilità a carico di chi l’aveva visitata nei giorni precedenti. All’interno dei penitenziari, i detenuti sono affidati allo Stato che è tenuto a prendersi cura di loro. L’avvocato Ceccato ricorda che la sua assistita aveva lamentato di non sentirsi bene fin dal giorno della convalida dell’arresto, una decina di giorni fa. La data dei funerali della donna sarà resa nota quando il magistrato firmerà il nulla osta, dopo l’esecuzione dell’autopsia. Venezia: Radiologia entra nel carcere maschile di Daniela Ghio Il Gazzettino, 12 settembre 2018 Un nuovo ambulatorio per esami rapidi, evitando di spostare i detenuti. Dopo Verona, Padova e Rovigo anche a Venezia cresce l’assistenza sanitaria nelle carceri, con esami radiologici più rapidi sui detenuti, senza extra costi per i trasferimenti all’Ospedale, grazie all’installazione nel Carcere di Santa Maria Maggiore di nuove strumentazioni di radiologia, collocate dall’Ulss 3 Serenissima grazie al finanziamento della Regione Veneto, e presentate ieri, presenti l’assessore alla Sanità, Luca Coletto, il direttore generale dell’Aulss3 Giuseppe Dal Ben, il direttore dell’amministrazione penitenziaria per il Veneto e il Friuli Venezia Giulia Enrico Sbriglia e la direttrice dal carcere Immacolata Mannarella. Le nuove tecnologie installate sono un apparecchio radiologico completo fisso e un ortopantomografo per le radiografie delle arcate dentarie, in aggiunta alla presenza di una moderna apparecchiatura Life Pack, che consente di inviare direttamente all’ospedale di Venezia i referti che vengono letti in tempo reale, e di un kit portatile di primo intervento identico a quelli in dotazione sulle ambulanze del Suem 118. Un nuovo elettrocardiografo è stato di recente acquistato anche per la Casa di Reclusione femminile della Giudecca. Le apparecchiature radiologiche sono state collaudate e sono utilizzate dall’équipe di Sanità penitenziaria dell’Ulss 3 Serenissima, composta da 15 infermieri della cooperativa Global e un medico di sanità penitenziaria a cui si aggiunge un secondo medico per tre ore al giorno. I tecnici radiologi sono stati formati all’utilizzo delle strumentazione grazie alla collaborazione con la Radiologia al Civile, guidata dal Primario Paolo Sartori. Il potenziamento delle attrezzature sanitarie nel carcere maschile e in quello femminile ha lo scopo di diminuire le uscite per viste ed esami esterni alla struttura carceraria: “Solo nel corso del 2017 ha spiegato il dottor Vincenzo De Nardo, responsabile della Sanità penitenziaria dell’Ulss 3 Serenissima sono stati effettuati più di 300 trasporti di detenuti in Ospedale. E le procedure per questi trasferimenti sono alquanto complesse, poiché presuppongono una richiesta del medico, il passaggio al Cup, l’autorizzazione del Magistrato di Sorveglianza, l’intervento dell’Amministrazione Penitenziaria, la disponibilità da parte del Nucleo Traduzioni, con tempi di attesa decisamente lunghi. La nuova apparecchiatura, oltre a garantire esami radiologici più rispondente alle esigenze cliniche, permetterà quantomeno di dimezzare il numero dei trasferimenti dei detenuti dal carcere all’Ospedale”. “In un Paese civile, la pena va scontata fino all’ultimo giorno senza se e senza ma ha detto Coletto. Un Paese civile garantisce però al detenuto il rispetto che si deve a un essere umano e la salvaguardia della salute. È ciò che stiamo facendo in Veneto da quando la Sanità Penitenziaria è passata dal ministero di Grazia e Giustizia alle Regioni. Oggi a Venezia ne abbiamo un significativo esempio. Qui vengano pure tutti gli ispettori dell’Onu che si vuole: troveranno solo una buona pratica da insegnare in molte parti d’Europa e del mondo”. Milano: nasce la guida ai diritti (e ai doveri) dei detenuti di Luca De Vito La Repubblica, 12 settembre 2018 L’iniziativa della Camera penale per tutelare chi si trova in cella per una condanna o in attesa di un giudizio definitivo. Avrebbero diritto a uscire, ma rimangono dentro. Sono circa 2.000 i detenuti nelle carceri lombarde che potrebbero usufruire di pene alternative (come i domiciliari) perché vicini alla fine del periodo di carcerazione. Numeri a cui bisogna aggiungere quelli delle persone in attesa di giudizio per reati minori che teoricamente avrebbero diritto ad attendere il pronunciamento fuori dalle carceri. A spiegarlo è stata ieri Alessandra Naldi, garante dei diritti delle persone private della libertà presso il Comune, intervenuta all’evento organizzato dalla Camera penale di Milano nella casa circondariale di San Vittore per presentare la “Guida ai diritti e ai doveri dei detenuti”. “I motivi sono diversi - ha spiegato Naldi - dalla mancanza di una casa, all’assenza di un lavoro, fino alla carenza di posti in comunità”. Ma non è solo una questione di libertà. Per i detenuti il semplice fatto di essere in carcere diventa ostacolo per molto altro, come ad esempio il riconoscimento dei figli: se un uomo diventa padre quando è recluso non può recarsi all’Anagrafe di via Larga per il riconoscimento. “Di questi casi ne abbiamo moltissimi”, ha confermato il direttore di San Vittore Giacinto Siciliano. Una realtà complessa, legata a doppio filo con la condizione strutturale di molte carceri che - a cominciare da San Vittore - sono sovraffollate e inadeguate. “La guida che abbiamo presentato è uno strumento fondamentale per i detenuti - ha spiegato Eugenio Losco penalista e membro del direttivo della Camera penale - c’è infatti un diffuso problema di conoscenza che non permette loro di esercitare i propri diritti. Stiamo cercando di porre rimedio diffondendo il più possibile questa guida, tradotta in diverse lingue e rivolta a tutti i detenuti”. Il concetto che esperti del settore cercano di far passare è che le persone in carcere siano considerate cittadini come e quanto gli altri. “Così come i detenuti devono conoscere il loro diritti il Comune e tutte le istituzioni devono riconoscerli per renderli sempre più effettivi - spiega Anita Pirovano, capogruppo a Palazzo Marino di Milano progressista e presidente della Sottocommissione carcere e restrizioni della libertà personale. A partire dall’implementazione dei servizi per il reinserimento sociale. È una questione di civiltà ed è la strada migliore per abbattere la recidiva”. Torino: contrasse legionella in cella, lo Stato dovrà risarcire in detenuto Ansa, 12 settembre 2018 Il Ministero della Giustizia dovrà risarcire un ex detenuto che si ammalò di legionella quando era recluso nel carcere di Alba, chiuso nel 2016 per altri quattro casi. Lo ha deciso il tribunale di Torino. L’uomo, 45 anni, nel maggio 2011 si era costituito per scontare una pena di 14 mesi e si era ammalato nel dicembre dello stesso anno. “È stato riconosciuto il nesso di causa tra la detenzione e la malattia”, spiegano gli avvocati Renato Ambrosio e Stefano Bertone, dello studio Ambrosio & Commodo, che insieme all’avvocato Claudio Novaro seguono il procedimento. L’uomo aveva iniziato a tossire, a sentirsi debole, ad essere confuso. Curato nell’infermeria del carcere, in isolamento per alcuni mesi, nel gennaio 2012 è stato ricoverato in ospedale per legionella. “Scontata la pena, avrebbe voluto tornare a lavorare. Invece sta ancora male e ha avuto danni neurologici”, dicono i legali, che intendono “risollecitare la Corte d’Appello per integrare il risarcimento”. Milano. la vita delle donne in carcere, come la sofferenza può diventare rinascita di Sara Cariglia letteradonna.it, 12 settembre 2018 E le parole possono “rompere” le sbarre. Se ne è parlato alla Triennale di Milano, in un colloquio a due tra Dalia, detenuta di San Vittore, e Manuela Federico, comandante di polizia penitenziaria. Spesso siamo soliti dire “ho rotto i ponti con il passato”. Peccato che il più delle volte sia il passato a non aver rotto i ponti con noi. Tuttavia c’è gente che prova ogni giorno a lasciarsi alle spalle ciò che è stato in nome di ciò che verrà. È accaduto anche al Tempo delle donne, dal 7 al 9 settembre alla Triennale di Milano che, tra i suoi 360 ospiti e i 120 appuntamenti in programma, ne aveva in serbo uno intitolato “Detenute e donne in divisa: le nostre prigioni sono le più dure”. Un colloquio a due tra Dalia, una carcerata di San Vittore, e Manuela Federico, comandante della polizia penitenziaria della stessa casa circondariale. Una conversazione che fin dalle prime battute ha saputo colorare le emozioni dei presenti catapultandoli in un luogo lontano dagli scherni del giudizio e del pregiudizio. Un luogo, in cui il potere della parola si è fatto strada ed è riuscito persino a segare e a scardinare metaforicamente le sbarre, fracassando gran parte degli stereotipi connessi a quella realtà. Questo, anche grazie alle parole di uno psichiatra del calibro di Vittorino Andreoli, il cui intervento è stato essenzialmente un inno alla donna, alla femminilità ma pure alla galera, quella ben fatta però: “Quando si guarda una persona e, quindi anche un detenuto, è vietato dire non c’è più niente da fare perché bisogna sapere che una parte del nostro cervello è plastica. Questo significa che si struttura e si modifica sulla base delle esperienze. Ricordatevi che un carcere ben organizzato ha un’azione straordinaria”, ha detto. “La comandante ha deciso di presenziare all’evento senza divisa. Se vogliamo un atto di grande coraggio in una società in cui gli stereotipi stanno diventando la regola”. Verrebbe da dire, il dovere in primis di rispettare la dignità di chi lo subisce, perché una persona è degna in quanto tale e non per quello che fa. Anche se si sa: in un mondo in cui il declino e l’indebolimento dei valori culturali (che hanno fatto da culla al ritorno del pregiudizio) e, dove l’abito fa il monaco, è difficile procedere in questa direzione e lanciare nuovi messaggi. Ad ogni modo Manuela Federico e Dalia, questo lodevole sforzo lo stanno facendo da tempo. Ne hanno dato prova anche in questa occasione, quando la comandante ha deciso di presenziare all’evento senza divisa. Se vogliamo un atto di grande coraggio in una società in cui gli stereotipi stanno diventando la regola. In fondo si tratta di un gesto che attira una vasta schiera di preconcetti e lei così facendo non ha fatto altro che frantumare il pregiudizio impostole dall’uniforme stessa. Dalla sua, Dalia, ha cercato invece un riscatto sociale mettendo a nudo le proprie emozioni. Quindi, dando voce al proprio vissuto, ai propri stati d’animo e alle proprie sofferenze: “Sono stata arrestata nel 2011. Il mio fidanzato spacciava, io ne ero al corrente ma non ho mai avuto la forza e il coraggio di dire basta”, ha raccontato ricordando quel momento in cui i cancelli di San Vittore si chiusero alle sue spalle per la prima volta: “La sensazione è quella di sentirsi risucchiati in un buco nero”. Una percezione di buio totale che andò avanti fino a quando si accorse che il penitenziario avrebbe potuto regalarle una nuova chance: “In fondo nessuno ha il diritto di toglierti la libertà né tantomeno di prendersi la vita di qualcun’altro. Io, la mia, ho deciso di riconquistarla. Mi sono rimboccata le maniche e ho iniziato a studiare e a lavorare. Oggi, vorrei trovare anch’io quell’angolino di felicità. Devo ringraziare il Signore perché la reclusione è stata un’opportunità”, ha spiegato. A testimoniarlo è stata anche la sua comandante, e non perché di parte, ma perché è la sua stessa esperienza ad averglielo insegnato: “Sono convinta che per certi versi la detenzione sia inutile e forse si dovrebbe ragionare su qualcosa di diverso. Tuttavia sono parecchie le ragazze del raggio femminile che mi ricordano quanto l’istituto di pena abbia rappresentato per loro un nuovo inizio”. A proposito di nuovi inizi, anche la comandante Federico, visibilmente persuasa da tutta quella emozione non ha potuto fare a meno di rammentare anche il suo di esordio: “La mia esperienza a San Vittore è cominciata 12 anni fa. Sono la prima donna al comando di 700 uomini e 100 donne”. Non c’è da stupirsi che sia proprio una signora a portare avanti un progetto di questa portata. A quanto pare nella prigione di piazza Filangieri le quote rosa non devono essere né conquistate né concesse, perché sono una realtà. Tanto è vero che, a parte Giacinto Siciliano, il nuovo direttore, i vertici di San Vittore sono occupati da tempo da sole donne: “Quando vinsi il concorso spezzai la tradizione del comandante che era solito portare i capelli corti e mi accorsi immediatamente che sarebbe stato difficile per un volto femminile riproporre quel modello. Sulle prime, più che diffidenza o paura colsi un vero e proprio rifiuto nei miei confronti”, ha raccontato a cuore aperto. D’altronde in una società in cui l’emancipazione femminile è per certi versi ancora un tabù, una donna, come avrebbe potuto personificare un ruolo così autorevole?: “Pensavo che le resistenze più grandi sarebbero arrivate dai detenuti dell’Est: danesi, marocchini o rumeni, proprio perché sappiamo bene come queste popolazioni non considerino la femmina un soggetto di diritto, invece, con grande sorpresa mi accorsi di quanto l’accettazione non riguardasse il sesso o la razza del mio interlocutore quanto la sua sensibilità e umanità”, ha spiegato la comandante. Tanto che paradossalmente la sua legittimazione arrivò proprio da loro, dal basso. Una legittimazione che dopo tanti anni di servizio, la Federico, a prescindere dal consenso altrui, si dona anche da sola. Lo ha fatto anche alla Triennale, quando al cospetto di pubblico e detenute, si è presentata in borghese. Scardinando quella linea di demarcazione apparentemente invalicabile tra io sono dentro e tu sei fuori, tra io sono libera e tu sei prigioniero, e quindi creando un dialogo alla pari con i suoi interlocutori. Ora la domanda è: quanti sanno togliersi l’uniforme? E soprattutto, che cosa significa porsi sullo stesso piano? Forse vuol dire collocarsi sul piano dell’essere donna, con la D maiuscola. Una donna che ingloba in sé i tratti di un’esperienza comune e che crede fortemente che le emozioni di tutto il gentil sesso debbano essere espresse senza preconcetti e con la parola in primis. E in fondo, che cos’ è la parola se non il vestito delle emozioni? Emozioni che, in quello spazio chiamato sala Agorà hanno risuonato fino a prendere forma, fino a vestirsi d’innumerevoli colori, specialmente quando a rubare la scena con un’eccentrica performance teatrale chiamata Viva la Vida, tratta dai Diarios de Frida, sono state alcune delle detenute della sezione femminile. “Come Frida (Khalo, ndr) ha trasformato in arte la sua sofferenza, noi trasformiamo vissuti anche molto strazianti in possibilità di cambiamento e rinascita. Vi aspettiamo il 14 settembre al Teatro dei Filodrammatici e il 20 a San Vittore”, ha detto in chiusura Donatella Massimilla, regista del carcere di Milano che, in procinto di sdoganare il suo progetto fridiano Oltreoceano, pare essere animata da un unico e potente mantra: viva la vida! Un’esclamazione seguita da un forte scroscio di applausi. Padova: alla cooperativa sociale Giotto il premio Clai “100% italiano” di Roberto Di Biase emiliaromagnanews24.it, 12 settembre 2018 Scelta per la passione e l’impegno verso le fasce sociali più deboli e per dare la possibilità di riscatto personale e di reinserimento ai detenuti delle carceri attraverso il lavoro. Dopo aver premiato nel 2016 Judith Wade, fondatrice e CEO della rete Grandi Giardini Italiani che raccoglie le meraviglie verdi d’Italia e nel 2017 il compianto Gino Girolomoni, precursore e padre dell’agricoltura biologica in Italia, ieri sera in occasione dell’evento “Sapori in Villa” nell’ambito della 28esima Festa del Contadino, Clai ha consegnato il Premio “100% Italiano” alla Cooperativa sociale Giotto di Padova per il suo impegno verso le fasce sociali più deboli e per dare la possibilità di riscatto personale e di reinserimento ai detenuti del carcere di Padova attraverso il lavoro. “Anche per questa terza edizione il Premio istituito da Clai ha ricevuto il Patrocinio del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali - spiega Giovanni Bettini, Presidente di Clai - e ciò in questa occasione è particolarmente significativo perché viene assegnato alla Cooperativa Sociale Giotto che attraverso la sua originale intrapresa ha coniugato inserimento lavorativo a concreti percorsi di riabilitazione sociale per oltre 400 persone. Una bellissima esperienza che ha messo al centro della sua missione il valore della persona, della sua dignità. Valori nei quali ci riconosciamo per la stessa tensione alla costruzione del “bene comune” nel nostro paese”. Fin dal 1962, anno della sua nascita, Clai ha sempre garantito che i suoi prodotti provenissero da una filiera 100% italiana: dai campi alla tavola, coltivando terreni, gestendo allevamenti e curando ogni fase della produzione. Spinta dai valori della sua identità, la Cooperativa Lavoratori Agricoli Imolesi si è fatta portavoce della valorizzazione del patrimonio e delle tradizioni italiane arrivando a ideare un premio “100% Italiano” per celebrare una personalità o un’impresa che si è distinta per l’impegno a favore della promozione della cultura e del lavoro. “L’essere stati selezionati come Cooperativa Sociale Giotto per il Premio per l’impegno nella promozione della cultura e del lavoro nel nostro Paese - commenta Nicola Boscoletto, presidente della Cooperativa Sociale Giotto - la ritengo una cosa di particolare rilevanza, non solo per il tema, ma anche per il fatto che questo riconoscimento non arriva da un’istituzione pubblica, ma da una grossa realtà cooperativa cioè da un pezzettino di società civile reale. Un dono, come pure un premio, non conta tanto in se stesso. La cosa più importante è chi ti ha fatto quel dono, chi ti assegna quel premio. Chi consegna questo premio alla Cooperativa Sociale Giotto è un’importante realtà imprenditoriale che negli anni ha creato valore dal punto di vista lavorativo e umano, in una parola una realtà che ha creato economia reale di cui oggi il nostro Paese, e non solo, ha bisogno. In questo senso il premio che riceviamo parla di territorio, di lavoro, di prodotti, di valori, di singoli, di famiglie, di una comunità che partecipa e costruisce, con la fatica del proprio lavoro un pezzettino di Bene Comune. Altra cosa importante è che questo bene non lo tiene tutto per sé, ma lo offre e lo fa crescere (i fatti ed i numeri dal 1962 ad oggi parlano da soli). Ecco che questo premio, di cui ne siamo tutti enormemente fieri, - conclude Boscoletto - è il premio di tutti i lavoratori della Cooperativa Sociale Giotto, ma non solo. È il premio anche di tutti quelli che l’hanno incontrata, conosciuta, aiutata e sostenuta, e sono tanti, singole persone e aziende, istituzioni e enti pubblici”. Sul palco, chiamata a condurre la serata nello splendido contesto di Villa la Babina, Centro Direzionale Clai di Sasso Morelli, Giusy Legrenzi, giornalista, conduttrice e speaker di RTL 102.5 che ogni mattina, con il suo programma “No Stop News”, tiene informati milioni di italiani. Cooperativa sociale Giotto di Padova - La Cooperativa sociale Giotto viene creata nel 1986 da alcuni giovani laureati e laureandi in Scienze agrarie e forestali dell’Università di Padova con lo scopo di lavoro come opportunità di dignità per sé e per gli altri con al centro la persona con i suoi bisogni e le sue aspirazioni. Per la Cooperativa sociale Giotto, pur essendo una cooperativa sociale, l’aspetto della professionalità viene prima dell’aspetto sociale, perché se si intende stabilizzare situazioni lavorative in stato di disagio è necessario essere ineccepibili nei prodotti o nei servizi offerti. Solo così è possibile aiutare veramente situazioni di bisogno senza cadere nel buonismo e nell’assistenzialismo. In questa maniera la ricaduta in termini di benefici sociali ed economici per tutta la società risulta essere veritiera e duratura. Questo modo di affrontare il lavoro per tutti, svantaggiati e non, ha reso la Cooperativa Sociale Giotto un modello guardato e studiato a livello internazionale. Oggi la Cooperativa sociale Giotto offre una vera opportunità lavorativa a circa 400 persone. Di queste oltre un centinaio afferiscono al mondo del disagio sociale, in particolare al mondo del carcere, e a questi si aggiungono una ottantina di persone disabili fisici, psichici o psicofisici. Alba (Cn): i detenuti scontano la pena lavorando nei vigneti di Alessandro Prandi La Repubblica, 12 settembre 2018 La positiva esperienza nella casa di reclusione cuneese raccontata da Alessandro Prandi, Garante comunale delle persone private della libertà personale. Augusto guarda la vigna con soddisfazione. “Anche quest’anno abbiamo fatto un buon lavoro, ci siamo dati da fare e il risultato sarà buono”. Siamo ad Alba a due passi dal Tanaro, tutto intorno colline tra le più conosciute al mondo, meta del turismo internazionale, riconosciute dall’Unesco Patrimonio dell’Umanità. Barolo e Barbaresco non sono solo dei vini ma ambasciatori internazionali di questa terra bella e fortunata. Tutto intorno al vigneto di Augusto si erge un muro alto, spesso, grigio. Augusto non è un vigneron delle Langhe, la sua non è una di quelle facce che spesso appaiono sulle riviste patinate con a fianco bottiglie da qualche centinaio di euro. Augusto, ovviamente il nome è di fantasia, è un detenuto e il vigneto è dentro il carcere di Alba. Ma il vigneto è suo; suo e di una manciata di uomini che ci lavorano ogni giorno. Altri detenuti che come lui sono inseriti nel progetto Vale la Pena, che ogni anno coinvolge una decina di persone che, all’interno dell’istituto penitenziario, seguono un corso per ottenere la qualifica di operatore agricolo e coltivano i vitigni. Uve di nebbiolo, barbera, dolcetto e cortese vengono vinificate e poi imbottigliate dagli studenti dell’Istituto Enologico Umberto I° di Alba per una produzione annua di 1.400 bottiglie. Un ponte tra il dentro ed il fuori che contribuisce ad accorciare la distanza tra il carcere e la città. L’iniziativa vede coinvolti oltre la rinomata scuola enologica e la Casa di reclusione Giuseppe Montalto di Alba anche Syngenta, gruppo mondiale dell’Agribusiness che mette a disposizione i prodotti la protezione del vigneto e la fondazione Casa di Carità Arti e Mestieri, che assicura la formazione professionale - riconosciuta dalla Regine Piemonte - per operatori agricoli. Il processo è seguito dall’agronomo Giovanni Bertello, che da anni cura i progetti agricoli carcere albese e dallo staff degli educatori. Un libro fotografico, una mostra e un video descrivono Vale la Pena che dal 2006 ha contribuito anche a far sì che alcuni ragazzi, forti di questa esperienza, siano riusciti a farsi assumere da aziende agricole della zona un volta scontata la condanna. Tra le varie esperienze di lavoro carcerario, quella nel settore agricolo ha rivestito da sempre un ruolo particolare: si svolge all’aperto, offre l’opportunità di lavorare a contatto con l’ambiente e di seguire i cicli biologici, permette di “riappropriarsi” della funzione di cura e di supporto alla crescita. A far cornice a tutto ciò una legge relativamente che incentiva l’Agricoltura sociale che consente di coniugare imprenditorialità e responsabilità sociale. Il rapporto annuale redatto dall’associazione Antigone racconta di carceri italiane sovraffollate, dove ci si ammala, ci si uccide e si muore con percentuali esorbitanti rispetto al cosiddetto mondo libero; il lavoro rappresenta forse l’unico a questo disastro. Da un lato disincentiva il ritorno a delinquere una volta usciti di prigione e dall’altro concretizza il concetto di restituzione alla società del danno causato. I detenuti che scontano la pena lavorando hanno una possibilità di gran lunga superiore di non tornare in carcere rispetto a quelli che non sono stati impegnati; il 65 % di coloro che vengono nuovamente arrestati appartiene al popolo degli “ex detenuti non lavoratori”; per contro “i detenuti lavoratori” sono recidivi per appena il 19%. In poche parole: il vero “svuota carceri” è il lavoro. Belluno: “detenuti psichici curati e assistiti a tempo pieno” Il Gazzettino, 12 settembre 2018 L’Usl 1 risponde al sindacato di polizia penitenziaria Sappe. È continuata anche ieri l’astensione dalla mensa di servizio obbligatoria degli agenti di polizia penitenziaria a Baldenich. La protesta (non uno sciopero della fame, perché gli agenti si portano il cibo da casa ndr) è iniziata lunedì 10 settembre e andrà avanti a oltranza. Nel mirino l’Articolazione per la tutela della salute mentale del penitenziario (Asm) nella quale, come detto dalle guardie penitenziarie sarebbero lasciati soli. Gli agenti e un medico di guardia di giorno si trovano a dover far fronte a 6 pazienti psichiatrici. Una situazione insostenibile che ha portato a diversi episodi di aggressione da parte dei detenuti. “Hanno bisogno di essere curati, non degli agenti di polizia penitenziaria”, aveva detto Giovanni Vona del Sappe, puntando il dito contro l’azienda sanitaria. Con una nota l’Usl Dolomiti ieri ha risposto, illustrando il servizio che viene garantito ai detenuti. “L’assistenza sanitaria specialistica che viene erogata settimanalmente ai 6 detenuti accolti nella Sezione per pazienti psichiatrici è di almeno 7 ore di presenza dello psichiatra e 4 ore di psicologo - spiega la direzione generale dell’Usl. Per 5 ore al giorno è garantita inoltre la presenza in Sezione dell’infermiere esperto nella gestione dei pazienti psichiatrici. Oltre a quest’assistenza dedicata, ogni giorno, in caso di necessità, sono a disposizione di tali pazienti detenuti 1 medico incaricato dell’assistenza di tutti i detenuti presenti nella Casa Circondariale di Belluno dalle ore 9,00 alle ore 12,00 e il medico di guardia dalle ore 14,00 alle ore 05,00 del giorno successivo. In questi 2 anni di gestione della Sezione per malati psichiatrici i medici di guardia hanno acquisito una professionalità specialistica di elevato livello nella presa in carico di tali pazienti anche grazie alla continua condivisione delle informazioni con psichiatra e psicologo. Ad ogni modo è stata istituita una procedura operativa dedicata per la gestione delle urgenze psichiatriche che prevede la reperibilità del medico psichiatra in caso di necessità”. Sembra essersi arenata la procedura per il trasferimento della sezione malati psichiatrici al carcere di Padova. Il Sappe aveva detto: “Non si trova la quadra, è solo una questione di costi”. “Non è una questione di costi - risponde l’Usl nella nota - ma di una corretta gestione delle risorse: l’assistenza sanitaria erogata ai pazienti detenuti psichiatrici nella Casa Circondariale di Belluno, peraltro concordata tra Azienda Usl 1 Dolomiti, Regione Veneto ed Amministrazione Penitenziaria, è adeguata al numero dei pazienti reclusi in tale Sezione”. “Per quanto riguarda il trasferimento della Sezione in altro Carcere del Veneto - conclude, già da tempo programmata e non ancora attuata, si ricorda che è stato fatto presente negli incontri con l’Amministrazione penitenziaria l’inadeguatezza della struttura e, naturalmente, si auspica che quanto concordato con l’Amministrazione trovi al più presto attuazione per una migliore collocazione dei pazienti detenuti”. Padova: i tre detenuti-imbianchini “esperienza da allargare” di Alice Ferretti Il Mattino di Padova, 12 settembre 2018 In due mesi hanno tinteggiato le aule dell’istituto Belzoni in via Speroni. Il preside: “Volevano lavorare anche il giorno di Ferragosto”. Per due mesi, luglio e agosto, si sono recati all’istituto Belzoni di via Speroni, dove hanno ritinteggiato alcune aule che da oggi, con l’inizio della scuola, ospiteranno gli studenti. Sono tre detenuti in semilibertà della Casa di reclusione di Padova che hanno preso parte al progetto proposto dall’Associazione operatori carcerari volontari, con il contributo della Cariparo e la collaborazione della Provincia. Vincenzo Vaccaro, Giovanni De Felice e Stephan Sallai, ogni mattina, per due mesi, alle 8 erano all’istituto Belzoni. Armati di secchi, rulli e pennelli hanno riportato a nuovo 14 aule, pitturando le pareti, riposizionando le lavagne, aggiustando le tapparelle. Ma, ancor più importante, l’hanno fatto con entusiasmo. “Volevano lavorare anche a Ferragosto”, dicono il preside, Vincenzo Amato e il direttore del carcere, Claudio Mazzeo, che ieri insieme al consigliere della Nuova Provincia di Padova delegato all’edilizia scolastica, Luciano Salvò, e agli stessi detenuti hanno presentato il lavoro finito. “Per noi è stata un’esperienza bellissima. Un’opportunità per capire che non siamo così tanto ai margini della società, anzi, siamo stati accolti benissimo a scuola”, racconta sorridente Stephan, 50 anni, che in Romania, suo paese d’origine, ha conseguito il diploma di perito tecnico elettronico. “Da quando sono in carcere a Padova ho eseguito lavori di manutenzione all’interno della Casa di reclusione ma questa è la prima volta che lavoro all’esterno”. Stephan, che da sei anni è al Due Palazzi, deve scontare ancora un anno per rapina. “Sono stato felice di partecipare a questo progetto. Nonostante quello del carcere sia un percorso doloroso, mi sta rendendo migliore”, aggiunge Vincenzo, 38 anni, di Bari, dove ha moglie e figlio. In carcere dal 2002, ci starà fino al 2026. “Sono entrato che non sapevo leggere né scrivere. Ora sono un’altra persona”. Vincenzo, 42 anni, napoletano dei quartieri Spagnoli, terminerà la pena nel 2026 ed è il terzo detenuto coinvolto nel progetto: “Un’opportunità che dovrebbe essere ripetuta”. Ed è quello che direttore del carcere e delegato della Provincia vogliono fare. Milano: un cinema nel carcere di Bollate, la sala finanziata dal progetto Fuoricinema milanotoday.it, 12 settembre 2018 Una sala cinematografica dentro il carcere di Bollate. L’idea potrebbe diventare realtà, grazie ai fondi che verranno raccolti nel market del festival Fuoricinema, previsto dal 14 al 16 settembre a CityLife. È la terza edizione del festival e anche nel 2016 e nel 2017 i ricavati sono andati a iniziative di beneficenza: per associazioni per l’infanzia nel 2016, per l’associazione di Bebe Vio nel 2017. Nel 2018 si è scelto invece di fare qualcosa di concreto e di predefinito: e la decisione è stata quella di portare il grande schermo all’interno di una struttura penitenziaria, per dimostrare la rilevanza sociale del cinema anche per alleviare - spiega Cristiana Mainardi, direttrice artistica di Fuoricinema - la sofferenza di chi vive in carcere. Il penitenziario di Bollate è stata quasi una “scelta naturale” visto che si tratta di una struttura notoriamente all’avanguardia nei progetti di recupero dei detenuti a tutto campo, non solo lavorativo ed educativo ma anche appunto sociale. Tant’è vero che all’interno di Bollate esiste già una sala teatrale. L’idea è quella di attrezzarla anche per le proiezioni cinematografiche. Sassari: “Luci oltre le sbarre”, la reclusione in 30 scatti del fotografo Fabian Volti sassarinotizie.com, 12 settembre 2018 Venerdì 14 settembre a Sassari alle ore 18 verrà inaugurata la mostra fotografica “Luci Oltre le Sbarre. 30 Scatti” del fotografo sassarese Fabian Volti, presso la Sala Duce di Palazzo Ducale.Il progetto è a cura dell’associazione culturale 4CaniperStrada, con il patrocinio del Comune di Sassari - Assessorato alla Cultura e la collaborazione di Antigone, Ogros Fotografi Associati e il collettivo S’Idea Libera, con le stampe fotografiche curate da Artech Nuoro. La mostra riprende il tema della detenzione per riflettere sul diritto del detenuto, partendo dalla memoria dei luoghi abbandonati dell’ex carcere sassarese di San Sebastiano per ricostruire, attraverso l’uso della luce, le tracce di vita rimaste all’interno. Non solo una documentazione fotografica dello storico carcere di Sassari, ma un tentativo di portare alla luce i segni lasciati: adesivi attaccati alla mobilia, disegni e scritte sui muri, suppellettili improvvisate che non sono solamente oggetti ma rappresentano simbolicamente quella capacità di sopravvivere che gli esseri umani riescono a trovare nelle situazioni di totale privazione quando nella morsa detenzione. L’esposizione ospiterà il progetto a cura del collettivo S’Idea Libera di Sassari, la Biblioteca dell’Evasione, con la sezione Nelle Viscere degli Inferi, pannelli che contengono stralci di lettere tratti dalla corrispondenza portata avanti con prigionieri delle carceri sarde, che aprono un mondo non solo sul sistema penitenziario, ma anche su ciò che siamo noi, la società fuori così distante oltre le sbarre. Durante il periodo di apertura della mostra fotografica sono previsti due appuntamenti: - mercoledì 26 settembre alle 20,30 nel cortile di Palazzo Ducale verrà proiettato il film di Gianluca Nieddu Anche se non sono gigli (2013, Ita, 27’), risultato di un laboratorio di cinema realizzato con i detenuti del carcere di Macomer. Alla proiezione sarà presente il regista e uno degli interpreti per un dibattito con il pubblico. L’evento è a cura dell’associazione 4CaniperStrada. - lunedì 1 Ottobre ore 17.30 presso la sala conferenze del Palazzo della Cultura del Comune di Sassari, Ex infermeria San Pietro, verrà presentato il numero monografico della Rivista Antigone. Semestrale di critica del sistema penale e penitenziario: Islam e radicalizzazione. Processi sociali e percorsi penitenziari. Ne discutono Alvise Sbraccia dell’ Università di Bologna - Associazione Antigone, Mario Dossoni, Garante delle persone private della libertà - Comune di Sassari, introduce e coordina Daniele Pulino, Associazione Antigone -Osservatorio sulle condizioni di detenzione Sardegna. Le mostra sarà visitabile dal martedì al sabato mattina dal giorno 14 fino al giorno 6 ottobre, nelle ore 10.00-13.00, dalle 15.30 alle 19.00 tranne il lunedì e i festivi. Migranti. Decreto sicurezza bloccato su permessi ed espulsioni: alleati lontani di Marco Galluzzo e Fiorenza Sarzanini Corriere della Sera, 12 settembre 2018 Doveva essere “pronto alla fine di agosto”, come aveva annunciato il ministro dell’Interno Matteo Salvini. E invece molto lavoro dovrà essere ancora fatto per portare in consiglio dei ministri il “decreto sicurezza”, tanto che lo stesso titolare del Viminale ieri ha confermato il rinvio a “fine settembre”. I funzionari dell’ufficio legislativo sono al lavoro, ma i dubbi sollevati dai colleghi della Giustizia sono numerosi. Problemi tecnici che in realtà rendono manifesta la divisione politica. Il leader leghista vuole ridurre al massimo la concessione dei permessi umanitari agli stranieri e soprattutto “mandare via i migranti che commettono reati”. Il principio viene condiviso dagli altri componenti del governo, ma è sui metodi che non si trova l’accordo, con il Guardasigilli Alfonso Bonafede, determinato a difendere le garanzie costituzionali sulla presunzione di non colpevolezza e a ridurre la lista dei reati per i quali scatterebbe l’immediata sospensione della procedura per la concessione dello status di rifugiato. Si discute, dunque, e non soltanto su questo tema. Ieri è toccato al presidente del Consiglio Giuseppe Conte annunciare che per il cambio ai vertici dei servizi segreti si procederà “nelle prossime settimane”, confermando che anche sulle nuove nomine non c’è accordo. Resistenza e minacce - Attualmente nella lista dei reati che fanno perdere il diritto all’asilo ci sono quelli di grave “pericolosità sociale”, come l’associazione di stampo mafioso, il traffico di droga e armi, il pericolo per la sicurezza pubblica. L’elenco compilato al Viminale inserisce invece delitti di più lieve entità come la violenza, la minaccia e la resistenza al pubblico ufficiale facendo decadere l’istanza anche se all’imputato non è stata contestata l’aggravante. Nelle intenzioni di Salvini c’è pure la possibilità di far scattare la cosiddetta “anticipazione del giudizio”. In pratica si dovrebbe decidere l’espulsione dello straniero prima del giudizio definitivo di condanna, come adesso avviene quando si decreta l’espulsione per “salvaguardare la sicurezza nazionale” in materia di terrorismo islamico. Una strada che alla Giustizia viene però ritenuta impossibile da percorrere per reati di tipo comune, anche tenendo conto che un simile provvedimento difficilmente potrebbe superare il vaglio del Quirinale cui spetta la firma dei decreti prima dell’esame parlamentare. Al di là delle leggi italiane, sarebbe infatti in contrasto con trattati internazionali e norme comunitarie, come è stato sottolineato dagli esperti giuridici. I vertici degli 007 - I tecnici torneranno a vedersi la prossima settimana e intanto rimane al palo anche il cambio al vertice dei servizi segreti previsto per gli inizi di settembre. “In pochissime settimane procederemo a nuove nomine”, dichiara il premier Conte incalzato dalle domande dei parlamentari del Copasir. Funzionano, spiega, così come funziona l’impianto normativo attuale prima di elogiare pubblicamente Alessandro Pansa, direttore del Dis, che “sta facendo un buon lavoro e con il quale ho un ottimo rapporto”. Motivo in più per ritenere che proprio Pansa potrebbe comunque restare con un altro incarico a fianco del premier. L’avvicendamento - che Salvini ha posto come priorità subito dopo l’insediamento del governo - riguarderà lui e il direttore dell’Agenzia informazioni e sicurezza esterna (Aise) Alberto Manenti. Il leader leghista non ha infatti digerito il fatto che entrambi fossero stati prorogati dal governo guidato da Paolo Gentiloni tre giorni dopo la sconfitta. “È un problema nelle mani di Conte”, continua a ripetere a chi gli chiede chi saranno i successori. In realtà si tratta di scelte che vanno condivise, ma sui nomi non si riesce a trovare l’accordo. E questo rischia di indebolire strutture che sono essenziali per la sicurezza dello Stato. Quelle risposte sprezzanti all’Onu sui diritti umani non aiutano l’Italia di Riccardo Noury Corriere della Sera, 12 settembre 2018 Come sappiamo ieri, nel suo discorso al Consiglio Onu dei diritti umani, l’Alta commissaria delle Nazioni Unite per i diritti umani Michelle Bachelet (nella foto Afp), già presidente del Cile, ha sollevato preoccupazioni riguardo alla situazione in una decina di paesi. Tra questi - insieme ad altri due paesi europei, Austria e Germania - c’era anche l’Italia, in cui risultano in aumento gli attacchi con movente razziale. I dati a disposizione, tratti da fonti giornalistiche e da ricerche indipendenti, dicono che le cose stanno così. Facendo riferimento ai primi nove mesi dell’anno (in cui hanno governato due opposte maggioranze), di attacchi del genere ve ne sono stati oltre 100, di cui due con esiti mortali. L’ultimo, in ordine di tempo, è stato il pestaggio di un rifugiato della Guinea, a Sassari, avvenuto la notte scorsa. Le reazioni di importanti esponenti del governo italiano sono state molto dure. Il vice presidente del Consiglio e ministro dell’Interno Salvini ha minacciato di tagliare i finanziamenti alle Nazioni Unite: un atteggiamento che ricorda da vicino quello dell’amministrazione Usa nei confronti di organismi internazionali che, a giudizio del presidente Trump, non si comportano “come dovrebbero”. Il ministro degli Affari esteri Moavero Milanesi - a capo dunque del dicastero che rappresenta l’Italia nei rapporti internazionali - ha usato toni diversi ma la sostanza delle sue affermazioni non è meno grave: l’Alta commissaria Bachelet, fresca di nomina e dunque inesperta, avrebbe usato nei confronti dell’Italia “epiteti inappropriati”. Giova ricordare che compito degli organismi internazionali sui diritti umani è di monitorare attraverso svariati strumenti, comprese le missioni, il rispetto dei diritti umani negli stati membri delle Nazioni Unite. Non danno “lezioni” ma formulano raccomandazioni, cosa peraltro - e nessuno lo ha ricordato - regolarmente fatta nei confronti dell’Italia dalle diverse missioni di gruppi di esperti Onu sui diritti umani che negli ultimi anni hanno visitato il nostro paese. Compresa quella del Gruppo di esperti Onu sulla discriminazione nei confronti delle persone di origine africana, avvenuta nel 2015 sotto il governo Renzi, tornata a Ginevra assai preoccupata. È dovere degli stati membri delle Nazioni Unite accogliere queste missioni, accettarne la competenza, avviare dialoghi costruttivi e fornire piena collaborazione. Siamo nel 70° anniversario della Dichiarazione universale dei diritti umani. Con quell’atto solenne gli stati si sono impegnati non solo a rispettare i diritti umani, ma anche a rendere conto alla comunità internazionale del modo in cui li rispettano. L’idea che le Nazioni Unite si debbano “fare gli affari propri” non ha dunque alcun senso e sicuramente non accresce la credibilità internazionale dell’Italia: credibilità di cui, se vuole risolvere una serie di problemi che l’affliggono, il nostro paese ha un disperato bisogno. Allarme Onu: torna la fame, a rischio una persona su nove di Giampaolo Cadalanu La Repubblica, 12 settembre 2018 Rapporto 2018 della Fao e delle altre agenzie: guerre e cambiamenti climatici hanno aggravato la situazione mondiale. Li rivedremo presto, quei bambini scheletrici con la pancia gonfia, gli occhi senza lacrime coperti di mosche e il passo barcollante. Chissà, magari rivedremo anche lì accanto lo sguardo interessato di un avvoltoio, come in una celebre e orrenda foto di qualche anno fa. La fame è tornata. Se i primi dieci anni del nuovo Millennio avevano lasciato balenare il sogno di vedere finalmente l’umanità libera dal bisogno più elementare, il risveglio è come un secchio d’acqua gelata. A spazzar via ogni illusione è il Rapporto 2018 sulla sicurezza alimentare e sulla nutrizione, curato dalla Fao in collaborazione con Ifad, Wfp, Unicef e Oms. Il documento delle agenzie Onu lascia poco spazio a interpretazioni ottimiste. Il numero delle persone che non hanno accesso a un nutrimento adeguato è aumentato sia come percentuale che come cifra assoluta: nel 2017 erano circa 821 milioni, cioè il 10,9 per cento della popolazione mondiale, un essere umano su nove. È la conferma di una tendenza già evidenziata con i dati del 2016, per la prima volta in “rimbalzo” globale, dopo anni di diminuzione. I primi a essere colpiti, come sempre, sono i più piccoli: 151 milioni di bambini sotto i cinque anni registrano una crescita irregolare, 50 milioni sono denutriti. Le cifre indicano che la situazione più preoccupante è, come sempre, nell’Africa subsahariana e nei paesi più poveri dell’Asia. Ma fra i dati sui minori c’è anche un accenno ai 38 milioni di bambini sovrappeso. Non è ovviamente una contrapposizione fra affamati e obesi, ma è il segno di una diseguale, iniqua e disordinata distribuzione delle risorse. Le leggi del mercato da sole, si legge fra le righe, non garantiscono un’alimentazione corretta né a chi ha poco, né a chi ha qualcosa di più, ma non ha gli strumenti per gestirlo. E si rivolge a cibo di bassa qualità, economico e pieno di grassi, con molte calorie e basso valore proteico. Anche l’obesità degli adulti è in aumento, dice la Fao: sono in grave sovrappeso 672 milioni di persone, cioè un adulto su otto. Le cifre più impressionanti sono, come prevedibile, quelle registrate nel Nord America, ma destano preoccupazione anche gli aumenti di Asia e Africa. Fra i motivi della drammatica inversione di tendenza, le guerre ma soprattutto i cambiamenti ambientali. Il documento delle Nazioni Unite indica un aumento complessivo dei fattori climatici estremi, dalla siccità alle inondazioni, fino ai cicloni e alle temperature impazzite. E le conseguenze dei disastri sono accusate sempre dai più deboli, cioè dalle nazioni povere e maggiormente dipendenti dall’agricoltura. A meno di un impegno generalizzato per il controllo del clima, sottolinea il rapporto Fao, il progetto di sradicare del tutto la fame entro il 2030 appare ormai fuori portata. Orban: “L’Europa umilia gli ungheresi. Non accoglieremo mai i migranti” di Marco Bresolin La Stampa, 12 settembre 2018 Il leader magiaro sfida la Ue in vista del voto sulle sanzioni. Popolari spaccati. Forza Italia sta con Budapest. Alla fine il Partito popolare europeo ha preso la decisione più attesa: oggi i suoi eurodeputati saranno liberi di votare “secondo coscienza” se attivare oppure no l’articolo 7 del Trattato contro l’Ungheria. L’esito delle votazioni, che aprirebbero un percorso sanzionatorio verso Budapest, è del tutto incerto: per l’approvazione servono i due terzi dei votanti. Però, rispetto ai giorni scorsi, il fronte di chi vuole dare una lezione a Viktor Orban si è gonfiato notevolmente. Lo stesso Manfred Weber - capogruppo dei popolari, candidato alla presidenza della Commissione e sostenitore del dialogo con il fronte sovranista - ha deciso che è necessario mandare un segnale. “Io voterò a favore” ha detto ieri sera al termine della riunione con il gruppo, facendo scricchiolare il terreno sotto i piedi del leader di Fidesz. E questa è la vera novità. Una decisione, quella di Weber, maturata in seguito alla totale assenza di aperture da parte di Orban. Lui stesso gli aveva chiesto di presentarsi a Strasburgo con qualche concessione. E invece niente, è stato un muro contro muro. Tanto che il processo a Orban, a un certo punto del dibattito, si è trasformato in un processo al Ppe. Liberali, socialisti e verdi hanno chiesto ai popolari di prendere nettamente le distanze dal loro affiliato. “Ma come fate a difenderlo ancora?”. E a quel punto il capo del primo gruppo parlamentare è stato costretto a fare un passo indietro e a sposare la linea dura. Del resto un segnale che le cose sarebbero andate in questa direzione era già arrivato da Vienna. Sebastian Kurz, altro leader popolare in grande sintonia con la linea-Orban, aveva spiazzato tutti dicendo che gli austriaci avrebbero votato sì all’articolo 7. Tra i contrari, invece, c’è la delegazione di Forza Italia. La linea è stata confermata da Silvio Berlusconi in una “cordiale telefonata” con l’amico Orban, al quale ha confermato il suo sostegno. La performance del premier ungherese al Parlamento europeo è stata un vero e proprio atto di sfida alla Ue. Si è difeso attaccando e non ha fatto la minima concessione. Anzi. “Siete voi quelli che attaccano l’Ungheria, io la difendo”. E ancora: “Ci punite perché difendiamo le frontiere. Ma noi continueremo a farlo, anche contro di voi, se necessario”. Avanti, dritto per la sua strada. Tanto da incassare gli elogi di Nigel Farage, il leader dello Ukip che ha portato il Regno Unito fuori dall’Unione. “Caro Orban - gli ha detto - qui dentro sei l’unico leader Ue che difende il suo Paese. Unisciti anche tu al club della Brexit”. Ma di abbandonare il tetto comune europeo l’Ungheria non ci pensa affatto, anche perché il dare-avere in termini di versamenti al bilancio e fondi europei incassati è nettamente in attivo per Budapest. Così come non è in discussione un’uscita dal Partito popolare europeo. “Fidesz è stato invitato nel Ppe dal cancelliere Helmut Kohl - ha ricordato Orban - e c’è solo una persona che può buttarci fuori: Kohl. Ma è deceduto”. Per questo, dice, quella con Salvini “non è un’alleanza tra partiti” ma una “collaborazione tra i governi”. Gli italiani - ha aggiunto - “si sono dimostrati coraggiosi, mi tolgo il cappello davanti a quello che hanno fatto” sull’immigrazione. E non si riferiva certo ai migranti accolti in questi anni, ma alle navi tenute lontane dai porti italiani durante l’estate. E così, anche se il dibattito era dedicato all’Ungheria, sullo sfondo parecchi eurodeputati hanno intravisto l’Italia. E il rischio di una deriva del governo verso la linea-Orban nelle politiche migratorie. Il nome di Matteo Salvini è risuonato più volte tra i banchi dell’emiciclo durante gli interventi, con una frequenza decisamente maggiore rispetto agli undici anni in cui il leader leghista era a tutti gli effetti un membro di quell’Aula. Droghe e web, sfida agli stereotipi di Susanna Ronconi Il Manifesto, 12 settembre 2018 In materia di droghe, il web viene sempre più evocato - nella comunicazione mainstream e in quella politica - come una minaccia da panico morale: saremmo dominati da un invisibile nemico pervasivo contro cui nulla possiamo. Chi produce questa immagine di solito ha obiettivi politici, in primis quello di rianimare il moribondo approccio della tolleranza zero: se “il nemico” è così potente e tutti noi siamo così impotenti, l’unica cosa da fare è abolire le droghe dal mondo, perché non c’è modo per poterle governare. Come prima (vedi Convezioni Onu) ma anche più di prima, a causa della inarrestabile potenza del web. Una visione che, grazie a conoscenza, evidenza e confronto critico, può essere facilmente smantellata, per uscire dall’impotenza e recuperare spazi e modalità di azione. La Summer School organizzata da Forum Droghe e dal Cnca quest’anno ha dato il suo contributo di realtà sul tema droghe e web, rispondendo a un bisogno pressante di aggiornamento: pressante perché il web, è vero, con le droghe c’entra e sempre di più, e del resto come potrebbe non essere così, quando la comunicazione virtuale è ormai parte integrante della nostra vita quotidiana? Tre sono le dimensioni che hanno rivoluzionato il rapporto con le sostanze: il mercato, l’accesso all’informazione, gli interventi, soprattutto quelli di riduzione del danno (RdD). Il mercato. Non è adeguata una lettura degli acquisti sul darknet (il web non in chiaro) improntata al mero allarme: l’accesso implica alcune competenze di navigazione, ed è almeno parzialmente selettivo; è vero che è un mercato in crescita, ma le cifre miliardarie che circolano sui media sono sovrastimate e non vi è prova alcuna che la macro criminalità abbia fatto qui il suo ingresso, anzi, sono presenti molti venditori minori. In ottica di RdD, le esperienze di chi acquista on line e la letteratura internazionale testimoniano di una - relativa - sicurezza del darknet rispetto allo spaccio di strada: no violenza, più qualità in relazione ai prezzi, informazione, e sistemi di feedback che in qualche modo “controllano” i venditori. Siamo sempre in un mercato illegale, il web non sostituisce politiche di regolazione legale, ma tenere bassi i rischi ha una sua rilevanza. La gran parte dei cryptomarket, poi, includono forum di scambio tra pari e vere e proprie sezioni di consigli di RdD, raggiungendo una vasta popolazione altrimenti disinformata. Una frontiera interessante è quella portata da Doctor X (Fernando Caudevilla), medico, on line counsellor da milioni di contatti, e quella di Energy Control, che consente di effettuare il drug checking delle sostanze acquistate on line, fornendo informazioni cruciali per un consumo consapevole. Ma il web è ormai strategico nel campo degli interventi professionali e del supporto tra pari: da outreach e netreach, dalla strada al web, una RdD virtuale e molto efficace. Programmi di automonitoraggio per un consumo consapevole, on line counselling, chat con operatori, forum tra pari, comunicazione via whatsapp o instagram stanno integrando più tradizionali modalità di intervento: non si tratta - come molte esperienze italiane già dimostrano - di “nicchie” per pochi giovanissimi, ma di modalità trasversali a popolazioni e ambiti diversi. Il web è una risorsa formidabile, che sta forzando e sfidando le attuali, obsolete forme organizzative del lavoro sulle sostanze: ci sono, nei servizi, computer che bloccano l’accesso se si digita la parole “droghe”… e operatori di netreach che usano account personali per fare il loro lavoro. Altro che cani e telecamere: qui c’è bisogno di ben altro. Spagna. Un milione in piazza a Barcellona: “Liberate i nostri politici incarcerati” di Alessandro Oppes La Repubblica, 12 settembre 2018 Una folla enorme, come negli ultimi sei anni di celebrazioni della Diada, la festa nazionale catalana che ricorda la resa della città assediata dalle truppe borboniche, l’11 settembre del 1714. Ma questa volta il milione di manifestanti che hanno invaso il centro di Barcellona - lungo i sei chilometri della Avenida Diagonal, dal palazzo reale di Pedralbes fino alla Plaça de les Glòries - avevano una carica emotiva in più nelle loro consuete rivendicazioni indipendentiste. Il referendum illegale (con le violenze della polizia accorsa da Madrid), la dichiarazione d’indipendenza rimasta incompiuta, gli arresti o l’esilio dei componenti del governo locale, il commissariamento della regione con il famigerato articolo 155: dodici mesi che hanno segnato in modo profondo la politica e la società catalana. Per questo la rivendicazione più forte, tra i tanti slogan scanditi dal movimento tornato a invadere la metropoli, era quella libertà per i presos politics, gli ex dirigenti regionali incarcerati tra ottobre 2017 e il gennaio scorso con l’accusa gravissima di “ribellione”, un reato per il quale saranno giudicati nei prossimi mesi dal Tribunale Supremo in un processo che potrebbe riportare la tensione alle stelle. Lo ha ricordato in piazza anche la sindaca di Barcellona Ada Colau: “Finché ci saranno politici in carcere, sarà molto difficile recuperare la normalità”. E persino Josep Borrell, catalano e socialista, il ministro degli Esteri che i dirigenti secessionisti vedono come il fumo negli occhi perché non è mai stato tenero con loro, ieri ha ammesso: “Avrei preferito che il giudice avesse preso in considerazione altre misure al posto della carcerazione”. Nonostante gli slogan che si levavano dalla piazza di Barcellona, con appelli a “rendere effettiva la repubblica” proclamata in modo simbolico il 27 ottobre dello scorso anno, da Madrid il premier Pedro Sánchez tende la mano: “Puntiamo sul dialogo con la Catalogna”.