Il taser può essere letale, il manuale d’uso lo conferma di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 11 settembre 2018 Ma il Sottosegretario Morrone vuole darlo in dotazione anche alla Polizia penitenziaria. Il taser, strumento di cui si è proposta l’estensione anche nei penitenziari, è pericoloso, anche secondo il manuale tecnico della pistola elettronica in dotazione. A rilanciare l’estensione della pistola elettrica nei penitenziari è del sottosegretario alla Giustizia Jacopo Morrone, leghista: “Dopo l’esordio positivo della sperimentazione del taser messo in dotazione alla Polizia di Stato in undici città, credo sia legittimo prevederne l’utilizzo sperimentale, in certi casi, anche per la Polizia Penitenziaria”. Il Sottosegretario ricorda “i ripetuti episodi di violenza da parte di detenuti nei confronti di agenti in vari istituti carcerari” e vede nel taser “un mezzo di deterrenza, che può avere anche un effetto preventivo, come abbiamo già avuto modo di vedere a Milano, Catania e Torino, solo per fare un esempio, ed è efficace anche per ridurre i rischi per l’incolumità degli agenti nell’affrontare aggressioni, impedendo la colluttazione fisica”. La richiesta di avere in dotazione un arma di questo tipo era arrivata in passato dai sindacati della Polizia penitenziaria, ma ora trova sponda da parte del partito al governo. Naturalmente dovrà essere il ministro della giustizia Alfonso Bonafede ad emanare un decreto ad hoc su questo tema. Per ora non ha espresso nessuna opinione a tal proposito. Nei prossimi giorni, il sottosegretario Morrone ha comunque detto che porterà la sua proposta all’attenzione del guardasigilli e gli chiederà di procedere su questa strada mettendo a punto, in tempi rapidi, “un progetto che possa essere applicato efficacemente, con le dovute accortezze, anche negli Istituti di pena”. Più volte Il Dubbio ha ricordato che da molti viene definita una “pistola non letale”, ma a partire dal 2000, anno di introduzione del taser, sarebbero stati circa 1.000 i morti a causa di questo tipo di pistola. Molti studi medici hanno certificato che per persone con precedenti disturbi neurologici o cardiaci la pistola taser ha rischi mortali. La stessa azienda produttrice americana è stata costretta ad ammettere che nello 0,25% dei casi c’è rischio di morte. Così come il Garante nazionale delle persone private della libertà, nella sua ultima relazione annuale, ha ricordato come “l’utilizzo del taser possa essere giustificato solo in un ambito limitatissimo di casi e che, inoltre, si debba tener in debito conto che il beneficio derivante da un minor utilizzo delle armi letali è certamente controbilanciato da alcuni elementi negativi non trascurabili”. E cita i potenziali rischi di abuso, derivanti proprio dalla sua pretesa non letalità; la sofferenza provocata dalla scarica elettrica alla quale è associato, oltre alla perdita di controllo del sistema muscolare, anche un dolore acuto; le ulteriori conseguenze di tipo fisico, visto che la persona colpita dal taser normalmente cade a terra e quindi può provocarsi lesioni alla testa o a altre parti del corpo. Nei casi più gravi, infine, la morte per arresto cardiaco o conseguenze, per esempio, sulla salute del feto nel caso di donne incinte. Ma per comprendere tutta la sua pericolosità basta leggere direttamente il manuale tecnico operativo della pistola taser, proprio il modello “X2” in dotazione presso la polizia, carabinieri e guardia di finanza. Si legge testualmente che “dopo il tiro è necessario controllare se la persona colpita abbia subito conseguenze lesive importanti, sia legate all’uso del taser che in conseguenza della caduta. Una volta posto in sicurezza il soggetto colpito, se fossero state colpite parti sensibili (ad esempio organi genitali, testa, collo, etc.), dovrà essere richiesta l’assistenza di personale sanitario, senza procedere alla rimozione dei dardi”. Ma non solo, c’è anche scritto che “in caso di persistente sanguinamento dai punti d’impatto, dovrà essere richiesta l’assistenza di personale sanitario procedendo, nel frattempo, al tamponamento della ferita con i dispositivi sanitari in dotazione. Il soggetto colpito dovrà essere osservato, con particolare attenzione allo stato di coscienza e nei casi in cui non sia responsivo dovrà essere richiesto l’intervento del personale sanitario assicurando, nell’attesa, l’assistenza di primo soccorso di base”. Quindi parliamo di un’arma cosiddetta non letale, ma altrettanto pericolosa. Così pericolosa che a pagina 10 del manuale tecnico si raccomanda, prima di utilizzarla, di “considerate le eventuali e manifeste condizioni di vulnerabilità del soggetto da attingere come ad esempio un evidente stato di gravidanza o una chiara disabilità”. Ma non solo. Le raccomandazioni sono ferree per minimizzare i rischi legati all’uso del taser: colpire preferibilmente la parte posteriore del corpo, ad eccezione della testa e del collo; evitare di colpire il viso, la zona cardiaca del petto e gli organi genitali; valutare il contesto di impiego; valutare i rischi di caduta della persona successivamente all’impulso elettrico o il possibile rischio di colpire altre persone che si trovano nelle immediate vicinanze del soggetto interessato (per esempio in presenza di più persone, in occasione di eventi o manifestazioni), in presenza di condizioni ambientali avverse o nel caso in cui siano presenti soggetti minori di età nelle immediate vicinanze. Ecco spiegato perché “l’arma non letale”, in realtà può essere letale. Male nostrum. Vittime di malagiustizia di Paola D’Amico Corriere della Sera, 11 settembre 2018 Arresti per reati mai commessi, accuse inesistenti, risarcimenti dopo 30 anni per negligenze di giudici e avvocati: l’associazione delle vittime (Aivm) segue casi in tutta Italia e offre mi supporto gratuito. In sei anni sono arrivate migliaia di segnalazioni da persone di ogni età che si sono ritrovate con la vita distrutta. Stordite, incapaci di reagire, risucchiate in un labirinto senza uscita. Così le vittime di malagiustizia raccontano di essersi sentite il giorno in cui si sono trovate coinvolte in una vicenda giudiziaria di cui erano totalmente all’oscuro. Chi ha dovuto affrontare un giudice fallimentare senza sapere perché, chi è stato portato in carcere per reati mai commessi, chi s’è trovato il decreto di sequestro preventivo sulla casa. Choc destinato a perpetuarsi nel tempo: riavere la fedina penale immacolata può richiedere decenni. Mentre la vittima invischiata in un’oscura vicenda giudiziaria viene trascinata in basso, i risarcimenti (spesso) restano un miraggio. Infine, può suonare come una beffa il fatto che, quand’anche una Corte avrà dettato l’agognata formula (“assolto perché il fatto non sussiste”), non ci sarà tribunale disposto a portare sul banco degli imputati Fautore/autori dell’errore. Tunnel senza uscita - Questa è la storia di Michele Tedesco, imprenditore di Bari assolto con formula piena nove anni dopo l’arresto per traffico internazionale di stupefacenti: nove anni che gli hanno distrutto la vita. Che dire, poi, della vicenda del piccolo Angelo, morto a 3 anni, investito da un pirata della strada: era il maggio 1984. Il risarcimento ai genitori è arrivato 33 anni dopo. E ancora Luca, bollato come delinquente abituale per uno scambio di persona: gli fu vietato di far ritorno nella frazione di Frosinone dove lavorava. Fu riabilitato dopo un’istanza al Ministero dell’Interno. La direzione centrale della Polizia Criminale cancellò i dati erronei. Ma lui ne fu informato solo due anni dopo, Chi entra in questa spirale - spiega Mario Caizzone, che ha fondato nel 2012 l’Associazione italiana vittime di malagiustizia (Aivm) - viene triturato dal sistema”. Ne è testimone diretto. Nel 1992, nel clima rovente di Mani Pulite, fu arrestato per colpe non sue: “Sono trascorsi 22 anni per poter riavere la fedina penale immacolata”. Per dieci non ha potuto svolgere l’attività di commercialista: “Mi ha salvato la mia famiglia. Ho sempre detto che se ne uscivo vivo - aggiunge - avrei fatto qualcosa per gli altri. Ero benestante, sono finito sul lastrico”. Le vittime, dice, sono i “nuovi poveri”. Come loro, “all’epoca fui sopraffatto dal panico, incapace di reagire”. Nell’ufficio milanese che s’affaccia sulla Stazione Centrale, in piazza Luigi di Savoia 22, ogni giorno s’alternano 4/5 volontari: Valentina, Carlo, Nicola e Tea, che ricorda il caso di un’anziana “alla quale l’amministratore di sostegno sottrasse 40 mila euro”. Molti sono laureandi in giurisprudenza o esperti di marketing e comunicazione. Alle spalle hanno un pool di consulenti. Il supporto alle “vittime” di malagiustizia è totalmente gratuito. Il telefono squilla con insistenza. È una donna: “Non so cosa devo fare”, dice. Da due mesi scrive all’avvocato di fiducia per sapere com’è finita la transazione con l’ex socio. L’udienza in tribunale è imminente. “Chieda al giudice un rinvio, intanto prendiamo in mano il caso”, risponde Caizzone, che precisa: “Non rappresentiamo in giudizio queste persone ma le aiutiamo a sbrogliare la matassa, le facciamo uscire dall’angolo”. Segnalazioni In sei anni Aivm ha raccolto la segnalazioni di 7 mila persone. Uomini, donne, giovanissimi e pensionati, oltre la metà nei guai con la giustizia penale, altri a causa di banali querelle familiari divenute per incanto tragedie apocalittiche. “Non di rado a monte di tutto c’è la negligenza di un avvocato - aggiunge Caizzone - che perde la causa, perché non fa le giuste contestazioni o non presenta il ricorso nei tempi corretti”. L’associazione, su invito della Commissione Giustizia della Camera ha proposto la revisione della carcerazione preventiva: “Non ha senso, distrugge la persona”. Ha poi chiesto “la creazione di un inter-gruppo parlamentare per ridiscutere il gratuito patrocinio a spese dello Stato”. Attualmente, per come è strutturato, “non dà garanzia. Chi controlla l’operato dell’avvocato d’ufficio?”. Infine, Aivm sottolinea un aspetto cruciale: “I nomi degli imputati non devono essere divulgati fino all’udienza preliminare o al rinvio a giudizio, per dare la possibilità agli imputati stessi di difendersi”. Il tema al centro è, innanzi tutto, la professionalità di avvocati e magistrati. “La giustizia arranca”. Serve una sorta di “tribunale del malato, una Corte di giustizia - conclude Caizzone - che, oltre a dare supporto a chi si sente abbandonato, possa entrare nel merito del loro operato”. Mille indennizzi all’anno. Le detenzioni ingiuste costano 29 milioni di Paola D’Amico Corriere della Sera, 11 settembre 2018 Malagiustizia, quanto costi allo Stato? Gli indennizzi pagati per ingiusta detenzione hanno raggiunto cifre record. La media nazionale è di oltre mille indennizzi annui, per una spesa superiore ai 29 milioni di euro. Cifre record a Catanzaro, che nell’ultimo anno ha registrato 158 casi costati 8 milioni e 600mila euro. Tra le prime dieci, Reggio Calabria con un milione 39mila euro. I dati sono stati forniti a metà agosto dalla commissione Giustizia, dove il sottosegretario Vittorio Ferraresi ha risposto a un’interpellanza del deputato di Forza Italia Enrico Costa. A mettere i soldi è il ministero del Tesoro, che ha una procedura di pagamento specifica prevista per questi casi. “Il fenomeno - ha detto il rappresentante del governo - è costantemente monitorato dal ministero”. Un’attività che avviene “attraverso le periodiche ispezioni ordinarie nel corso delle quali si sottopone a un approfondito scrutinio tutta l’attività svolta dai magistrati”. Così la magistratura preferisce il proprio riscatto allo stato di diritto di Beniamino Migliucci* Il Foglio, 11 settembre 2018 La parte egemone delle toghe utilizza questo momento di crisi come un’occasione per riprendersi tutto lo spazio perduto nel gradimento dell’opinione pubblica e per attuare la destrutturazione del sistema penale. Le democrazie costituzionali moderne si fondano su alcuni valori che la ragione è in grado di spiegare e di inserire in un sistema coerente. Democrazia, libertà, diritti inviolabili, garanzie e la ragione stessa costituiscono dunque una costellazione che ci indica la strada da seguire anche quando la via sembra smarrita. Si comprende, ora, come sia più facile, davanti ai problemi che la complessità della globalizzazione dell’economia e dei diritti ci pone, rifugiarsi nel grembo recessivo di una irresponsabile risposta emotiva. Là dove mille like sostituiscono il necessario e non sempre favorevole feedback critico, e dove l’applauso di un pubblico senza opinioni sostituisce la faticosa conquista del consenso di una pubblica opinione consapevole. Ovvio che nel contesto comunicativo in cui la nostra società è descritta come in balìa di criminali di ogni tipo, nella quale il far-west non è quello al quale ci consegnerà una legge dissennata sulla legittima-difesa-che-è sempre-legittima, ma è quello nel quale già quotidianamente viviamo, il popolo ingannato si senta finalmente gratificato. Ed è comprensibile che, in un presente nel quale il governo dei vendicatori prospetta riforme della giustizia penale a costo zero, strutturali, risolutive, ed epocali, che faranno finalmente impallidire i criminali ed azzereranno il fenomeno della corruzione, ognuno di noi esulti come un suddito riconoscente. Ma quelli con i quali si trastulla questo goffo legislatore non sono innocui giocattoli, ma pericolosissimi dispositivi in grado di radere a zero quel poco di ragionevole che è stato costruito intorno al processo penale. Vediamo qualche esempio. Le funamboliche ipotesi di infiltrati nelle pubbliche amministrazioni, “barbe-finte” che ripristinano nei nostri uffici modalità investigative da spia-di-condominio di sovietica memoria, sono quanto di più anti-moderno si possa immaginare. L’art. 50 della Convenzione Onu del 2003 contro la corruzione, chiamata in causa a giustificazione dell’intervento, invita gli stati aderenti solo a consentire l’utilizzo della “consegna controllata” che il nostro Paese ammette ed utilizza già da tempo. Quanto alle “tecniche speciali di investigazione”, fra le quali le “operazioni sotto copertura”, la Convenzione si rimette a valutazioni di “opportunità” di ogni singolo Stato. E tuttavia tali operazioni (anch’esse da tempo utilizzate nel nostro paese) sono cosa ben diversa dalla istituzionalizzazione della figura inquietante ed ubiqua dell’operatore-infiltrato negli uffici e nelle ASL. Figure destinate dunque a diffondere, contro ogni valutazione di opportunità, la cultura del sospetto, anziché quella della trasparenza e della lealtà. L’introduzione di una ipotesi di non punibilità per chi collabora denunciando il crimine appena commesso restituendo anche il malloppo, individua un soggetto antropologicamente e criminologicamente misterioso, la cui esistenza sarà svelata solo dalle cronache future. Il fatto stesso che un simile “lasciapassare” sia escluso nel caso di “premeditati” e machiavellici progetti a danno del complice, lascia intendere quanti e quali siano i rischi inoculati nel sistema da un simile istituto. L’inserimento dell’abuso d’ufficio fra i reati per i quali si butta-via-la-chiave è un controsenso che legittima in ipotesi anche l’inserimento del reato di danneggiamento nell’ambito di applicazione del carcere duro ex 41-bis. Gli aumenti di pena per i reati contro la Pubblica Amministrazione, spacciati per un toccasana rivoluzionario, si susseguono nel tempo di governo in governo senza trovare pace, a dimostrazione della inutilità ed insensatezza di un simile approccio. Inutili ed incostituzionali i rimedi accessori, quali il Daspo-a-vita-per-tutti-i-corrotti, perché le misure accessorie, come le pene detentive, devono infatti avere un fine ed una fine e contemplare dunque un possibile riscatto ed una riabilitazione. Così come privi del tutto di proporzione ed equilibrio, all’inseguimento di una assai improbabile “deterrenza”, gli aumenti fino a 10 anni relativi alle misure interdittive nell’ambito della responsabilità amministrativa degli enti. Misure potenzialmente letali che rischiano di annichilire una solida realtà economica, anche a fronte di illeciti modesti. Che la politica viva un momento di confusione non ci meraviglia. Quel che invece ci meraviglia e ci preoccupa è che la parte egemone della magistratura viva questo momento, non come un momento di crisi nel quale serrare i ranghi attorno allo Stato di diritto, ma come una occasione di riscatto, come un momento-magico di cui profittare per riprendersi tutto lo spazio perduto nel gradimento dell’opinione pubblica, e per attuare quella destrutturazione del sistema penale verso il quale quella magistratura vincente preme da tempo. Tuttavia, Reformatio in peius e blocco della prescrizione sono, assieme alla informe-riforma spazza-corruzione appena uscita dal Consiglio dei Ministri, non solo risposte sbagliate a problemi reali, ma piuttosto contro-riforme che prefigurano il ripristino definitivo di un processo autoritario nel quale la giurisdizione diventa l’esercizio di un atto di potere e non più un rito di giustizia. Tutto ciò dimenticando che un processo autoritario vive solo in una società che ha perso il passo e il respiro dei valori sui quali si fonda una democrazia. *Presidente dell’Unione delle Camere Penali italiane Armi da guerra sotto il cuscino e taser in cella di Eleonora Martini Il Manifesto, 11 settembre 2018 Top gun gialloverde: il governo recepisce a amplia l’ultima direttiva Ue. Da ieri in Italia è più facile detenere le cosiddette “black rifle”. Scontro tra Lega e M5S sulle pistole elettriche in dote agli agenti penitenziari. Proprio mentre la California si prepara a dare un altro giro di vite anche sulla vendita di munizioni, per disincentivare l’uso di massa delle armi da fuoco che tante tragedie ha causato, l’Italia invece va in direzione opposta e si aggiudica il triste primato di essere il primo Paese dell’Ue a recepire - interpretandola in modo ancora più permissivo - la direttiva 2017/853 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 17 maggio 2017, che modifica il precedente dettame riguardante il controllo dell’acquisizione e della detenzione di armi. Da ieri infatti, contestualmente alla pubblicazione in Gazzetta ufficiale del decreto legislativo n. 104 del 10 agosto 2018, è più facile acquistare e detenere armi in casa, senza neppure avvisare gli altri membri della famiglia o eventuali conviventi. E non solo quelle sportive, ma anche fucili d’assalto o le cosiddette “black rifle”, ossia le “armi semiautomatiche a canna liscia somiglianti ad un’arma da fuoco automatica la cui canna non supera i 60 cm”, come recita la definizione della relativa categoria declassata dalla direttiva Ue da B9 a B7. Tra queste ci sono carabine come l’Ar15 e mitragliatori come alcuni Kalashnikov. Armi da cecchini, o da stragi nelle scuole. Nella direttiva europea le armi che erano annoverate nella categoria B7 sono state invece spostate in B9. Un ribaltamento, un “pasticcio” che permette di legalizzare ciò che prima era illegale, secondo i desiderata della lobby delle armi. Ma per recepire la direttiva 853, nel decreto legislativo il governo gialloverde ha dovuto correggere perfino la legge antiterrorismo 43 del 2015, che vietava la caccia con fucili “rientranti tra le armi semiautomatiche somiglianti ad un’arma da fuoco automatica”. Nei 14 articoli del decreto viene raddoppiato il numero di “armi sportive” che è possibile detenere (da 6 a 12), e dei colpi consentiti nei caricatori (da 15 a 20 per le armi corte e da 5 a 10 per quelle lunghe). Malgrado poi diminuisca la durata delle licenze di porto d’armi per l’uso venatorio e sportivo (da 6 a 5 anni), per denunciare di detenere un’arma basta inviare una mail ai carabinieri o alla questura tramite posta certificata. Inoltre, malgrado si debba ottenere il titolo di “tiratori sportivi” per detenere armi di categoria A6 (demilitarizzate) e A7 (a percussione centrale con caricatore superiore a dieci colpi per arma lunga e venti per arma corta), per essere definiti tali basta essere iscritti alle federazioni specifiche di un qualunque Paese europeo, oppure alle sezioni del Tiro a segno nazionale, o alle associazioni sportive dilettantistiche affiliate al Coni che operano anche in campi privati. Quest’ultima norma è retroattiva al 13 giugno 2017. Gli oneri finanziari del decreto sono pari complessivamente a 800 mila euro per il 2018, a 1,3 milioni di euro per il 2019 ed a 600 mila euro a partire dal 2020. Soddisfatte le associazioni per i diritti dei detentori legali di armi, come il Comitato D-477 che per la Lega ha condotto una serrata campagna elettorale e ora raccoglie i frutti. Fu infatti con loro che Salvini stipulò un accordo in questa direzione nel febbraio scorso, molto prima del “contratto di governo” siglato con il M5S, durante l’Hit show, la fiera annuale di Vicenza dedicata alla caccia, al tiro sportivo e alla difesa personale. Insorge invece il Pd: “Più pistole facili. Con la #leggeFarWest arriva il regalo alla lobby delle armi dello sceriffo Salvini e dei suoi complici a 5Stelle. Scendiamo in piazza il 30 settembre contro questo governo della paura #fiancoafianco”, scrive Maurizio Martina su Fb mentre il governatore del Lazio Zingaretti sottolinea con un tweet che “il governo ha deciso: meno soldi per le periferie e pistole e armi nelle case. Vergogna! Non è l’Italia che vogliamo”. In realtà neppure il popolo del M5S è così contento del nuovo corso pro-gun. Tanto che perfino in seno al governo gialloverde si evidenzia una spaccatura. Il terreno di scontro è il taser, la pistola elettrica che dal 5 settembre è in dotazione sperimentale delle forze dell’ordine in 12 città italiane (in Lombardia l’assessore regionale De Corato vuole darle anche ai vigili urbani) e che la Lega vorrebbe introdurre nelle carceri. Malgrado negli Usa abbia causato oltre mille morti da quando è stata introdotta nel 2000, il sottosegretario alla giustizia, il leghista Jacopo Morrone, lo ha promesso a certi sindacati di polizia penitenziaria che la chiedono da tempo (gli stessi contrari al divieto di tortura). Per sostanziare la sua causa, Morrone si è inventato una “intollerabile escalation di violenza nelle carceri contro gli agenti”, sull’onda della denuncia fatta qualche giorno fa dal Sappe. Ignorando totalmente il duro intervento del ministro Bonafede che ha smentito “nel modo più assoluto” il sindacato autonomo di polizia penitenziaria che aveva parlato di “giornata nera nel carcere di Poggioreale”. “Gratuito allarmismo”, lo ha definito il Guardasigilli grillino. La sfida a mafie e gang: i bambini via dalla famiglia di Vincenzo Iurillo Il Fatto Quotidiano, 11 settembre 2018 Norme che rendano più semplici gli arresti per i minorenni accusati di fatti gravi, oggi impossibili in flagranza di reato persino per il porto di un’arma comune e per le lesioni gravi. Una valutazione dell’incisività della misura dell’allontanamento del minore dalla famiglia mafiosa. La lotta alla dispersione scolastica come precondizione di legalità, tramite rilevazioni più accurate e tempestive. Ne discute oggi il plenum del Consiglio Superiore della Magistratura, riunito eccezionalmente a Napoli per sottolineare l’importanza della partita da vincere: quella contro le baby gang di camorra e contro la cultura mafiosa che stimola i ragazzini a compiere reati predatori per “il desiderio di soddisfare bisogni materiali” e così “emulare modelli veicolati dai mass media”. Sono alcuni dei passaggi della risoluzione della VI Commissione del Csm - relatori i consiglieri Paola Balducci, Antonello Ardituro e Raffaele Cananzi - che il Plenum affronterà oggi pomeriggio. E come sottolinea Ardituro, “sulle misure cautelari per i minorenni esistono dei paradossi sui quali i magistrati che abbiamo sentito ci hanno chiesto di intervenire”. Forse anche per questo i fascicoli minorili a Napoli sono diminuiti tra luglio 2016 e 2017 del 24%. “Non perché c’è stato un calo degli episodi criminosi, ha spiegato in commissione la presidente del Tribunale dei minori di Napoli Maria De Luzenberger, ma “perché sono aumentate le mancate denunce delle vittime e sono diminuite le segnalazioni da parte delle forze dell’ordine”. La risoluzione è il frutto dell’analisi del “caso Napoli” e delle relazioni provenienti dai Tribunali minorili di Napoli, Reggio Calabria e Catania. Il vicepresidente del Csm Giovanni Legnini coordinerà i lavori su temi che hanno diviso e continuano a dividere pezzi di magistratura, tra chi è favorevole all’allontanamento dei minori dalle famiglie dei boss, e chi invece ritiene che lo Stato dovrebbe rispondere intensificando le politiche di inclusione e di reinserimento. Tra i primi c’è il procuratore nazionale antimafia Federico Cafiero de Raho: “Da anni - ha detto - si opera per sottrarre i figli ai boss quando il contesto non consente per loro alcuna proiezione futura che non sia quella della permanenza nel sodalizio mafioso. Le risoluzioni del Csm stanno dando sul punto delle indicazioni condivisibili e rispondono ai risultati positivi che sono stati conseguiti attraverso i modelli proposti da Reggio Calabria e Napoli”. I contrari fanno proprie le riflessioni dell’ex giudice di Napoli Nicola Quatrano - autore della sentenza di condanna della “paranza dei bambini”, le baby gang di camorra portate alla sbarra dai pubblici ministeri Francesco De Falco ed Henry John Woodcock - che in un editoriale sul Corriere del Mezzogiorno ha scritto: “Sottrarre i figli a chi delinque è una punizione collettiva vietata dalla Convenzione di Ginevra e risponde a una logica militare che considera chi delinque un nemico da annientare e non un problema sociale da risolvere”. Ma secondo la relazione del presidente del Tribunale dei minori di Reggio Calabria, Roberto Di Bella, che è stato il primo a usarla, la misura dell’allontanamento dei minori funziona: “Su quasi 50 provvedimenti, tutti i ragazzi hanno ripreso la frequenza scolastica interrotta, svolgono attività socialmente utili, frequentano percorsi alla legalità con gli operatori antimafia. L’orientamento giurisprudenziale ha portato un vero e proprio scossone culturale, ha intercettato quasi un bisogno sociale da parte di tante madri ‘ndranghetiste”. Ricordando che “nel 2017 lo stesso ufficio giudiziario si trova a giudicare i figli o i fratelli minori di coloro che erano stati processati negli anni 90: tutti appartenenti alle storiche famiglie del territorio. La conferma che la ‘ndrangheta si eredita, con l’indottrinamento sistematico dei figli”. Ricorso per cassazione: il vizio di travisamento della prova Il Sole 24 Ore, 11 settembre 2018 Impugnazioni penali - Ricorso per cassazione - Ipotesi di c.d. “doppia conforme” - Vizio di travisamento della prova - Deducibilità solo in caso di diversità del materiale probatorio esaminato. In presenza di una c.d. “doppia conforme”, cioè di una doppia pronuncia di eguale segno, il vizio di travisamento della prova può essere rilevato in sede di legittimità solo nel caso in cui il ricorrente rappresenti (con specifica deduzione) che l’argomento probatorio asseritamente travisato è stato per la prima volta introdotto come oggetto di valutazione della motivazione del provvedimento di secondo grado. Il vizio di motivazione può infatti essere fatto valere solo nell’ipotesi in cui l’impugnata decisione ha riformato quella di primo grado nei punti di cui è investito il giudice di legittimità, non potendo, nel caso di c.d. “doppia conforme”, superarsi il limite del “devolutum” con recuperi in sede di legittimità, salvo il caso in cui il giudice d’appello, per rispondere alle critiche dei motivi di gravame, abbia richiamato atti a contenuto probatorio non esaminati dal primo giudice. • Corte di cassazione, sezione II penale, sentenza 28 agosto 2018 n. 39062. Impugnazioni penali - Ricorso per cassazione - Travisamento della prova - Giudice di merito - Convincimento - Prova inesistente - Risultato di prova incontestabilmente diverso. È deducibile ex articolo 606 cod. proc. pen. il “travisamento della prova”, il quale si realizza nel caso in cui il giudice di merito abbia fondato il proprio convincimento su una prova che non esiste o su un risultato di prova incontestabilmente diverso da quello reale, considerato che, in tale ipotesi, non si tratta di reinterpretare gli elementi di prova valutati dal giudice di merito ai fini della decisione, ma di verificare se detti elementi sussistano o meno. • Corte di cassazione, sezione I penale, sentenza 10 ottobre 2016 n. 42803. Impugnazioni - Cassazione - Motivi di ricorso - Illogicità della motivazione - Vizio di travisamento della prova - Rilevanza - Condizioni - Fattispecie. In tema di motivi di ricorso per cassazione, il vizio di travisamento della prova, desumibile dal testo del provvedimento impugnato o da altri atti del processo purché specificamente indicati dal ricorrente, è ravvisabile ed efficace solo se l’errore accertato sia idoneo a disarticolare l’intero ragionamento probatorio, rendendo illogica la motivazione per la essenziale forza dimostrativa del dato processuale /probatorio, fermi restando il limite del “devolutum” in caso di cosiddetta “doppia conforme” e l’intangibilità della valutazione nel merito del risultato probatorio. (In applicazione del principio, la Corte ha escluso che un incongruo riferimento a fattispecie di reato diverse da quella in contestazione potesse determinare l’invalidità della sentenza impugnata nella parte relativa al rigetto dell’eccezione di incompetenza per territorio, essendo stato comunque correttamente individuato il giudice cui spettava la cognizione della regiudicanda). • Corte di cassazione, sezione VI penale, sentenza 3 febbraio 2014 n. 5146. Prova penale - Valutazione - Competenza dei giudici di merito - Travisamento della prova - Controllo della corte di legittimità - Ammissibilità. Il cosiddetto “travisamento della prova” si configura quando il giudice del merito abbia utilizzato una prova inesistente o quando ha presupposto come esistente una prova mai assunta, ovvero abbia introdotto nella motivazione una informazione inesistente nel processo o, al contrario, abbia taciuto di un elemento esistente, mentre restano estranei al sindacato della Corte di Cassazione i rilievi in merito al significato della prova ed alla sua capacità dimostrativa, per cui la censura non può mai risolversi nella rivisitazione dell’iter ricostruttivo del fatto. • Corte di cassazione, sezione I penale, sentenza 5 marzo 2007 n. 9275. Non è prevista la conservazione del campione ematico prelevato per stabilire il tasso alcolemico di Domenico Carola Il Sole 24 Ore, 11 settembre 2018 Corte di Cassazione - Sezione IV - Sentenza 9 agosto 2018 n. 38369. I giudici della quarta sezione Penale della Corte di cassazione con la sentenza n. 38369 del 9 agosto 2018 hanno stabilito l’attendibilità della prova ematica per determinare l’alcolemia, in quanto nessuna disposizione del CdS o altra norma di legge dispone la conservazione del campione ematico esaminato, né la effettuazione di analisi di controllo in assenza delle quali il risultato fornito dall’ospedale pubblico sarebbe inutilizzabile. Il caso - Un automobilista proponeva ricorso per Cassazione avverso la sentenza della Corte territoriale di Firenze che, in riforma della pronuncia assolutoria del Tribunale di Grosseto, lo aveva ritenuto responsabile del reato di cui all’articolo 186, secondo comma lettera c) e comma 2-bis, del codice della strada, condannandolo alla pena di mesi tre di arresto e ammenda. Deduceva, in sintesi vari motivi di ricorso tra i quali nullità della sentenza per violazione in quanto non avvertito, all’atto del prelievo, della facoltà di farsi assistere da un difensore di fiducia. Sul punto il ricorrente rappresentava di avere eccepito il mancato avviso anche innanzi al giudice di primo grado attraverso il deposito di memoria difensiva, “ribadita” nel verbale di udienza. Il ricorrente lamentava che il giudice d’appello, pure avendo sovvertito il verdetto assolutorio non ha provveduto a rinnovare l’istruzione dibattimentale riassumendo la deposizione di un teste dalle cui dichiarazioni emergevano prove evidenti della non colpevolezza dell’imputato. Riteneva la sentenza nulla anche per violazione delle disposizioni del protocollo operativo per gli accertamenti richiesti ai sensi del quinto comma dell’articolo 186 del codice della strada, stilato dal ministero dell’Interno di concerto con quello della Salute e dei Trasporti. Evidenziava il ricorrente che nelle 48 ore dall’incidente e dalle analisi aveva presentato richiesta all’ospedale finalizzata alla conservazione del campione di sangue ed urine prelevati per effettuare ulteriore controlli sugli stessi, ritenendo che il risultato delle analisi fosse errato. Il protocollo tra i due ministeri stabilisce che il sangue prelevato sia contenuto in due provette, la prima destinata all’accertamento; la seconda destinata alla conservazione che deve protrarsi per un periodo non inferiore ad un anno, onde consentire una eventuale nuova prova. Nel caso de quo, lamenta il ricorrente, non si era fatto luogo alla conservazione del secondo campione. Data la impossibilità di pervenire ad un quadro probatorio attendibile e certo a carico del ricorrente, la Corte territoriale non avrebbe dovuto pronunciare sentenza di condanna. La decisione - Gli Ermellini dichiarano inammissibile il ricorso in quanto le censure sollevate riproducono pedissequamente questioni già attentamente vagliate dalla Corte territoriale che hanno trovato nella motivazione della sentenza una precisa e corretta risposta. In ordine al primo motivo si osserva: come ricordato dalla Corte territoriale la nullità conseguente al mancato avvertimento al conducente del veicolo da sottoporre ad esame alcolimetrico, della facoltà di farsi assistere da un difensore di fiducia deve essere tempestivamente dedotta fino al momento della deliberazione della sentenza di primo grado e nel caso de quo, non risulta che l’eccezione sia stata tempestivamente proposta. Sul punto occorre rammentare come la giurisprudenza di questa Corte ritenga che sia intempestivo il deposito effettuato dopo che sia terminata la discussione e siano state rassegnate le conclusioni, di memorie difensive con le quali si introducano temi in precedenza non sviluppati, precisando che in tali casi l’omessa valutazione della memoria tardivamente depositata non determina la nullità della sentenza, né rileva ai fini della correttezza della motivazione della decisione. Inoltre, l’articolo 186, quinto comma stabilisce che, per i conducenti coinvolti in incidenti stradali e sottoposti a cure mediche, l’accertamento del tasso alcoolemico sia effettuato, su richiesta degli organi di Polizia stradale, da parte di strutture sanitarie che rilasciano la relativa certificazione. Nella disposizione non è contenuto alcun rinvio al protocollo menzionato dal ricorrente suscettibile di acquisire valore integrativo della norma penale in esame. Depenalizzato il falso su assegno non trasferibile di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 11 settembre 2018 Corte di cassazione - Sentenza 40256/2018. Rilevanza penale a misura di trasferibilità. Il falso su un assegno bancario con clausola di non trasferibilità è da considerare depenalizzato e soggetto solo a sanzione amministrativa. Rimane invece reato il falso su assegni che possono essere trasmessi attraverso girata. Lo chiariscono le Sezioni unite penali della Cassazione con la sentenza numero 40256 depositata ieri. La pronuncia scioglie il nodo del trattamento punitivo da attribuire alle diverse fattispecie. Per le Sezioni unite, con l’entrata in vigore all’inizio del 2016 dell’ultimo intervento di depenalizzazione (decreto legislativo numero 7 del 2016) la politica giudiziaria ha iniziato una nuova strada all’insegna dell’arretramento del diritto penale che ha come conseguenza la trasformazione di alcuni reati (a tutela della fede pubblica, dell’onore e del patrimonio) in illeciti civili ai quali applicare un regime sanzionatorio che vede aggiungersi misure pecuniarie punitive inflitte dal giudice civile alla sanzione riparatoria del risarcimento del danno. La sentenza nel delineare l’area del penalmente rilevate osserva che l’articolo 491 del Codice penale che punisce, tra l’altro, la trasmissione dei titoli di credito, vede come bene tutelato quello della fede pubblica, con la messa in pericolo della fiducia di un numero indeterminato di persone sull’autenticità del documento; nello stesso tempo la ratio della copertura penale è strettamente collegata con il maggiore pericolo di falsificazione che accompagna il regime di circolazione dei titoli che possono essere trasmessi attraverso girata. “La libera trasferibilità - avvertono le Sezioni unite - in proprietà del titolo mediante semplice trasmissione del possesso dello stesso o apposizione di girata sull’assegno si configura, pertanto, come elemento essenziale del reato ex articolo 491 del Codice penale e, per converso, la clausola che limiti la circolazione del titolo esclude la rilevanza penale del fatto”. E non si tratta, nella valutazione della Cassazione, di una distinzione che può essere minata da elementi di irragionevolezza anche alla luce della nuova disciplina antiriciclaggio: gli effetti della clausole di non trasferibilità restano infatti gli stessi e cioè il divieto di circolazione dell’assegno, con la previsione eccezionale della girata per l’incasso a favore di un banchiere, che può essere compresa se solo si tiene conto della volontà di vietare al portatore l’onere di una riscossione diretta. Le Sezioni unite hanno così annullato la condanna inflitta per falsificazione di un assegno non trasferibile di 10mila euro; non trasferibilità peraltro prevista dalla disciplina di contrasto al riciclaggio per tutti gli assegni da 10mila euro in poi. Basilicata: Lomuti (M5S) sulla visita alle carceri lucane “emergenza continua” radiosenisenews.it, 11 settembre 2018 “Scarse condizioni igieniche, personale carente e assistenza sanitaria vergognosamente deficitaria. Queste le condizioni trovate in un viaggio negli istituti di pena della Basilicata fatto ad agosto”. Lo dichiara Arnaldo Lomuti, senatore del Movimento 5 Stelle. “Come componente della Commissione Giustizia, - prosegue - ho infatti visitato nei giorni scorsi le Case circondariali di Melfi, di Potenza e di Matera. È stato un tour all’interno delle carceri della Basilicata, per conoscere da vicino le condizioni e le criticità del sistema penitenziario lucano, per ascoltare le esigenze e le problematiche sia del personale penitenziario che dei detenuti, per individuare le soluzioni e i bisogni di cui essere consapevoli nell’attuale attività legislativa. Nel corso delle visite dentro la comunità carceraria lucana, è subito balzata, in tutta la sua grave evidenza, la pessima condizione igienico-sanitaria del piano terra dell’istituto di pena di Potenza ho registrato seri problemi strutturali, con celle dove i bagni non hanno neanche un divisorio, le fogne creano seri problemi di igiene e vivibilità e con impianti di riscaldamento che non sempre funzionano. Va bene che le pene per i detenuti devono essere certe, perché altrimenti vengono meno le ragioni stesse di una condanna penitenziaria, ma un conto è l’espiazione di una pena, un altro conto sono le condizioni disumane della detenzione, tra scarsa igiene e sovraffollamento, cose che un Paese civile non dovrebbe mai consentire. Criticità per le quali una buona fetta di responsabilità ricade sulla Regione Basilicata, mostratasi in questi anni superficiale e, è il caso di dire, latitante. Penso alle infermerie, nelle quali, specie a Melfi, si lavora in continua criticità e dove si lamentano addirittura casi di mancata fornitura di farmaci salvavita. Mi chiedo come mai, con un bilancio sanitario di 1 miliardo e 300 milioni di euro, la Regione non ha trovato fondi per rendere più umane le condizioni igieniche dei propri istituti di pena e di sorveglianza. L’incontro con i direttori degli istituti di pena e il personale penitenziario ha fatto emergere una questione molto grave te e per di più comune a tutti e tre gli istituti lucani: la carenza di personale e l’insufficienza della pianta organica, tant’è che spesso e volentieri i Direttori degli istituti, insieme al personale disponibile, si trovano ad operare in pericolose emergenze. Problemi che creano di conseguenza questioni di sicurezza per i rischi di una possibile diminuzione della capacità di sorveglianza. Inoltre, lo stress cui si espone il personale penitenziario per le pesanti condizioni di lavoro, sicuramente riduce sia il rendimento che la capacità di svolgere adeguatamente le proprie mansioni. E tra ile criticità non manca la carenza di risorse finanziarie, che crea difficoltà per le necessarie e importanti attività di riabilitazione e rieducazione dei detenuti e che non permette alcuna programmazione di manutenzione ordinaria delle carceri lucane, al fine di migliorare le condizioni generali delle celle. E non mancano nemmeno casi di sovraffollamento, altra causa che incide sensibilmente sulle condizioni di malessere dei detenuti e del personale adibito. Sono stato accompagnato in questo viaggio nelle carceri lucane da Piero Scutari, componente del Segretariato della Dichiarazione di Bruxelles, che dispone di “Programmi di Educazione alla Pace”, indirizzati all’ambiente penitenziario. A entrambi è apparso evidente la gravosità dell’impegno necessario per migliorare le condizioni delle strutture carcerarie lucane al fine di meglio coniugare dignità e sicurezza. Tanti problemi ma molti meriti che vanno riconosciuti ai direttori, al personale civile e di polizia che portano avanti un lavoro che a tratti assume le forme di vera e propria missione. Personale che insieme ai detenuti compongono un mondo sconosciuto a gran parte della società. C’è ancora molta strada da fare - conclude Lomuti - per migliorare quelle condizioni che fungono da metro per misurare il livello di civiltà di un popolo”. Milano: disintossicarsi per salvarsi dal carcere di Zita Dazzi La Repubblica, 11 settembre 2018 Tribunale e Asst Santi Paolo e Carlo hanno rinnovato ieri il protocollo per la cura e la riabilitazione dei tossicodipendenti che a Milano funziona dal 1995 e che prevede un percorso di riabilitazione alternativo al carcere Un modo per alleviare la pena e provare a recuperare chi si è messo su una china pericolosa: in 500 ogni anno seguono questo percorso. Andrea che a 19 anni spacciava ai compagni di scuola per pagarsi la sua dose di hashish quotidiana, non se l’immaginava nemmeno che un giorno sarebbe potuto finire a San Vittore. Ed è un piccolo miracolo se oggi Andrea (nome di fantasia per una storia vera), quattro giorni dopo il suo arresto, non è al celebre “Terzo raggio” di piazza Filangieri, il reparto dei drogati, chiuso in una cella da una decina di metri quadrati, con altri quattro o cinque spacciatori più vecchi e scafati di lui. Il miracolo che ha salvato Andrea dalla galera e che lo porterà dritto al SerD a disintossicarsi, è frutto di un protocollo per la cura e la riabilitazione dei tossicodipendenti che a Milano funziona dal 1995 e che da ieri è stato rinnovato con le firme del presidente del tribunale Roberto Bichi e del direttore generale dell’Asst Santi Paolo e Carlo Marco Salmoiraghi, con la benedizione (e i finanziamenti) dell’assessore regionale alla Sanità Giulio Gallera. Niente sapeva di questo protocollo il giovane Andrea, fumatore di canne in stile industriale, in possesso di bilancini di precisione e di alcuni etti di cannabinoidi nascosti a casa, fra i libri di scuola. Sembrava un marziano, sabato mattina quando è stato arrestato in flagranza di reato e portato in una delle aule al piano sotterraneo del palazzo di giustizia per l’udienza di convalida dell’arresto per direttissima. La mamma piangeva, sorpresa delle notizie che le stavano dando su quel suo figlio che sembrava tanto un bravo ragazzo. Il giudice, per fortuna, prima di prendere la sua decisione sulle misure cautelaci da adottare nei confronti dello studente del quinto anno di una scuola del centro di Milano, ha letto la relazione firmata dall’assistente sociale del Ser.D. di Bollate, Annamaria Mastrapasqua. E in quelle righe scritte la mattina stessa, dopo un colloquio fra Andrea e l’assistente sociale, c’era scritto che il ragazzo accettava di farsi curare nei servizi pubblici territoriali, scontando la sua pena ai domiciliari invece che in prigione. Un accordo che vale per Andrea, ma al quale ogni anno si affidano fra i 400 e i 600 imputati per reati legati alle dipendenze da alcol e droghe, un quinto del totale dei 2.500 casi trattati per direttissima dal Tribunale. “Portare in carcere tutta questa gente sarebbe inutile, oltre che dannoso. Una persona che può tentare una riabilitazione, immesso in un contesto come quello della pura e semplice reclusione, difficilmente riesce a fare un percorso terapeutico e ad evitare poi la recidiva del reato legato al suo problema di dipendenza da sostanze o da alcol”, spiega il dottor Riccardo Gatti, direttore del Dipartimento interaziendale dipendenze di Milano. “Noi buttiamo una ciambella di salvataggio a una persona che sta affondando, sta a lui decidere se prenderla o no”, insiste Gatti. D’accordo il presidente Bichi: “È uno strumento utile in un momento delicato per gli imputati con problemi di dipendenza. Consentiamo un contatto, durante il momento sanzionatorio, con i servizi terapeutici, che si inseriscono in un processo di cura. È una delle esperienze più rare nel panorama europeo ed italiano, con risultati molto positivi numericamente, per la gestione di un fenomeno diffusissimo”. Sabato a San Vittore ci è finito un ragazzo di 23 anni, storia simile a quella di Andrea. In cella, c’era già andato un anno fa, per lo stesso furto legato al bisogno di soldi per la sua dose: “In quel contesto è a rischio - dice Daniele Pavani, responsabile del Ser.D. del carcere di Opera. Qualcosa quindi non ha funzionato nei servizi territoriali che l’hanno riportato in un ambiente come il carcere”. Un tema delicatissimo, quello delle dipendenze. Proprio ieri un altro giovane è morto per overdose nel cosiddetto Boschetto della droga di Rogoredo. Santa Maria Capua Vetere (Ce): blitz M5S nel carcere “solo 5 educatori su 960 detenuti” di Marilù Musto Il Mattino, 11 settembre 2018 Sono entrati dove nessuno entra. A meno che non sia una toga o una divisa. Hanno visitato gli angoli più angusti del carcere che fu costruito con il calcestruzzo della camorra, a un passo dalle aule-bunker dove il clan dei Casalesi ascoltò, in silenzio, la sua fine contenuta in una sentenza. Hanno toccato con mano la realtà di una struttura tanto imponente quanto monca di uno dei servizi essenziali: l’allacciamento alla rete idrica comunale. E hanno anche scoperto che su 960 detenuti ospitati ci sono solo cinque educatori. Gli agenti di polizia, inoltre, sono pochi, troppo pochi per il grado di pericolosità dei reclusi. E il vicino impianto di rifiuti emana odori sgradevoli. I deputati del Movimento Cinque Stelle, Antonio Del Monaco e Marianna Iorio, ieri, hanno visitato il carcere di Santa Maria Capua Vetere, accolti dalla dirigente Elisabetta Palmieri. Lo hanno fatto dopo la lettera-denuncia di Samuele Ciambriello, il garante dei detenuti, mossi dal grido “fate presto” rivolto al Comune di Santa Maria e al ministero della Giustizia. Le istituzioni, a tre anni dallo stanziamento di due milioni e 190mila euro per i lavori di allacciamento del carcere alla rete, non sono riuscite ancora a sbloccare il procedimento burocratico per la gara d’appalto che porterà alla costruzione della condotta idrica. A 15 giorni di distanza da quell’appello, i deputati a Cinque Stelle hanno deciso di oltrepassare la soglia della struttura per capire, vedere con i proprio occhi la realtà: “Abbiamo incontrato i reclusi e, almeno quest’anno, hanno spiegato di non aver sofferto la carenza dell’acqua come nei periodi precedenti”, ha spiegato Del Monaco. “Ma una novità c’è, perché abbiamo contattato l’ufficio tecnico del comune di Santa Maria Capua Vetere - continua Del Monaco - c’è una data, il 24 settembre, giorno in cui il progetto finale dell’impianto idrico sarà presentato. Da quel momento in poi partirà la gara d’appalto”. Da maggio (mese dell’avvio del disegno) a settembre, sono trascorsi quattro mesi: tempi sforati, ma almeno ora c’è la certezza della fine. E gli altri nodi? “Li porteremo all’attenzione della Camera”, fanno sapere Del Monaco e Iorio. Una delle emergenze del distretto carcerario di Santa Maria è, di certo, il basso numero di educatori. Questo significa che ci sono poche occasioni di socialità educativa, bassissimi contatti con operatori esterni e, quindi, poche possibilità di rieducazione di coloro che sono carcerati. Una realtà che fa a pugni con il piano di recupero previsto dalla norma delle persone ristrette e che cozza con altre realtà, come quella del carcere di Paliano, dove le ore di socialità sono numerose e le occasioni di “riemersione” dei detenuti tante. Due anni fa a Paliano venne anche il papa Francesco a far visita ai detenuti. “Ho incontrato un recluso che dice di doversi sottoporre a un’operazione chirurgica al timpano ed è da luglio che attende di essere operato”, spiega Del Monaco. Al di là delle storie dei singoli, la casa di reclusione affronta problemi ogni giorno. E accanto ai detenuti ci sono sempre loro, gli agenti di polizia penitenziaria. A volte, capita che un solo agente sia responsabile di due padiglioni. Bolzano: nessun accordo per il trasferimento dei detenuti psichiatrici Il Gazzettino, 11 settembre 2018 È ormai da quasi due anni che la sezione dei detenuti semiinfermi di mente è nel carcere di Baldenich. È stata ricavata nella ex sezione femminile e attualmente è al completo: ci sono 6 detenuti tutti con problemi psichiatrici che devono scontare condanne lunghissime per reati come omicidio. Si tratta di persone che non possono essere curate nelle psichiatrie delle Usl, a causa dell’elevata gravità dei reati commessi. Non possono più andare nemmeno negli ospedali psichiatrici giudiziari (Opg), ora chiusi. Proprio dopo la loro chiusura, nel 2008, è sorto il problema. E il buco lasciato dalla cancellazione degli ospedali psichiatrici giudiziari porta anche ai paradossi di piantonamenti dei malati per anni, con 4 agenti di polizia penitenziaria stabili in ospedale. “La protesta - spiega Giovanni Vona responsabile Sappe Veneto-Trentino, che per primo sollevò il problema nel 2017 - nasce perché tutte le promesse dell’amministrazione non sono state mantenute. Purtroppo non c’è alternativa: ci sono stati tavoli, incontri tra i vertici dell’Asl e amministrazione penitenziaria, ma non si è trovata la quadra. L’Asl ne fa una questione di costo, non di dare assistenza a un malato. Eppure in queste articolazioni dovrebbe esserci uno psichiatra, non un medico di guardia, che ad esempio non può prescrivere psicofarmaci”. “L’agente di polizia penitenziaria - prosegue Vona - può risolvere solo problemi di violenza dei detenuti per ordine pubblico, ma se c’è un paziente che ha un problema e che sente le voci, ad esempio, deve esserci uno psichiatra”. Invece lo psichiatra c’è solo per alcune ore settimanali. Il medico di guardia solo dalle 8 alle 20, per il resto i detenuti pazienti devono essere gestiti dalla polizia penitenziaria. L’Articolazione di salute mentale dovrebbe essere trasferita da Belluno al carcere di Padova. Ma si deve ancora predisporre il carcere e creare un servizio medico costante. Su questo non si è trovato l’accordo con i vertici dell’azienda sanitaria. “Bisogna risolverlo il problema - continua Vona del Sappe - non basta spostarlo. Queste persone hanno bisogno di essere curate e l’agente di polizia non può fare nulla. Certo se l’azienda sanitaria si rifiuta di mettere uno psichiatra a tempo pieno, perché costa troppo, diventa difficile trovare una soluzione”. Nella ex sezione femminile ci sono i 6 detenuti-malati psichiatrici. Durante il giorno le celle sono aperte e dalle 20 i detenuti vengono chiusi. Si tratta di persone imprevedibili che ad esempio hanno dato di matto perché l’agente si era rifiutato di giocare a biliardino con loro. O ancora perché era stata rifiutata una telefonata. In principio la guardia era stata prevista con un solo agente, poi dopo un episodio in cui un detenuto ha praticamente sequestrato un agente la guardia viene fatta in due. Foggia: i radicali “il carcere una realtà dimenticata dalla legge” di Roberto Persia L’Espresso, 11 settembre 2018 Il caso foggiano rispecchia la situazione invivibile del sistema penitenziario nazionale: carenze sanitarie, spazi limitati e assenza di personale. La denuncia della delegazione del partito Radicale. “Detenuti abbandonati a loro stessi. Il direttore è totalmente assente. La situazione è ancora più critica nella sezione femminile, dove è presente anche un bambino di 2 anni che da un anno e mezzo vive qui dentro senza possibilità di movimento e nessun altro della sua età con cui socializzare: infatti è visibilmente nervoso”. Una delegazione del Partito Radicale Nonviolento Transnazionale e Transpartito ha visitato sabato 8 settembre ‘18 la Casa Circondariale di Foggia: “una realtà dimenticata dalla legge”. Nel carcere i detenuti sono 536 di cui 132 in attesa di primo giudizio: la capienza ufficiale è di 300 persone e il sovraffollamento rende i letti a castello l’arredo principale all’interno delle celle. Lo spazio detentivo si suddivide in 5 sezioni, in ognuna di queste mancano beni di prima necessità e le condizioni igienico sanitarie sono critiche. “L’unico modo per poter fare una doccia calda è scaldare l’acqua esponendo bottiglie alla luce del sole” - racconta Rita Bernardini (coordinatrice della Presidenza del Partito Radicale Nonviolento Transnazionale e Transpartito) - “i spazi pubblici ci sarebbero, peccato che non vengono utilizzati”. È da più di un anno che la zona verde non viene aperta e le attività ricreative non sono praticabili: le palestre sono state chiuse per una rissa e ad oggi non sono state riaperte. In questo carcere, la direzione è affidata a due vice che si alternano di settimana in settimana rendendo impossibile la gestione di una struttura che presenta così tante criticità. Il personale di polizia è carente e questo non fa altro che limitare le già pochissime possibilità di movimento all’interno di una struttura detentiva. Era marzo 2018 quando nel centro tre agenti furono aggrediti e nello stesso mese un detenuto tentò il suicidio tagliandosi la gola mentre altri due ingerendo candeggina. Il Sappe (Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria) in risposta agli episodi di quattro mesi fa ha denunciato al ministero della giustizia e al prefetto la carenza di personale, “servirebbero almeno 70 agenti in più”. La visita della delegazione ha messo in luce anche la carenza di un sostegno psicologico e medico adeguato per i molti casi di tossicodipendenza presenti nel carcere: “le uniche cure fornite sono la somministrazione di metadone”, conclude Rita Bernardini. “In Italia ci stiamo avvicinando alle 60.000 unità detenute dato che eccede di 15.000 la capienza nazionale nel sistema carceri”. Purtroppo la realtà foggiana non è un unicum sul territorio nazionale, come dimostrano i dati forniti dalla associazione Antigone, che nel 2017 ha visitato 86 delle 190 carceri in giro per l’Italia: 36 nel nord, dalla Valle d’Aosta alla Romagna, 20 in centro Italia e 30 tra il sud e le isole. Nel corso dell’ultimo anno i detenuti in più sono circa 2.000: in totale sono passati da 56.289 (marzo 2017) a 58.223 (marzo 2018). Questo aumento non ha avuto le stesse conseguenze ovunque e in alcuni istituti “la situazione sta diventando invivibile”. Nel 69,4 per cento degli istituti visitati non vengono garantiti i 6 metri quadrati di spazio vitale che il Comitato Europeo per la Prevenzione della Tortura ha definito come standard minimo per i detenuti. Nell’8,1 per cento delle strutture il riscaldamento in cella non è funzionante e nel 43 per cento delle celle manca l’acqua calda. Nel 41,9 per cento dei casi non viene garantito accesso settimanale alla palestra e, più in generale, nel 40,7 per cento degli istituti visitati non tutte le celle sono aperte per almeno 8 ore al giorno. Nelle carceri italiane mancano anche i direttori. Ci sono 189 istituti e a marzo 2018 i direttori erano 151: 38 in meno rispetto al necessario. Di loro, 24 sono responsabili di due istituti e 2 di loro di tre istituti. Attualmente 10 carceri sono in attesa della nomina di un direttore. Busto Arsizio: il direttore del carcere “il Garante riprenda i colloqui con i detenuti” di Andrea Della Bella malpensa24.it, 11 settembre 2018 Incontriamoci, parliamo dei progetti a favore detenuti, dei problemi che ci sono e delle possibili soluzioni. I colloqui però devono riprendere. Sono questi i punti salienti dell’intervento di Orazio Sorrentini, direttore del carcere di Busto Arsizio, il quale torna sulla questione legata all’attività del garante. La questione sollevata da alcuni operatori della casa circondariale, i quali, in sostanza, hanno chiesto una più assidua presenza in carcere del garante dei detenuti, fa ancora discutere. E questa volta è lo stesso direttore a intervenire. “Premetto che non ho nulla di personale nei confronti di Matteo Tosi, che sta ricoprendo il ruolo di garante, anche se da mesi non incontro e non vedo. Per il ruolo che ricopro però credo sia da parte mia doveroso intervenire per confermare che il problema sollevato esiste. Tale criticità è certamente legata e amplificata dal fatto che le due educatrici di riferimento non ci sono più. Una perché ha raggiunto l’età della pensione e l’altra per una maternità. E ciò ha creato una situazione delicata. Soprattutto nell’area in cui operavano. Detto questo però credo che una maggior presenza del garante sarebbe stata oltre che opportuna anche molto utile”. Sorrentini precisa: “Attenzione, quando parlo dell’assenza in carcere del garante non voglio certo lasciar intendere che Tosi non stia operando per i detenuti. So che sta portando un progetto. Voglio però far presente che i compiti di questa figura, tra l’altro previsti dalla delibera comunale, sono quelli di vigilare sull’esercizio dei diritti e dei principi dei detenuti e di agevolare la possibilità di partecipazione alla vita sociale dei carcerati stessi. Ed è su questo che ci aspetta lavori in maniera puntuale un garante. Quindi, va bene il progetto del laboratorio, che però ancora non vedo concretizzato. Quello relativo al lavoro però è un elemento fondamentale nella rieducazione del condannato, ma non è l’unico compito e nemmeno il principale di cui si deve occupare il garante”. Sorrentini batte il chiodo su questo passaggio, ovvero sui compiti da portare avanti: “Il garante è una delle poche persone che, per legge, può visitare il carcere senza autorizzazione. A sorpresa. Questo è un presupposto importante, fondamentale per verificare che le norme e i principi vengano rispettati”. Nessuno nel carcere di Busto mette in discussione la bontà del progetto legato alla stampa e alle magliette e “nessuno dubita che il garante stia lavorando a questa iniziativa - precisa il direttore - però da chi ricopre questo ruolo è lecito aspettarsi anche altro. Come il dialogo con chi sta in carcere. È questo è molto importante per il benessere del detenuto, che si sente ascoltato, compreso e sente di avere un punto di riferimento”. Insomma le critiche sono ricolte ai compiti più legati alla quotidianità della vita del carcerato. Problemi forse piccoli, ma che per chi sta dietro le sbarre possono diventare complessi e, senza il giusto supporto, addirittura difficili da risolvere. Questi possono essere il rinnovo della patente, dei documenti di identità, ma anche i colloqui. Passaggio, quest’ultimo, sul quale insiste anche il direttore: “Devono riprendere” Matteo Tosi, in risposta alle critiche rivolte verso il suo modo di condurre il ruolo di garanzia all’interno del carcere, aveva anche spiegato di aver provato a fare proposte, di averle motivate e sottoposte, ma senza ricevere risposta oppure incassando un parere negativo. Tra questi Tosi fece anche la richiesta di proiettare un docu-film sulle condizioni delle carceri italiane dal titolo “Spes contra spem”. “Si lo ricordo - conclude il Sorrentini - ma il responsabile dell’area educativa non lo ritenne opportuno. In ogni caso, lo ripeto, i compiti di un garante sono altri e sono stabiliti all’interno della delibera”. Napoli: emergenza criminalità, perché serve una scossa di Titti Marrone Il Mattino, 11 settembre 2018 Serve una scossa, e che sia forte. Per contrastare la violenza dei giovani che dovrebbero essere l’oro di Napoli e sono il suo piombo, adesso devono arrivare fatti. L’incontro straordinario di oggi sulla violenza giovanile indetto dal Csm nella sala Arengario del Tribunale di Napoli può essere un detonatore capace di amplificare a livello nazionale l’allarme di una città proiettata verso un imbarbarimento ormai contagioso. I suoi partecipanti hanno l’autorevolezza, la competenza, gli argomenti per fare di quest’incontro un richiamo forte. Per accendere il riflettore su un’emergenza nazionale vera di cui un vero ministro degli Interni dovrebbe occuparsi, invece di seminare odio, razzismo e paure. Perché ormai da tempo non è più questione di bande isolate, frange violente di baby paranze intente a scontrarsi per la contesa del territorio. E Napoli è allo stremo, sopraffatta dalle disattenzioni di recente bene descritte su questo giornale da Isaia Sales e Antonio Mattone. Alle sordità governative, però, va aggiunta purtroppo l’indifferenza di una città che sembra assuefarsi a tutto: ai bus diventati presenze ectoplasmatiche, ai dissesti stradali, ai cantieri senza fine, al dilagare degli abusivi, ai cumuli di rifiuti, a una cosiddetta movida sempre più selvaggia che fa da trampolino per gli affari della camorra. Ma Napoli sembra non vedere e sembra abituarsi anche alle stese. Come ha rimarcato il nostro Gigi Di Fiore, solo tra il 2016 e il 2017 le stese segnalate di giovanissimi sono state 52. Mentre il procuratore presso il Tribunale dei Minorenni di Napoli, Maria de Luzenberger, ha evidenziato un altro dato inquietante. È vero, sì, che tra il 1° luglio 2016 e il 30 224 giugno 20171e iscrizioni di procedimenti a carico di minorenni sono diminuite del 24%, ma a questo non corrisponde una rarefazione di episodi criminosi, che invece sono in aumento. Quel calo del 24% va attribuito quindi soltanto al fatto che le vittime non denunciano più. Per paura. Eccola, una paura vera serpeggiante tra i vicoli, di cui al Viminale si dovrebbe prendere atto. Perciò è importante che l’incontro di oggi faccia rumore, soprattutto arrivando a chi non sembra avere orecchie per sentire. Perché, che vi si colga il prevalere dell’ideologia del crimine o il carattere di nuova guerra frammentata, il susseguirsi sempre più incalzante di atti intimidatori attesta un salto di qualità della violenza giovanile. Lo stillicidio di episodi di questi giorni, come la stesa che ha colpito un’inconsapevole donna di Forcella al balcone o quella che l’altra sera ha lasciato in piazza Municipio 18 bossoli e solo per miracolo nessun morto o ferito, dice una cosa: che ormai non ce la si cava più con i sociologismi territoriali, o additando le periferie come sentina di tutti i mali. I giovani e giovanissimi attori di questo teatro violento non sono solo figli di boss, non hanno avuto come quinta naturale solamente lo squallore delle periferie desolate. I ragazzi che si sentono padroni dei quartieri e organizzano scorribande e altre manifestazioni di possesso, a volte pur senza essere legati a qualche clan, sono il contagio diffuso di una devianza generalizzata che sta omologando la città nel segno della banalizzazione della morte. E allora, che oggi, alla riunione straordinaria dell’organo di autogoverno dei magistrati, si pongano pure sul tappeto temi forti, destinati a far discutere, se occorre anche a suscitare polemiche: come quello di togliere la patria potestà ai boss, o comunque d’intervenire sulla responsabilità genitoriale. O anche, l’idea di rivedere i limiti di pena per l’applicazione di misure cautelari ai minorenni. Che si delinei, a partire da qui, una possibilità di azione. Che naturalmente non potrà né dovrà essere pura repressione. Che andrà integrata in un piano concordato tra tutti, governo, amministrazione locale, scuola, famiglie, forze dell’ordine, tra istituzioni preposte al governo di un territorio che non possono continuare ad andare avanti ciascuna per suo conto, senza un disegno comune. Ma a cui, adesso, serve proprio una scossa. “L’edificio che ospita il carcere è un antico convento connesso ad una struttura costruita circa 100 anni fa” Lucera (Fg): i Radicali visitano il carcere statoquotidiano.it, 11 settembre 2018 Una delegazione, composta da Rita Bernardini, coordinatrice del Partito Radicale, da Anna Briganti e Maria Rosaria lo Muzio, domenica 9 settembre 2018 ha effettuato una visita al carcere di Lucera. I Radicali visitano il carcere di Lucera: nonostante gli evidenti limiti dovuti alla vetustà della struttura e alla mancanza di operatori, si sta cercando di offrire una detenzione più dignitosa ai suoi ospiti. Una delegazione, composta da Rita Bernardini, coordinatrice del Partito Radicale, da Anna Briganti e Maria Rosaria lo Muzio, domenica 9 settembre 2018 ha effettuato una visita al carcere di Lucera. “L’edificio che ospita il carcere è un antico convento connesso ad una struttura costruita circa 100 anni fa - spiega Maria Rosaria lo Muzio -, che pare uscita da un film americano degli anni ‘60, con le celle intorno ad un ballatoio affacciate su una corte rettangolare. Al terzo piano le porte di legno originali farebbero la gioia di qualunque antiquario. Abitano quelle mura centosessanta anime ferite dal male fatto e da quello ricevuto, uomini rinchiusi in quel luogo perché reietti, invisi anche agli stessi altri detenuti. Si chiamano “protetti” e sono coloro i quali in qualsiasi carcere rischiano la pelle perché “infami” o perché accusati di delitti inaccettabili per il “codice carcerario”. Vengono così separati dagli altri, isolati, nascosti. Finiscono per essere in ogni carcere gli “ultimi degli ultimi “, lo scarto di chi la società ha già scartato”. “Ma a Lucera no - prosegue, grazie ad una felice intuizione degli operatori della Polizia Penitenziaria e in particolare dell’ispettore capo Gennaro, un uomo che da quarant’anni lavora in quell’Istituto, tutti i detenuti sono della categoria dei “protetti”, giunti qui da tanti carceri diversi, e quindi tutti ugualmente liberi dentro la struttura di partecipare alle attività trattamentali e alla vita della comunità carceraria. Non è poco, anzi è tanto, per chi negli altri Istituti ha conosciuto la discriminazione e la separatezza di una detenzione confinata in pochi metri quadri, escluso sempre da tutto ciò che significava partecipazione. Una svolta per il carcere di Lucera che ha accompagnato questa conversione con una serie di manutenzioni e allestimenti che hanno avuto come risultato un intero piano dedicato alle attività. Ci sono oggi una bella palestra attrezzata, una biblioteca, aule scolastiche, una cucina e una cappella dove i detenuti possono seguire corsi o essere impegnati per diverse ore al giorno. Un tentativo coraggioso perseguito con intelligenza che forse potrebbe essere un esempio per altri luoghi. Non mancano ovviamente le difficoltà, la presenza di situazioni difficili, in gran parte dovute alla presenza di detenuti con evidenti patologie psichiatriche e che avrebbero bisogno di ben altro trattamento. Mancano le famose Rems, quelle strutture che avrebbero dovuto essere predisposte per prendere in carico le persone che venivano prima rinchiuse negli odiosi OPG e che una lunga battaglia di civiltà ha fatto chiudere per sempre. Mancano educatori, mediatori culturali, manca finanche il Direttore, così che la Polizia Penitenziaria è chiamata a supplire a compiti non suoi. Il carcere di Lucera, con gli evidenti suoi limiti dovuti alla vetustà della struttura e alla mancanza di operatori, sta facendo un ragionevole percorso di cambiamento, cercando di offrire una detenzione più dignitosa ai suoi ospiti. Grazie a tutti coloro i quali ci stanno provando”. Torino: scatti dietro le sbarre, per capire cosa ci fanno i bambini in carcere di Elisa Cassissa La Stampa, 11 settembre 2018 Le seggioline azzurre impilate, la cesta dei giochi, il passeggino rosa per la bambola e la scatola di pannolini in alto. Immagini dal carcere Lorusso e Cutugno, alle Vallette di Torino di dirompente quotidianità, frammenti di una mostra fotografica che ha aperto i battenti in Consiglio regionale, all’Urp di via Arsenale 14. Il titolo è una domanda: “Che ci faccio io qui?”. Perché i bambini non hanno commesso alcun reato, ma si trovano a crescere in un penitenziario: “Nel nostro Paese al 31 agosto ci sono 52 detenute con 62 bimbi sotto i tre anni”, dice il garante regionale dei detenuti Bruno Mellano, curatore della mostra realizzata in collaborazione con la Conferenza dei Volontari della Giustizia del Piemonte e della Valle d’Aosta (Crvg). Nata con lo spirito di superare la condizione della mamma in carcere con i bambini. “Molto è stato fatto in tema di madri detenute - aggiunge -. Nel 2011 si è passati dalle sezioni nido dei reparti femminili in cui la mamma poteva tenere il bimbo con sé solo fino a tre anni, a strutture apposite, le Icam, Istituti a custodia attenuata per madri, in cui per spazi e progetti, i bimbi possono restare con la mamma anche fino ai sei anni. In Italia ce ne sono cinque, una è a Torino dove c’è posto per 11 mamme e 15 bambini”. Purtroppo il progetto, che prevedeva strutture poste fuori dall’ambito penitenziario, è rimasto incompiuto e solo Milano ha un istituto al di là della cinta muraria del carcere. A Torino, come a Roma, l’Icam si trova all’interno, ma si tratta di una struttura a sé stante, con ambienti comuni e sociali, cucina e giardino. I bambini sono accompagnati negli asili o nelle scuole dell’infanzia e poi ricondotti nell’istituto che è diventato la loro casa. “La sfida oggi - spiega Mellano - è coinvolgere il tessuto sociale, associazioni di volontariato che si occupino con progetti e attività dei bambini anche nei fine settimana”. L’allestimento, per la prima volta in Piemonte, conta 50 foto scattate da 5 fotografi in sei Istituti penitenziari femminili italiani: oltre Torino, anche Roma, Avellino, Pozzuoli, Milano e Venezia. Fino al 17 ottobre. “La chiave di cioccolato”, di Enrichetta Vilella recensione di Marcello Pesarini Ristretti Orizzonti, 11 settembre 2018 Quando si entra in carcere si sa cosa si perde ma non cosa si trova. A partire dalla chiave che, dicono i detenuti, è di cioccolata e si scioglie nella serratura. Con questa asciutta considerazione potremmo introdurre il salto che fa la vita di chi è condannato e, spesso, per traversie giudiziarie, non si sa neanche per quanto tempo, per ripagare alla società il danno che le si è arrecato. Nei confronti di colui che è stato violato la riparazione è più complessa ma anche più profonda. Enrichetta Vilella, responsabile da anni delle attività pedagogiche ed educatrice lei stessa nel carcere di Pesaro, ci racconta sotto forma di lettere rilette assieme ai ricordi da una educatrice, le memorie delle detenute di trenta anni prima. Lo fa in forma discorsiva; diventa Anna, nei cui ricordi volutamente irrompono altre figure trattamentali(che brutta parola moderna che vuol dire troppo), che argomentano fra di loro cosa è costruttivo e cosa no, come in un parlamentino extraparlamentare che cerca continuamente la sintesi da proporre a chi governa. Dalla stessa parte, sono le altre protagoniste, Federica, Raina, Susi, Monica, Antonella, Carla, detenute. La capacità di Enrichetta e di Anna è di intersecare i discorsi fra di loro e le interruzioni delle proprie nipoti, portatrici di altra attenzione e disattenzione, di evidenziare le speranze lese e quelle che resistono, le convinzioni di chi crede nelle pratiche collettive e di chi si specializza nell’isolamento, di chi si danna e si dannerà dal giorno del primo reato commesso, e di chi lo fa rientrare nella fisicità della chiave della cella. Poesia nella quali ti perdi e ti ritrovi, ti commuovi e ti riconosci, come nel carcere, che tutti dovremmo imparare a conoscere e rispettare. Migranti. Scontro Onu-Roma. Msf denuncia: “cento morti al largo della Libia” di Nello Scavo Avvenire, 11 settembre 2018 Duello tra Alto commissariato per i diritti umani e Salvini. Nel giorno in cui l’Onu annuncia l’invio di osservatori sui diritti umani in Italia, dopo svariati episodi di xenofobia e l’ingresso negato alle navi delle Ong, arrivano conferme sul naufragio di due “gommoni fantasma” avvistati una decina di giorni fa e che si pensava intercettati dalla Guardia costiera libica. Secondo Medici senza frontiere, che ha raccolto testimonianze dei superstiti condotti nei centri di detenzione in Libia, almeno cento migranti sarebbero annegati nella notte tra l’1 e il 2 settembre. I superstiti, come riferisce il personale di Msf a Tripoli, hanno spiegato che i trafficanti avevano caricato almeno 320 persone su due barconi. I sopravvissuti hanno riferito che non lontano dalle acque maltesi un motore è andato in avaria, mentre l’altro gommone ha cominciato a sgonfiarsi. Molti migranti sono annegati subito, altri hanno provato a resistere aggrappati al relitto. “Più di 20 bambini sono morti, tra cui due gemelli di 17 mesi annegati insieme alla madre e al padre”, ha riferito un migrante tratto in salvo alcune ore dopo il naufragio. Secondo Msf sarebbe stato chiesto aiuto al centro dei soccorsi italiano e a quello di Malta, ma poi sarebbero giunti i guardacoste libici, che avrebbero recuperato due corpi. Su questo punto, al momento, né da Roma né da La Valletta sono arrivate conferme, in particolare se l’Sos sia stato dirottato alla Guardia costiera di Tripoli. I migranti hanno riferito di “soccorritori europei” che da una coppia di aerei “hanno lanciato giubbotti e zattere di salvataggio”, una circostanza che deve essere verificata. Le autorità libiche in quei giorni non hanno comunicato alcun intervento, ma già in passato la Guardia costiera ha omesso informazioni sulle intercettazioni in mare. Con questo nuovo incidente, il numero di morti in mare nel Mediterraneo nel 2018 supera quota 1.600. Proprio le ambiguità nei rapporti tra autorità marittime sono una delle ragioni che hanno fatto annunciare l’invio di osservatori in Italia e Austria. Lo ha deciso Michelle Bachelet, ex presidente del Cile divenuta alto commissario Onu per i diritti umani. Gli analisti dovranno valutare il livello di protezione dei migranti, in particolare dopo svariati episodi che hanno visto stranieri nel mirino di violenze e soprusi. L’annuncio è divenuto un caso politico internazionale. Nel suo primo discorso al consiglio Onu per i diritti umani, Bachelet (che fu vittima della dittatura di Pinochet nel suo Paese) ha invitato anche la Cina a consentire l’ingresso di osservatori nel Paese. Stesso trattamento per gli Usa, rimproverati per i 500 bambini immigrati negli Stati Uniti ancora nelle mani delle autorità americane e non ricongiunti con i genitori. A non mandarla giù, come prevedibile, è il vicepremier Matteo Salvini, che ha minacciato di tagliare il contributo di circa 100 milioni di Roma all’Onu. “L’Italia negli ultimi anni ha accolto 700mila immigrati - ha insistito Matteo Salvini, molti dei quali clandestini, e non ha mai ricevuto collaborazione dagli altri Paesi europei”, quindi “non accettiamo lezioni da nessuno, tanto meno dall’Onu che si conferma prevenuta, inutilmente costosa e disinformata”. L’attenzione dell’Onu non si ferma ai recenti casi di xenofobia, con migranti minacciati, picchiati, insultati in varie parti d’Italia. Se è vero che l’ufficio per i diritti umani intende “mandare personale in Italia per monitorare il forte aumento segnalato di razzismo contro migranti, afro-discendenti e rom”, gli osservatori dovranno tenere conto anche delle decisioni di Roma: “Il governo italiano ha negato l’ingresso di navi di soccorso delle Ong. Questo tipo di atteggiamento politico e di altri sviluppi recenti - ha detto Bachelet - hanno conseguenze devastanti per molte persone già vulnerabili”. E se il numero dei migranti che attraversano il Mediterraneo è diminuito, “il tasso di mortalità per coloro che compiono la traversata- aggiunge l’alto commissario - è risultato nei primi sei mesi dell’anno ancora più elevato rispetto al passato”. “Un’organizzazione che costa miliardi di euro, a cui l’Italia dà più di 100 milioni all’anno di contributi - ha reagito Matteo Salvini. Ragioneremo con gli alleati sull’utilità di continuare a dare questi 100 milioni per finanziare sprechi, mangerie, ruberie per un organismo che vorrebbe venire a dare lezioni agli italiani”. Una minaccia che dovrà fare i conti anche con la realtà. In Italia l’Onu da lavoro a circa 5mila persone. Migranti. Italia nel mirino Onu: “troppo razzismo, invieremo osservatori” di Carlo Lania Il Manifesto, 11 settembre 2018 L’Alto commissario per i diritti umani Bachelet: “Chiudere i porti alle Ong provoca conseguenze devastanti sui migranti”. Le politiche sull’immigrazione del governo giallo verde, ma anche le ripetute aggressioni nei confronti dei migranti, preoccupano l’Onu che ieri ha annunciato di voler inviare in Italia “un team di osservatori per verificare l’aumento di atti di violenza e di razzismo contro migranti, persone di discendenza africana e Rom”. A puntare il dito contro Roma è il neo Alto commissario Onu per i diritti umani, l’ex presidente del Cile Michelle Bachelet preoccupata soprattutto per la decisione di Roma di chiudere i porti alle navi delle Ong e per l’aumento di morti nel Mediterraneo. “E questo anche se il numero degli sbarchi è diminuito”, ha sottolineato la Bachelet aggiungendo che osservatori Onu si recheranno anche in Austria. L’ex presidente del Cile è intervenuta ieri a Ginevra aprendo i lavori del Consiglio Onu per i diritti umani nel quale ha indicato come priorità del suo mandato le condizioni disperate in cui si trovano a vivere i Rohingya in Birmania, le condanne a morte comminate dal regime egiziano a 75 esponenti della Fratellanza musulmana e le emergenze in atto in Venezuela, Cina, Yemen, Nicaragua e Siria. Senza dimenticare l’”irragionevole” decisione presa dall’amministrazione Trump di separare i figli del migranti dai genitori al confine con il Messico. Ma è all’Unione Europea e in particolare all’Italia che la Bachelet, nominata il 10 agosto scorso a capo dell’Alto commissariato per i diritti umani, dedica maggiore attenzione. Nel mirino ci sono le politiche messe in atto per fermare le partenze dei barconi con i migranti dalla Libia. “L’Unione europea dovrebbe essere incoraggiata a stabilire un’operazione dedicata alla ricerca e al soccorso umanitario di persone che attraversano il Mediterraneo e ad assicurare che l’accesso all’asilo e ai diritti umani venga garantito”. Così invece, stando anche ai rapporto forniti all’Alto commissariato da numerose organizzazioni non umanitarie, non avviene. “Il governo italiano ha negato l’accesso a imbarcazioni di soccorso delle Ong. Questo tipo di atteggiamento politico e altri sviluppi recenti hanno conseguenze devastanti per molte persone già vulnerabili”, ha aggiunto Bachelet ricordando come “nonostante il numero di migranti che attraversano il Mediterraneo sia sceso, il tasso di mortalità di quelli che intraprendono questa pericolosa traversata nei primi sei mesi di quest’anno è stato ancora più alto di quanto non fosse precedentemente”. Secondo l’Oim, l’Organizzazione internazionale per le migrazioni, da gennaio sono state 1.104 le vittime solo nel Mediterraneo centrale. Non è certo la prima volta che l’Onu interviene per condannare le politiche di contrasto dei migranti. Nel novembre dello scorso anno fu l’allora Alto commissario per i diritti umani Zeid Raad Al Hussein a prendere la parola definendo “disumana” la decisione dell’Ue di affidare alla Guardia costiera libica il compito di bloccare i migranti e di riportarli nel paese nordafricano. Allora, però, nonostante fosse già cominciata la campagna contro le navi delle Ong, i porti italiani erano ancora aperti e quanti venivano salvati nel Mediterraneo potevano sbarcare e ricevere assistenza. Da allora la situazione è peggiorata, e non solo perché sulla pelle dei migranti è cominciato un assurdo braccio di ferro tra Roma e Bruxelles. Ma anche per le numerose aggressioni verificatesi nel corso dell’estate contro cittadini di origine straniera: 14 in soli due mesi. Tutti fatti che per l’Onu giustificano la messa sotto osservazione dell’Italia. Migranti. Se è il governo a creare insicurezza di Liana Vita Il Manifesto, 11 settembre 2018 “Ci vorrebbero 80 anni” ha dichiarato il ministro Salvini. A questa tardiva presa d’atto pubblica sull’impossibilità di espellere i circa 500.000 cittadini stranieri presenti in Italia senza un titolo di soggiorno, l’unica azione sensata conseguente sarebbe il ritiro della proposta - messa nera su bianco nello schema di decreto-legge circolato, pronto per il Consiglio dei ministri - di eliminare la protezione umanitaria dal nostro ordinamento e di tutte le altre misure previste che sembrano mirare ad aggravare, più che a risolvere, le situazioni di esclusione sociale nel paese. Pare infatti che il ministro si sia accorto solo ora che il numero di espulsioni ogni anno si aggira su cifre molto basse vista la complessità delle operazioni di rimpatrio (nel 2017 sono stati rimandate nei Paesi d’origine 6.340 persone, nel 2016 erano state 5.300 in linea con gli anni precedenti), anche verso quei pochi paesi con cui l’Italia ha accordi di riammissione (vedi la Nigeria). Speriamo sia consapevole che sarà difficile stringere accordi con “tutti” i paesi di origine, come ha dichiarato, visto che la stessa Ue, nonostante l’impegno dell’agenzia Frontex degli ultimi anni, si è dovuta scontrare con una realtà più complessa di quanto previsto. E potrà notare il ministro, guardando i dati degli ultimi anni, che rispetto alle persone trattenute nei Cie ora Cpr, la media dei rimpatri effettuati rispetto alle persone trattenute continua a essere intorno al 50%, a prescindere dalla durata del trattenimento visto che tale era anche quando si poteva rimanere nei Cie addirittura 18 mesi. Allungare dagli attuali tre a sei mesi la durata massima, come prevede il decreto-legge, non porterà risultati migliori. Preso atto di ciò, non gli sfuggirà che, dichiarando guerra, come ha fatto, alla protezione umanitaria, non farà altro che creare ulteriore irregolarità. Il legame è evidente: privare migliaia di persone della possibilità di vedersi riconosciuta una forma di protezione di fronte a seri motivi di carattere umanitario o sociale vuol dire condannare quelle stesse persone a rimanere nel nostro paese senza nessuna possibilità di vivere e lavorare legalmente e senza che si riesca a rimpatriarle. Al di là delle considerazioni, imprescindibili, legate all’istituto della protezione umanitaria in relazione all’art. 10 della nostra Costituzione - per cui si interviene a tutela delle tante situazioni individuali bisognose di tutela al di fuori delle definizioni più nette delle norme internazionali - dovrebbero prevalere considerazioni molto pragmatiche. Oltre alle situazioni di gravi motivi umanitari accertate finora dalla Commissioni territoriali, in alcuni casi, ad esempio, il permesso di soggiorno per motivi umanitari è stato rilasciato dal questore o concesso dai tribunali in sede di ricorso per “motivi d’integrazione” nei confronti di richiedenti asilo che, in attesa della risposta alla loro domanda, hanno trovato una propria sistemazione e datori di lavoro pronti ad assumerli: senza il permesso umanitario, che si può convertire in permesso di lavoro, è invece impossibile secondo le legge attuale assumere legalmente chi ha ricevuto un diniego. Parliamo di migliaia di persone che non si riescono a rimpatriare e che rimangono nel nostro paese senza poter lavorare legalmente, vivere dignitosamente, anche in presenza di un’offerta da parte di un datore di lavoro. Seguendo lo stesso ragionamento, perché il ministro si vanta di aver ottenuto negli ultimi due mesi, facendo pressioni sulle Commissioni territoriali, un numero più alto di dinieghi e sempre meno protezioni di tipo umanitario se questo risultato in pratica vuol dire un numero crescente di persone che rimarranno sul nostro territorio senza documenti, fuori dai circuiti legali, vittime di lavoro nero e sfruttamento, in condizioni di precarietà e marginalità? Che senso ha sventolare la bandiera della sicurezza se si sceglie volontariamente la strada del non governo e del disordine sociale? Ma sono diversi i punti critici nello schema di decreto-legge annunciato: alcuni paiono mettere in discussione alcuni principi del nostro sistema democratico, a partire dal presupposto dell’uguaglianza di fronte alla legge. Se confermato, il decreto sembrerebbe essere un altro tassello del disegno più generale a cui stiamo assistendo: infiammare il clima di odio e di conflittualità sociale per veder crescere il proprio consenso. Droghe. Marijuana light, arriva la stretta. “Va trattata come stupefacente” di Nadia Ferrigo La Stampa, 11 settembre 2018 Il ministro dell’Interno Matteo Salvini li ha bollati “negozi di marijuana che sembrano centri massaggi cinesi, un bordello”, lasciando così intuire l’intenzione di dare una stretta al mercato della cannabis light. Detto, fatto. In una circolare destinata a questori, forze dell’ordine e prefetti, il ministero indica punto su punto la linea da tenere su smart shop e infiorescenze. E ci sono cattive notizie in arrivo per i quasi mille negozianti che hanno aperto una partita Iva legata alla commercializzazione di prodotti a base di canapa e di infiorescenze, a cui si aggiungono un centinaio di marchi nati solo negli ultimi tre mesi. Se da una parte viene ribadita la volontà di tutelare gli agricoltori, dall’altra la circolare dà l’interpretazione più restrittiva della normativa che si applica ora agli smart shop. Definita, in modo appropriato, “fumosa”. Tolleranza zero per i negozianti - Non sarà più tollerata nessuna zona grigia: se la canapa non rispetta il limite dello 0,2 per cento di Thc oppure non rientra nelle 64 varietà definite “industriali” dal Catalogo europeo, va trattata come una sostanza stupefacente. Le conseguenze sono denuncia a piede libero per il titolare del negozio, sequestro dei prodotti e segnalazione al Prefetto dei consumatori. In questo caso, i clienti. Vale per le infiorescenze sfuse come per olii e derivati. La canapa coltivata in Italia non basta per soddisfare la richiesta in impennata del mercato, così in commercio si trovano infiorescenze d’importazione che non indicano né la provenienza né la titolazione. Per gli agricoltori c’è un limite di tolleranza, che va dallo 0,2 allo 0,6 per cento di Thc. La circolare chiarisce che la legge tutela l’agricoltore, se per cause naturali - e quindi a lui non imputabili - il raccolto ha un Thc più alto. Esclude però che questa soglia di tolleranza sia applicabile a rivenditori, grossisti e negozianti, rassicurati fino ad ora da questo vuoto normativo. “Nella zona grigia ci stanno otto prodotti su dieci tra quelli ora in commercio” spiega Luca Marola, con la sua Easy Joint pioniere della canapa legale made in Italy. “Ma non è scagliando agenti in divisa contro le migliaia di imprenditori della canapa che si governa un fenomeno di questa portata - continua. Assurdo tenere riservata una circolare del genere, quando sulla canapa light mai come ora c’è grande bisogno di chiarezza”. Stati Uniti. Dopo lo sciopero nelle prigioni più consapevolezza ma pochi cambiamenti di Beatrice Spadacini lavocedinewyork.com, 11 settembre 2018 I detenuti in sciopero già da due settimane hanno esposto le loro richieste, tra cui l’eliminazione del lavoro non remunerato o pagato somme irrisorie. Dato che maggioranza dei detenuti nelle prigioni americane sono sproporzionatamente afroamericani, latinoamericani o indiani d’America, non sorprende il fatto che il lavoro nelle prigioni venga spesso chiamato “lavoro per schiavi.” Certo, il lavoro nelle prigioni viene considerato un privilegio, in quanto offre la possibilità di apprendere un mestiere rivendibile, ma la miserrima paga ricorda forme di sfruttamento storico che hanno beneficiato lo status quo Questo fine settimana si è concluso uno sciopero nazionale nelle prigioni americane a cui hanno partecipato centinaia di detenuti in almeno 11 stati. Mentre milioni di cittadini americani hanno celebrato, una settimana fa, il Labor Day (“La giornata dei Lavoratori”, l’equivalente del nostro Primo Maggio), i detenuti americani in sciopero già da due settimane hanno esposto le loro richieste, tra cui l’eliminazione del lavoro non remunerato o pagato somme irrisorie e che a volte si traduce persino in pochi centesimi l’ora. Questa pratica è consentita dal tredicesimo emendamento della costituzione Americana che ha abolito la schiavitù nel 1865 ma ha fatto eccezioni particolari. Il primo paragrafo di questo emendamento sostiene che “Né la schiavitù o il servilismo involontario, tranne come punizione per un criminale condannato, possono esistere negli Stati Uniti o in luoghi sotto la propria giurisdizione.” Dato che maggioranza dei detenuti nelle prigioni americane sono sproporzionatamente afroamericani, latinoamericani o indiani d’America, non sorprende il fatto che il lavoro nelle prigioni venga spesso chiamato “lavoro per schiavi.” Certo, il lavoro nelle prigioni viene considerato un privilegio, in quanto offre la possibilità di apprendere un mestiere rivendibile, ma la miserrima paga ricorda forme di sfruttamento storico che hanno beneficiato lo status quo. Gli organizzatori dello sciopero hanno esposto altre richieste. Secondo un comunicato stampa della Jailhouse Lawyers Speak (JLS), un gruppo che rappresenta i detenuti della Carolina del Sud, le richieste includono un miglioramento delle condizioni umanitarie all’interno delle prigioni, servizi di riabilitazione per tutti i detenuti, una riforma delle condanne, il diritto al voto, e la rimozione delle barriere che consentono ai detenuti di inoltrare una causa federale. Lo sciopero nelle prigioni americane è stato organizzato a seguito di una rivolta scoppiata lo scorso mese di aprile all’interno del Lee Correctional Facility, una prigione di massima sicurezza nello stato della Carolina del Sud, dove sono morti sette detenuti e rimasti feriti molti altri. La data della fine dello sciopero, il 9 settembre, rappresenta la commemorazione della rivolta del 1971 nella Correctional Facility di Attica, nello stato di New York, che risultò in 39 morti. Tale rivolta mise in evidenza le violazioni dei diritti umani da parte delle guardie sui detenuti. Gli Stati Uniti hanno uno dei sistemi penali meno umani di tutte le democrazie occidentali. Nonostante rappresenti solo il 5 per cento della popolazione mondiale, il paese incarcera più di un quarto di detenuti nel mondo. È inoltre anche l’unico paese al mondo che consente di incarcerare i minorenni a vita, senza nessuna possibilità di libertà condizionale. Questo sciopero si è manifestato in diversi modi. Alcuni detenuti si sono rifiutati di lavorare, altri hanno smesso di acquistare beni e servizi di consumo all’interno delle prigioni e altri ancora hanno deciso di fare uno sciopero della fame. Gli organizzatori, e quelli che hanno aderito alla protesta, si aspettavano rappresaglie e dure punizioni. Secondo la stampa americana, questo è esattamente ciò che è avvenuto nelle ultime due settimane. In un segmento di Democracy Now del 30 agosto, la presentatrice Amy Goodman parla con Amani Sawari, organizzatrice dello sciopero nelle prigioni per conto dell’organizzazione JLS. Sawari conferma che uno degli organizzatori detenuto in una prigione del Texas è stato messo in una cella d’isolamento di cemento con una temperatura di circa 37 gradi. Altre forme di rappresaglia hanno incluso perquisizioni giornaliere che obbligano i detenuti a spogliarsi e la perdita di privilegi di comunicazione con l’esterno, tra cui le visite con i famigliari e le telefonate. Parte del problema quando si cerca di fare un’indagine su ciò che accade all’interno delle prigioni, è l’assoluta mancanza di trasparenza e di informazione da parte delle autorità. Per un paio di giorno dopo l’inizio dello sciopero, il 21 agosto, il Comitato di Organizzazione dei Lavoratori Incarcerati ha mantenuto informazioni aggiornate sul loro sito internet. Ma con il passare dei giorni, gli aggiornamenti sono diventati sempre meno frequenti. In un interessante articolo uscito su Columbia Journalism Review, gli autori hanno confermato che l’accesso alle prigioni durante lo sciopero era più limitato del solito. Nonostante le difficoltà, il livello di attivismo che questo sciopero ha generato è stato in qualche modo sorprendente. C’è stata una campagna social media con l’hastag #prisonstrike che ha generato diverse conversazioni online, un video promozionale, l’organizzazione di proteste davanti ad alcune prigioni e centri di detenzione, l’incoraggiamento e telefonare ai managers nelle prigioni, lettere di sostegno ai detenuti e lettere di protesta alle aziende che usano il lavoro poco remunerato nelle prigioni per i propri prodotti, tra queste Starbucks, Walmart, Victoria Secret, AT&T ed altre. Lo sciopero ha anche generato una vasta copertura stampa sulle richieste dei detenuti sia negli USA, che all’estero (vedi esempi in The Guardian e Telesur). Si spera perciò che questa copertura abbia stimolato conversazioni sulle politiche del lavoro all’interno delle prigioni, il trattamento dei detenuti, il costo dei beni di consumo all’interno delle prigioni, il diritto di voto e la riforma delle condanne. Ma dall’interno delle prigioni non si può fare più di tanto. La vera riforma del sistema penale americano va portata avanti da legislatori e cittadini di coscienza, sia a livello federale che statale. Russia. Vivere e morire nelle prigioni di Putin di Yurii Colombo Il Manifesto, 11 settembre 2018 Record di detenuti in Russia: 486mila, pari al 7,5% della popolazione carceraria mondiale. In un “sistema” fermo all’epoca delle purghe di Stalin, crescono le denunce di violenze e soprusi: uso sistematico dell’elettroshock, omicidi impuniti da parte dei secondini. Uno stanzone spoglio. La telecamera non va subito a fuoco, poi l’inquadratura si stabilizza. Un’ammucchiata, venti contro uno. Tre secondini tengono immobilizzato un detenuto, altri sei o sette si danno il cambio per picchiarlo, scientificamente, sui genitali, sulle ginocchia, sui talloni. Altri ancora osservano e ridono. E quando l’uomo perde conoscenza, acqua gelata sul viso: che soffra da cosciente. Siamo nel carcere di massima sicurezza di Jaroslav città russa a 300 chilometri a nord-est di Mosca. Il video che documenta le torture risale all’aprile del 2017 ma è finito nelle mani di un avvocato dei diritti umani, Irina Biryukova, solo alla fine di luglio (Irina subito dopo ha dovuto lasciare il paese perché minacciata di morte). I giornali, in primis la combattiva Novaya Gazeta, denunciano le torture, il telegiornale sorvola ma il video diventa virale. I russi vedono con i propri occhi quello che hanno sempre immaginato: la disumanità e lo sconcio delle loro prigioni. Il giorno dopo, ed è una novità assoluta per la Federazione, la magistratura entra però in azione: 18 guardie carcercarie sono arrestate per i maltrattamenti a Jaroslav. Evgeny Makarov, il detenuto torturato, in prigione per il tentato omicidio di un presunto molestatore della sua fidanzata, è un “detenuto difficile”, riottoso alle dure regole della colonia, risponde a tono alle guardie e per questo viene punito come si deve: ma non è un caso isolato. Due detenuti politici che sono passati per la stessa prigione denunciano anche loro sevizie e la detenzione in condizione di isolamento anche per periodi di 6 mesi. Un frame del video che documenta le violenze massima sicurezza di Jaroslav Il 30 luglio Makarov entra in sciopero assieme ad altri contro l’isolamento prolungato e il 6 agosto i detenuti di alcune sezioni del carcere si ribellano: mettono a soqquadro le celle, sfasciano e bruciano suppellettili. La ribellione è domata solo in nottata. Con il passare dei giorni il quadro si fa più nitido, le denunce fioccano. Un attivista dei diritti umani denuncia che nel carcere n.5 della regione del Baikal la notte dopo la partita Russia-Croazia per scaricare la frustrazione per la sconfitta della nazionale russa (!) alcuni secondini torturano con l’elettroshock dei detenuti dopo averli picchiati. Anche nel carcere di Kerci, in Crimea, sembra che gli agenti si dilettino con l’elettroshock. Poi è la volta dell’Associazione “Komanda” che racconta di 13 casi di maltrattamenti nel carcere di Sapetopugo. L’avvocato Gop Ovakimjana documenta l’uccisione nel carcere di Melechovo, il 6 luglio, di un detenuto da parte degli agenti di custodia. Sei giorni prima, a seguito di uno sciopero della fame per protestare contro le condizioni di vita nel carcere circondariale di Ekaterinemburg, era morto un altro detenuto. Il 12 agosto a Brjansk dopo che un detenuto è deceduto in seguito a delle sevizie, è arrestata una guardia carceraria e sempre negli stessi giorni un altro agente di custodia, finisce dall’altra parte delle sbarre per aver ucciso un detenuto nel carcere di Kalingrad il 6 gennaio scorso. Quanto emerge è evidentemente solo la punta dell’iceberg di un sistema carcerario in cui violenza e soprusi contro i detenuti sono la regola. “Siamo a conoscenza di molti altri casi a Vladimir, Samara, Krasnojarsk” afferma Alexsey Sokolov, attivista dei diritti umani negli Urali. “I secondini sono spesso gente che inizia a lavorare in carcere subito dopo il servizio di leva. Gente che viene da piccole città dove non c’è lavoro. Spesso non conoscono bene le leggi e semplicemente fanno propri determinati costumi interni di servizio: il prigioniero deve obbedire e deve capire subito chi comanda in carcere”, sostiene Sokolov. Si tratterebbe di un sistema di disciplinamento del detenuto impostosi negli anni Trenta, all’epoca delle purghe, e mai caduto in disuso. “Ma, al sistema sovietico di detenzione si è aggiunta oggi una nota “commerciale”. Se paghi una “retta” mensile ai secondini per essere lasciato in pace. Se puoi ricevere in carcere soldi, allora ti è permesso tutto”, afferma ancora Sokolov. “In carcere non si può avere un computer né ricevere prodotti alimentari. Le comunicazioni via mail avvengono attraverso le guardie e solo verso i familiari. Si scrive su un foglio di carta ciò che si vuole comunicare e poi ci pensano loro a inoltrare la mail” afferma Sergey Udalzov leader del Fronte di Sinistra che ha scontato 4 anni di prigione a “regime duro” per le manifestazioni anti-Putin del 2011-2012. Che la situazione possa esplodere in ogni momento, viene riconosciuto ormai dalle stesse istituzioni. Dopo le denunce di queste settimane è venuta allo scoperto la portavoce del Consiglio della Federazione, Valentina Matvienko la quale ha sostenuto che le guardie coinvolte nelle “mostruose torture” dovranno essere esemplarmente condannate. “Ma non basta - ha sostenuto Matvienko - è venuta l’ora di una riforma complessiva del nostro sistema carcerario”. Fino ad oggi il sistema penale della Federazione Russa è stato incentrato sulla pura repressione. La maggioranza dei detenuti è in prigione per reati non gravi (condanne fino a tre anni) e la Russia è il paese con reddito pro capite sopra i 10mila dollari l’anno con il maggiore numero di detenuti in relazione al numero di abitanti (486mila su 146 milioni di abitanti, il 7,5% di tutta la popolazione detenuta al mondo). L’attività lavorativa in carcere è obbligatoria. I detenuti politici sono relativamente pochi (meno di 400), ma solo perché molti oppositori vengono condannati a ricorrenti detenzioni amministrative della durata di 30 o 60 giorni che non risultano nelle statistiche. Tuttavia alcuni passi avanti sono stati fatti e c’è di che sperare. La popolazione carceraria dieci anni fare era il doppio di oggi (886mila detenuti) e le condizioni di detenzione sono anch’esse migliorate. Nel 2018 inoltre è proseguito l’incremento del numero di condannati a cui sono stati riconosciuti gli arresti domiciliari (oltre 100mila) e anche il numero di detenuti in attesa di giudizio si è ridotto significativamente. Cina. I campi di rieducazione per gli uiguri ilpost.it, 11 settembre 2018 Il governo nega che esistano, ma sempre più testimonianze e documenti offrono una versione diversa e preoccupante. Un lungo articolo del New York Times ha raccontato la rete di campi di detenzione nella quale il governo della Cina sta imprigionando, talvolta in modo indiscriminato, migliaia di musulmani uiguri, cioè appartenenti a una minoranza etnica da tempo in conflitto con l’autorità centrale. Il New York Times ha intervistato quattro persone di etnia uigura che sono state prigioniere in questi campi, e più di una decina di parenti di altri detenuti, e ha letto documenti e studi locali che non erano finora usciti sulla stampa occidentale. Dei campi di detenzione per gli uiguri in Cina si parla da qualche mese, dopo che alcune organizzazioni per i diritti umani e media occidentali avevano raccontato per la prima volta la vicenda. La ricostruzione fornita dall’inchiesta mette in discussione la versione ufficiale del governo cinese, che ha più volte negato pubblicamente che sia applicata una forma di detenzione arbitraria, e sostiene che i detenuti di questi campi subiscano abusi e violazioni dei diritti umani. L’obiettivo finale dell’operazione, dice il New York Times, è la cancellazione dell’identità uigura. Gli uiguri sono una minoranza di religione musulmana e parlano una lingua di origine turca, stanziati principalmente nella vasta regione dello Xinjiang, nel nord ovest del paese. Qui gli uiguri sono circa la metà dei 24 milioni di abitanti: nella regione vive circa l’1,5 per cento della popolazione cinese, ma secondo l’organizzazione Chinese Human Rights Defenders si verifica il 20 per cento degli arresti del paese. L’autorità centrale cinese ha sempre mal sopportato gli uiguri per le loro antiche spinte indipendentiste, che portarono a repressioni già nell’epoca di Mao Zedong e che si sono inasprite negli ultimi vent’anni, da quando il governo ha presentato la campagna contro la minoranza uigura come una lotta al terrorismo. Nel più violento scontro avvenuto finora tra polizia e uiguri, durante una protesta indipendentista nel 2009, morirono circa 200 persone. La regione dello Xinjiang è notoriamente uno dei posti più sorvegliati al mondo: gli abitanti sono sottoposti a controlli di polizia quotidiani, a procedure di riconoscimento facciale e a intercettazioni telefoniche di massa. Secondo le organizzazioni per i diritti umani, queste forme di oppressione hanno deteriorato il tessuto sociale locale, provocando profonde ferite nelle comunità e nelle famiglie. I documenti del governo che ha visto il New York Times descrivono una vasta rete di campi che vengono definiti “di trasformazione attraverso l’educazione”. Secondo uno studio consultato dal New York Times e condotto l’anno scorso da Qiu Yuanyuan, studente di una scuola dello Xinjiang in cui vengono formati i funzionari di governo, in certi casi gli uiguri vengono rinchiusi indiscriminatamente allo scopo di raggiungere certe quote di detenuti. Lo studio ipotizza che le modalità con le quali è portata avanti l’operazione possano avere l’effetto opposto, e incentivare la radicalizzazione religiosa dei detenuti. Secondo uno studio dell’istituto di ricerca di geopolitica Jamestown Foundation, i campi esistono dal 2014. Ma è dal 2017 che le leggi repressive si sono inasprite, secondo lo Uyghur Human Rights Project, un’organizzazione che difende i diritti della minoranza con sede a Washington. Dal 2016, poi, a capo della regione dello Xinjiang c’è Chen Quanguo, un politico famoso per il suo approccio duro all’ordine pubblico che prima aveva governato il Tibet, altra area di forti spinte indipendentiste. Abdusalam Muhemet, uno dei detenuti intervistati dal New York Times, ha 41 anni e fu rinchiuso per aver recitato un verso del Corano a un funerale. Nel suo campo veniva portato ogni mattina nel cortile insieme agli altri detenuti, talvolta con schiaffi e spinte. Qui venivano costretti a cantare canti patriottici cinesi, e a chi dimenticava le parole veniva negata la colazione. Sempre riuniti, erano sottoposti a lezioni in cui i funzionari cinesi li intimavano a rinunciare al radicalismo islamico e all’indipendentismo uiguro. I prigionieri venivano istruiti anche su come praticare la religione musulmana, in un modo che prevedeva molte restrizioni, come non pregare in casa nei momenti in cui amici o ospiti fossero stati presenti. Muhemet rimase in tutto più di due mesi nel campo, dopo averne passati sette in una prigione normale e senza mai essere formalmente incriminato per nessun reato. Alcuni ex detenuti hanno raccontato al Washington Post di aver subito delle torture come il waterboarding e la cosiddetta “panca della tigre”, sulla quale gli interrogati vengono fatti sedere in una posizione molto dolorosa. A luglio, durante una riunione della Commissione del Congresso statunitense sulla Cina, l’ex analista del Dipartimento di Stato Jessica Batke aveva parlato anche di privazione del sonno e isolamento. Molte testimonianze descrivono quello che avviene nei campi come un “lavaggio del cervello”. Ad agosto Hu Lianhe, rappresentante dell’agenzia che si occupa delle questioni etniche e religiose in Cina, ha negato all’Onu che siano in corso detenzioni arbitrarie e violazioni dei diritti umani in quelli che ha definito come “centri di istruzione vocazionale e di addestramento al lavoro”, smentendo la definizione di “centri rieducativi”. Non ha voluto dire quante persone siano attualmente rinchiuse nei campi. Il New York Times ha intervistato anche una donna con meno di trent’anni, che era stata detenuta in un campo per aver indossato un velo in testa e per aver letto dei libri sulla religione e la storia uigura. Prima di portarla in un campo, le autorità cinesi installarono delle telecamere fuori dalla sua porta e nel salotto della casa in cui viveva con la famiglia; ogni settimana, un funzionario faceva visita a casa sua per interrogarla. Una volta scarcerata, la donna lasciò la Cina e provò a chiamare la famiglia, che le rispose di non mettersi più in contatto perché erano nei guai. Ci sono campi progettati per permettere alle persone di tornare a casa la sera, mentre altri ospitano migliaia di detenuti. Con una legge del 2017 sulla “deradicalizzazione”, il governo dello Xinjiang ha dato una vaga autorizzazione ai campi, richiedendo anche delle gare di appalto per la loro costruzione. Non si sa quante persone vi siano state detenute in tutto: le stime vanno da alcune centinaia di migliaia a un milione. Secondo gli abitanti dello Xinjiang, le persone vengono richiuse anche solo per aver fatto visita ai parenti all’estero, o per aver indossato magliette riconducibili all’Islam. Alcune donne, perché denunciate da mariti o figli. Tra le raccomandazioni ufficiali per rilevare eventuali radicalizzazioni, ai funzionari si consiglia di fare attenzione agli uomini che si fanno crescere la barba, oppure che pregano in pubblico, oppure che smettono improvvisamente di bere o fumare. Hotan, una città di quasi 400mila abitanti, è una delle più interessate dalla sorveglianza di massa del governo cinese. Tradizionalmente, gli uiguri vi praticavano una versione moderata dell’Islam, e molti nemmeno erano credenti: ma recentemente sono arrivate influenze più radicali dal Medio Oriente, che hanno portato qualcuno a radicalizzarsi. Con la repressione del governo, però, non si vedono più barbe lunghe e le moschee sono poco frequentate, anche perché per entrarci bisogna iscriversi a un registro ufficiale. A rendere strana la situazione c’è anche il fatto che parte dei funzionari dell’autorità centrale, compresi poliziotti e guardie penitenziarie che eseguono concretamente le misure repressive, sono a loro volta uiguri. Ci sono posti, come la città di Kashgar, dove i detenuti nei campi speciali sono così tanti che il governo ha dovuto aumentare i posti nei convitti, per ospitare i bambini separati dai genitori. Ne sono stati costruiti 18 soltanto nel 2017, secondo la stampa locale. Questo, come ha raccontato l’Atlantic, è secondo alcuni esperti uno degli strumenti più efficaci sfruttati dal governo cinese: separando i bambini dalle famiglie li si allontana dalla loro cultura, e in questo modo il governo potrebbe arrivare ad assimilarli a quella considerata dall’autorità centrale come autenticamente cinese, “rimodellando l’identità di un’intera generazione uigura”. Nicaragua. Migliaia in piazza per liberazione detenuti politici agensir.it, 11 settembre 2018 In Nicaragua, dopo il riuscito sciopero generale, l’opposizione al Governo del presidente Ortega si è rianimata. Manifestazioni si sono tenute nel fine settimana a Managua e in tutto il Paese e in particolare ieri molte migliaia di persone hanno partecipato, con una moltitudine di palloncini azzurri e bianchi, alla “Marcia de los globos” per la liberazione dei prigionieri politici. Nel frattempo, da parte dei fedelissimi di Ortega si continua a mettere nel mirino la Chiesa cattolica. Sabato su un muro vicino alla cattedrale di Managua sono apparse delle scritte con espressioni ingiuriose verso la Chiesa e i sacerdoti. Ieri l’arcivescovo di Managua e presidente della Conferenza episcopale nicaraguense, card. Leopoldo Brenes, ha denunciato, a conclusione della messa celebrata nella chiesa di San Nicola da Tolentino, che “durante la celebrazione dell’eucaristia” in alcune chiese “ci sono persone che arrivano con altoparlanti” e disturbano le celebrazioni, e ha chiesto di avere “rispetto” per l’eucaristia e per le convinzioni dei fedeli. Di fronte alle scritte e agli attacchi, il card. Brenes ha detto che “pregare per coloro che ci insultano è un precetto del Signore” e di conseguenza l’unica cosa da fare è “pregare per le persone che ci calunniano e ci diffamano”. Inoltre, bisogna “avere la tranquillità di cuore pulito, non portare odio e avere la presenza di Cristo nei nostri cuori”. Il vescovo di Granada, mons. Jorge Solórzano Pèrez, ha invece denunciato via Twitter che sabato pomeriggio, mentre si celebrava la messa nella parrocchie della Merced, alcuni simpatizzanti del Governo sono entrati in chiesa gridando. “Chiedo - scrive il vescovo - che si rispettino le nostre chiese e le celebrazioni liturgiche”. Ieri è toccato a padre Edwin Román, coraggioso parroco di San Miguel, a Masaya, essere insultato e aggredito da uno dei capi della Polizia sandinista.