Il governo pronto a introdurre il taser in carcere di Francesco Grignetti La Stampa, 10 settembre 2018 Il piano del Viminale. E la Lombardia vuole acquistare un migliaio di pistole elettriche per i vigili urbani. La pistola elettrica, il “taser”, quell’aggeggio che lancia una scarica elettrica a forte voltaggio capace di atterrare un bisonte, affidato a polizia e carabinieri per una sperimentazione da alcuni giorni, sta dando buona prova. Sono diversi i casi, da Catania a Milano, in cui agli agenti è stato sufficiente tirarlo fuori dalla fondina, e far schioccare la scintilla, per riportare a miti consigli un violento. E dato che, neanche a farlo apposta, ogni volta si trattava di un energumeno straniero, il ministro Matteo Salvini non ha mancato di commentare via social: “La polizia di Stato è intervenuta su un cittadino del Mali, Yousouf Wanban (classe 1987), che passeggiava brandendo un coltello. Gli operatori, alla vista dello straniero, hanno utilizzato il taser informa dissuasiva, attraverso l’intervento del cosiddetto “warning ark”, il “crepitio dell’arco voltaico”. Il malvivente è stato immobilizzato e condotto in Ufficio per gli accertamenti di rito. Dalle parole ai fatti”. La sperimentazione Ecco, la sperimentazione sta andando così bene che ora tutte le forze di polizia lo vogliono. In Lombardia, l’assessore regionale Riccardo De Corato (Sicurezza, immigrazione e polizia locale) vuole comprare qualche migliaio di pistole elettriche per darle ai vigili urbani. Anche la polizia penitenziaria spera ardentemente di averne in dotazione. “Ci stiamo pensando seriamente - spiega Jacopo Morrone, leghista, sottosegretario alla Giustizia - perché pensiamo che potrebbero essere molto utili per tenere l’ordine nelle carceri”. Morrone pensa anche a un’altra innovazione: affidare alla polizia penitenziaria lo strumento delle intercettazioni (che sempre vanno autorizzate dalla magistratura) “in quanto non ha senso ricorrere a forze di polizia esterne, con il pericolo di far capire a tutti i detenuti di che cosa sta capitando”. Premesso che i leghisti non ne hanno ancora parlato con il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, e che invece Salvini ne sta parlando a raffica, anche i sindacalisti del settore sembrano molto favorevoli. Ha raccontato il segretario generale della Uil-polizia penitenziaria Angelo Urso che nei giorni scorsi a Firenze, nel carcere di Sollicciano, una partita di calcio si è trasformata in una maxi-rissa tra almeno 40 detenuti, metà albanesi, metà maghrebini. Era presente un solo agente di polizia penitenziaria che ne è uscito con una spalla lussata. “Servono uomini e donne, mezzi, strumenti di lavoro e fondi per rimettere in sicurezza un sistema in grave difficoltà”, conclude Urso. L’effetto dissuasivo Da qui parte il ragionamento di Morrone, che ha la delega sulla polizia penitenziaria: “All’interno delle sezioni carcerarie, gli agenti devono circolare disarmati. E una precauzione necessaria, guai se venissero sopraffatti e i detenuti si impossessassero di armi”. Vale per la pistola tradizionale, varrà anche per quella elettrica. “Si può pensare, però, che qualche “taser” sia nell’armeria dell’istituto penitenziario. Il personale addestrato vi potrebbe ricorrere per sedare i subbugli che si verificano di continuo. Meglio che usare i manganelli, no? Si è già visto quanto sia forte l’effetto dissuasivo dello schiocco”. Taser nelle carceri di Lucia Conte huffingtonpost.it, 10 settembre 2018 L’idea della sperimentazione della pistola elettrica nei penitenziari è del sottosegretario alla Giustizia Jacopo Morrone, leghista. Il taser potrebbe essere usato anche dalla polizia penitenziaria nelle carceri. Dopo la sperimentazione partita tra le polemiche il 5 settembre scorso in 11 città dove gli agenti della polizia di Stato, grazie a un decreto del ministro dell’Interno, Matteo Salvini, sono stati dotati della pistola elettrica, la Lega tira dritto e non abbandona la linea dura. Anzi. L’idea è del sottosegretario alla Giustizia Jacopo Morrone, deputato forlivese del Carroccio: “Dopo l’esordio positivo della sperimentazione del Taser messo in dotazione alla Polizia di Stato in undici città, credo che sia legittimo prevederne l’utilizzo sperimentale, in certi casi, anche per la Polizia Penitenziaria”. Il Sottosegretario ricorda “i ripetuti episodi di violenza da parte di detenuti nei confronti di agenti in vari istituti carcerari” e vede nel taser “un mezzo di deterrenza, che può avere anche un effetto preventivo come abbiamo già avuto modo di vedere a Milano, Catania e Torino, solo per fare un esempio, ed è efficace anche per ridurre i rischi per l’incolumità degli agenti nell’affrontare aggressioni, impedendo la colluttazione fisica”. La richiesta di avere in dotazione un arma di questo tipo era arrivata in passato dai sindacati della polizia penitenziaria ma mai nessuna forza politica l’aveva assecondata. Proprio qualche giorno fa, quando la sperimentazione del taser per la polizia di Stato è partita, il segretario nazionale del coordinamento sindacale penitenziario, Domenico Mastrulli, aveva espresso tutta la sua delusione: “Peccato - aveva detto - che gli agenti in servizio nelle carceri italiane continuino ad essere considerati carne da macello. L’ultimo grave episodio si è verificato nei giorni scorsi nel penitenziario di Prato dove un detenuto sudamericano ha aggredito violentemente quattro poliziotti penitenziari, uno di loro rimasto gravemente ferito alla gola con colpi di lametta. Se un solo agente deve avere sotto controllo settori penitenziari composti dai 100 ai 200 detenuti, forse sarebbe opportuno che quel poliziotto sia messo nelle condizioni di difendersi dalle aggressioni”. Attualmente, ricorda il sottosegretario Morrone, “gli agenti della polizia penitenziaria possono intervenire con degli sfollagente o a mani nude o con la semplice mediazione a sedare rivolte o risse di detenuti”. Per avere la pistola elettrica anche negli istituti penitenziari, spiega il leghista, “servirà naturalmente anche un’adeguata formazione, ma credo che sia giunto il momento che anche l’Italia sia adottato questo strumento, come in tanti altri Paesi, tra cui Francia, Germania e Gran Bretagna. E’ evidente che di fronte all’escalation di violenza da parte della criminalità, anche tutte le Forze di Polizia devono essere dotate di nuovi dispositivi di sicurezza per la propria salvaguardia e per quella dei cittadini. Naturalmente l’uso dei nuovi dispositivi deve essere commisurato alla situazione di pericolo, tuttavia crediamo che si debba prevedere per gli agenti di Polizia Penitenzia un piano di attività e di formazione per la difesa personale, anche sull’esempio di tanti altri Paesi che sul fronte della sicurezza sono più avanzati”. La decisione finale tuttavia spetta al ministro della Giustizia dal quale dipende il corpo di polizia penitenziaria: “Nei prossimi giorni porterò la mia proposta all’attenzione del ministro Alfonso Bonafede (M5S) e gli chiederò di procedere su questa strada mettendo a punto, in tempi rapidi, un progetto che possa essere applicato efficacemente, con le dovute accortezze, anche negli Istituti di pena”. Non può esserci libertà senza responsabilità di Mauro Magatti Corriere della Sera, 10 settembre 2018 Scaricare su un nemico esterno (che sia l’immigrato, l’Europa o i mercati) tutti i nostri problemi è un modo per sfuggire le proprie responsabilità. Libertà e sicurezza costituiscono una polarità fondamentale per gli equilibri di fondo di una società. La domanda di sicurezza esprime il bisogno di proteggersi dai pericoli del mondo circostante. Obiettivo che porta a cercare di tenere sotto controllo la realtà, ivi compresa la libertà. Quest’ultima, a sua volta, accresce la contingenza: più opportunità e autodeterminazione implicano maggiori rischi e insicurezze. Il ciclo storico alle nostre spalle ha le sue origini alla fine degli anni 60, quando l’ordine delle cose che reggeva la società post bellica improvvisamente sembrò rigido e soffocante. Per vie molto diverse da quelle immaginate dagli studenti del 1968, la potente domanda di libertà che allora si affermò è penetrata così profondamente nelle viscere della società da diventare l’energia psichica della crescita neoliberista. In tutto l’Occidente, dai primi anni 80 la libertà è cresciuta in tutti gli ambiti della vita. Nella convinzione che mercati e innovazione fossero sufficienti per garantire la crescita, vero e affidabile baluardo su cui poggiare la “sicurezza” di tutti. Dopo il 2008 questa convinzione ha però cominciato a incrinarsi. Così che è aumentata la percezione di una insicurezza che non è riducibile a uno specifico problema (per esempio il numero degli immigrati) ma è espressione di una condizione generale. Come ha messo in luce un recente rapporto dell’Oecd (States of fragility), benché capace di risolvere tanti problemi, la crescita economica tende anche a rendere più fragili ampie quote di popolazione. La ragione non è difficile da capire: oggi ci sono molte più possibilità di una volta. Ma solo chi dispone di tutta una serie di condizioni può effettivamente goderne: avere una famiglia che aiuta e sostiene nelle difficoltà; nascere in un quartiere o in un’area geografica prospera; avere un titolo di studio o almeno una qualche competenza professionale; godere di buona salute e di buone relazioni sociali; non incappare in un qualche evento traumatico. In un contesto in cui le sicurezze istituzionali e quelle relazionali si sono indebolite, il cambiamento di clima registrato sul piano macro ha cambiato la cornice generale: anni di attentati che hanno scavato nella psicologia collettiva; incertezze economiche persistenti e mai fugate dalla ripresa del Pil; cronica esposizione a eventi globali - come le migrazioni o i cambiamenti climatici - dai quali non si sa come difendersi. Si potrebbe dire che l’enorme aumento della contingenza prodotto dalla moltiplicazione delle libertà su scala globale prodottasi negli ultimi decenni ha finito per rovesciarsi nel suo contrario, facendo esplodere la domanda di sicurezza. Nel calo di fiducia nei sistemi tecno-economici, alla politica oggi si chiede di “mettersi in mezzo” tra le vite individuali e i grandi fenomeni a cui ci si sente esposti. Aprendo così un enorme spazio che i nuovi partiti di destra, in tutto il mondo, stanno cercando di occupare. Se le cose stanno così, la fase che abbiamo appena cominciato a vivere potrebbe durare a lungo, con conseguenze difficili da immaginare. Tanto più che nessuno sa come sia possibile costruire un nuovo equilibrio tra libertà e sicurezza. A questo proposito ci sono però almeno due considerazioni iniziali da fare. In primo luogo, il nesso libertà-sicurezza è influenzato dal funzionamento dei contesti istituzionali (politici e tecnici). Si vede bene che nei Paesi (come l’Italia) dove le istituzioni sono piuttosto inefficienti, la fiducia si distrugge e la rabbia e la disillusione diventano più forti. Ma attenzione: se mettere mano al piano istituzionale oggi è necessario, il problema è farlo con intelligenza, avendo consapevolezza della complessa rete di interdipendenze da cui dipende la vita sociale contemporanea. L’idea che possa esistere una politica che prescinda dai contesti (politici e tecnici) internazionali è velleitaria. E dunque pericolosa. In secondo luogo, il rapporto libertà-sicurezza è sensibile alla responsabilità personale. Uno dei problemi del modello che abbiamo alle spalle è l’unilaterale insistenza su diritti e scelte individuali. Per anni ci si è dimenticati di dire che con la libertà aumentano anche doveri e responsabilità. Al punto che oggi non siamo più in grado di riconoscere alcuna relazione tra degrado della libertà e perdita di sicurezza. Scaricare su un nemico esterno (che sia l’immigrato, l’Europa o i mercati) tutti i nostri problemi è un modo per sfuggire le proprie responsabilità. Eppure, per riconciliare su un piano più avanzato libertà e sicurezza non c’è altra via che rimettere al centro la contribuzione di ciascuno. Se non vuole distruggere se stessa e ciò che le sta attorno, la libertà deve arrivare a riconoscere che essa vive pienamente solo nella responsabilità. La Lega ora mette nel mirino l’obbligatorietà dell’azione penale di Francesco Grignetti La Stampa, 10 settembre 2018 Sarà pur vero che Matteo Salvini ha addolcito i toni nella polemica con la magistratura, ma mica tanto. Nel mirino ha sempre le toghe di sinistra, che considera nemiche. “Per carità di Dio - ha detto anche ieri, intervistato da Radio 102.5 - non ce l’ho con i magistrati, come non ce l’ho con i dentisti o i tassisti. Ma che ci sia qualche magistrato con chiare e evidenti simpatie politiche non svelo il mistero di Fatima”. Perché fosse ancor più chiaro il messaggio, stigmatizzando la campagna Welcoming Europe, scrive sui social: “Magistratura Democratica sposa campagna pro-immigrazione con: Potere al Popolo, ON, Cgil, Arci, Rifondazione Comunista e coop varie (compresa Baobab Experience dove si erano rifugiati gli sbarcati della Diciotti). Poi quello accusato di ledere l’autonomia dei magistrati sono io...”. Il segnale è chiaro: siamo soltanto all’inizio di una campagna che sarà furente. Se gli alleati speravano di averlo convinto a tenere un più basso profilo, sappiano che così non sarà. Anzi. E se possibile, la storia che Di Maio l’avrebbe chiamato per frenarlo, l’ha irritato ancora di più. “Non ho ricevuto nessuna telefonata. Ho tanti difetti, ma decido con la mia testa. Non ho fatto né un attacco alla magistratura il giorno prima, né una retromarcia il giorno dopo”. Salvini ritiene che i Cinque Stelle siano troppo sbilanciati sui magistrati. E così ci pensa lui a dare qualche picconata ai loro tabù: “Sono d’accordo con il fatto che l’obbligo di azione penale e una ipocrisia”. Ci ha pensato, non è un’uscita estemporanea: “Non tutti i reati sono uguali, deve esserci la responsabilità in una scelta della gravità dei reati. L’obbligo di procedere sempre e comunque anche se uno si spezza un’unghia non è corretto. Io proporrò anche di intervenire, ma cosa mi diranno? Che il governo fascista di Salvini vuole dare indicazioni ai giudici”. Nella guerra di logoramento con i grillini, ha già detto che lo “Spazza-corrotti” non gli piace granché. I suoi uomini hanno evidenziato un capitolo che secondo loro darebbe indiscriminato potere alle procure: ritoccando infatti il reato di “traffico illecito di influenze”, che assorbe il “millantato credito”, passando così da 3 a 6 anni come massimo della pena, in pratica si allarga l’uso delle intercettazioni a tutta la sfera del lobbismo, delle raccomandazioni, dei favori. Anche la ministra della Pubblica amministrazione, Giulia Bongiorno, ex An, ora leghista, ha già precisato che il testo così com’è non può passare. Se Salvini voleva scatenare reazioni, intanto, individuando la giustizia come tema esplosivo, c’è immancabilmente riuscito. “L’obbligatorietà dell’azione penale non si tocca”, gli risponde Cosimo Ferri, magistrato prestato alla politica, Pd. “Il principio di eguaglianza dei cittadini davanti alla legge, ha come suo primo postulato l’obbligatorietà dell’esercizio dell’azione penale nei confronti di chiunque, qualunque sia il ruolo rivestito”, commenta subito dopo Area, l’associazione dei magistrati progressisti. E dice Maurizio Martina, il segretario Pd: “Uno vale uno davanti alla giustizia, caro Salvini. Non sei al di sopra della legge”. Vince la super lobby, più facile possedere un’arma da guerra di Marco Mensurati e Fabio Tonacci La Repubblica, 10 settembre 2018 L’impegno scritto preso da Matteo Salvini davanti alla lobby delle armi diventa oggi una legge dello Stato. La Gazzetta Ufficiale ha infatti pubblicato il decreto legislativo 104 del 10 agosto 2018 con il quale l’Italia recepisce la direttiva europea 477, e lo fa nel modo più “generoso” - per le lobby - possibile, almeno stando alle proteste che immediatamente si sono levate da parte del fronte anti-armi. Per capire bene il senso di tutta questa vicenda occorre partire dal patto d’onore che Salvini firmò lo scorso 11 febbraio, in piena campagna elettorale, all’hit show di Vicenza. In una saletta riservata della Fiera, l’allora candidato Salvini incontrò i rappresentanti del “Comitato Direttiva 477”. Non un’associazione come un’altra, ma il punto di riferimento degli interessi di tutti soggetti della filiera delle armi, dal produttore al consumatore, con importanti addentellati confindustriali. Nata nel 2015, il suo principale obbiettivo era proprio quello di monitorare il recepimento delle nuove norme europee sulla circolazione delle armi affinché questo risulti il meno restrittivo possibile. Durante quell’incontro, Salvini firmò un documento nel quale - come rivelato successivamente da Repubblica - si impegnava “sul suo onore” a fare “tutto” il possibile affinché la direttiva armi approvata nel 2017 venga recepita senza introdurre oneri e restrizioni non espressamente previsti dalla stessa ed anzi adeguare la normativa in materia ai criteri minimi previsti dalla direttiva. Nello stesso documento, Salvini si è impegnato anche a “coinvolgere e consultare” il suddetto Comitato ogni qual volta siano in discussioni provvedimenti sulle armi. Pochi mesi dopo la firma di quel documento, ecco i risultati: 1) L’aumento da 6 a 12 delle armi sportive detenibili 2) L’aumento a 10 per le armi lunghe e a 20 per le armi corte, dei colpi consentiti nei caricatori, oggi limitati rispettivamente a 5 e 15; 3) L’estensione della categoria di “tiratori sportivi”, quelli autorizzati a comprare armi “tipo guerra” come Kalashnikov e Ar 15. Che adesso sarà accessibile non solo agli iscritti alle Federazioni del Coni - ma anche agli iscritti alle sezioni del Tiro a Segno Nazionale, agli appartenenti alle associazioni dilettantistiche affiliate al Coni, nonché agli iscritti ai campi di tiro e ai poligoni privati (che comprendono sia impianti seri sia autentiche bocciofile a mano armata). “Mi sembra evidente - è il commento di Piergiulio Biatta, presidente dell’osservatorio permanente sulle armi leggere di Brescia - che, più che alle esigenze di sicurezza pubblica ma anche alle reali necessità dei veri sportivi, le modifiche introdotte rispondano alle pressioni della lobby delle armi. L’impressione è che il M5S abbia dato carta bianca alla Lega E che Salvini abbia così cominciato a dar corso a quel patto d’onore”. Particolarmente interessante e articolato il punto di vista di Andrea Gallinari presidente di “Difesa Italia”, già tra i fondatori del Comitato Direttiva 477. “Il decreto italiano recepisce i contenuti e la logica della direttiva europea in maniera del tutto neutra. Il punto, però, è che questa, concepita come misura contro il terrorismo internazionale, di fatto non introduce misure realmente efficaci contro il traffico clandestino delle anni da guerra - soprattutto quelle provenienti dagli arsenali dei paesi dell’est - mentre nel suo impianto originale si limitava ad introdurre solo una serie di insensate difficoltà burocratiche agli appassionati e ai produttori di armi, che hanno reagito, organizzandosi e dandosi un peso politico. Credo potenzialmente anche superiore a quello della National riffe association americana. Mi auguro per il futuro una migliore concertazione tra organi legislativi europei e associazioni”. Sedici milioni di volti già nel database, è polemica sul riconoscimento facciale di Maria Rosa Tomasello La Stampa, 10 settembre 2018 l nuovo meccanismo solleva interrogativi che alimentano il dibattito sulla tutela della privacy dei cittadini. Gli esperti avvertono: a rischio libertà individuali e diritti civili degli eventuali partecipanti a una manifestazione. I nomi e i volti sono quelli già inseriti nella banca dati Afis, il Sistema automatizzato di identificazione delle impronte usato ogni giorno dagli investigatori italiani per dare la caccia agli autori di reati. Sedici milioni di persone di cui sono conservate foto, identità, descrizione. “Di queste, nove milioni sono soggetti diversi. Gli altri sette sono individui registrati in più segnalazioni, o perché hanno commesso crimini più volte o magari perché trovati sprovvisti di documenti e nuovamente foto-segnalati” spiega Fabiola Mancone, dirigente della Polizia scientifica. È questa la massa critica di informazioni affidata a due algoritmi neurali di ultima generazione (2017), cuore del nuovo Sistema automatico di riconoscimento immagini (Sari), il software che sfogliando e confrontando le immagini ad altissima velocità cerca un “match” tra le foto custodite in archivio e le immagini registrate da telecamere di sorveglianza o da telefonini. “Quello che finora abbiamo visto nei film, è realtà” commenta Mancone. È accaduto per la prima volta a Brescia, venerdì scorso, quando due topi d’appartamento sono stati arrestati grazie al nuovo sistema di riconoscimento facciale. “In pochi secondi il sistema ci fornisce i nomi dei “candidati”, a partire da quelli con gli “score”, i punteggi più alti - spiega Mancone - Quindi l’operatore fa un ulteriore accertamento, una comparazione fisiognomica dei volti, per avvalorare il risultato”. Ma il nuovo meccanismo solleva interrogativi che alimentano il dibattito sulla rete sulla tutela della privacy. Perché Sari è una medaglia a due facce. La prima è Enterprise, lo scenario in cui l’operatore cerca il volto catturato da una immagine. La seconda, che è ancora in fase di test, si chiama Real-Time, ovvero lo scenario in cui, come si legge nel capitolato tecnico dell’appalto, “in un’area geografica ristretta, una manifestazione o un impianto sportivo, per esempio, “si vuole analizzare in tempo reale i volti dei soggetti ripresi dalle telecamere confrontandoli con una banca dati ristretta e predefinita (definita watch-list)” composta da centinaia di migliaia di soggetti. Il Garante per la privacy, spiega Mancone, ha autorizzato l’utilizzo di Afis da parte di Sari, “perché si tratta della stessa banca dati che usiamo da decenni: non c’è nulla di nuovo se non lo strumento”. Ma cosa succederà quando sarà attivata la modalità Real Time? “Il riconoscimento facciale è una modalità ormai in uso alle polizie di tutto il mondo e la necessità di questo strumento è stata segnalata più volte dall’Interpol - afferma Maurizio Mensi, docente di Diritto dell’ informazione alla Luiss ed esperto di privacy - naturalmente bisognerà controllare come sarà utilizzato, ricordo per esempio il caso dei “falsi positivi” in Inghilterra”. Quanto all’utilizzo della videosorveglianza, “un controllo sistematico della popolazione non è consentito”. E il Garante, ricorda, si è già espresso sulla questione nel 2010, affermando che i filmati non possono essere detenuti per più di 7 giorni e che eventuali richieste di ordine diverso devono essere motivate. “Il principio da rispettare è quello della proporzionalità - afferma. Il sistema di rilevazione delle immagini deve essere reso conoscibile, modalità e tempi stabiliti in anticipo. Tuttavia, osserva Tommaso Scannicchio, avvocato e dottore di ricerca in Diritto privato comparato, fellow del programma “Libertà civili nell’era digitale” della Coalizione italiana Libertà e Diritti civili, “esistono rischi insiti nelle modalità di utilizzo di questa tecnologia”: “C’è un problema legato ai tempi di conservazione e alla tipologia dei trattamenti che potranno essere effettuati sulle videoriprese”, e informare che sono in corso riprese di polizia, “non risolve il problema della compressione delle libertà individuali e dei diritti civili degli eventuali partecipanti a una manifestazione, che potrebbero sentirsi condizionati nei comportamenti ovvero evitare di partecipare per il timore di essere “schedati”. Il sistema “Sari”. Un nuovo metodo che incrocia software e dati Sari (Sistema automatico di riconoscimento immagini) è un software introdotto nel dicembre del 2017, sperimentato nei primi mesi del 2018 e di recente entrato nella sua fase operativa come supporto alle indagini di polizia giudiziaria. Lavorando in connessione con la banca dati “Afis” delle forze dell’ordine, può ottenere una risposta anche in meno di un minuto, ma soprattutto lo può fare partendo da una foto, mentre fino ad ora dovevano essere descritte a parole nella ricerca informatizzata del vecchio sistema le caratteristiche anagrafiche o fisiche. E soprattutto può essere usato direttamente dagli agenti senza ricorrere agli uffici scientifici. Sari in sostanza permette due tipi di ricerche: nel database di volti già archiviati; oppure può acquisire una immagine esterna e compararla sempre con il database. Una volta trovato un “match”, una corrispondenza, gli investigatori cercano comunque altri riscontri come la refurtiva, un’impronta, una testimonianza o una intercettazione telefonica. Ingiusta detenzione: al merito il vaglio dell’impedimento al risarcimento di Andrea Magagnoli Italia Oggi, 10 settembre 2018 Il giudice accerta dolo e colpa. Resta di competenza del giudice di merito l’accertamento del dolo o della colpa grave che impediscono il risarcimento per l’ingiusta detenzione. La Corte di cassazione, con una recente sentenza (n. 39301 con motivazione depositata il giorno 30/8/2018) ha esaminato la problematica del risarcimento conseguente ad un ingiusta detenzione. Nel caso di specie, era stata emessa un’ordinanza di custodia cautelare a carico dell’imputato a seguito della contestazione dei reati di associazione per delinquere, falso, favoreggiamento all’immigrazione clandestina. All’imputato era stato infatti contestato, di aver prodotto agli organi competenti falsa documentazione, al fine di simulare la presenza di un rapporto di lavoro subordinato che consentisse l’ingresso di stranieri non comunitari nel territorio dello stato. A seguito dell’emissione di tale ordinanza, l’imputato era stato incarcerato per un periodo di alcuni mesi. Nella prosecuzione del giudizio di merito era stata accertata l’inesistenza di ogni genere di responsabilità. L’odierno ricorrente proponeva alla Corte d’appello di Milano istanza di risarcimento per l’ingiusta detenzione protrattasi per diversi mesi, la quale veniva comunque rigettata, escludendo i giudici della Corte d’appello di Milano il diritto dell’istante ad un risarcimento. Veniva depositato ricorso per Cassazione. Assumeva il ricorrente che la decisione del giudice, che rigettava l’istanza di risarcimento, era illegittima posto che aveva ravvisato nel comportamento dell’istante, un comportamento colposo idoneo sulla base di fatti che in realtà non erano mai stai provati. La Corte suprema, di trovava ancora una volta a decidere della questione dei presupposti, per l’esistenza del risarcimento a seguito di un periodo di detenzione rivelatosi effettivamente ingiusto. In proposito il codice di procedura penale all’art. 314, prevede che a un periodo di detenzione ritenuto infondato, consegua il diritto a un’equa riparazione qualora l’imputato non vi abbia dato o concorso a darvi causa per dolo o colpa grave. In proposito la giurisprudenza delle sezioni unite della Corte suprema si è orientata nel senso che debba essere escluso il diritto al risarcimento, nel caso in cui si sia in presenza di una condotta consapevole e volontaria, tale da creare una situazione di pericolo che renda necessario l’intervento della autorità giudiziaria a tutela della comunità, con l’emissione di un provvedimento restrittivo della libertà personale o la mancata revoca di un provvedimento di tale tipo. Prosegue inoltre la Corte, che al giudice che decide sulla richiesta di risarcimento compete di individuare fatti specifici concreti ascrivibili al soggetto che ha subito l’ingiusto periodo di detenzione, e che non vengano esclusi dall’accertamento nel merito delle imputazioni. Il giudice del merito è tenuto comunque, a motivare sia l’esistenza di tale fatti, sia la loro ascrivibilità all’imputato. Il ricorso nel caso di specie viene accolto, ad avviso degli ermellini, infatti la motivazione presentava un evidente difetto. L’ordinanza della Corte d’appello di Milano viene ritenuta illegittima, sulla base di due considerazioni: la mancata individuazione dei fatti che configurerebbe la colpa dell’imputato sia della loro eventuale ascrivibilità allo stesso. Pertanto ad avviso dei supremi giudici è onere del giudice del merito l’individuazione dei fatti costituenti la colpa, ai sensi dell’art. 314 cpp, e solo in tali casi di precisa individuazione può essere rigettata l’istanza. Riciclaggio, se lo studio “paga” le colpe del socio di Valerio Vallefuoco Il Sole 24 Ore, 10 settembre 2018 Fa riflettere il sequestro dei conti correnti ad una associazione professionale di avvocati per reati addebitati a un solo partner in applicazione della sanzione amministrativa prevista per riciclaggio ed auto-riciclaggio. Nella vicenda il Gip ipotizzando il reato di riciclaggio a carico dell’avvocato socio dello studio ha sottoposto a sequestro preventivo i conti correnti dell’associazione professionale di cui l’avvocato era socio, partendo dalla contestazione dell’illecito amministrativo di riciclaggio e auto-riciclaggio (articolo 25- octies, del Dlgs 231/2001). Gli obblighi - Gli studi associati rientrano, infatti, tra le associazioni cui si applica il Dlgs 231/2001, relativo alla responsabilità “da reato” degli enti. Per cui anche lo studio può essere chiamato a rispondere, in sede penale, del reato materialmente commesso dall’associato a vantaggio o nell’interesse dell’associazione medesima. Pesanti le sanzioni. Lo studio per andare esente da quella che impropriamente viene definita responsabilità amministrativa deve dimostrare di avere adottato ed attuato modelli di organizzazione e di gestione idonei a prevenire la commissione di reati della specie di quello in ipotesi contestato. Alcune associazioni professionali, come quelle degli avvocati o dei commercialisti, rientrano tra i soggetti obbligati ai sensi della normativa Aml (anti money laundering, ovvero antiriciclaggio). Pertanto, la struttura del modello organizzativo dello studio non può prescindere anche dall’attivazione di presidi antiriciclaggio e antiterrorismo, come indicati dal Dlgs 231/2007. Per i professionisti gli obblighi vanno dalla adeguata verifica della clientela, alla conservazione dei documenti, dei dati e delle informazioni utili fino alla segnalazione di una operazione sospetta (Sos). L’adeguata verifica comporta una serie di adempimenti (si veda anche la scheda a fianco): • identificazione del cliente (dell’eventuale suo delegato e dell’eventuale titolare effettivo); • verifica ( sulla base di un documento di identità valido o altro documento di riconoscimento equipollente) della sua identità; • acquisizione di informazioni sullo scopo e sulla natura del rapporto continuativo o della prestazione professionale; • controllo costante del rapporto continuativo o della prestazione professionale. Senza adeguata verifica il professionista non deve porre in essere l’operazione. La conservazione - I documenti acquisiti nonché le scritture e le registrazioni delle singole operazioni debbono essere conservati per almeno 10 anni dalla conclusione della prestazione professionale, anche nel fascicolo nel cliente. La conservazione deve evitare qualsiasi perdita di dati e deve garantirne l’accessibilità ( completa e tempestiva) da parte dell’autorità che svolge le indagini. Le segnalazioni - L’adeguata verifica della clientela è strumentale alla punta più avanzata degli obblighi antiriciclaggio incombenti sui professionisti, ossia la segnalazione all’Unità di informazione finanziaria della Banca d’Italia (Uif), di ogni operazione rispetto alla quale il professionista sa o sospetta operazioni di riciclaggio o di finanziamento del terrorismo. L’adempimento, lungi dal voler trasformare il professionista in una sorta di investigatore, richiede pur sempre un’attenta valutazione delle caratteristiche, dell’entità e della natura dell’operazione, tenuto conto anche della capacità economica e dell’attività svolta dal soggetto cui è riferita. Il professionista potrà avvalersi degli Indicatori di anomalia (Dm 16 aprile 2010) o degli schemi di anomalia dell’Uif. I professionisti aspettano con ansia da oltre un anno le regole tecniche per la propria attività a cura degli organismi professionali nazionali. Ad oggi sono state istituite delle Commissioni presso alcuni ordini territoriali (ad esempio Roma e Milano) che stanno formando gli iscritti, ma solo sulla base della normativa primaria. In conclusione, aperta una indagine penale per frode fiscale, certamente ci può stare anche una verifica sulla violazione della normativa Aml che se accertata potrebbe portare alla contestazione al professionista del reato di riciclaggio ovvero di concorso in auto riciclaggio sempre se esista il dolo. La frode fiscale moltiplica le sanzioni di Valerio Vallefuoco Il Sole 24 Ore, 10 settembre 2018 Il rispetto degli obblighi antiriciclaggio è assistito da puntuali sanzioni, amministrative e penali. Ma se c’è il concorso del professionista nel reato fiscale (fattispecie idonea a fungere da presupposto del riciclaggio), quest’ultimo in caso di accertata responsabilità penale, rischia di vedersi applicata l’aggravante speciale prevista a carico del consulente fiscale (articolo 13-bis del Dlgs 74/2000), per cui le pene stabilite per i reati tributari sono aumentate della metà se il reato è commesso dal compartecipe nell’esercizio dell’attività di consulenza fiscale svolta da un professionista attraverso l’elaborazione di modelli di evasione fiscale. L’inosservanza degli obblighi di adeguata verifica può dar luogo a una sanzione amministrativa pecuniaria dai 2mila fino ai 50mila euro. Stesse sanzioni sono previste per la violazione degli obblighi di conservazione. Per l’inosservanza dell’obbligo di segnalazione di una operazione sospetta scatta invece l’applicazione di una sanzione da 3mila euro che può addirittura arrivare a 300mila. Attenzione, poi, alle sanzioni disciplinari accessorie. In effetti, in presenza di violazioni gravi, può scattare l’interdizione dallo svolgimento della funzione, o dell’incarico da due mesi a cinque anni. In alcuni casi, il decreto sanzionatorio è pubblicato per estratto sul sito web del Mef con evidente pregiudizio della reputazione del professionista. Legittime e utilizzabili le videoriprese su pianerottolo abitazione privata di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 10 settembre 2018 Cassazione - Sezione IV - Sentenza 8 agosto 2018 n. 38230. Le videoriprese effettuate dalla polizia giudiziaria sul pianerottolo di un condominio conducente al terrazzo condominiale sono legittime e pienamente utilizzabili, non riguardando luoghi di privata dimora. Lo ha dichiarato la sezione quarta penale con la sentenza 8 agosto 2018 n. 38230. La vicenda - Nella specie, in cui si discuteva di una vicenda cautelare relativa ai reati di detenzione illecita e cessione di sostanza stupefacente, la misura era stata adottata anche valorizzando gli esiti di un servizio di monitoraggio effettuato dalla polizia giudiziaria con l’installazione di un sistema di videosorveglianza con microcamera nel pianerottolo dell’ultima rampa di scala di un condominio, conducente al terrazzo di copertura dello stabile. Proprio a seguito di questa attività di controllo la polizia giudiziaria aveva rinvenuto la droga. Il tribunale del riesame aveva ritenuto utilizzabili gli esiti di tali registrazioni ritenendo che il pianerottolo dove era stata allocata la microcamera costituiva una parte condominiale in cui non insistevano abitazioni private e non era, per l’effetto, da considerare luogo di privata dimora per la mancanza di stabilità del rapporto tra il luogo e le persone che lo frequentano. La decisione della Suprema corte - La Cassazione ha ritenuto corretta la decisione, richiamando quella giurisprudenza, pacifica, secondo cui le scale di un condominio e i pianerottoli delle scale condominiali non sono luoghi privati, perché non assolvono alla funzione di consentire l’esplicazione della vita privata al riparo da sguardi indiscreti essendo destinati all’uso di un numero indeterminato di soggetti (tra le tante, Sezione II, 10 novembre 2006, Di Michele e altro). In proposito, va ricordato, più in generale, che le videoregistrazioni in luoghi pubblici, ovvero aperti o esposti al pubblico, effettuate dalla polizia giudiziaria, devono essere annoverate tra le cosiddette “prove atipiche” e sono quindi disciplinate dall’articolo 189 del Cpp;conseguendone l’inapplicabilità degli articoli 266 e seguenti del Cpp, che si applicano alle sole ipotesi di intercettazioni delle conversazioni telefoniche o ambientali e delle videoregistrazioni da effettuarsi mediante intrusione nella privata dimora o nel domicilio [cfr. Sezione II, 24 aprile 2013, Bonasia]. L’utilizzabilità come prova delle immagini - Tale orientamento si ricollega alla nota decisione delle Sezioni unite 28 marzo 2006, Prisco. In tale occasione, tra l’altro, le sezioni Unite hanno affrontato anche la questione della legittimità e utilizzabilità a fini di prova delle riprese visive effettuate “in luoghi pubblici”. In proposito, la Corte si è espressa nel senso della piena utilizzabilità come prova delle immagini così ottenute, tanto nel caso di riprese effettuate “al di fuori del procedimento” (ad esempio, nell’ipotesi di registrazioni effettuate con impianti di videosorveglianza installati in pubblici esercizi o in quella di registrazioni delle immagini di episodi di violenze negli stadi; cfr., anzi, relativamente a tale ultimo esempio, il disposto dell’articolo 8, comma 1-ter, della legge 13 dicembre 1989 n. 401, e successive modificazioni, che ne fonda l’utilizzabilità anche ai fini dell’arresto in flagranza), quanto nel caso di riprese avvenute nell’ambito delle indagini di polizia giudiziaria (ad esempio, nell’ipotesi della captazione di immagini nell’ambito delle operazioni di osservazione e pedinamento). Le prime, hanno osservato le sezioni Unite, possono essere introdotte nel processo come documenti e diventare quindi una prova documentale. Le altre, invece, effettuate nel corso delle indagini, costituiscono la documentazione dell’attività investigativa, e non documenti, cosicché sono suscettibili di utilizzazione probatoria se e in quanto riconducibili alla categoria delle cosiddette “prove atipiche”, con la conseguenza che sull’ammissibilità della prova derivante dalle videoregistrazioni dovrà pronunciarsi il giudice quando sarà richiesto della sua assunzione nel dibattimento (spettando poi sempre al giudice di individuare lo strumento - perizia o mera riproduzione - che dovrà essere utilizzato per conoscere e visionare le immagini ). Il reato di frode nell’esercizio del commercio. Selezione di massime Il Sole 24 Ore, 10 settembre 2018 Delitti contro l’industria e il commercio - Frode nell’esercizio del commercio - Attività di ristorazione - Vendita di cibi congelati o surgelati - Tutela del consumatore - Indicazione nel menù - Necessità di informazione chiara. Il “leale e scrupoloso comportamento nell’esercizio dell’attività commerciale”, che è l’interesse tutelato dall’art. 515 c.p., deve ritenersi leso allorquando sia consegnato un bene diverso per origine, provenienza, qualità o quantità rispetto a quello oggetto del contratto. A tale tutela corrisponde il diritto del consumatore a una informazione adeguata, chiara e puntuale, di modo da non consentire alcun fraintendimento. (I giudici hanno ritenuto violato tale diritto nella fattispecie relativa al menù di un ristorante in cui la segnalazione di cibi surgelati all’origine o congelati in loco era relegata a margine del menù stesso con carattere minuscolo mentre avrebbe dovuto essere evidenziata apponendo ad esempio degli asterischi a fianco dei prodotti o inserendo un’apposita avvertenza in grassetto, prima della lista delle pietanze). • Corte di cassazione, sezione III penale, sentenza 22 agosto 2018 n. 38793. Prodotti agroalimentari - Contraffazioni di indicazioni geografiche o denominazioni di origine - Vino in bottiglie - Confisca obbligatoria - Presupposti - Natura intrinsecamente criminosa - Insussistenza. I reati previsti dagli articoli 515 c.p. (frode nell’esercizio del commercio) e517 c.p. (vendita di prodotti industriali con segni mendaci), avendo per oggetto la tutela del leale esercizio del commercio, proteggono sia l’interesse del consumatore a non ricevere una cosa differente da quella richiesta, sia quello del produttore a non vedere i propri articoli scambiati surrettiziamente con prodotti diversi. (Fattispecie relativa a prodotto vinoso, privo di indicazione sull’origine ovvero sulla sua provenienza effettiva e circa i trattamenti cui era stato sottoposto). • Corte di cassazione, sezione III penale, sentenza 7 febbraio 2018 n. 5788. Frode nell’esercizio del commercio - Sussistenza del reato - Presupposti - Esibizione lista alimenti non indicati come surgelati - Configurabilità del tentativo. La lista delle vivande consegnata agli avventori o sistemata sui tavoli di un ristorante equivale ad una proposta contrattuale nei confronti dei potenziali clienti e manifesta l’intenzione del ristoratore di offrire i prodotti indicati nella lista. Da ciò ne deriva che anche la mera disponibilità di alimenti surgelati, non indicati come tali nel menù, nella cucina di un ristorante, configura il tentativo di frode in commercio, indipendentemente dall’inizio di una concreta contrattazione con il singolo avventore. • Corte di cassazione, sezione III penale, sentenza 1° febbraio 2018 n. 4735. Alimenti - Reato di frode in commercio - Elemento soggettivo - Dolo generico - Consapevolezza e volontà di consegnare all’acquirente un bene mobile dissimile da quello dichiarato o pattuito - Sufficienza. Il reato di frode in commercio è da considerarsi punito a titolo di mero dolo generico, richiedendosi per la sua integrazione la sola consapevolezza e volontà di consegnare all’acquirente un bene mobile dissimile da quello dichiarato o pattuito - senza che rilevino nell’occasione le specifiche finalità avute di mira dal soggetto agente. Il dolo del reo deve, tuttavia, investire il fatto tipico nella sua interezza, tanto da ricoprire la rappresentazione della diversità del prodotto per natura, origine, provenienza, qualità e quantità, che è l’intento di consegnare all’acquirente, ignaro dell’atto proditorio, una cosa difforme da quella concordata. • Corte di cassazione, sezione III penale, sentenza 19 dicembre 2017 n. 56438. Frode in commercio - Prodotti ittici surgelati e congelati - Mancata indicazione nei menù - Configurabilità del reato non esclusa. La detenzione di alimenti congelati o surgelati all’interno di un esercizio commerciale, senza che nella lista delle vivande sia indicata tale qualità, integra il reato di tentativo di frode in commercio, atteso che tale comportamento è univocamente rivelatore della volontà dell’esercente di consegnare ai clienti una cosa diversa da quella pattuita, sicché anche la mera disponibilità di alimenti surgelati, non indicati come tali nel menù nella cucina di un ristorante, configura il tentativo di frode in commercio, indipendentemente dall’inizio di una concreta contrattazione con il singolo avventore. • Corte di cassazione, sezione III penale, sentenza 10 agosto 2017 n. 39082. Campania: detenuti, la Regione pensa al reinserimento di Pietro Falco Corriere del Mezzogiorno, 10 settembre 2018 Stanziati quattro milioni per percorsi di inclusione socio-lavorativa. La dotazione finanziaria ammonta a 4 milioni di euro e l’obbiettivo dichiarato è favorire la realizzazione di percorsi formativi per l’inclusione socio-lavorativa dei detenuti e delle detenute: non solo gli adulti, ma anche e soprattutto i minori. Un’iniziativa concreta quella promossa dall’assessorato alla Formazione della Regione Campania, in collaborazione con il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria-Provveditorato Regionale della Campania e il Dipartimento della Giustizia Minorile per la Campania, e con il supporto del Garante dei detenuti. Gli esiti dell’avviso pubblico sono stati pubblicati sul Bure Io scorso 23 luglio. Vastissima partecipazione, e oltre 300 i progetti non ammessi: perché non rispondenti ai criteri del bando o perché in sede di esame hanno ottenuto una valutazione inferiore alla “soglia di accettabilità”. “La Regione Campania - spiega l’assessore al ramo Chiara Marciani - ha voluto fornire uno strumento innovativo, capace di attivare percorsi formativi con il coinvolgimento delle organizzazioni del terzo settore, delle forze produttive e delle parti sociali, per potenziare le competenze professionali dei detenuti e delle detenute, e a favorire la loro futura occupabilità, anche tramite processi personalizzati. Ad essere finanziati, dunque, saranno i percorsi sperimentali di formazione e di inclusione volti al conseguimento di qualifiche professionali, anche tramite esperienze lavorative. Ma si punterà pure alla certificazione delle competenze pregresse, anche quelle non formali o informali”. Gli interventi tengono conto dei diversi requisiti di ingresso e delle caratteristiche soggettive dei destinatari, nonché delle esigenze dei fabbisogni formativi espresse dagli istituti penitenziari campani, in particolare nei settori edilizia, idraulica, impianti elettrici, elettrotecnica, cucina e ristorazione, giardinaggio, floricoltura, sartoria, acconciatura. Nell’elenco riservato ai minori, in particolare si ritrovano progetti per formare acconciatori, estetiste, addetti alle lavorazioni lattiero-casearie. alle prime lavorazioni del legno, meccanico per la riparazione di autoveicoli e autoarticolati. E ancora: operatori della ceramica, addetti alle confezioni e per la lavorazione della pelletteria, operai edili e termoidraulici, tinteggiatori, tappezzieri, saldatori, operatori per la realizzazione e la manutenzione dei giardini, pasticcieri, panificatori, massaggiatori. Puglia: suicidi in carcere, quel dramma silenzioso che si finge di non vedere lecceprima.it, 10 settembre 2018 A Lecce sono due in sette mesi. Gli psicologi denunciano: “Sempre meno ascolto e più psicofarmaci”. I sindacati di penitenziaria: “Sovraffollamento”. E’ un sistema in tilt da tempo. Ma le soluzioni? Emerge un caso nelle cronache, poi non se ne parla più. Fino all’episodio successivo. In un mondo contemporaneo dove la tecnologia detta i tempi e ogni cosa si consuma in fretta, l’informazione non fa eccezione. Anzi. Così, anche molte tragedie finiscono per diventare solo freddi numeri da mettere in fila. Specie quelle che avvengono al chiuso delle carceri, da cui già per definizione filtra poco o nulla. Spesso si deve solo ai sindacati di polizia penitenziaria se emergono certe notizie, come i suicidi. C’è pudore a parlarne per almeno due motivi: uno, perché si toccano inevitabilmente le corde di sentimenti profondi che coinvolgono intere famiglie. Due, perché vengono al pettine i nodi dei fallimenti delle istituzioni. Ma non parlarne, significa anche e soprattutto scansare il problema, dilazionare all’infinito i tempi per trovare una soluzione. L’ultimo caso di pochi giorni or sono - Risale a soli quattro giorni addietro l’ultimo caso che riguarda proprio il Salento. Dopo una serie di episodi di violenza e soprusi ai danni di ex convivente e figlio di quest’ultima, un 44enne rumeno residente a Martano era finito in una cella di Borgo San Nicola, a Lecce. Affetto da un evidente stato di disagio psichico, forse sentitosi in trappola, magari roso anche dal rimorso (non sapremo mai quali sentimenti covasse) qui s’è tolto la vita di notte. Per Antonio Di Gioia, presidente dell’Ordine degli psicologi di Puglia, vi sono almeno un paio di chiavi di lettura. Casi del genere vanno ricercati sia nel sovraffollamento, e qui i vari sindacati di polizia penitenziaria stanno battendo il chiodo da anni, sia nella carenza di terapia psicologica. Una cosa è certa: si smarrisce il senso stesso del carcere nell’accezione moderna, come luogo per la rieducazione, se un detenuto si condanna a morte da solo, in una nazione dove l’ultima esecuzione capitale, prima dell’abolizione per i reati commessi in tempo di pace, risale al 1947 (solo nel codice penale militare di guerra la misura estrema è rimasta in vigore fino al 1994). C’è un’associazione, Antigone, presieduta da Maria Pia Scarciglia, che sul fronte delle problematiche in carcere si batte da anni. Di Gioia è d’accordo con le denunce da lei fatte nel tempo: “I suicidi sono l’espressione di un’emergenza”. E ricorda che “le ore di terapia psicologica sono troppo poche. Facile, in questo contesto, che maturino i suicidi”. “Psicofarmaci invece dell’ascolto” - “I suicidi - prosegue Di Gioia - sono la più drammatica espressione di un’emergenza, si sta sostituendo l’ascolto dei detenuti con l’abuso di psicofarmaci. Oggi circa 600 psicologi, impegnati negli istituti penitenziari italiani, hanno a disposizione 30 minuti all’anno per ciascun detenuto: troppo pochi. Ci sono 20mila detenuti in esubero rispetto alla capienza degli istituti di detenzione e nonostante la crescita esponenziale non è stata rafforzata l’assistenza psicologica, anzi è stato ridotto l’orario di lavoro degli specialisti del settore. Come fa, allora, il carcere ad essere considerato un’istituzione in grado di riabilitare l’individuo da un punto di vista sociale e affettivo?”. Per il presidente degli psicologi pugliesi “il sovrannumero non solo impedisce ma ostacola il recupero esistenziale dei detenuti, nei contesti sovradimensionati si realizzano strategie di competizione e di apatia, non certo di cooperazione. Bisogna partire dalla prevenzione, che dovrebbe attivarsi in una fase iniziale in cui si stabilisce il rischio del suicidio e nei casi critici una presa in carico del detenuto”. “L’articolo 27 comma 3, della Costituzione - ricorda Di Gioia - afferma che le pene devono tendere alla rieducazione del condannato, non al suo abbandono. Nel caso specifico, l’osservazione ha lo scopo di monitorare il comportamento del detenuto a contatto con la realtà penitenziaria per poter formulare poi un trattamento rieducativo personalizzato. C’è bisogno di un maggior numero di risorse per poter prevenire i suicidi, anche attraverso una formazione rivolta agli agenti di polizia penitenziaria”. Lecce: secondo caso in sette mesi - Il giorno in cui è stato scoperto il suicidio a Lecce, Federico Pilagatti, segretario nazionale di una delle sigle sindacali della polizia penitenziaria, il Sappe ha ricordato che si è trattato del secondo in sette mesi per Borgo San Nicola. Ai primi di febbraio avvenne quello di un 59enne marocchino. Non certo una buona media. E la lista si allungherebbe, se in tanti casi non fossero stati gli agenti a intervenire in extremis. “Fino a qualche anno fa ci si indignava, ci si interrogava anche sui mass media nazionali. Ora più niente, qualche riga nella cronaca locale ed avanti il prossimo”, ha denunciato Pilagatti. “Eppure questo è l’ennesimo episodio di una tragedia continua che ha responsabilità molto precise, a partire da chi ha voluto consegnare le carceri italiane all’anarchia”. I suoi strali, lanciati contro l’ex ministro della Giustizia, Andrea Orlando, e l’ex capo del Dap “che nei fatti hanno smantellato la sicurezza nelle carceri e l’attività di controllo e gestione dei detenuti”. Qui torna il discorso sul sovraffollamento. “Da mesi se non anni, il Sappe denuncia la grave situazione di sovraffollamento del carcere di Lecce, che è arrivato a sfiorare il 100 per cento, a cui fa da contraltare il minor organico di polizia penitenziaria che non consente di controllare e gestire ormai più nulla, oltreché caricare i poliziotti penitenziari di lavoro massacrante in violazione di norme e leggi dello stato italiano”. Morale: “Si sta perdendo il conto degli eventi critici e drammatici”. Chi finisce veramente in carcere - Molto dura, a riguardo, la presa di posizione di Pilagatti, che ha definito le carceri “una discarica sociale dove buttare le anime ed i corpi degli ultimi”. E fra questi, dei malati mentali e persone senza alcuna capacità economica. “Parliamo di decine di migliaia di persone”. “Sì, perché questo è il carcere, ove colletti bianchi e delinquenti matricolati riescono ad evitare di soggiornare grazie ai soldi che permettono difese legali che i poveri cristi si sognano, sfruttando tutte le possibilità che leggi inadeguate consentono”, ha aggiunto Pilagatti. “Senza dimenticare i tantissimi innocenti che trascorrono periodi anche lunghi in carcere, per poi uscire distrutti nell’anima e nel corpo”. Conclusione: “Diamo appuntamento al prossimo suicidio o pestaggio di poliziotto, sempre che interessi ancora a qualcuno”. Napoli: se ci si abitua anche alle stese di Antonio Mattone Il Mattino, 10 settembre 2018 Domani nel Palazzo di giustizia di Napoli, si terrà una riunione straordinaria del Csm dedicato al tema della violenza giovanile. Dopo l’ultima stesa a Forcella, che stava per costare la vita ad un’altra vittima innocente, il plenum dell’autogoverno dei magistrati si riunisce per illustrare un dossier sulla criminalità minorile e le proposte per combatterla. Ha destato un grande sconcerto in città la ricomparsa di batterie di fuoco formate da giovanissimi che nel cuore del centro storico hanno ripreso a seminare proiettili e terrore per affermare la propria egemonia. Pensavamo che dopo la scomparsa di Emanuele Sibillo e i numerosi arresti dei baby boss, sarebbe finita la stagione della paranza dei bambini. Invece sembra che non sia così. Perché rinascono come un cancro nelle viscere di Napoli queste formazioni di criminali in erba armate fino ai denti? E chi sono i protagonisti della nuova ondata di terrore che si è abbattuta tra i vicoli di Forcella? Sulle motivazioni che spingono questi giovani ad intraprendere la strada del crimine è stato scritto tanto. La voglia di emergere da un vuoto esistenziale, l’ossessione di sentirsi qualcuno di esistenze anonime risucchiate dal fascino del male, il guadagno facile per accedere ai simboli del consumismo più sfrenato. E il sistema per ottenere in modo rapido prestigio e potere è incutere paura. Chi fa più paura è il più forte e diventa il capo. Per questo poi ci si riunisce in branco, per amplificare la percezione di terrore che si suscita. Ostentare una pistola e scaricare una sventagliata di colpi nel mezzo del quartiere è il biglietto da visita più autorevole. Tuttavia queste analisi ce le siamo fatte tra di noi, nei salotti e nella redazioni, senza interloquire con la gioventù perduta e corrotta dal male. Luigi è un ragazzo di Forcella, uscito da un anno dal carcere non è ancora riuscito a trovare un lavoro. Si arrangia vendendo profumi e calzini, un ‘attività che certo non gli permette di campare. Qualche giorno fa è riuscito a fare la comparsa nella fiction Gomorra, novanta euro per mezza giornata di prove sono sempre qualcosa. E’ fidanzato ma non ufficialmente, non se lo può permettere, perché un fidanzamento ufficiale comporta spese. Secondo Luigi gli autori della stesa sono elementi di scarso rilievo, dei “morti di fame”, solo il capo si è arricchito con il mercato degli stupefacenti. Perché è la droga che muove tutto. Si tratta di giovanissimi che millantano parentele e appartenenze ai Giuliano o ai Sibillo, ma che probabilmente hanno solo lontanamente sfiorato. Questi ragazzi cercano di imporsi seguendo il piccolo boss emergente, senza rendersi conto del rischio che corrono di buttare la propria vita in galera o peggio di finire in una tomba. Non sanno cosa sia il carcere e sfidano la sorte con una certa dose di malvagità ma anche di stupidità. La risposta della città alla stesa di Forcella è stata blanda. In altre occasioni c’era stata una reazione più forte, la cui eco si andava comunque affievolendo una volta che si spegnevano i riflettori mediatici, così come si sono spente le telecamere della videosorveglianza alla Sanità. Allo stesso modo si sono perse le tracce delle scuole aperte d’estate, una iniziativa con luci ed ombre dove è mancato il coordinamento sinergico tra le scuole e le associazioni presenti sul territorio. Per non parlare del progetto di Maria Luisa Iavarone di individuare ed accompagnare i ragazzi a rischio nei quartieri difficili. Sappiamo bene che non sono state queste carenze a favorire l’escalation di violenza nel cuore della città. Tuttavia se tutto questo funzionasse in modo efficiente, e qui ci sarebbe molto da approfondire, forse potremo salvare alcuni ragazzi delle generazioni future. Quello che colpisce oggi è la mancanza di preoccupazione e di attenzione delle istituzioni su un fenomeno così grave che sembra sempre restare sullo sfondo. In una città dove tutti litigano su tutto, si dovrebbe collaborare per trovare soluzioni ad un problema tanto complesso ma decisivo per il futuro di Napoli. Se i provvedimenti proposti dal plenum del Csm saranno solo quelli di alzare l’età imputabile sarebbe ben poca cosa, e servirebbe solo a riempire le carceri di minori. C’è bisogno di un grande progetto sull’infanzia, di misure finalizzate a non lasciar partire i ragazzi migliori, occorre contrastare in modo efficace l’evasione e la dispersione scolastica, ma anche di presidiare e controllare il territorio e soprattutto di una risposta corale e autorevole di tutta la città. Saremo in grado di dare speranza a Luigi e ai tanti giovani di Napoli? Palermo: “noi, ex detenuti, abbiamo trovato il nostro tesoro in padre Puglisi” di Giacomo Gambassi Avvenire, 10 settembre 2018 Il riscatto di due condannati appena usciti dal carcere che sui passi del prete martire hanno creato un orto “bio” in un campo abbandonato a Palermo. “Così siamo rinati”. “Il silenzio della natura aiuta a riflettere. Anche sulle scelte sbagliate della propria vita”. Giovanni Montalbano ha finito di scontare la sua pena a gennaio. E oggi è a tutti gli effetti un ex detenuto. Con una mano indica il centro di Palermo che da questa collina appena sopra la città si scorge fin troppo bene. Ai piedi ha un paio di stivali. E al suo fianco c’è Totò Camarda, anche lui segnato dai problemi con la giustizia. Sono loro gli “artigiani della terra” che stanno facendo rinascere un appezzamento abbandonato e trasformato grazie al loro impegno e al loro sudore in un orto “bio”. Un fondo che risorge. Come la vita di Totò e Giovanni. A dare loro una chance è il Centro Padre Nostro, il presidio di riscatto fondato a Brancaccio da don Puglisi. “No, non ho mai conosciuto don Pino - racconta Montalbano -. Ma ho letto molto di lui quando ero in cella. E adesso mi sento di far parte di coloro che testimoniano la sua eredità”. Il riferimento è appunto al Centro che li ha accolti fra i collaboratori. Pomodori e mandarini sono i primi prodotti che il terreno ha regalato loro. “Abbiamo a disposizione duemila metri quadrati che fino a pochi mesi fa erano pieni di sterpaglie - spiega Giovanni -. Li stiamo ripulendo soltanto con le nostre braccia e due zappe”. Ascoltando i due ex carcerati viene in mente quel campo narrato dai Vangeli dove un uomo trova il suo tesoro e pieno di gioia vende tutto per acquistarlo. “Il tesoro che questo campo ci ha donato - dicono i due “contadini” - è don Puglisi. Noi siamo qui grazie a lui. Se un santo come padre Pino entra nella tua mente, non puoi che cambiare fin nel profondo e impegnarti per il bene”. Non hanno esperienza come agricoltori i due. “Ma ci mettiamo in gioco”, sorridono. E Montalbano aggiunge: “Facciamo vivere di nuovo la natura in un angolo che a nessuno interessava”. Metafora, forse, di Brancaccio, il quartiere del degrado che il sacerdote beato voleva liberare dall’emarginazione, dall’ignoranza, dall’illegalità. E Giovanni sussurra: “Quanto sarebbe importante che altri detenuti potessero venire qui per fare un esame di coscienza e ripartire”. Torino: apre la mostra “Che ci faccio io qui? I bambini nelle carceri italiane” torinoggi.it, 10 settembre 2018 “Che ci faccio io qui? I bambini nelle carceri italiane” è il titolo della mostra fotografica che si inaugura oggi, lunedì 10 settembre, alle ore 17 all’Urp del Consiglio regionale in via Arsenale 14 a Torino. Scopo dell’esposizione - curata dal garante regionale dei detenuti Bruno Mellano in collaborazione con la Conferenza dei Volontari della Giustizia del Piemonte e della Valle d’Aosta (Crvg) - è offrire uno spaccato della vita delle donne e dei loro figli in carcere, una realtà non di rado sconosciuta. Con Mellano intervengono il presidente di Crvg Renato Dutto, il sociologo dell’Università di Torino Luigi Gariglio, il dirigente dell’ufficio Detenuti e trattamento del Provveditorato regionale dell’Amministrazione penitenziaria Francesca Romana Valenzi e la garante dei detenuti del Comune di Torino Monica Cristina Gallo. L’allestimento, presentato per la prima volta in Piemonte, nasce dalla collaborazione tra un gruppo di fotografi e l’Associazione di volontariato “A Roma, insieme”, impegnata da molti anni con le donne del carcere romano di Rebibbia e con i loro figli. Le circa cinquanta foto che compongono il reportage sono state scattate in cinque Istituti penitenziari femminili italiani: Torino Lorusso e Cutugno, Roma Rebibbia, Avellino Bellizzi, Irpino-Pozzuoli, Milano San Vittore, e Venezia Giudecca, da cinque differenti artisti di fama internazionale: il piemontese Luigi Gariglio, Marcello Bonfanti, Francesco Cocco, Mikhael Subotzky e Riccardo Venturi. La mostra è aperta al pubblico fino al 17 ottobre dal lunedì al giovedì dalle 9 alle 12.30 e dalle 14 alle 15.30 e il venerdì dalle 9 alle 12.30. Milano: “Prova a sollevarti dal suolo”, il Festival di Teatro e Teatro Carcere cityrumors.it, 10 settembre 2018 Dal 21 settembre al 19 ottobre 2018. Torna la settima edizione del Festival: “Prova a sollevarti dal suolo”, articolato tra lo spazio IN Opera Liquida al Parco Idroscalo ingresso Riviera Est e il Teatro della Casa di Reclusione Milano Opera. “Prova a sollevarti dal suolo” nasce dalla compagnia Opera Liquida in collaborazione con la Direzione della Casa di Reclusione Milano Opera Amministrazione Penitenziaria Provveditorato Regionale della Lombardi. Opera liquida lavora con i detenuti e utilizza il palcoscenico per riflettere e interrogarsi sui temi di attualità attraverso opere originali nate dai testi degli attori in carcere. Attraverso questo Festival affermare un manifesto che ha a che fare con il profondo valore dell’uomo. Tante le storie presentate sul palco: Rossella Raimondi, che racconta di periferie, di quartieri, di vite e di sensi intrecciati; Arianna Scommegna, con “la Molli”, racconta le sue solitudini e le sue insoddisfazioni; Francesca Puglisi, con “Ccà Nisciuno è fisso”, ironicamente ci accompagna ad una riflessione proprio sul tema della precarietà; “Urlando Furiosa” dove Rita Pelusio si chiede i perché sul senso di continuare epiche battaglie sognando un futuro migliore. Per gli spettacoli in Idroscalo è consigliabile prenotare, i biglietti si ritirano la sera dello spettacolo. Biglietti: intero 15 euro/ridotto 10 euro - eventi pomeridiani in Idroscalo ingresso libero. Infoline operaliquidaorganizzazione@gmail.com - tel. 392.1379018 - operaliquida.org. L’invenzione dell’identità italiana di Tomaso Montanari Il Fatto Quotidiano, 10 settembre 2018 Noi o loro? La vera domanda da porsi è quella di Neruda: “L’uomo dov’è?”. “Identità è una parola pericolosa: non ha alcun uso contemporaneo che sia rispettabile”. L’ammonizione dello storico inglese Tony Judt (2010) era stata avanzata, prima e in termini più espliciti, dall’economista indiano Amartya Sen in Identità e violenza. Recensendo quel libro, Mario Vargas Llosa ha scritto che la domanda che sorge di fronte all’affermazione, violenta, delle identità nazionali e religiose è riassunta in un verso di Pablo Neruda: “E l’uomo dov’era?” “Prima gli italiani”, “dove metterete quei 100 che vi siete accollati?”, “difendiamo le nostre radici cristiane”: ebbene, l’uomo dov’è? Che ne è della comune identità umana, unica fonte dei diritti fondamentali dell’individuo? È la domanda cruciale, in questa orrenda stagione del discorso pubblico sfigurato dal veleno della retorica identitaria. Siamo al punto che su uno stesso giornale (il Corriere della sera del 28 agosto) si può trovare, a pagina 5, il resoconto di una ricerca dell’Istituto Cattaneo che dimostra come sia l’ignoranza a far parlare di “invasione” di migranti (che sono il 7 per cento della popolazione, e sono ritenuti invece quasi il 30% da chi ha solo la terza media), e poi leggere, a pagina 28, un editoriale che toglie a Matteo Salvini, per dare a Marco Minniti, il merito “del duro lavoro in Libia con cui pose fine ai flussi che ci stavano seppellendo”. Una frase che colpisce per il silenzio circa il fatto che quel “lavoro” era duro soprattutto per i migranti: chiusi in campi di concentramento i cui allucinanti video sono arrivati fino al papa. Ma che sconcerta non meno per il lessico irresponsabilmente apocalittico: perché afferma senza remore che, se non avessimo chiuso i migranti in campi di tortura, ne saremmo stati “seppelliti”. ‘Noi’ seppelliti da ‘loro’: è questo il nucleo identitario, dichiarato o meno, su cui si fonda ogni dottrina del respingimento. Un’opposizione, questa tra ‘noi’ e ‘loro’, abbracciata senza riserve anche dal Partito democratico, come dimostra il Matteo Renzi cripto-razzista dell’ormai famoso “aiutiamoli a casa loro”. Da qua discende quel terrore identitario che non ha alcuna giustificazione nei numeri, attuali o futuri: perché l’Africa non vuole venire in Occidente, tantomeno in Italia (l’87 % delle migrazioni è intra- africano), e meno del 10% dei rifugiati medio-orientali è arrivato in Europa. Un terrore tuttavia diffusissimo, e perfettamente intercettato da Matteo Salvini, capace di riassumerlo in un tweet esemplare: “L’immigrazione è invasione, è pulizia etnica al contrario”(7 settembre 2016). Ha scritto Primo Levi: “A molti, individui o popoli, può accadere di ritenere, più o meno inconsapevolmente, che ‘ogni straniero è nemico’. Per lo più questa convinzione giace in fondo agli animi come una infezione latente; si manifesta solo in atti saltuari e incoordinati, e non sta all’origine di un sistema di pensiero. Ma quando questo avviene, quando il dogma inespresso diventa premessa maggiore di un sillogismo, allora al temine della catena, sta il Lager. La storia dei campi di distruzione dovrebbe venire intesa da tutti come un sinistro segnale di pericolo”. Ora, dovrebbe apparire con drammatica chiarezza che i campi di concentramento in Libia sono conseguenza diretta del fatto che il dogma dello straniero come nemico è tornato ad essere, in Europa, la premessa del sillogismo su cui poggia il consenso dei partiti ‘sovranisti’. E se il leader xenofobo e razzista di uno di questi partiti e il primo giornale italiano si trovano a usare lo stesso vocabolario, abbiamo un serio problema culturale. È precisamente su questo che dovrebbero concentrarsi gli intellettuali italiani (non certo sull’improbabile tentativo di prendere il potere dentro il Pd, come singolarmente li esorta a fare un noto filosofo): occuparsi del conflitto tra identità nazionali e diritti umani è il dovere più urgente. Perché “nei libri di storia che non asseconderanno la narrazione egemonica si dovrà raccontare che l’Europa, patria dei diritti umani, ha negato l’ospitalità a coloro che fuggivano da guerre, persecuzioni, soprusi, desolazione, fame. Anzi, l’ospite potenziale è stato stigmatizzato a priori come nemico. Ma chi era al riparo, protetto dalle frontiere statali, di quelle morti e di quelle vite porterà il peso e la responsabilità”. Questa è la portata della sfida, e Matteo Salvini sa perfettamente che la si vince o la si perde innanzitutto sul piano delle idee: uno dei suoi primi atti da ministro dell’Interno è stata infatti la revoca della scorta all’autrice di queste righe, la filosofa teoretica Donatella Di Cesare, minacciata dai neonazisti per i suoi studi (il cui ultimo frutto è Stranieri residenti. Una filosofia della migrazione, Bollati Boringhieri 2017). Dunque, prendiamo sul serio Matteo Salvini. Perché, è vero: il ‘ministro della paura’ (secondo la lungimirante definizione di Antonello Caporale) è solo un cialtrone superficiale, per comprendere il quale è esagerato scomodare categorie come il fascismo. Ma la paura, i paradigmi culturali, e le credenze che egli abilmente evoca e strumentalizza quelli, invece, sono profondi e pericolosi, e indubbiamente connessi ai fantasmi del nazionalismo nazifascista. Salvini non è serio: ma tutto questo lo è, terribilmente. ‘I migranti sono un costo’, ‘portano via il lavoro agli italiani’, ‘delinquono più degli italiani’, ‘aiutarli impedisce di aiutare gli italiani poveri’, ‘i migranti distruggono la nostra cultura e minacciano la nostra identità nazionale’: come tutti gli altri ‘argomenti’ della retorica dell’invasione, anche questi sono falsi, e tutti sono infatti falsificati da imponenti quantità di dati elaborati e discussi in vaste bibliografie scientifiche e divulgative. Quello di cui si parla meno, perché più difficile da decostruire, è proprio l’ultimo: quello identitario. Eppure non è un argomento secondario. Dal 2008 lo statuto leghista impone alla regione Lombardia di perseguire “sulla base delle sue tradizioni cristiane e civili il riconoscimento e la valorizzazione delle identità”, e in questo agosto 2018 Primato Nazionale, il “quotidiano sovranista” di Casa Pound, ha dedicato molto spazio ad una ‘inchiesta’ in più puntate su “Italia arcana, alle radici della nostra identità nazionale”. Per preparare risposte a chi urla “prima gli italiani” bisogna porre l’interrogativo etico fondamentale: per quale ragione l’essere italiano - “perché qui ti ha partorito una fica”, come canta l’eloquente Caparezza descrivendo una condizione puramente casuale, priva di ogni merito -dovrebbe dare una precedenza nel diritto alla sopravvivenza? Ma non basta: è cruciale contestare la possibilità di usare come una clava la categoria di “italiani”. Davvero esiste una “Italia arcana” con una identità pura, definita una volta per tutte? C’è un ‘dna’ che ci determina italiani? Esiste, è mai esistita, l’Italia cantata da Manzoni: “una d’arme, di lingua, d’altare. Di memorie, di sangue e di cor”? Ebbene, se “identità” significa - etimologicamente - uguaglianza assoluta, corrispondenza esatta e perfetta, bisogna dire con chiarezza: no, questa ‘identità italiana’ non esiste. Quando fu pronto il primo volume del Dizionario biografico degli italiani si constatò l’enorme quantità di voci che si aprivano con il patronimico ‘al’: arabi, dunque, e italiani. Come ha ben spiegato Eric Hobsbawm nell’Invenzione della tradizione (1983) le identità nazionali sono definite a posteriori, spesso inventate di sana pianta. Restiamo a Manzoni. Il sangue: nessun popolo europeo è meticcio quanto gli italiani, frutto di infinite fusioni che lasciano traccia in ogni manifestazione culturali. E ogni tentativo di costruire, retrospettivamente una purezza anche in ambiti più ristretti è destinato a scadere nel ridicolo: nelle scorse settimane il Consiglio regionale della Toscana ha, per esempio, indetto una Giornata degli Etruschi (!) tracciando una genealogia della “identità toscana” tutta appiattita sulla propaganda cinquecentesca di Cosimo de’ Medici, e affermando che la costituzione del granducato di quest’ultimo “ha di fatto prefigurato l’attuale configurazione della Regione Toscana”. Un marchiano errore, che dimentica da un lato l’esistenza di stati autonomi toscani come il principato di Piombino, lo Stato dei Presidi, il ducato di Massa, la Repubblica di Lucca e dall’altro il fatto che gli etruschi non vivevano affatto solo in Toscana, proprio come i longobardi non solo in Lombardia. La scala italiana amplifica la portata di simili sciocchezze: e basterebbe pensare alla tormentata storia dell’invenzione della lingua italiana per liquidare ogni idea di un’italianità data a priori e dunque intangibile. Quanto alla cucina, Massimo Montanari ha dimostrato che “non esiste una cucina italiana”: esiste invece una straordinaria varietà locale, la stessa che fa diverse le tradizioni popolari e le stesse arti figurative. Come ha scritto Piero Bevilacqua in Felicità d’Italia (Laterza 2017), “giova ricordare che l’identità della cultura italiana fa tutt’uno con la sua multiforme varietà e in un certo senso con la sua stessa mancanza di una identità unitaria”. Non c’è spazio per analizzare la strumentalizzazione delle cosiddette ‘radici cristiane’: ma basterà ricordare che, finita la troppa lunga stagione dell’alleanza tra trono e altare, il Novecento italiano ha saputo ridare un significato all’etimo della parola ‘cattolico’ (che significa ‘universale’: perché, scrive san Paolo, “non c’è più giudeo o greco”). Ed è stato don Lorenzo Milani a opporre una volta per tutte le ragioni del Vangelo a quelle degli stati-nazione: “Se voi avete diritto di dividere il mondo in italiani e stranieri allora vi dirò che... io non ho Patria e reclamo il diritto di dividere il mondo in diseredati e oppressi e privilegiati e oppressori. Gli uni son la mia Patria, gli altri i miei stranieri” (1965). Naturalmente, tutto questo serve a dire non che ‘gli italiani non esistono’, ma invece che ‘gli italiani sono multiculturali per storia e cultura’. Non ha senso opporre ‘noi’ a ‘loro’ perché il nostro ‘noi’ si è formato grazie ad una somma di ‘loro’ accolti e fusi in questa terra: una coabitazione senza selezione che dura fin dalla mitica fondazione di Roma da parte della discendenza di Enea, rifugiato, richiedente asilo e migrante troiano. L’unico dei principi fondamentali della Costituzione che usi la parola ‘nazione’ è l’articolo 9, che mette in strettissima connessione “lo sviluppo della cultura e la ricerca” e la tutela del “paesaggio e il patrimonio storico e artistico della nazione”: in altri termini, il riconoscimento costituzionale della nazione avviene in relazione alla conoscenza, e non al sangue o alla stirpe, alla fede religiosa o alla lingua. La Repubblica, cioè, prende atto del ruolo fondativo che la tradizione culturale, il suo sistematico nesso col territorio e il suo incessante rinnovamento attraverso la ricerca hanno nella definizione e nel continuo rinnovamento della nazione italiana. Un rapporto non proprietario: di tutela, e non di consumo insostenibile. Un rapporto in cui tutti siamo provvisori, migranti e stranieri: perché nessuno è padrone assoluto della terra. Chiunque abbia oggi un figlio che frequenti una scuola pubblica (quella scuola che Concetto Marchesi definisce in Costituente il “solo presidio della Nazione”) vede come bambini di ogni provenienza divengano, giorno per giorno, italiani: accettando di prendere parte a un patto, ma anche rinnovandolo con la loro diversità. La nostra è un’identità non solo aperta a tutti coloro che vengono in pace, ma anche aperta ai cambiamenti anche sostanziali che i nuovi italiani porteranno: una nazione per via di cultura è per definizione multiculturale. In questo senso, la storia d’Italia risponde in modo profetico alle aspettative di chi - come per esempio Habermas nel saggio su Cittadinanza politica e identità nazionale (1992) -indica la necessità di una democrazia che sappia separare il popolo dall’etnia, suggerendo che il nazionalismo possa essere rimpiazzato da un patriottismo costituzionale ispirato da una costituzione cosmopolitica: come quella che avrebbe potuto darsi l’Unione europea, in una delle grandi occasioni mancate di cui ora paghiamo il conto. In ogni caso, la Costituzione italiana del 1948 ha un’idea di nazione radicalmente diversa da quella, chiusa e guerresca, nutrita dai grandi nazionalismi: tanto che all’articolo 10 progetta un’Italia che accolga “lo straniero al quale sia impedito l’effettivo esercizio dei diritti derivanti da libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana”. Per questo ogni dottrina del respingimento è incompatibile, da noi, con un vero patriottismo costituzionale. La spaventosa diseguaglianza, le dimensioni della povertà, il tradimento della sinistra e la rimozione della necessità di un conflitto sociale tra italiani (cioè tra ricchi e poveri) hanno messo in ombra tutto questo, e rendono molti nostri concittadini sensibili alla sirene del neo-nazionalismo di Salvini. Ma è anche vero che la retorica per gli ‘italiani’ appare sempre più strumentale, perché è sempre più chiaro che “c’è differenza tra il senso della propria identità e quello che ne ha il potere che ci domina, il quale... sostituisce la conoscenza effettiva delle differenze, storiche, culturali, ambientali per degenerare in un duplice abuso: quello di concepire la distinzione come barriera da alzare tra un gruppo umano e un altro, e quello di ignorare la dimensione del mutamento, che appartiene alla storia” (Adriano Prosperi, Identità. L’altra faccia della storia, Laterza, 2016). In fondo sappiamo tutti benissimo che l’Italia del 2100 sarà multietnica e dunque multiculturale, o non sarà: si tratta di capire che, in realtà, lo è sempre stata. Chi oggi lo nega sta solo cercando di mettere a reddito la paura dello straniero sventolando le false bandiere di una identità inventata: senza passato, e senza futuro. Migranti. Gli ostacoli per riportare “a casa” gli irregolari: partono solo in 4 mila su 22 mila di Fiorenza Sarzanini Corriere della Sera, 10 settembre 2018 Il vicepremier aveva promesso di arrivare a quota 500 mila. La cifra è esigua, ben lontana da quei 500 mila rimpatri che Matteo Salvini aveva promesso in campagna elettorale. Perché dal 1° gennaio al 2 settembre 2018 sono appena 4.269 gli stranieri rimandati nei Paesi di provenienza e non risulta che da giugno - cioè dall’arrivo dell’attuale governo - ci sia stata un’impennata. Anzi. Gli Stati con i quali l’Italia ha accordi sono sempre gli stessi e per tentare di ampliare la rosa si sta percorrendo la strada delle intese di polizia che comportano un impegno economico meno oneroso e soprattutto hanno un percorso più veloce. Ora Salvini - nel frattempo diventato ministro dell’Interno - annuncia nuove intese “entro l’autunno” e si spinge fino a stilare l’elenco degli Stati: “Senegal, Pakistan, Bangladesh, Eritrea, Mali, Gambia, Costa d’Avorio, Sudan, Niger”. In realtà la sigla appare tutt’altro che scontata, così come il rispetto di patti che molto spesso rimangono sulla carta. Sono i dati ufficiali del Viminale a dimostrarlo, rendendo ben evidente sia le difficoltà di effettuare i rimpatri sia i tempi lunghi delle procedure che devono prevedere l’identificazione certa di ogni straniero. Solo uno su cinque - Nei primi otto mesi di quest’anno risultano “rintracciate in posizione irregolare” 22.501 persone. Sono gli stranieri individuati causalmente, ma anche coloro che non hanno presentato domanda d’asilo o che non ne avevano diritto. Di questi 10.570 risultano “allontanati”: sono stati 5.161 i respinti alla frontiera, 1.140 quelli riammessi dai Paesi d’origine e 4.269 i rimpatriati, quindi soltanto uno su cinque tra coloro che non avevano titolo per rimanere in Italia. Di questi, 1.431 sono stati riportati a bordo di 50 voli charter, 2.838 hanno invece viaggiato sulle navi oppure su volo di linea. Si tratta dunque di una minima percentuale e scorrendo i numeri relativi agli stranieri non rimpatriati si comprende quale sia la situazione reale. Perché degli altri 11.931 che risultano espulsi, ben 11.411 non hanno rispettato l’ordine del questore e hanno fatto perdere le proprie tracce. Egitto e Tunisia - Per effettuare il rimpatrio bisogna accertare l’identità dello straniero e ottenere il via libera dal consolato. Sono quattro gli accordi che l’Italia ha siglato e quello più efficace è con la Tunisia: due charter a settimana da 40 persone. Funziona anche l’intesa con l’Egitto, che si fa carico di identificare gli irregolari e accetta in tempi rapidi i trasferimenti. Lo stesso vale per il Gambia e la Nigeria che talvolta accettano anche di effettuare le procedure di identificazione direttamente dopo il rientro in patria di chi risulta espulso. Con il Marocco non ci sono trattati, ma la cooperazione funziona anche se c’è una condizione inderogabile: niente charter, solo voli di linea e dunque ogni migrante deve essere scortato da almeno due agenti: in media vengono rimandate a casa mille persone ogni anno. La Direzione centrale per l’immigrazione, che dipende dal capo della polizia Franco Gabrielli, ha avviato negoziati con Costa d’Avorio e Guinea per concludere intese in maniera rapida. Le stime parlano di almeno 8.000 persone che da questi Stati arrivano in Italia e dunque una collaborazione reale consentirebbe di incrementare il numero dei rimpatriati. Oltre 10 mila euro - L’anno scorso sono stati rimpatriati complessivamente 6.514 stranieri. La media rimane dunque costante e secondo gli esperti sarebbe un successo arrivare a 10 mila persone ogni anno. Per questo si sta cercando di incrementare le partenze verso Bangladesh e Pakistan, ma anche per il Sudamerica, ad esempio il Perù. In questi casi la procedura è però ulteriormente complessa, perché si devono utilizzare i voli intercontinentali con la scorta dei poliziotti che al ritorno devono viaggiare per contratto in prima classe. Il costo non è mai inferiore ai 10 mila euro anche se le risorse vengono in gran parte compensate con i fondi europei. Il diritto d’autore ai tempi dei social di Christian Rocca La Stampa, 10 settembre 2018 Mercoledì mattina, a Strasburgo, il Parlamento europeo affronterà una delle questioni più delicate della nostra epoca, il copyright al tempo di Internet, un argomento che va oltre il linguaggio oscuro di una direttiva europea e le procedure esoteriche delle istituzioni continentali. Secondo l’ex Beatles Paul McCartney, in gioco c’è il futuro della musica; mentre per le associazioni dei giornalisti e degli editori, la posta in palio è la sopravvivenza dell’industria dell’informazione. Dall’altra parte, i giganti della Silicon Valley e i populisti della rete sostengono che lo zelo europeo sul copyright finirà per imbavagliare Internet. Ciascuno ha le proprie ragioni, fondamentalmente economiche, ma l’aspetto più interessante del voto di dopodomani è quello del possibile impatto che sia l’approvazione sia la bocciatura della direttiva sul copyright potrebbero avere sulla formazione dell’opinione pubblica nella società contemporanea. In sintesi, Strasburgo voterà su un punto preciso: i grandi monopolisti digitali, Facebook e Google, dovranno riconoscere agli editori e agli autori di informazione e di musica una parte infinitesimale degli strabilianti ricavi che ottengono dal loro geniale e cinico modello di business che consiste nel monetizzare, vendendo dati e target pubblicitari, la diffusione virale che i loro utenti fanno di contenuti prodotti da terzi. Oggi funziona così: i big digitali si arricchiscono, gli utenti dei social si informano e si divertono, mentre i produttori di contenuti che consentono ai primi di guadagnare e ai secondi di divertirsi rischiano di sparire perché alla lunga, nemmeno tanto lunga, produrre contenuti non sarà più conveniente. L’innovazione tecnologica conduce sempre a cambiamenti radicali nei settori industriali e artigianali, ma lo smantellamento del sistema dell’informazione ha conseguenze sociali diverse rispetto alla scomparsa di spazzacamini, carrozze a cavallo o venditori di ghiaccio. Senza un’informazione professionale, o indebolita e incapace di attrarre talenti e cervelli, circolerà soltanto robaccia - post verità, fake news, fatti alternativi - ancora più di quanto ne circoli adesso, in una spirale negativa che minaccia di inghiottire il discorso pubblico, la società civile e il sistema di valori liberaldemocratici. I centralini e i server di posta del Parlamento europeo hanno registrato un interesse senza precedenti in queste settimane, i gruppi di pressione degli opposti schieramenti hanno tempestato i parlamentari di telefonate, email e appelli, mentre sui social la campagna pro e contro la direttiva non conosce sosta. A giugno, la Commissione giuridica del Parlamento aveva approvato un testo, ma a luglio l’aula plenaria ha bocciato la direttiva. Mercoledì si rivoterà e in queste ore i gruppi parlamentari stanno lavorando per definire gli emendamenti per un possibile compromesso in particolare sugli articoli 11 e 13, i più controversi. In caso di voto favorevole sarà comunque una corsa contro il tempo perché si aprirà il negoziato nel cosiddetto “trilogo” tra Commissione europea, Consiglio, cioè i governi dei paesi membri, e il Parlamento, i tre detentori del potere legislativo europeo, per concordare un testo comune di direttiva che dovrà comunque poi essere votato di nuovo dal Parlamento entro marzo, prima della fine della legislatura e delle nuove elezioni di maggio 2019. Se non ci riusciranno, o non faranno in tempo, si dovrà ricominciare tutto daccapo con il nuovo Parlamento. E noi resteremo con regole obsolete che mortificano il diritto d’autore, invece di proteggerlo, perché risalgono al 2001, quando non c’erano i social e il discorso pubblico si formava ancora sullo scambio di fatti e di opinioni, non sulla condivisione di bufale e di immagini divertenti sui social. Libia nel caos, migliaia pronti alla fuga: “Verso l’Italia, ora o mai più” di Lorenzo Cremonesi Corriere della Sera, 10 settembre 2018 A causa dei combattimenti, le autorità libiche sono evaporate, non c’è polizia, non naviga la guardia costiera. “L’Italia chiude i porti? Vorrà dire che moriremo in mare. Meglio sperare, partire, che restare intrappolati in Libia”. Vorrebbero trasformare l’ultimo dramma di cui sono vittime indifese nell’opportunità di fuga in massa verso l’Italia i migranti assiepati sulle coste libiche. Sudanesi, eritrei, somali, nigeriani, ciadiani: ne abbiamo incontrati a centinaia negli ultimi due giorni raggruppati di fronte alle porte delle cinque sedi dell’Agenzia Onu per i rifugiati (Unhcr) a Tripoli. “L’unica possibilità è partire” - “Il campo di detenzione governativo di Salahaddin otto giorni fa è stato investito in pieno dai combattimenti tra milizie libiche alla periferia della città. Le bombe hanno cominciato a cadere vicino con intensità terrificante. Le guardie libiche sono fuggite. Alcuni di noi sono rimasti feriti, c’era confusione, polvere, fracasso. Così, con un gruppo di giovani siamo scappati. Ci siamo ritrovati per la strada, soli, senza un soldo, senza un posto dove mangiare o dormire”, racconta Hassan Hussein, somalo 22enne. Che cosa intendono fare lui e gli altri? “Non ci sono alternative. In Somalia non si torna, in Libia impossibile restare. L’unica possibilità è partire con i trafficanti verso le coste italiane. L’occasione è unica. A causa dei combattimenti le autorità libiche sono evaporate, non c’è polizia, non navigano i loro guardiacoste. Ora o mai più”, rispondono in coro. La guardia costiera resta a terra - Dagli uffici spogli di quello che resta il comando dei guardiacoste confermano che manca benzina e non ci sono pezzi di ricambio o marinai. “I nostri pattugliamenti in mare sono sospesi da sei giorni. Sappiamo che escono soltanto le unità ormeggiate nel porto di Khoms”, specifica Massud Abdel Samat, ufficiale della marina libica che si occupa specificamente di coordinare le quattro motovedette donate l’anno scorso dagli italiani. Per la ventina di operatori internazionali dell’Unhcr che da ottobre lavorano in Libia l’attività si è fatta ancora più convulsa. Nelle ultime ore l’agenzia ha diffuso un comunicato di denuncia preoccupata contro nuovi casi di “stupri, rapimenti e torture” consumati ai danni di rifugiati, che sarebbero anche oggetto di abusi da parte di gruppi criminali che si travestono da personale unhcr. “Siamo in prima linea. Il nostro compito in questo momento è registrare ed accogliere tutti coloro che bussano alle nostre porte, specie se coinvolti negli ultimi combattimenti. Una volta identificati, distribuiamo cibo e kit d’emergenza contenenti saponi per l’igiene personale, coperte, un pigiama e del cibo”, ci spiega la portavoce Paola Barrachina, 34enne d’origine spagnola. “Ne abbiamo registrati oltre 55 mila” - Ieri oltre 300 persone erano state processate. Ma il flusso è pressante. Di fronte alle loro porte la folla resta in attesa. La portavoce riassume la dimensione del fenomeno: “Non vediamo affatto la fine dell’emergenza. Il flusso dall’Africa si è ridotto rispetto all’anno scorso. Ma non cessa. Non abbiamo alcuna idea su quanti siano i migranti in Libia. Si dice trecentomila, mezzo milione, persino ottocentomila. Ma in verità nessuno lo sa. Noi ne abbiamo registrati in tutto oltre 55.000. Ma rappresentano solo una percentuale parziale delle presenze. Ci sono prigioni controllate dalle milizie di cui nessuno parla. Nei centri di detenzione ufficiali libici gli accusati di immigrazione illegale sono compresi tra 6.000 e 8.000. Tra questi ne abbiamo attenzionati 4.500, perché rispecchiano la definizione di rifugiati, vengono da Paesi in guerra o da situazioni in cui non possono tornare senza rischiare la vita e dunque necessitano di protezione internazionale”. “Meglio morire in mare” - Negli ultimi giorni a questa mole di lavoro si è aggiunta la necessità di assistere circa 1.800 famiglie libiche a loro volta sfollate dai quartieri contesi a Tripoli. Il caos crescente ripropone tra l’altro la questione della precarietà di decine di migliaia di ex immigrati dall’Africa sub-sahariana che da molti anni vivono e lavorano in Libia. Vi erano arrivati sin dalle aperture volute da Gheddafi nei confronti dei “fratelli africani”, ma non era mai stata concessa loro la cittadinanza. È il caso della famiglia Safi, giunta da Khartum nel 1998 e residente nel quartiere tripolino di Zein Zara. Il padre Mohammad ha 52 anni, la madre Nawaz 49 e i tre figli rispettivamente 8, 9 e 14. Dice Mohammad: “Non ne potevo più di stare in questo Paese. A inizio luglio avevo racimolato i 1.000 dollari necessari per pagare gli scafisti e partire alla volta dell’Italia. Eravamo in 125 stipati su di un gommone. Ma dopo sei ore di navigazione i guardiacoste libici ci hanno intercettati e portati indietro. È stata una sciagura. Ma adesso le cose cambiano, i libici non controllano più le coste e gli scafisti stanno riducendo i prezzi dei viaggi”. Ma lo sapete che il governo italiano sta chiudendo i porti? Risponde Nawaz: “Vorrà dire che moriremo in mare. Meglio sperare, partire, che restare intrappolati in Libia”. Egitto. L’Onu chiede l’annullamento delle condanne a morte di Monica Ricci Sargentini Corriere della Sera, 10 settembre 2018 La commissaria delle Nazioni Unite per i diritti umani, Michelle Bachelet, ha chiesto alle autorità egiziane di annullare le sentenze di condanna a morte emesse sabato 8 settembre nei confronti di 75 militanti dei Fratelli musulmani per i disordini dell’agosto 2013 a piazza Rabaa al Adawiya, al Cairo. Secondo l’ex presidente del Cile, se dovessero essere eseguiti i verdetti rappresenterebbero “un enorme e irreversibile errore di giustizia”, in particolare dopo processi definiti “ingiusti”. Agli imputati, ha infatti sottolineato la Bachelet, non è stato concesso il diritto di nominare avvocati individualmente e di presentare prove. Tra i condannati alla pena capitale figurano esponenti di spicco della Fratellanza musulmana quali Essam el Erian, Asem Abdel-Majed, Safwat Hegazi, Wagdi Ghoneim, Ahmed Aref, Abdel-Rahman al Bar e Tarek al Zumar, quest’ultimo cugino dell’assassino dell’ex presidente Anwar al Sadat. Nel quadro dello stesso processo è stato condannato all’ergastolo Mohammed Badie, leader spirituale del movimento, oggi considerato un’organizzazione terroristica dalle autorità egiziane. Gli imputati, 739 in totale, sono stati accusati a vario titolo di aver commesso omicidi, atti di sabotaggio, resistenza a pubblici ufficiali, di aver minacciato l’ordine e la sicurezza nazionale, pianificato l’assembramento di più di 5 mila persone in piazza Rabaa al Adawiyya al Cairo, di aver commesso aggressioni e di aver danneggiato proprieta’ pubbliche. Il processo era iniziato all’inizio del 2016 e si è articolato in oltre 40 udienze negli ultimi due anni. Austria. Perseguitato a Kabul “ma non sembra un gay”. E Vienna gli nega l’asilo di Elena Tebano Corriere della Sera, 10 settembre 2018 Due volte vittima del pregiudizio: nel suo Paese d’origine, l’Afghanistan, che per i gay prevede la pena di morte. E in Occidente, che in teoria considera la libertà (di esprimersi e di essere) un valore intoccabile ma in pratica la nega accecato dagli stereotipi. E’ successo a un ragazzo afghano di 21 anni, che aveva fatto richiesta di asilo politico in Austria in quanto vittima di discriminazioni in patria per il suo orientamento sessuale. Il giovane se l’è vista respingere perché sul cellulare non aveva foto di uomini né tracce di video pomo. Secondo il funzionario del Bundesamt fir Fremdenwesen und Asyl (Bfa), l’ente del ministero dell’Interno austriaco che si occupa della protezione dei rifugiati, è un motivo sufficiente a dimostrare che il ragazzo non è e non può essere gay. Il caso è stato denunciato dall’associazione Fairness Asyl di Vienna. Non è la prima volta che l’Austria nega l’asilo a uomini gay sulla base di motivazioni discutibili. Ad agosto un altro richiedente afghano Menne si era sentito rispondere con un no in quanto “né il suo modo di camminare, né il suo atteggiamento hanno fatto pensare che possa essere omosessuale”, mentre al contrario a un 27enne iracheno la Bfa aveva rimproverato di essere “eccessivamente effemminato”. Nei rifiuti di Vienna gioca probabilmente la stretta del governo conservatore sui rifugiati. Ma anche una forma di omofobia strisciante ancora diffusa nella civilissima Europa, e cioè l’idea che si possa essere gay e lesbiche in un modo solo, come se l’omosessualità fosse un “pacchetto completo” che caratterizza in modo univoco tutta una persona. Non è così: ci sono tanti modi di essere omosessuali quante le persone gay e lesbiche. Capirlo, quando si tratta di persone perseguitate che chiedono accoglienza, può essere una questione di vita o di morte. Russia. Oleg Sentsov rischiava danni irreversibili, sospeso lo sciopero della fame articolo21.org, 10 settembre 2018 La giuria della Mostra del cinema rilancia appello per sua liberazione. La fotografia più bella di Venezia 2018 è senza dubbio quella che ha visto tutti i giurati della Mostra del cinema posare con i cartelli con i quali chiedevano la liberazione del regista Oleg Sentsov, prioniero politico che solo ieri, dopo 118 giorni di sciopero della fame, ha ripreso a mangiare. La Giuria della 75ma edizione del festival internazionale d’arte cinematografica, presieduta da Guillermo del Toro e composta da Sylvia Chang, Trine Dyrholm, Nicole Garcia, Paolo Genovese, Malgorzata Szumowska, Taika Waititi, Christoph Waltz e Naomi Watts, ha rivolto dal Lido un appello alla Russia per sollecitare la scarcerazione del cineasta manifestando “estrema preoccupazione” per le sue condizioni. Il giorno prima era stato un collega di Sentsov, Sergei Loznitsa, nato in Bielorussia ma ucraino di adozione, a parlare del suo caso. “Mi chiedono spesso se gli artisti possano influenzare il mondo e far cambiare la politica sociale” ha dichiarato in apertura della conferenza stampa sul documentario “Process”, su un grande processo farsa stalinista del 1930, presentato fuori concorso alla Mostra “Nel caso di Oleg Sentsov i politici si stanno rifiutando di dare ascolto alla voce della ragione. Io rinnovo l’appello affinché la sua tragedia umana si concluda e venga liberato al più presto”. Loznitsa ha anche ricordato la sua prima volta a Venezia, nel 2015, e di come già allora avesse protestato per l’arresto dell’amico. “Sono poi tornato nel 2016 con il mio documentario Austerlitz e anche in quell’occasione avevo protestato per la sua condanna a 20 anni e il suo trasferimento in una prigione di massima sicurezza nel nord della Russia. Ora Sentsov è da quattro anni in prigione ed e per lui si è animata una mobilitazione internazionale, ma non veniamo ascoltati” ha concluso il regista bielorusso con amarezza. Militante contro l’annessione della Crimea alla Russia, il cineasta e scrittore Oleg Sentsov è stato imprigionato, torturato e accusato di avere organizzato atti terroristici, dopo un processo che con evidenza non ha rispettato i diritti della difesa. Nonostante la condanna della prigionia di Sentsov da parte di Stati Uniti e Unione europea, la Russia non ha manifestato alcuna intenzione di liberare il regista. Le condizioni del regista ucraino in carcere dal maggio 2014 sono stabili, ma lo sciopero della fame lo ha molto indebolito. I medici della colonia carceraria dove è detenuto in Siberia lo hanno convinto a sospenderlo prospettandogli le gravi conseguenze per lo stato generale della sua salute. Il suo avvocato, Dmytro Dinze, ha affermato che il rischio del perdurare della mancanza di cibo potesse causargli danni irreversibili, a fronte della totale indifferenza da parte delle autorità giudiziarie, hanno portato il prigioniero politico a cedere alle pressioni per fargli riprendere una normale alimentazione. il servizio penitenziario federale della Russia nella contea di Yamalo-Nenets ha affermato che il personale medico esamina Sentsov quotidianamente, che le sue condizioni non destano preoccupazioni e che “il detenuto ha rifiutato l’ospedalizzazione a causa dell’assenza di disfunzioni ed essendo in uno stato soddisfacente”. Di diverso avviso l’avvocato di Sentsov il quale ha affermato che il deterioramento fisico degli ultimi mesi lo espone ancora a rischi per la sua salute cagionevole avendo un’emoglobina molto bassa, che gli ha causato una forte anemia, oltre a un battito cardiaco molto basso. Il regista ha un cuore malandato e il regime carcerario potrebbe determinare da un momento all’altro un collasso. Per questo bisogna fare presto e continuare con la campagna per la sua liberazione. “Siamo grati alla giuria della mostra del cinema di Venezia che ha ripreso e rilanciato l’appello di Amnesty e di Articolo 21 a favore della pronta liberazione del regista ucraino, da tempo detenuto nelle carceri russe per aver preso posizione contro l’invasione della Crimea. Continueremo nel nostro impegno per Oleg Sestov e per chiunque sia rinchiuso in carcere per aver espresso opinioni difformi da quelle del regime in carica” ha ribadito il presidente della Federazione nazionale della stampa italiana Beppe Giulietti. Qui in Italia, proprio attraverso il sito di Articolo 21, abbiamo illuminato la vicenda Sentsov sulla quale stava calando un pericoloso e inaccettabile silenzio.