Sovraffollamento, il trend non si arresta: i detenuti in più arrivano a 8.653 di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 9 ottobre 2018 Al 30 settembre risultano 59.275 reclusi su 50.622 posti disponibili, comprese le 5.000 celle inagibili. Sono 8.653 i detenuti oltre la capienza regolamentare. Secondo i dati elaborati dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, al 30 settembre di quest’anno il sovraffollamento aumenta in maniera esponenziale. Risultano 59.275 detenuti su 50.622 posti disponibili. Basti pensare che il mese precedente, al 31 agosto, risultavano 8.513 detenuti in più. Ancor prima, a luglio, erano invece 7.882 i ristretti oltre i posti disponibili. I numeri del sovraffollamento risulterebbero addirittura maggiori se si sottraessero dai posti disponibili circa 5.000 celle inagibili che, invece, vengono conteggiate nei 50.622 posti disponibili. Il sovraffollamento quindi è destinato ad aumentare nonostante che nel passato, grazie a diverse misure adottate dopo la sentenza Torreggiani, si sia ridimensionato. A tal proposito bisogna andare a vedere cosa dice l’ultima relazione del Garante nazionale delle persone private delle libertà. Non ha potuto non fare a meno di riferirsi alla riforma dell’ordinamento penitenziario - oggi riscritta, modificata radicalmente e approvata dall’attuale governo - le cui radici culturali e giuridiche si posano sugli obblighi a cui la Corte di Strasburgo ha richiamato il nostro Paese nel tempo, dalla sentenza Sulejmanovic contro l’Italia del 2009 fino a quella “pilota” Torreggiani e altri dell’ 8 gennaio 2013: obblighi che imponevano non soltanto di superare il problema del sovraffollamento degli Istituti penitenziari, ma anche di rimodulare l’esecuzione della pena in carcere in termini congruenti a tutti i parametri che integrano l’osservanza dell’articolo 3 della Convenzione, nonché di prevedere forme di rimedi interni, preventivo e compensativo. Si sottolinea che il Consiglio d’Europa aveva riconosciuto il lavoro fatto dall’Italia per rispondere adeguatamente a tali richieste e ha conseguentemente chiuso il caso l’ 8 marzo 2016. Da qui però la necessità di superare le criticità adeguando l’ordinamento penitenziario al dettato costituzionale e alla convenzione europea. Con i provvedimenti adottati in conseguenza di quella sentenza “pilota” i numeri sono consistentemente calati, fino a giungere a 52.434 in ottobre 2015, per poi però riprendere la via dell’aumento, più lento, ma apparentemente inesorabile e del tutto non connesso ai numeri che indicano una riduzione dei reati denunciati. La soluzione della costruzione di nuove carceri, proposta dal ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, è già stata prospettata dai governi passati tramite il “piano carceri” che si rivelò fallimentare. Uno scenario quindi già visto: si costruisce un nuovo contenitore, nel giro di poco si sovraffolla o si lascia inattivo per mancanza di fondi. È successo negli anni 80, poi ripetuto nel 2008 e poi nel 2010. Di fronte all’emergenza, la politica, vecchia e nuova, risponde con la costruzione di nuove carceri che puntualmente non bastano mai. Motivo per il quale, il Comitato europeo per la prevenzione della tortura (Cpt) sottolineò come costruire nuove carceri per risolvere il problema del sovraffollamento non è la strada giusta, perché “gli Stati europei che hanno lanciato ampi programmi di costruzione di nuovi istituti hanno infatti scoperto che la loro popolazione detenuta aumentava di concerto con la crescita della capienza penitenziaria”. Viceversa, “gli Stati che riescono a contenere il sovraffollamento sono quelli che hanno dato avvio a politiche che limitano drasticamente il ricorso alla detenzione”. Ancora rimane la permanenza dei bambini dietro le sbarre. Sono 50 le mamme detenuti che hanno un totale di 59 figli al seguito. Una trentina sono all’interno del carcere, mentre il resto dei piccoli sono negli Istituti a custodia attenuata che rientrano, però, sempre dentro il perimetro penitenziario. Anche in questo caso, la soluzione del guardasigilli è una sola: costruire più Icam e non rendere più fruibile la detenzione domiciliare come prevedeva la riforma originaria La malattia mentale è più frequente in cella di Valentina Stella Il Dubbio, 9 ottobre 2018 Incontro al Ministero della Salute tra istituzioni ed esperti italiani e spagnoli sui disturbi psichiatrici. Un confronto internazionale al ministero della Salute tra istituzioni ed esperti italiani e spagnoli sulla gestione dei detenuti con disturbi psichiatrici. Una problematica in forte crescita: “la schizofrenia e i disturbi della personalità hanno una frequenza di quattro e di due volte maggiore in carcere rispetto alla popolazione generale”, ha sottolineato Massimo Clerici, presidente della Società Italiana di Psichiatria delle Dipendenze; “In Italia il salto di qualità - ha proseguito - è stato fatto con la chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari nel 2015, sostituiti dalle Rems o dall’istituzione di servizi di psichiatria interni alle carceri”. Inoltre un cambiamento significativo che ha investito il sistema carcerario italiano è stato il passaggio di competenze nella gestione della salute dei detenuti dal ministero della Giustizia a quello della Salute”. All’incontro, promosso dalla Società Italiana di Medicina Penitenziaria e dalla Società Italiana di Psichiatria delle Dipendenze con il contributo incondizionato di Otsuka, ha partecipato anche Giulia Grillo, ministro della Salute che ha dichiarato: “i contenuti presentati rappresentano uno spunto utile per intraprendere una riflessione più ampia sulla gestione della salute negli istituti penitenziari del nostro Paese. Come ministero della Salute puntiamo a dimostrare in concreto che è possibile fare di più per perseguire una gestione più efficiente delle politiche sanitarie dietro le sbarre. Nelle prossime settimane avvieremo una valutazione sul territorio delle diverse realtà italiane”. Come ha spiegato al Dubbio Daniela De Robert, Componente del Collegio Garante Nazionale Detenuti “la salute mentale in carcere è un tema centrale in quanto quantitativamente e qualitativamente rilevante. Da una parte ci sono le persone non imputabili che sono nelle Rems in cui c’è una lunga lista d’attesa legata anche - noi pensiamo - a una gestione forse non proprio corretta di queste strutture; e dall’altra parte c’è il problema di chi sta scontando una pena e ha sviluppato una patologia psichiatrica. L’ordinamento prevede che siano costituiti in ogni regione delle sezioni per la tutela della salute mentale che sulla carta sono un numero elevato ma di fatto sono poche quelle operative. Il risultato è che queste persone non vengono prese in carico e non vengono curate. Rappresentano un problema per la gestione in carcere, e talvolta la situazione è spostarli. Inoltre la gestione di queste persone ricade sul personale di polizia penitenziaria che non ne ha la competenza. Noi una volta abbiamo incontrato una persona che in un anno era stata trasferita 32 volte. Occorrerebbe investire di più da parte della Asl e c’è esigenza di migliori accordi tra mondo penitenziario e mondo della salute. L’uso della sorveglianza a vista per una persona che ha bisogno di cure non può andare avanti” e chiude rilevando che “dei 41 suicidi che quest’anno hanno riguardato i detenuti, 5 sono stati sicuramente di pazienti psichiatrici”. Il dibattito ha coinvolto i rappresentanti di tutte le istituzioni che hanno un ruolo nel sistema penitenziario italiano, come le procure della Repubblica e le Aziende Sanitarie Locali. “La Procura generale di Roma è impegnata nel diffondere negli uffici del distretto la collaborazione con la Sanità regionale, perciò si fa portatrice dell’esperienza del trattamento differenziato dei pazienti per i quali è stata riconosciuta la pericolosità sociale, al fine anche di fronteggiare la scarsità dei posti disponibili nelle Rems”, ha commentato Giovanni Salvi, procuratore generale di Roma. Perché la Costituzione fa ingresso nelle carceri di Evelina Cataldo articolo21.org, 9 ottobre 2018 Il progetto “Viaggio nelle carceri”, nato da un’idea del Prof. Ruotolo, costituzionalista dell’università Roma Tre, è entrato nel vivo della sua programmazione. Il 4 ottobre ha aperto i battenti attraverso una diretta streaming che ha messo in contatto circa 150 istituti penali italiani e il carcere di Rebibbia, vedendo ospitati diversi giudici della Corte Costituzionale. L’apertura ai temi proposti è stata argomentata dal presidente Lattanzi, in seguito l ‘introduzione della giornalista Donatella Stasio e i saluti del nuovo capo del Dap, Basentini. I temi trattati mediante domande dirette poste da ristrette e ristretti ai giudici della Corte Costituzionale hanno spaziato dal diritto all’affettività, diritti di cittadinanza, ergastolo ostativo e diritto alla speranza, attività teatrale in carcere, lavoro ai detenuti a seguito di dimissione, espulsione degli immigrati. Le risposte dei giudici costituzionali, da Giuliano Amato a Marta Cartabia, passando per il prof Viganò, hanno specificato che il giudice delle leggi ha il compito precipuo di rimuovere gli ostacoli che si frappongono alla concreta, piena e corretta esecuzione della legge formale; senza poter modificare l’esistente, se non mediante una decisione di incostituzionalità. Sono mancate le risposte pubbliche in tema di ergastolo ostativo. Riguardo ai diritti di cittadinanza, la cui massima espressione è realizzata nel diritto di voto, i giudici hanno demandato alla politica la risoluzione di tale impedimento, richiamato genericamente nell’interdizione ai pubblici uffici. Ma il detenuto più arguto, ha chiesto con semplicità al Presidente Lattanzi il motivo per cui solo oggi i giudici della Costituzione si siano decisi ad entrare nelle patrie galere. La risposta è stata articolata: perché la Costituzione ha ormai raggiunto i suoi 70 anni e perché la Carta di tutti i cittadini/e difende i più deboli ma, aggiungo, forse perché l’emergenza di ribadire che l’esecuzione penale è regolata dai diritti fondamentali della persona, seppur a seguito di cesura determinata dal mancato rispetto della legge penale, resta sempre attuale. Ribadire che il cambiamento della persona è possibile, se non auspicabile, generato dall’impegno da parte delle amministrazioni deputate a tale compito, rappresenta un grande esercizio di legalità e di fiducia nelle funzioni dello Stato, anche esse quando restano invisibili alla comunità esterna. È opportuno ribadire che la rieducazione penitenziaria diventa complicata in assenza di risorse umane deputate a tale orientamento e con una cronica carenza di opportunità professionali per i ristretti. Tuttavia, l’idea di risolvere le questioni mediante la costruzione di nuove carceri rappresenta un’idea già praticata e fallita con le “carceri d’oro” e, poco in linea con gli orientamenti garantisti della Carta costituzionale. Csm: rischi ed opportunità dell’elezione di David Ermini di Astolfo Di Amato Il Dubbio, 9 ottobre 2018 Il rischio è che il suo incarico sia in piena continuità con quello precedente; l’opportunità è quella di una rottura con il passato da cui può ripartire anche il Pd. Sono ormai passati diversi giorni dalla elezione di David Ermini a Vice Presidente del Consiglio Superiore della Magistratura. Le reazioni a caldo sono state le più disparate e, tra tutte, ha avuto un particolare rilievo la scomposta reazione degli esponenti di governo del Movimento 5 Stelle, Di Maio e Bonafede, che, delusi per la mancata elezione del candidato da loro indicato, hanno accusato la Magistratura di politicizzazione. Il secondo, Ministro di Grazia e Giustizia, ha addirittura prospettato una riforma del sistema elettorale del Consiglio Superiore idonea ad ovviare alla lamentata politicizzazione! Come sempre accade nelle vicende della politica, la questione della Vice Presidenza del Consiglio Superiore della Magistratura è stata superata da altre questioni più urgenti, in particolare quella relativa alla formulazione ed alle conseguenze della nota di aggiornamento del Def, ed il tema della elezione di Ermini a Vice Presidente del Consiglio Superiore della Magistratura non è più oggetto di attenzione. La vicenda, tuttavia, merita alcune riflessioni. La prima considerazione, che è inevitabile fare, è che l’attuale Vice Presidente del Consiglio Superiore della Magistratura sembra essere espressione dello stesso blocco di potere, che aveva guidato il precedente Consiglio Superiore della Magistratura. Espressione diretta del Partito Democratico era il precedente Vice Presidente, Legnini, espressione diretta del Partito Democratico è l’attuale Vice Presidente, Ermini. Il precedente Vice Presidente ha potuto fare affidamento sulle correnti di Magistratura Indipendente e di Unità per la Costituzione e su tali correnti ha potuto fare affidamento il Partito Democratico per l’elezione di David Ermini. Un ruolo di cerniera potrebbe essere stato svolto da Cosimo Ferri, già Segretario Generale di Magistratura Indipendente, poi Sottosegretario di Stato alla Giustizia nei governi Letta, Renzi e Gentiloni e da ultimo deputato per il Partito Democratico. La continuità indicata fa, allora, subito sorgere un problema. Il Consiglio Superiore della Magistratura precedente è stato, a giudizio di molti, uno dei peggiori nella storia di tale istituzione. Emblematiche restano le parole di Andrea Mirenda che nel luglio 2017, rinunciando al posto di Presidente della Prima Sezione Civile del Tribunale di Verona per assumere il ruolo di magistrato di sorveglianza presso lo stesso Tribunale, ha affermato “Un gesto controcorrente, di composta protesta verso un sistema giudiziario improntato ormai ad un carrierismo sfrenato, arbitrario e lottizzatorio, che premia i sodali, asserve i magistrati alle correnti, umilia la stragrande maggioranza degli esclusi e minaccia l’indipendenza dei magistrati con la lusinga della dirigenza o la mortificazione di una vita da travet. Lascio un posto semi-direttivo di prestigio, dove avrei potuto restare ancora per anni, per andare ad occuparmi degli ultimi della terra, da ultimo dei magistrati”. La questione, quindi, diventa: la continuità del blocco di potere che ha eletto il nuovo Vice Presidente del Consiglio Superiore della Magistratura si esprimerà anche attraverso una continuità nella gestione dell’ordine giudiziario? Sarà mantenuto, cioè, quel consociativismo tra forze organizzate che ha assicurato agli aderenti alle correnti protezione e tutela nella carriera, a scapito di tutti gli altri? In questo senso, le vicende del Consiglio Superiore della Magistratura possono essere emblematiche della vicenda politica dell’intera nazione. Il Partito Democratico ha perso consenso nel paese perché, cosi come è avvenuto nel precedente Consiglio Superiore della Magistratura, ha privilegiato il consociativismo dei garantiti e dei protetti alla attenzione a chi era completamente fuori dai circuiti del potere. Se il nuovo Consiglio continuerà su questa strada darà altro alimento alla antipolitica. Se sarà capace di sottrarsi alla logica della spartizione correntizia potrebbe costituire un punto di ripartenza del Partito Democratico. Riforma del processo civile con termini più flessibili di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 9 ottobre 2018 Comincia a prendere forma la riforma del processo civile. Un testo esiste, anche se dovrà essere messo meglio a punto dall’Ufficio legislativo, e ora deve essere individuato lo strumento sul quale puntare. Che potrebbe essere anche un decreto legge, soluzione che avrebbe il vantaggio di una maggiore “blindatura” del testo in una materia assai complessa. Il progetto si ispira al concetto di case management, in base al quale il rito più efficiente è quello che attribuisce al giudice il potere di declinare le regole processuali sulla concreta complessità del caso in discussione. Una “filosofia” che ha ispirato gli interventi introdotti nel Regno Unito prima e poi in Francia e Spagna. Più nel dettaglio, si punterebbe alla eliminazione dell’atto di citazione e alla sua sostituzione con il ricorso; al taglio dei termini di comparizione, adesso di 90 giorni, a fronte dei 30 del rito del lavoro, del procedimento sommario, dell’opposizione allo stato passivo. Dovrebbe essere introdotto un sistema di preclusioni istruttorie già negli atti introduttivi, che potrà essere superato solo se ci sono domande riconvenzionali o, comunque, se emergono necessità difensive dell’attore davanti alle difese del convenuto. Il ruolo del giudice esce potenziato dalla possibilità di valutare, in maniera discrezionale e in relazione alla complessità del caso, l’utilità della concessione dei termini previsti dal Codice di procedura (articolo 183 sesto comma) e l’ampiezza dei termini stessi, oggi ingessati nel divieto di distinzione sulla complessità della controversia. Infine, in agenda una rimodulazione della fase decisoria, assegnando al giudice il potere di valutare, volta per volta, l’utilità del deposito di comparse conclusionali oppure generalizzando un’udienza di discussione, permettendo poi un deposito della sentenza, nei casi più complessi, nei 30 giorni successivi alla discussione, eventualmente prevedendo che il deposito della comparsa conclusionale sia anticipato rispetto all’udienza e che quest’ultima serva per repliche solo orali. Punti che andrebbero incrociati con le conclusioni del Congresso nazionale forense di Catania che ha approvato una serie di mozioni che incide proprio sul processo civile. Gli avvocati così chiedono di rafforzare “le opportunità di istruzione preventiva, indipendentemente dalle esigenze d’urgenza, con forte valorizzazione del ruolo del difensore e delle Istituzioni forensi”; di valorizzare e potenziare il ruolo dei difensori nella fase preparatoria del giudizio indirizzata alla definizione del thema decidendum e del thema probandum. Andrebbe poi data maggiore rilevanza alla contumacia e alla non opposizione del convenuto in maniera tale che il giudice, nelle controverse relative a diritti disponibili, possa decidere la causa con sentenza semplificata. Da generalizzare, ancora,, per gli avvocati, l’applicazione dello schema decisorio previsto dopo trattazione solo orale, con previsione della facoltà del deposito di memoria solo a richiesta di parte. Mai più giustizia negata alle vittime di reato giustizia.it, 9 ottobre 2018 Tavolo di coordinamento per la creazione di una rete integrata di servizi di assistenza alle vittime di reato. Chi è vittima di un reato, molto spesso, non è in grado di utilizzare tutti gli strumenti necessari per avere accesso ai propri diritti e ottenere un percorso giudiziario giusto. Nel 2015, l’Italia ha recepito la direttiva europea in materia di tutela delle persone offese, riconoscendo a quest’ultime lo status di vittima, cercando di mettere in atto forme di protezione sia all’interno che all’esterno del processo. Ieri mattina, nella Sala D’Ambrosio del Ministero della Giustizia, è stato istituito il Tavolo di coordinamento per la creazione di una rete integrata di servizi di assistenza alle vittime di reato, volto ad incrementare le tutele già in essere. Chiunque sia vittima di reato potrà avvalersi di una serie di strumenti istituzionali che lo aiutino a difendersi dall’offesa subita e che lo sostengano nel cammino fino al raggiungimento del giusto risarcimento. Non dovrà più accadere che una persona vittima di reato subisca un’ulteriore violazione dei propri diritti, solo perché questi ultimi sono di difficile interpretazione o abbiano un accesso macchinoso. Uno dei compiti del Tavolo inter-istituzionale sarà, quindi, quello di pubblicizzare l’esistenza e l’ubicazione di questi centri di ascolto dove le vittime potranno trovare personale adeguato alle loro esigenze personali che li aiuteranno a far valere i propri diritti. I soggetti individuati a comporre il Tavolo di lavoro sono il Ministero della Giustizia, il Ministero dell’Interno, la Conferenza Stato Regioni, il Consiglio Nazionale Forense, l’Università Roma Tre e la Rete Dafne Italia. Al termine dei lavori verranno definiti dei protocolli d’intesa con le Regioni che integreranno la normativa esistente per migliorare un servizio già esistente ma poco conosciuto e di difficile accesso. “Pregi e difetti”. L’Autorità e la riforma anticorruzione di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 9 ottobre 2018 Bene la stretta sulle fondazioni, dubbi per la non punibilità del primo che denuncia. È un po’ promosso e un po’ bocciato dal presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione il disegno di legge anticorruzione del ministro Bonafede. In un convegno all’Università degli Studi di Milano, Raffaele Cantone apprezza che nel finanziamento pubblico dei partiti il ddl equipari ad essi le Fondazioni e vieti contributi anonimi, “ho seri dubbi che venga davvero approvata ma è la parte di riforma che mi convince di più. A condizione però che le sanzioni amministrative siano rese pubbliche ai cittadini; e che a controllare siano organi davvero in grado di farlo, e non (come invece previsto) la stessa attuale Commissione i cui componenti già due volte si sono dimessi per lamentare l’assenza di reali poteri”. Negativo invece il giudizio sulla clausola di non punibilità per il primo che tra corruttore e corrotto denunci l’altro entro 6 mesi e prima di essere indagato: “So che parte dei magistrati la chiedono da tempo, ma a me non piace e mi spaventa pure, perché temo che, oltre a non essere fruttuosa, si presterà ad abusi e farà rientrare dalla finestra di questa norma l’agente provocatore cacciato dalla porta della legge”. Il ddl, per evitarlo, subordina la non punibilità alla prova che l’eventuale furbizia della denuncia non fosse preordinata già all’inizio, ma “mi pare insufficiente. Mi chiedo se i vantaggi della norma siano così grandi da farci però correre anche il rischio che un privato, il quale voglia rovinare qualcuno o venga mandato a rovinare qualcuno, vada a fare in sostanza “l’agente provocatore” senza neanche le regole minime di dove esiste. Vale la pena di mettere in crisi il fondamentale principio dell’obbligatorietà dell’azione penale?”. Cantone promuove invece (salvo la pena “frutto di compromesso politico”) l’ampliamento del reato di traffico di influenze illecite, “un passo avanti che punisce i facilitatori”. Anche se può esserci un problema “se prima non si fa una legge sul lobbismo: quando una mediazione rischia di essere illecita, se prima non si chiarisce cosa sia mediazione lecita?”. Detenuti al 41bis, lecita la telecamera puntata verso il bagno Il Fatto Quotidiano, 9 ottobre 2018 “Non comporta l’illegittima compromissione di un diritto” la videosorveglianza continua in una cella, con telecamera a bassa risoluzione puntata sull’ingresso del bagno. Lo scrive la Cassazione annullando, su ricorso del ministero della Giustizia, la decisione del tribunale di sorveglianza di Bologna che censurava la telecamera con inquadratura verso il bagno nella cella del boss Giuseppe Madonia (al 41bis). Si tratta di una telecamera a bassa risoluzione, con immagini sfocate, diretta verso la sola porta e una porzione del lavandino. Secondo il Tribunale di sorveglianza, anche in caso di un detenuto sottoposto a un regime speciale per ragioni di sicurezza, “l’uso di strumenti di intrusione nella sfera privata” deve “calibrarsi in relazione alle reali necessità della specifica situazione da affrontare” o si viola la Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Invece, secondo il ministero, nel ricorso in Cassazione, tale videosorveglianza continua nella cella è proporzionata e conforme ai doveri istituzionali. È stata adottata “con ponderazione tenendo conto dell’elevatissimo livello di pericolosità di Madonia” e per “prevenire evasioni e comunicazioni fraudolente”. Appropriazione aggravata, l’assemblea non è necessaria di Giulio Benedetti Il Sole 24 Ore, 9 ottobre 2018 Corte di cassazione - Sentenza 23077/2018. La Cassazione interviene sulla procedibilità d’ufficio o a querela per il reato di appropriazione indebita: la recente sentenza 23077/2018 risolve una questione che fino ad oggi aveva di fatto bloccato i processi in corso per questo reato commesso dagli amministratori condominiali. Infatti il principio affermato, ovvero che basta la costituzione del condominio come parte civile per evitare l’interruzione del processo per richiedere al condominio se intende presentare la querela, impedisce che tali processi finiscano nel nulla. Tale sentenza tutela quindi i condomini danneggiati. Ma andiamo per ordine. L’articolo 10 del Dlgs 36/2018 ha abrogato il terzo comma dell’articolo 646 del Codice penale e ha escluso la procedibilità di ufficio per il reato di appropriazione indebita, con la conseguenza che la querela per ilo reato, secondo le regole ordinarie stabilite dall’articolo 124 del Codice penale, deve essere presentata entro tre mesi dal giorno della notizia del fatto che costituisce reato. La norma transitoria (articolo 12, comma 2 del Dlgs 36/2018) per i procedimenti pendenti consente al pubblico ministero o al giudice di informare la persona offesa del diritto di presentare la querela e il termine decorre dal giorno in cui la persona offesa è stata informata. Sono evidenti le conseguenze per il condominio il quale sia persona offesa dal reato e che in tale breve termine deve indire e tenere un’assemblea ordinaria che legittimi (articolo 1130 del Codice civile) l’amministratore (succeduto al precedente) a esercitare il diritto di querela per conto del condominio. La Corte di Cassazione (sentenza 23077/2018), pronunciandosi su un ricorso in tema di appropriazione indebita aggravata, ha affermato che nel caso in cui la persona offesa si sia costituita parte civile nel giudizio non deve essere attivata la procedura prevista dall’articolo 12, comma 2. La Corte di cassazione dichiara inammissibile il ricorso e enuncia il seguente principio di diritto : “relativamente al reato di cui al novellato art. 646 c.p., già perseguibile d’ufficio ove fosse contestata l’aggravante di cui all’art. 61 n. 11 c.p., non va attuata la procedura di cui all’articolo 12, comma 2, del Dlgs 36/2018, ove la persona offesa si sia costituita parte civile - restando irrilevante che la parte civile abbia successivamente abbandonato il processo - ed il reato sia stato comunque già dichiarato prescritto nel giudizio di merito”. Si noti che in ogni caso, anche in difetto di una querela presentata dal condominio, anche il singolo condomino può presentare individualmente la querela in quanto anche lui è persona offesa del reato di appropriazione indebita, quanto meno delle sue quote condominiali. In tale caso, come parte civile nel processo penale, se ha presentato la querela entro i tre mesi da quanto ha scoperto il reato, si potrebbe costituire in giudizio quale parte civile il singolo condomino e potrebbe richiedere l’affermazione della penale responsabilità dell’amministratore e la sua condanna, a favore del condomino querelante, delle spese della sua difesa e del risarcimento del danno, magari con l’irrogazione di una provvisionale al cui pagamento il giudice potrebbe subordinare (articolo 165 del Codice penale) la concessione del beneficio della sospensione condizionale della pena nei confronti dell’amministratore condominiale. Il datore di lavoro che vessa il dipendente rischia condanna per lesioni La Repubblica, 9 ottobre 2018 Il lavoratore aveva sviluppato una sindrome depressiva grave. Vessava il dipendente sul luogo di lavoro esercitando continue pressioni e contestandogli di non essere disciplinato, sino a una vera e propria persecuzione. Il lavoratore in conseguenza di questo comportamento aveva sviluppato una patologia psichiatrica. Il datore di lavoro era stato condannato in primo grado dal tribunale di Pordenone e in appello dai giudici di Trieste: dal 2008, secondo l’accusa, aveva sottoposto un suo dipendente a vessazioni, rivolgendogli ingiurie, facendogli pressioni per lo svolgimento di attività lavorative dopo alcuni periodi di malattia del lavoratore, e muovendogli contestazioni disciplinari “spesso dal contenuto del tutto pretestuoso”. Così ora arrivati al terzo grado, la Cassazione non ha avuto dubbi: la condanna deve essere anche per lesioni personali. Il dipendente dapprima aveva mostrato segni di una “sindrome ansioso-depressiva su base reattiva”, poi degenerata in un disturbo depressivo ben più grave. La quarta sezione penale della Suprema Corte ha respinto il ricorso del datore di lavoro - il reato è stato dichiarato prescritto ma restano in piedi gli effetti civili - ponendo l’accento sulla “riferibilità causale delle patologie psichiche, integranti sicuramente la nozione di “lesioni”, alle condizioni cui la persona offesa era stata sottoposta dal datore di lavoro, con condotte delle quali è stata data dimostrazione, anche per via documentale”. Toscana: Corleone “digiuno per mancanze di risposte su disagio psichiatrico” toscanaoggi.it, 9 ottobre 2018 Il Garante dei detenuti della Toscana Franco Corleone ha annunciato tre giorni di digiuno per denunciare le carenze degli istituti di detenzione. Sulla situazione del disagio psichiatrico in carcere e sulla mancanza di risposte concrete dal nuovo Governo il Garante dei diritti dei detenuti della Toscana, Franco Corleone, entra in sciopero della fame: “Per tre giorni farò un digiuno, per me stesso, per non nascondere la gravità della situazione- spiega, nel corso di una conferenza stampa-. Dopodiché vedremo come continuare nelle prossime settimane, perché la situazione rischia di essere fuori controllo”. Corleone sottolinea un fatto che si è compiuto in questi giorni: “La Corte Costituzionale che va nelle carceri italiane a dire ai detenuti che hanno dei diritti - sottolinea. È una cosa straordinaria. Noi garanti vogliamo affermare questo e vogliamo credere anche che la Costituzione debba essere il pilastro dell’azione quotidiana”. Di contro, invece, l’intervento dell’esecutivo si è sostanziato con la firma dei decreti dello scorso 2 ottobre: “La speranza di una grande riforma per il carcere in Italia si è chiusa malamente - constata. Ci sono provvedimenti minimi, bisogna ripartire con le norme che ci sono e che peraltro non sono applicate”. Il punto dolente sul quale intende focalizzarsi, in questo momento, Corleone è il disagio psichico presente negli istituti di pena: “Nel decreto dell’ordinamento penitenziario c’era una norma minima che affrontava la questione- ricorda-. È stata stralciata. La situazione è molto grave”. Alla carenza di disposizioni adeguate si aggiunge la rigidità della reazione del governo dinanzi alle tragedie, come accaduto a Roma: “Abbiamo avuto l’episodio di Rebibbia, dove una donna ha ucciso i suoi due figli- evidenzia-. Non ci si può nascondere, come è stato fatto, dietro la responsabilità della direttrice, che è stata licenziata. Va affrontato il problema delle norme”. L’ordinamento italiano dinanzi alla malattia psichica prevede un canale duplice. Chi ha commesso un delitto, ma è stato riconosciuto incapace di intendere e di volere al momento del reato deve essere inviato in trattamento in una Rems, vale a dire in una residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza. In Toscana ne esiste già una a Volterra, mentre un’altra, a Empoli, dovrebbe aprire a Natale. Esiste, poi, un problema più generale di misure alternative che riguarda chi soffre di disturbi psichiatrici. La risposta non può essere trovata nelle Rems. “Le norme del codice - segnala il garante toscano dei detenuti - non riconoscono in questo caso le misure alternative”. Servirebbero, dunque, delle sezioni psichiatriche dedicate. Anche dal punto di vista della struttura, tuttavia, non mancano i paradossi, come a Sollicciano, “nel quale la sezione psichiatrica è stata predisposta, ma non collaudata - fa sapere Corleone. Quindi, gli 8 posti di assistenza psichiatrica sono vuoti”. La questione è prettamente di salute. Di conseguenza, è il ragionamento del garante, a farsene carico deve essere il servizio sanitario gestito dalla Regione. Corleone chiede, a tal proposito, “all’assessorato alla Salute di affrontare la questione. Le sezioni dovrebbero avere una gestione esclusivamente sanitaria, non dovrebbero essere delle celle con una targhetta diversa, ma dei luoghi sanitari come un’infermeria”. Roma: apre il primo minimarket di merce “made in galera” di Claudia Osmetti Libero, 9 ottobre 2018 Sugli scaffali birre artigianali, caffè, formaggi, pasta e grissini frutto del lavoro dei detenuti negli istituti di pena di tutta Italia. Ci sono i biscotti “cotti in fragranza” e i grissini “farina nel sacco”. Ma anche le borse “malefatte” e le magliette “extra libere”. Nessuna marca di lusso o griffe firmata, ma prodotti cento per cento galeotti. Nel vero senso della parola: sono tutti fatti nei laboratori delle carceri italiane, confezionati dai detenuti che, costretti a scontare una pena dentro una delle 231 carceri dello Stivale, in questo modo imparano anche un mestiere. Diventano pasticceri, sarti e - perché no - pure allevatori e coltivatori. Giovedì prossimo, a Roma, aprirà i battenti il primo store interamente rifornito dagli istituti penitenziari d’Italia: si chiama “Pub & Shop”, lo ha voluto l’associazione Economia Carceraria e la sua inaugurazione sarà a tutta birra. Il programma, infatti, prevede una degustazione gratuita della bionda “vale la pena”, una pinta che più artigianale di così si muore: viene spillata nella casa circondariale di Rebibbia e sarà presentata assieme ai formaggi del “cibo agricolo libero” e alla miscela solidale “galeotta”. È che aveva ragione De Andrè: “Ah, che bello ‘u caffè, pure in carcere lo sanno fa”. Solo che adesso, detenuti e carcerati, la moka non l’accendono mica solo per loro. Macché. Tostano i chicchi per rivenderli all’esterno. “Questo negozio è una buona idea”, racconta Rita Bernardini del Partito Radicale. Ex parlamentare, Bernardini si confronta con le problematiche legate alla situazione penitenziaria da anni: “In carcere si fanno tanti prodotti, e questo meccanismo offre la possibilità di un lavoro concreto per chi ha avuto guai con la giustizia”, spiega. “Se chi gestisce questa attività riesce a organizzarsi bene può anche prevedere dei gruppi di acquisto, magari tra gli avvocati e tutte quelle figure professionali che ruotano attorno al mondo penitenziario. È sicuramente uno stimolo e un aiuto per le famiglie dei carcerati, oltre che per i carcerati stessi”. Insomma, basta dare un’occhiata a quegli scaffali pieni zeppi di merce per rendersene conto. Generi alimentari e capi d’abbigliamento che arrivano dalle celle del Nord, del Sud e del Centro. In quel negozio di via Eurialo, a due passi dalla fermata della metro capitolina di Furio Camino, saranno esposti i taralli “campo dei miracoli” (fatti nel carcere di Trani, in Puglia), i dolci secchi “cotti in fragranza” (sfornati nelle cucine dell’istituto Malaspina di Palermo), spaghetti e maccheroni della “gigliolab srl” (marchio registrato dell’altro supercarcere siciliano, l’Ucciardone), le magliette “extra libere” e i grissini “farina nel sacco” (entrambi prodotti negli istituti di Torino) e i vestiti “malefatti” (cuciti e rattoppati dai detenuti di Venezia). “L’iniziativa è ottima”, continua Bernardini, “ma che sia di monito al Dap (Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, ndr) affinché si scosti dai numeri ridicoli dei lavori qualificanti che vengono fatti dentro le nostre carceri grazie alle varie cooperative che si impegnano in questo settore. Oggi, a fronte di una popolazione carceraria che supera le 50mila unità, appena 1.800 persone sono impegnate in queste mansioni. È un dato ancora troppo risicato”. Appunto. “Pub & Shop” è un primo passo, di quelli che certamente fanno ben sperare per il futuro: “Però è necessario anche che il sistema istituzionale si impegni a garantire ai carcerati, una volta tornati in libertà, il proseguimento del lavoro imparato, altrimenti il “reinserimento sociale”, come si dice in gergo, resta solo sulla carta”, chiosa l’esponente radicale. L’altro problema è quello dei salari staccati ai detenuti: vero è che a fine 2017 sono stati (finalmente, visto che se ne parlava da decenni) adeguati al tempi correnti. Ma il lavoro, per essere considerato lavoro, ha bisogno di una paga. Altrimenti diventa un passatempo, più o meno apprezzato. E quella paga non può essere troppo irrisoria, specie per gente che ne ha doppiamente bisogno. Da un lato per svagarsi e dall’altro per reinventarsi una vita nella legalità. “Ogni prodotto realizzato all’interno di un carcere è una storia che si apre ad ognuno di noi”, sottolinea sulle pagine del Redattore Sociale Paolo Strano, presidente della Onlus Semi di libertà (quella, per intenderci, che ha portato il luppolo dentro i cancelli di Rebibbia). “L’economia carceraria ha tutto il potenziale produttivo per contribuire alla crescita del Paese. È un business virtuoso, pulito, dall’alto valore sociale e rigenerativo. E ha persino un valore aggiunto: quello del riscatto sociale e della scommessa su se stessi”. Una scommessa che si può e si deve vincere. Ma chi l’ha detto che dagli errori non si possa imparare qualcosa di buono? Diversi detenuti stanno imparando un mestiere, a guadagnarci siamo un po’ tutti. Palermo: progetto antimafia Centro La Torre, da quest’anno corsi educativi in carcere siciliainformazioni.com, 9 ottobre 2018 Domani, martedì 9 ottobre, prenderà il via il Progetto Educativo Antimafia e Antiviolenza promosso dal Centro Studi Pio La Torre di Palermo, giunto al tredicesimo anno e rivolto agli studenti delle ultime tre classi delle scuole secondarie italiane di secondo grado. La prima videoconferenza si terrà al Teatro Don Bosco-Ranchibile di via Libertà 199 a Palermo sul tema “La storia della mafia e dell’antimafia: evoluzione dal dopoguerra ad oggi. A discuterne Giovanna Boda, del Miur, lo storico Salvatore Lupo, dell’Università di Palermo e Vito Lo Monaco, Presidente del Centro Pio La Torre. Alla prima conferenza sarà presente anche una scuola parigina, il Liceo Bouset, a Palermo per un gemellaggio con l’Itet “Marco Polo”. Le carceri - Per la prima volta, da quest’anno il progetto sarà proposto anche alle Case Circondariali italiane che offrono ai propri detenuti corsi di studi medi-superiori. Già nove gli istituti penitenziari che hanno aderito, tra questi le due carceri di Palermo (Pagliarelli e Calogero Di Bona - Ucciardone), e quelli di Augusta, Noto, Enna, Catania, Trapani. Adesioni anche dagli istituti penitenziari di Roma (San Vittore), Alessandria e Pesaro. Le attività progettuali - Nell’intento di accrescere la conoscenza e la valutazione critica delle mafie, del loro ruolo negativo nelle società nazionali, dei loro rapporti complessi con la realtà economica, sociale, istituzionale, politica, è stata strutturata una indagine sulla percezione delle mafie e della violenza in generale. I risultati di tale rilevazione, che tocca anche la coscienza civica e la condizione giovanile, saranno esaminati da un’equipe di esperti volontari (economisti, statistici, sociologi, giuristi), che sintetizzeranno le loro valutazioni in un rapporto conclusivo. Sarà cura del Comitato scientifico elaborare una specifica indagine per i detenuti studenti. Videoconferenze tematiche - Le sei videoconferenze tematiche previste si terranno dalla sede centrale di Palermo e in video-collegamento con tutte le scuole italiane e i centri provinciali per l’educazione degli adulti nelle Case di reclusione coinvolti nel progetto, in diretta streaming sul Portale legalità dell’Ansa e sul sito www.piolatorre.it, dove sarà possibile trovare anche la registrazione dopo pochi minuti. Questi i temi che saranno trattati: “La storia della mafia e dell’antimafia: evoluzione dal dopoguerra ad oggi; “Ruolo delle mafie: tra restringimento dei diritti, corruzione, violenza, e penetrazione mafiosa”; “L’espansione territoriale delle mafie e la corruzione”; “La Globalizzazione delle mafie”; “Migrazioni del XXI secolo; l’Italia e l’Europa tra disuguaglianza, accoglienza e integrazione”; “L’antimafia della Chiesa”; “Femminicidio e differenze di genere nell’affermazione dei diritti di cittadinanza nella società Italiana”. Le videoconferenze saranno strutturate in più fasi, con una prima parte a cura di docenti universitari, esperti nelle singole tematiche trattate, che affronteranno gli argomenti, con una trattazione divulgativa accompagnata dalla proiezione di immagini, grafici, ecc. A questa prima fase seguirà un’attività ludica-didattica, che coinvolgerà gli studenti attraverso un questionario di verifica proposto con l’utilizzo di un’applicazione web per permettere una fase di verifica dei contenuti appresi nelle videoconferenze. Infine la fase finale accoglierà le domande in un dibattito aperto. Scritture contro la mafia - Gli studenti che seguiranno il progetto saranno sollecitati a produrre liberamente, nella forma e nella sostanza, propri elaborati individuali e collettivi, che saranno pubblicati sul sito del Centro e su “A Sud d’Europa”, la rivista online del Centro, dove potranno pubblicare le loro riflessioni sui temi affrontati nelle videoconferenze o proporre altre tematiche di loro interesse. Teatro contro la mafia - Gli studenti, opportunamente guidati, potranno liberamente utilizzare e rappresentare i testi teatrali stampati dal Centro Studi Pio La Torre, “Orgoglio di Sicilia” di Vincenzo Consolo e “Fango” di Gabriello Montemagno, al fine della produzione di una performance che li rappresenti. Crotone: il Garante “serve attività di sensibilizzazione per il reinserimento sociale” laprovinciakr.it, 9 ottobre 2018 “Il Garante comunale - informa una nota - dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale di Crotone, Federico Ferraro, è stato ricevuto nei giorni scorsi a Roma dal Garante nazionale, Mauro Palma, nonché dall’intero Collegio composto da Daniela De Robert ed Emilia Rossi. La visita del Garante Ferraro è stata l’occasione per concludere l’iter di incontri istituzionali avuti nei giorni scorsi a Crotone e per far presente a livello nazionale le potenzialità e le criticità che caratterizzano la situazione dei soggetti privati a qualsiasi titolo della libertà personale. Dall’incontro sono emerse delle importanti linee guida che l’Ufficio dei garanti segue a livello nazionale, al fine di affrontare le problematiche inerenti la carenza delle camere di sicurezza o ancora la mancanza di figure come i mediatori culturali, indispensabili, considerata la variegata gamma di etnie, lingue e culture che interessano i fenomeni migratori in corso in questo periodo, e dunque, afferenti anche al tema della detenzione o altre forme considerabili come privazioni di libertà fondamentali. Il Garante nazionale ha espletato numerose attività delicate, quali l’operazione di rimpatrio forzato, organizzata dalla Direzione centrale dell’immigrazione della Polizia di Stato, lo scorso novembre. Durante l’incontro tra Palma e Ferraro si è avuto modo di evidenziare l’importanza di realizzare iniziative di sensibilizzazione, in sinergia con le locali autorità competenti, dedicate alla tematica del reinserimento sociale dei detenuti. In tal modo il sistema può svilupparsi e forse superare anche quello stesso attuale modello di privazione della libertà quale risposta al reato che sembra oggi unico ed ineludibile. Lo scorso 3 ottobre presso la Regione Lazio, il Garante dei detenuti comunale Ferraro è stato ricevuto dal portavoce dei garanti territoriali, nonché garante regionale delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale del Lazio ed Umbria Stefano Anastasìa, per presentare la Conferenza dei garanti territoriali di tutta Italia. Per operare fattivamente nell’ambito della giustizia occorre creare una forte rete istituzionale coesa e compatta, per tali motivi l’avvocato Ferraro prima dell’incontro nazionale, a Roma, ha presentato alle forze dell’ordine ed alla magistratura la figura del garante comunale e le competenze che la normativa locale gli assegna. Durante l’incontro il garante Ferraro ha concordato con il Garante Anastasìa le linee guida e gli indirizzi nazionali seguiti dai colleghi nel delicato settore delle misure di sicurezza privative della libertà personale. Si è stabilità un’ottima sinergia allo scopo di intraprendere iniziative concrete sulla funzione rieducativa della pena, nonché delle vere e proprie campagne di sensibilizzazione per i giovani e gli studenti sul più generico tema della legalità e del rispetto delle norme. Nel mese di settembre una delegazione dei garanti nazionali guidata dalla dott.ssa De Robert si è recata in visita ispettiva al carcere ed all’ospedale di Crotone, guidata dal garante Ferraro. Il garante Ferraro ha rivolto, infine, a nome del Comune l’invito a recarsi a Crotone in occasione dell’attivazione dell’ufficio di garante comunale e della conferenza stampa in programma per il mese di ottobre”. Benevento: il carcere “sbarca” in Europa con un progetto sull’uso degli strumenti digitali realtasannita.it, 9 ottobre 2018 Si conclude con una nota positiva la collaborazione, iniziata un anno fa, tra Francia, Italia e Romania. Lo scorso anno, infatti, Manuela Cardone, arrivata in missione in Francia, dall’Università degli Studi di Salerno, ha abbracciato l’idea di lavorare ad un progetto europeo inerente l’uso di strumenti digitali per l’apprendimento in prigione. L’Università Paul Valéry di Montpellier, con il gruppo di ricerca “Interactions et Technologies Éducatives en Environnement Carcéral” (Iteec), Umr Praxiling - sezione del Cnrs - si è mostrata fin da subito interessata al coinvolgimento del carcere di Benevento nel progetto, conquistando così l’interesse di tutta l’area educativa e dirigenziale dell’istituto, del Dap e del Ministero della Giustizia, che hanno favorito questa opportunità di crescita e di confronto. Tra i partner ufficiali l’associazione Antigone (Italia) - impegnata da anni per la tutela dei diritti e di tutte le garanzie dei detenuti in carcere, anche attraverso la raccolta e la divulgazione di informazioni sulla realtà carceraria - e il Centrul Pentru Promovarea Invatari Permanente (Romania). Da questa unione nasce oggi la partnership Spoc (Small Private Offline Courses in Prison), formata da istituzioni particolarmente preoccupate per il diritto all’educazione dei detenuti. L’esperimento prende vita da consapevolezze importanti: oggi viviamo nell’era digitale e non dare la possibilità ai detenuti di apprendere questa nuova pratica implica un ostacolo per il loro inserimento in società quando usciranno di prigione. Tale principio risponde a pieno a quanto sostenuto dalla Convenzione europea sui diritti umani: “I prigionieri, legalmente detenuti, continuano a godere di tutti i diritti e le libertà fondamentali garantite, ad eccezione del diritto alla libertà. Hanno quindi il diritto all’istruzione garantito dall’articolo 2 del Protocollo n.1”. Il contesto carcerario è complesso poiché, anche se le carceri sono dotate di strumenti digitali, non è possibile fornire ai detenuti libero accesso ad Internet (a causa della loro condizione di privazione della libertà). Tuttavia, le parti in causa hanno ritenuto essenziale trovare un compromesso che consenta ai detenuti di non essere completamente sconnessi dagli sviluppi digitali della società, rimanendo coerenti con gli obblighi penitenziari. Infatti, il progetto SPOC, tenendo conto dei problemi legati alla prigione, fornisce una soluzione offrendo corsi di formazione attraverso strumenti digitali offline. La partnership offrirà, dunque, una formazione verso un gruppo pilota di detenuti nel carcere di Benevento - si ricordi unico carcere coinvolto nel progetto e rappresentato in Europa dalla Cardone. La motivazione a partecipare sarà stimolata attraverso il diretto coinvolgimento dei detenuti in diverse attività prima e dopo il percorso formativo (workshop, valutazione, certificazione, ecc.), e le abilità da loro acquisite saranno riutilizzabili in molti contesti per il loro reinserimento futuro. Il prossimo 11 e 12 ottobre ci sarà la presentazione ufficiale del progetto presso l’Università Paul Valéry di Montpellier, alla quale parteciperanno con grande orgoglio i nostri due partner italiani, Antigone e la Casa Circondariale di Benevento. Augusta (Sr): un libro in cella, protagonisti gli studenti del Liceo Mègara webmarte.tv, 9 ottobre 2018 Il Liceo Mègara promotore dell’iniziativa “Un Libro in cella”. Si tratta di una campagna che la scuola promuove a favore dei detenuti della casa di reclusione di Augusta, che vedrà protagonisti gli alunni. La campagna “Un libro in cella” è stata presentata stamattina nel corso di una conferenza stampa tenuta stamattina, dal dirigente scolastico, Renato Santoro, alla presenza del direttore del penitenziario Antonio Gelardi e del sindaco, Cettina Di Pietro. Testimonial della campagna lo scrittore, augustano d’origine Antonio Conticello, autore, tra l’altro, del romanzo “La scalata della piramide del sale” che parla anche delle saline del territorio megarese. Conticello ha raccontato che a un certo punto della sua vita si è trovato a dover scegliere di intraprendere un percorso lavorativo diverso da quello per cui pensava di essere nato. Ha scoperto, quindi, di essere uno scrittore invogliando tutti a cercare e far venire fuori l’artista che ognuno ha nel profondo del suo essere. Artista che non necessariamente deve appartenere al mondo dello spettacolo e della cultura. Ma l’arte sta nelle cose, nei mestieri che la gente pratica con passione rendendoli unici e speciali. Il dirigente ha evidenziato che attraverso la lettura si possono imparare tante cose e si può viaggiare con la mente. Per i detenuti la lettura può essere un modo per “evadere” dalla realtà in cui vivono. Antonio Gelardi ha messo in luce la valenza dell’iniziativa che impegna docenti, studenti e famiglie, ricordando che il carcere ha una biblioteca di oltre 5 mila volumi. “Il tempo nella casa di reclusione scorre lento e allora è bello riempirlo di contenuti, accostandosi così anche al mondo della cultura” ha detto il direttore del penitenziario. La docente Alessandra Traversa ha sottolineato che saranno gli studenti i protagonisti della campagna. In una prima fase gli alunni saranno invitati dai docenti alla raccolta di libri anche su consiglio di genitori e nonni. La seconda fase della campagna vedrà la consegna dei libri ai detenuti, secondo modalità concordate con il direttore, Gelardi. Prosegue così l’attività di collaborazione tra il liceo e la casa di reclusione, consolidata da anni. “Un libro in cella” si fonda sulla necessità di mettere a disposizione strumenti di supporto e accompagnamento che, attraverso l’impegno collettivo e la pratica di comportamenti didattico educativi, promuovono processi di trasformazione delle coscienze e talvolta dei contesti sociali e territoriale e delle vite delle persone che li abitano. Ritenendo che i libri - dichiarano i promotori dell’iniziativa - oltre a migliorare competenze, possano fare compagnia nella solitudine, aprire la coscienza per trovare libertà, fornire evasione da realtà travagliate, consentire socializzazione nello scambio di commenti sulla lettura, si mirerà a incoraggiare e promuovere la lettura sul territorio, con particolare attenzione alle fasce più deboli”. Uno degli obiettivi prioritari sarà quello che riguarda la “qualificazione del sistema scuola” come luogo della cultura, attraverso cui si intende valorizzare e favorire la funzione educativa e formativa, nonché l’inclusione e la coesione sociale rispetto al territorio, anche in riferimento alla popolazione detenuta. Il sindaco, Cettina Di Pietro al termine della presentazione ha suggerito la messa in scena del romanzo di Conticello nell’auditorium che insiste nella cittadella degli studi, meglio conosciuto come il teatro comunale di recente restaurato. Suggerimento accolto dal dirigente Santoro per il quale è importante fare rete con tutte e istituzioni del territorio per portare aventi progetti e iniziative. Milano: assemblea regionale contro l’apertura del Cpr di via Corelli pressenza.com, 9 ottobre 2018 Il Ministro degli interni Matteo Salvini ha annunciato l’imminente apertura del Cpr, Centro Permanente per il Rimpatrio, in via Corelli a Milano. I Cpr sono il nuovo acronimo con cui vengono ribattezzati gli ex Cie e Cpt, carceri in cui vengono recluse persone sprovviste di permesso di soggiorno. Se da un lato abbiamo visto negli ultimi anni crescere in maniera diffusa per il paese retoriche apertamente xenofobe e razziste, i Cpr sono il risvolto istituzionale e pratico in cui queste forme di discriminazione vengono messe in atto dallo stato. I CPR in questo senso rappresentano la punta dell’iceberg di tutte quelle politiche discriminatorie che a partire da 20 anni a questa parte hanno recluso nell’ombra della clandestinità una buona fetta di persone immigrate in Italia. Con il decreto Minniti-Orlando e con il decreto Salvini queste carceri saranno strutturate in tutto il paese su base regionale. Via Corelli sarà quindi il Cpr di riferimento per tutto il territorio lombardo. Anni fa eravamo riusciti a ottenere la quasi completa estinzione dei Cie in Italia grazie a un grande movimento eterogeneo che sia da dentro che da fuori queste strutture ne aveva messo in luce la disumanità e l’inutilità dal punto di vista pratico. Invitiamo quindi tutti i cittadini, le associazioni, i comitati, i collettivi, i sindacati e le realtà sensibili a questo tema sul territorio lombardo alla prima riunione regionale per opporsi all’apertura di questa struttura che secondo noi non dovrebbe semplicemente esistere, sia a Milano che altrove. Gela (Ct): “vi racconto come il carcere di Gela è stata la mia salvezza” di Elisabetta Invernizzi huffingtonpost.it, 9 ottobre 2018 “A 23 anni ho capito che c’è sempre un’altra scelta”. Storia di Fabio, detenuto al carcere di Gela: “In galera ho cominciato a scrivere, che significa guardarsi dentro e fa male. Ma voglio dire ai ragazzi come me che è possibile evitare certi errori”. Una molla di ferro che più la stringi più si carica. Fino a esplodere. Tutta l’energia dell’adolescenza consumata “nel modo sbagliato con persone che mi hanno aiutato a costruire sbarra dopo sbarra, la stanza in cui sto passando gli anni migliori della mia vita”. Fabio ha 23 anni ed è uno dei più giovani detenuti del carcere di Gela, in Sicilia. Ne ha già trascorsi nove in diversi istituti penali minorili. Quando ci è entrato, per la prima volta, era un ragazzino. Uno dei tanti bambini perduti del Mezzogiorno che le organizzazioni criminali arruolano e addestrano come manovalanza per i loro sporchi affari: rapine, estorsioni, spaccio di droga. Fabio ha fatto “infiniti errori”, e lo ripete in continuazione senza scendere nei dettagli. Racconta di essersi guadagnato presto il ruolo di “pecora nera della famiglia”. E ammette: “Tanti sbagli potevano essere facilmente evitati. Sarebbe bastato un po’ di buon senso e molto carattere, che purtroppo non avevo”. E così, la voglia di farsi notare, l’ambiente “poco controllato” e la compagnia “di ragazzi che come me non avevano altro di meglio da fare”, lo hanno portato sulla cattiva strada. Le fughe da casa, “l’ossessione di disubbidire”, la violenza. Un “viaggio cieco” che ha lasciato diverse ferite e molte perdite, interrotto solo con il carcere. I primi ad andarsene sono stati gli amici. “Trasgredire le regole era diventata la normalità”. Ma proprio questo “è stato per me il punto di non ritorno. Pensare che quella fosse l’unica scelta è stato il mio più grande sbaglio”. Fra due anni sarà un uomo libero. E ora inizia a guardarsi indietro. Il carcere è stato la sua salvezza. “Mi ha regalato il tempo”. Giornate vuote in cui “all’improvviso non avevo più nulla da fare, se non aspettare il corso della giustizia”. E poi, dopo tanti anni “trascorsi in un vortice sempre più veloce di emozioni, ho avuto del tempo per riflettere”. In prigione ha iniziato a scrivere. “La prima volta che ho chiesto una penna e dei fogli è stato un paio di anni fa”, quando si trovava nel carcere minorile di Caltanissetta. “Ma i cattivi pensieri hanno preso subito il sopravvento, e ho lasciato perdere”. Perché “scrivere significa guardarsi dentro e, se hai fatto delle scelte sbagliate come me, fa male”. Ma poi ha deciso di darsi una seconda possibilità. Ha messo a nudo tutta la sua vita e in cima alla pagina ha scritto un titolo che è anche un messaggio per altri ragazzi che, come è successo in passato a lui, si trovano a un bivio: “C’è sempre un’altra scelta”. Con questo scritto ha vinto il premio Carlo Castelli, un concorso letterario destinato ai detenuti delle carceri italiane organizzato dall’associazione San Vincenzo de Paoli con il patrocinio del Ministero della Giustizia, del Senato e della Camera dei Deputati. Un premio che, spiega il presidente dell’associazione, Antonio Gianfico, dà “a queste persone, che non sono state ascoltate quando più ne avevano bisogno, l’opportunità di poter parlare”. Fabio si è classificato secondo. Gli 800 euro che ha vinto li userà “per le spese quotidiane in carcere e per la sua famiglia”, che non l’ha mai abbandonato. Una parte del premio poi servirà a finanziare il reinserimento di Omar, un 19enne del Gambia. “Sono felice di aiutare un ragazzo che ha fatto i miei stessi sbagli e che ora sta provando a cambiare vita”, dice commosso. “Per troppo tempo sono stato uno sciocco. Ora cerco di rimediare agli errori che ho fatto”. Errori che l’hanno portato in carcere, dove la vita è molto diversa da quella fuori. Dalla convivenza forzata con gli altri detenuti alla mancanza di relazioni profonde. Perché chiamare gli altri carcerati “ ‘amici’ è una parola grossa: c’è qualcuno che mi incoraggia e asseconda le mie idee”. In carcere, “ti mancano sempre alcune cose. È brutto dire che ti ci abitui, significa che inizi a starci bene. Ma non potrai mai sentirti bene del tutto qui”. E poi ci sono i momenti di sconforto, “quando vuoi stare vicino alla tua famiglia ma non puoi fare nulla per migliorare la loro vita. Ti senti impotente, questa è la sensazione peggiore di quando stai in carcere”. Ma Fabio cerca “di sfruttare il tempo per diventare una persona migliore”. Per questo legge romanzi, saggi di psicologia, i grandi classici della letteratura. Solo alla sera perché “sembra paradossale ma non ho molto tempo libero: cucino, distribuisco i generi all’interno del carcere, tengo la contabilità e pulisco”. E spera in futuro di concludere gli studi e potersi laureare in Psicologia. E se sogna un futuro diverso fuori da lì, sul passato non cerca alibi. “Non esistono scuse per giustificare quello che ho fatto”. Ma pensa che molti ragazzi come lui rischino di fare i suoi stessi errori se non trovano qualcosa che incanali nel modo giusto le loro energie. Così lancia un appello alle istituzioni: “Investite sui giovani. Aumentate le opportunità formative e i centri di aggregazione. Si potrebbe spingere i ragazzi ad avvicinarsi a uno sport, per tenerli impegnati e perché imparino i giusti valori”. E crede che quello che manchi in alcune zone sia un’adeguata attenzione da parte delle istituzioni e i servizi necessari. E bisogna scongiurare “la dispersione scolastica”. Tutte azioni necessarie perché “bisogna far capire a ogni singola persona che non è abbandonata a se stessa”. E che c’è sempre un’altra scelta. Il conformismo ha bisogno di nuovi nemici di Marco Damilano L’Espresso, 9 ottobre 2018 La necessità continua di qualcuno da odiare e far odiare. Che siano i migranti, l’Europa, i giornali, i tecnici. Solo così riescono a perpetuare la loro narrazione tossica. Alla fine, è tutta colpa dei giornali. Lo ha scritto il vicepremier del governo Conte, il manciuriano Luigi Di Maio sul blog del Movimento 5 Stelle: “La perfetta manovra maldestra”, “Sull’euro una partita pericolosa” (Corriere), “Mattarella, primo stop al governo”, “I diritti dopo di noi” (Repubblica), “La classe media dimenticata” (La Stampa), “La tassa di cittadinanza” (Il Giornale). Tutti i giornali di partito hanno dichiarato guerra alla Manovra del Popolo perché fissa il deficit per il prossimo anno al 2,4 per cento. Il Pd e Forza Italia non riescono a fare un’opposizione politica e quindi con i loro giornali creano terrorismo mediatico per far schizzare lo spread sperando in un altro colpo di Stato finanziario: sono degli irresponsabili nemici dell’Italia”. Ecco dunque svelati i veri nemici del popolo, i nemici dell’Italia: i giornali, anzi, i “giornali di partito”, tutti insieme. In questa convinzione il ministro e numero due del governo, di cui il numero uno Conte è in realtà sottosegretario dei suoi vice, come ha detto l’anziano saggio Rino Formica, conferma di essere un politico di vecchio stampo e di scarsissima fantasia. Arrivati dalla parti di Palazzo Chigi, furono contro i giornali e il loro disfattismo tutti i suoi predecessori o quasi, compresi i più recenti, a partire dall’odiatissimo Matteo Renzi che invocava la categoria del disfattismo per bollare gli avversari. In questo caso, il Governo del Cambiamento non ha cambiato nulla, come in tutto il resto, a parte alcune argomentazioni da Ventennio che mettono in rete i volenterosi candidati al neo-ministero della Cultura popolare: “Da giorni i giornali paventano bancarotte ed abissi, denigrano i capi politici gialloverdi per minarne la credibilità. Gli investitori non conoscono lo stato da terzo mondo in cui versa la stampa italiana e non sanno che se i fascisti non stanno affatto tornando nel Belpaese, in compenso gli sfascisti non se ne sono mai andati. Il compito degli sfascisti della stampa è quello di raccontare la svolta gialloverde italiana per quello che è invece di spargere badilate di concime ai quattro venti”, scrive uno di questi aspiranti Starace, instancabile distributore di veline agli odiati giornali. Il compito della stampa, del giornalismo libero, autonomo, indipendente, dunque, sarebbe quello di aggiungersi alla Propaganda di governo, fare da gregari alla grancassa che già può contare sui formidabili e potentissimi balconi e balconcini social da cui si emette la voce dei nuovi potenti e che vedrà nei prossimi giorni aggiungersi la Rai del nuovo presidente Marcello Foa (per un lapsus, o per una certa somiglianza, stavo per scrivere Marcello Pera, me ne scuso con gli interessati). Non bastano il consenso registrato nei sondaggi e il dimezzamento di certi giornalisti che oggi sembrano ambire a entrare nello staff di Rocco Casalino dove si lavora anche a ferragosto ma la paga è ottima, il silenzio dello star system. E non basta neppure il vento appiccicoso di conformismo di cui si è autoproclamato campione il presidente della Confindustria Vincenzo Boccia, quando di fronte a una platea di imprenditori a Vicenza ha tenuto a precisare che l’associazione, in ogni caso, sta dalla parte della Lega. Una dichiarazione di subalternità superata soltanto da quanto rivelato da Alessandro Trocino sul Corriere della Sera (30 settembre): “Boccia in questi mesi ha cercato più volte al telefono Di Maio, provando a far leva anche sulle comuni origini campane. Ma il leader dei 5 Stelle ha respinto le avance”. E non si sa se sia più suggestiva l’immagine del presidente degli industriali costretto a rivendicare la corregionalità per interloquire con il capo politico del primo partito italiano o quella del ministro del Lavoro e dello Sviluppo che rifiuta di parlare con il capo della Confindustria. Sta di fatto che, dopo gli applausi di Cernobbio a Salvini, il Boccia prostrato di fronte al capo della Lega è la prova della debolezza degli ex poteri forti, così deboli e in cerca di riconoscimento da non poter neanche più essere invocati come ostacoli sulla strada del governo del cambiamento. E invece al governo Salvini-Di Maio serve un nemico, perché è il nemico che garantisce la bontà delle politiche dei gialloverdi, più ancora che la qualità delle proposte. Matteo Salvini il suo nemico l’ha scelto da sempre: il più scontato, il più comodo e anche il più indifeso. Lo straniero, il migrante, il profugo, il richiedente asilo. Da seguire passo passo, in ogni tappa di avvicinamento e di contatto con il nostro Paese. Prima, il Mediterraneo, con i casi della nave Aquarius e della nave Diciotti. Poi, la permanenza sul territorio italiano, di cui si occuperà il decreto sicurezza. E poiché lo straniero non può bastare, nemici sono tutti quelli che aiutano gli stranieri a sbarcare (le Organizzazioni non governative) o li accolgono nei comuni italiani. E nemici sono quelli che accolgono, come dimostra lo spontaneo, istintivo festeggiamento del ministro dell’Interno per l’arresto di Mimmo Lucano, il sindaco di Riace, che “ha travalicato il concetto rigido e autoritario della legalità applicando un principio ben più rivoluzionario: la giustizia sociale”, scrive Giovanni Tizian. Un festeggiamento che svela, se ce ne fosse ancora bisogno, il volto più genuino del salvinismo: una legalità che si applica senza mezze misure ai deboli e che non deve toccare i forti. Siamo sempre per la legalità, una legge misurata e rispettosa delle persone come si addice a uno Stato democratico, e questo vale anche per Mimmo Lucano. Ma il ministro che si dimostra rigido interprete del rispetto delle leggi è lo stesso che due settimane fa ha attaccato su Facebook la magistratura siciliana che lo ha indagato e che non ha dimostrato altrettanta sensibilità e coerenza quando si è trattato di restituire allo Stato i milioni oggetto di truffa incamerati dal suo partito. Sembra originale, Salvini, invece ripercorre le orme del suo leader di riferimento, il premier ungherese Viktor Orbán. Chi lo ha incontrato racconta che il capo dei sovranisti porta sempre con sé in tasca una mappa del suo Paese in cui c’è una sovrapposizione di colori e percentuali che piacerebbe moltissimo al nostro Ilvo Diamanti: la quota di voti per il suo partito Fidesz e le zone in cui è più alta l’immigrazione. Sorpresa: più sono gli immigrati, meno è alta la percentuale dei voti per gli orbaniani e i sovranisti. Il premier ungherese mostra la mappa con soddisfazione, con un sogghigno. Per lui è la conferma che bisogna andare avanti con la politica della paura, anche quando i migranti non ci sono. È lo stesso paradosso per cui nel 2016 in Inghilterra la multietnica Londra votò per restare in Europa e i sobborghi dove non si incontra uno straniero da secoli si schierarono per la Brexit. In Ungheria, cinque mesi fa, è stata approvata una legge che prevede il carcere per chi aiuta i migranti entrati irregolarmente nei confini nazionali. L’Italia di Salvini si allinea. Per il Movimento 5 Stelle la ricerca del nemico è più complessa. La povertà come nemico sembra da un lato eccessivo e dall’altro grottesco. Sull’Europa c’è la concorrenza dei pasdaran leghisti, come il presidente della Commissione Bilancio della Camera Claudio Borghi che con un proclama butta giù il valore dell’euro sui mercati mondiali. Restano i tecnici del ministero del Tesoro, con la mega-vendetta annunciata via whatsapp dal portavoce di Palazzo Chigi Rocco Casalino. E resta la stampa non allineata, da indicare come nemica della Patria e del Popolo a un elettorato che evidentemente viene percepito come in difficoltà. La discesa dei consensi e la concorrenza sempre più prepotente della Lega di Salvini spingono Di Maio sulla strada del tutto e subito. Vedi il balletto delle cifre del Documento di programmazione economica e finanziaria Def: prima il rapporto deficit/Pil fissato al 2,4 per cento per i prossimi tre anni, poi solo per il 2019 e si vedrà. Una prospettiva di breve respiro che fotografa l’incertezza politica. Nelle ultime settimane il vicepremier del M5S, il lato debole del governo forte, si sta interrogando se valga la pena continuare su una strada che porta benefici e consenso solo all’avversario. Di qui la scelta di investire tutto sul tesoretto della manovra, con il fantasma del reddito e della pensione di cittadinanza che fa inorridire gli ortodossi della Lega come il sottosegretario Giancarlo Giorgetti e l’uomo del Carroccio nel ministero di via XX Settembre Massimo Garavaglia, ma che fa esultare la tifoseria dei 5 Stelle, i parlamentari chiamati a dimostrare la loro esistenza acclamando Di Maio sotto il balcone di Palazzo Chigi. La decisione del tutto e subito anticipa un anno di campagna elettorale, di qui alle consultazioni europee di primavera, in cui si voterà anche per le regioni Abruzzo, Basilicata, Sardegna, Piemonte, oltre che le ormai vicine elezioni in Trentino Alto Adige (21 ottobre) e per le amministrative di maggio-giugno. In quale di queste sfide il Movimento 5 Stelle può dire oggi di essere sicuro di vincere? Forse in nessuna, o solo in Sardegna. Mentre la Lega rischia di prendere tutto. Ecco perché M5S è costretto in questi giorni ad abbandonare la grisaglia ministeriale e a tornare allo spirito delle origini, anti-istituzionale. Incarnato anche dal ministro Riccardo Fraccaro, più silenzioso dei suoi colleghi, che ha presentato le sue proposte di riforma costituzionale: taglio dei parlamentari e soprattutto introduzione del referendum propositivo senza quorum. Anche in questo il Movimento non fa eccezione rispetto ai predecessori al governo: appena cominciano le difficoltà politiche si scarica la colpa sulle “istituzioni che non funzionano”. Giuseppe Conte rimette il mandato: è l’atto finale di una crisi che non è mai stata soltanto di governo, ma di sistema. Che il presidente della Repubblica è stato lasciato solo ad affrontare nella sua complessità e gravità. Un ritorno alle giornate più drammatiche della nascita del governo Conte, quando Di Maio si spinse a chiedere l’impeachment del presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Come accadde quella sera di fine maggio, il Quirinale si ritrova lasciato solo nel mezzo della tempesta politico-finanziaria che surriscalda i mercati e turba l’Europa. Allora il piano B per Mattarella fu lo spostamento di Paolo Savona dal ministero del Tesoro a un dicastero in apparenza meno importante. Oggi quella strada è preclusa e in un primo momento dal Colle è arrivato un consiglio per Giovanni Tria: restare al ministero del Tesoro, costi quel che costi. Ma è solo l’atto iniziale della partita che si gioca sulla legge di Bilancio e che arriverà fino alle elezioni europee del 2019. Una partita in cui chi ha a cuore l’Italia dovrebbe augurarsi spiriti coraggiosi e non fiochi, giornali e giornalisti che siano nemici del conformismo e non del popolo. E qualche leader che sia degno delle piazze che si sono viste a Roma e a Milano nell’ultimo fine settimana e che torneranno a riunirsi accanto - si spera - a tante altre. Migranti. Diario di bordo dalla Mare Jonio. I metodi inusuali della guardia costiera libica Il Manifesto, 9 ottobre 2018 Almeno sette interventi delle autorità libiche, maltesi e tunisine sono avvenuti con metodi inusuali. La volontà è non cooperare con chi è in mare per salvare vite umane. Un’altra giornata di pattugliamento e monitoraggio nel Mediterraneo centrale: ci siamo mossi per tutto il giorno lungo il parallelo che separa le zona Sar maltese e libica, pattugliando il tratto di mare che sta tra le 80 e le 60 miglia a nord della città libica di Zuwarah. In queste ultime 24 ore ci sono stati almeno sette interventi delle tre guardie costiere che operano in questa zona, quella libica, la sedicente guardia costiera libica dato che manca del tutto delle adeguate imbarcazioni e dell’adeguata capacità di intervento e dedita essenzialmente alla caccia dei battelli dei migranti, quella maltese e quella tunisina. Almeno sette interventi che hanno coinvolto più di trecento migranti in viaggio. Come abbiamo cercato di denunciare, si tratta di interventi che con una prassi inusuale rispetto a norme del salvataggio in mare, sono stati annunciati solo quando sono stati conclusi, interventi che, contravvenendo alle più elementari norme del diritti marittimo, sono stati tenuti nascosti finché non si sono conclusi. Già sabato avevamo detto che il primo intervento da mesi maltesi era stato comunicato alle 16.20 quando l’evento del gommone in difficoltà era noto fin dalle 10 del mattino. Il secondo intervento avvenuto domenica da parte dei maltesi non è stato neppure comunicato lungo i canali che dovrebbero essere utilizzati per questo. Eppure tutti sanno che noi stiamo operando in questo tratto di mare e siamo pronti a intervenire per operazioni di soccorso. Non a caso ieri mattina abbiamo ricevuto una chiamata dall’aereo dell’operazione “Sofia”, del comando unificato europeo, un aereo con bandiera del Lussemburgo che opera in ricognizione lungo questo tratto di mare. Ci ha sottoposto a un vero e proprio interrogatorio sulle persone, i dati e siamo stati ben felici di prestare la nostra collaborazione mettendoci a disposizione di questo ricognitore dall’alto nel caso avesse segnalazioni da inviarci. Ma per tutta la giornata da parte di tutte le autorità, la radio ha taciuto, dimostrando la mancanza di volontà a collaborare con chi come noi si trova in mare pronto a intervenire. Abbiamo occupato il nostro tempo continuando le esercitazioni sul Rib e completando i protocolli sanitari con l’inventario di tutti i medicinali che abbiamo a bordo. L’Australia caccia Medici senza Frontiere dall’isola-prigione di Nauru La Regione, 9 ottobre 2018 Medici senza Frontiere esprime preoccupazione sulla salute dei profughi. In Europa, Erdogan è partito per una visita di due giorni in Ungheria. “L’emergenza medica a cui stiamo assistendo a Nauru è un disastro umanitario”: lo afferma il portavoce della Refugee Action Coalition, Ian Rintoul, riferendosi al minuscolo isola-Stato di Nauru, nel Pacifico (11.300 abitanti) dove sono trattenuti a tempo indefinito 900 profughi, fra cui 109 minori, provenienti da Paesi asiatici come Birmania o Sri Lanka, ma anche da Iraq, Siria, Somalia, Sudan e Afghanistan, intercettati dall’Australia nelle sue acque territoriali. Nonostante l’aggravarsi della situazione sull’isola, dove i tentativi di suicidio e il rifiuto di alimentarsi, soprattutto tra i minori, sono in preoccupante aumento, il ministero della Sanità ha intimato a Medici senza Frontiere (MSF) di cessare immediatamente le sue attività, che comprendono fra l’altro una clinica per sofferenti psichici e servizi a domicilio. Il personale della Ong addestra anche volontari ad affrontare i problemi di salute mentale che affliggono sia profughi che residenti. In una nota il governo di Nauru ha fatto sapere alla ong che i suoi servizi “non sono più richiesti”. “MSF desidera confermare il suo forte impegno a fornire cure professionali di salute mentale a tutti quelli che ne hanno bisogno nell’isola”, ha detto un suo portavoce. “Siamo estremamente preoccupati per l’impatto di questa decisione sulla salute dei nostri pazienti e chiediamo alle autorità di consentirci di continuare il nostro lavoro salvavita”. Dall”Europa, invece, Il presidente turco Recep Tayyip Erdogan parte stamani per una visita di due giorni un Ungheria, dove incontrerà il suo omologo Janos Ader, il capo del governo Viktor Orban e il presidente del Parlamento Laszlo Kover. Al centro del viaggio, fa sapere il suo ufficio, ci sono le relazioni bilaterali, con particolare attenzione agli aspetti politici, economici e di sicurezza, e le principali questioni regionali e internazionali. In agenda in particolare i rapporti tra Ankara e l’Ue alla luce della questioni migratoria. Erdogan parteciperà inoltre alla cerimonia di riapertura della tomba di Gul Baba del periodo ottomano a Budapest e visiterà un cimitero per le vittime della prima guerra mondiale. Pakistan. Sentenza rinviata, Asia Bibi rimane in carcere La Repubblica, 9 ottobre 2018 La Corte Suprema di Islamabad ha rinviato la sentenza della condanna a morte di Asia Bibi dopo aver ascoltato l’appello della difesa contro l’esecuzione. La data per il verdetto non è stata ancora decisa. L’udienza è durata quasi tre ore e si è tenuta davanti a tre giudici che hanno anche ammonito i media “a non discutere del caso”. Il presidente della Corte ha dichiarato di aver rilevato alcune discrepanze nella versione dell’accusa e delle testimonianze. Il Pakistan ha una delle leggi sulla blasfemia più dure del mondo: nata per proteggere l’Islam, la religione di Stato, per le ong è stata usata per perseguitare le minoranze religiose. Dal 1990 62 persone sono state uccise come risultato di accuse di blasfemia, secondo l’Economist. La cristiana Bibi è la più famosa fra i condannati a morte per blasfemia. Si è sempre detta innocente. L’episodio che l’accusa accadde nove anni fa. Una presunta “blasfemia”, una frase buttata lì durante un battibecco con altre lavoratrici stagionali di un frutteto nel Punjab che l’avevano umiliata per aver bevuto un bicchiere dal pozzo a lei proibito, in quanto “infedele cristiana” e quindi “impura”. Lei in quel caso avrebbe detto, secondo le testimonianze: “Credo nella mia religione e in Gesù Cristo, morto sulla croce per i peccati dell’umanità. Cosa ha mai fatto il vostro profeta Maometto per salvare l’umanità?”. La famiglia presentò ricorso e in molti si mossero per la liberazione della condannata e per la revisione della legge contro la blasfemia, tra i quali l’allora governatore del Punjab e futuro possibile primo ministro, Salmaan Taseer, musulmano, che si recò anche a visitarla in carcere. Ma il 4 gennaio 2011 Taseer fu ucciso da una delle sue guardie del corpo, Mumtaz Qadri, proprio per rappresaglia contro questo suo impegno. Afghanistan. Non è un paese sicuro, l’Europa cessi i rimpatri di Riccardo Noury Corriere della Sera, 9 ottobre 2018 Secondo dati diffusi dalle Nazioni Unite a luglio, l’Afghanistan è il secondo paese più pericoloso al mondo: nei primi sei mesi dell’anno i civili uccisi sono stati 1692, il numero più alto da quando, 10 anni fa, è iniziato questo triste conteggio. I feriti sono stati 3430. Dal 2014, ogni anno, le vittime civili tra feriti e uccisi sono state oltre 10.000. In altre parole, 40.000 negli ultimi quattro anni. Eppure, nello stesso periodo, alcuni paesi europei hanno persino aumentato il ritmo dei ritorni forzati degli afgani. Compresi gli hazara, minoranza perseguitata da tempo immemore, di cui parla il film “Sembra mio figlio” di Costanza Quatriglio, da fine settembre nelle sale italiane e questa sera proiettato alle 21 al cinema Apollo Undici di Roma, alla presenza della regista e dell’intero cast. La vicenda di Taibeh Abbasi, lei stessa hazara e nata da genitori in esilio, che la Norvegia intende “rimpatriare” in un paese in cui non è mai stata, è emblematica del cinismo con cui i governi europei stanno giovando con la vita di migliaia di persone, rimandandole nel bagno di sangue afgano. Per chiedere una volta per tutte di smetterla di considerare l’Afghanistan un paese “sicuro”, domani Amnesty International, il Consiglio europeo per i rifugiati e gli esiliati, Save the children e la coalizione “Non rimandate indietro gli afgani” manifesteranno di fronte al Parlamento europeo facendo volare degli aquiloni rossi in cielo in occasione di una riunione tra i parlamentari e la Commissione europea dedicata a questo tema. Bahrein. Amnesty International: “cure mediche negate ai prigionieri” di Riccardo Noury Il Fatto Quotidiano, 9 ottobre 2018 Da una ricerca condotta in Bahrein da Amnesty International sul trattamento sanitario di 11 prigionieri è emerso un quadro di grave negligenza, ritardi immotivati e decisioni arbitrarie da parte della direzione delle prigioni di Jaw (2mila 500 detenuti e due medici in tutto che si alternano nei turni) e Isa Town, le principali del piccolo regno del Golfo persico, già noto a chi segue questo blog per la dura repressione seguita alla rivolta del 2011, per le condanne dei prigionieri di coscienza, per l’uso della tortura e per la privazione arbitraria della cittadinanza. Detenuti malati di cancro, persone colpite da sclerosi multipla o affette da anemia falciforme non ricevono cure mediche specializzate e vedono così la loro salute e la loro stessa vita messe a rischio da un sistema penitenziario che non perde occasione per mostrare il suo disprezzo per i diritti umani. Uno dei casi più assurdi descritti nella ricerca di Amnesty International è quello di Elyas Faisal al-Mulla, cui nel 2015 è stato diagnosticato un cancro al colon al terzo stadio. Ricoverato il 1° agosto dopo due mesi che vomitava sangue, è stato rimandato in cella pochi giorni dopo una biopsia e, sempre in carcere, ha dovuto fare un intero ciclo di chemioterapia mentre gli appuntamenti per le visite di controllo venivano continuamente rimandati. Il 7 agosto di quest’anno gli sono state prescritte altre medicine che, alla fine di settembre, era ancora in attesa di ricevere. Il detenuto affetto da anemia falciforme, Ahmed Merza Ismaeel, soffre dal 2016 di calcoli e ha i livelli di emoglobina e di bilirubina rispettivamente troppo bassi e troppo alti. L’ultima visita in ospedale risale al gennaio 2017. Nell’estate dello stesso anno è stato costretto con la minaccia delle percosse e dell’isolamento carcerario ad annullare “volontariamente” una visita medica. Un detenuto ha perso sette denti per il rifiuto di concedergli una visita odontoiatrica (da sottolineare che i primi due gli erano stati rotti durante un pestaggio in carcere), un altro è entrato in carcere nel 2014 con un supporto di ferro in un braccio che avrebbe dovuto essere rimosso una volta che l’arto fosse guarito, ma la cosa non è ancora avvenuta. Nella sezione femminile della prigione di Isa Town vi sono detenute con cisti al seno e diabete che non ricevono cure adeguate. I meccanismi di facciata istituiti dalle autorità del Bahrein di fronte alle (scarse) proteste internazionali, il Difensore civico presso il ministero dell’Interno e l’Istituzione nazionale per i diritti umani, si rivelano del tutto inefficaci. Il regno del Bahrein gioca con la vita dei prigionieri ma a nessuno pare importare. Bulgaria. Giornalista uccisa, indagava sulla corruzione. Arrestati i suoi colleghi di Gilda Maussier Il Manifesto, 9 ottobre 2018 Viktoria Marinova, conduttrice del programma tv Detektor, stava lavorando ad un’inchiesta sulla corruzione. Arrestati i suoi colleghi. Per il ministro dell’Interno bulgaro Marinov l’omicida sarebbe un maniaco. A fine settembre aveva lanciato l’ultima stilettata dal suo programma di inchiesta giornalistica Detektor, sul canale televisivo locale Tvn, con una puntata esplosiva sul sistema di corruzione che esisterebbe in Bulgaria per influenzare le gare europee per i progetti infrastrutturali. La prossima puntata però non andrà in onda perché sabato scorso la giornalista Viktoria Marinova, 30 anni ma già molto nota nei Paesi dell’Est europeo per le sue inchieste scomode, è stata stuprata, picchiata e uccisa in un parco lungo le sponde del Danubio, nella città di Ruse, nel nord della Bulgaria, dove stava facendo jogging. Vari colpi alla testa sarebbero la causa della morte ma sul suo corpo, ritrovato semi nudo, ci sarebbero anche segni di strangolamento. Chi l’ha aggredita avrebbe portato via alcuni suoi oggetti personali, il telefonino, le chiavi dell’auto, parte dei vestiti. Secondo gli inquirenti però avrebbe lasciato molte tracce di Dna, perciò la cattura dell’omicida potrebbe essere imminente. Il ministro dell’Interno bulgaro Mladen Marinov ha subito escluso che l’omicidio abbia a che fare con l’attività di Marinova, che peraltro era moglie del proprietario della Tvn, Svilen Maximov. Si tratterebbe invece, a suo dire, di un maniaco o di un malato allontanatosi dal vicino ospedale psichiatrico. Eppure sono molti a nutrire dubbi sulla “casualità” di quest’omicidio. Nella prima puntata del suo programma Detektor, infatti, Viktoria Marinova ha presentato l’inchiesta condotta dai suoi colleghi Dimitar Stojanov e Attila Biro, rispettivamente cronisti del sito investigativo indipendente bulgaro Bivol e del progetto rumeno Rise. La trasmissione approfondiva il sistema di corruzione e di infiltrazione negli organi decisionali che avrebbe permesso alla holding bulgara Gp Group - “legata ad esponenti dell’oligarchia russa in affari con la Bulgaria”, secondo il sito https://bivol.bg - di ottenere fondi Ue, influenzando gare europee per finanziare progetti infrastrutturali. Ma pochi giorni prima della messa in onda della trasmissione, il 13 settembre, i due giornalisti Dimitar Stojanov e Attila Biro sono stati arrestati, previo sequestro dei telefoni cellulari, mentre stavano cercando di recuperare alcuni documenti del Gruppo Gp e delle loro società di consulenza comprovanti il sistema corruttivo che, sempre secondo il sito Bivol, erano stati sottratti dagli uffici di Sofia e trasportati in un “campo vicino alla città occidentale di Radomir, dove la polizia assisteva all’incendio dei faldoni”. L’ultimo Rapporto sulla libertà di stampa di Reporter Senza Frontiere classifica la Bulgaria al 111° posto su 180, di gran lunga la peggiore nell’Ue, malgrado in Europa lo scorso anno siano stati uccisi già altri due giornalisti: la danese Kim Wall ad agosto 2017 e nell’ottobre scorso la maltese Daphne Caruana Galizia. Dopo l’immediata reazione di sdegno da parte del responsabile per la libertà dei media dell’Osce, ieri anche la Commissione europea ha auspicato “una rapida ed esaustiva inchiesta da parte delle autorità competenti” bulgare. E a Ruse c’è stata una veglia, con numerosi cittadini che spontaneamente si sono radunati sotto il Monumento alla Libertà e hanno chiesto che si faccia subito chiarezza sul reale movente dell’efferato omicidio. Egitto. Il sistema carcerario nei disegni dell’attivista Yassin Mohammed rainews.it, 9 ottobre 2018 “Non fatemi vedere i vostri palazzi ma le vostre carceri, poiché è da esse che si misura il grado di civiltà di una Nazione” è il ben noto adagio di Voltaire. In Egitto un attivista ha deciso di raccontare la sua detenzione in una serie di vignette. Tweet 08 ottobre 2018 “Un giorno, tutto questo dolore passerà”, scrive Yassin Mohammed, uscito il mese scorso dopo aver scontato una condanna a due anni per aver preso parte a una manifestazione di protesta e che ha deciso di raccontare la vita quotidiana dietro le sbarre attraverso il suo blocco da disegno in decine di schizzi e acquerelli che offrono uno sguardo raro e intimo all’interno della tentacolare rete carceraria egiziana. Negli schizzi e negli acquerelli di Yassin i prigionieri egiziani sono stipati in minuscole celle, i piedi degli uni in faccia agli altri e le loro poche cose appese alle pareti. Le scene anguste, definite dalle sbarre e dalle porte chiuse delle celle, catturano in modo ingenuo ma efficace e a tratti commovente la realtà claustrofobica delle carceri egiziane, dove in decine di migliaia sono stati reclusi, spesso per mesi o anni senza alcuna accusa ufficiale, nella più pesante repressione sul dissenso della storia moderna del paese. Yassin dal 2013 entra e esce di prigione, da quando cioè l’esercito ha rovesciato il presidente islamista. Da allora, migliaia sono i fratelli musulmani incarcerati ma molti laici e attivisti democratici alcuni dei quali avevano avuto un ruolo chiave nella rivolta del 2011 che aveva portato al crollo del regime di Hosni Mubarak. Sotto il pugno di ferro del presidente Abdel-Fattah el-Sissi, che come ministro della difesa aveva guidato nel 2013 la presa del potere, il dissenso e le proteste sono perseguiti, centinaia di siti Web sono stati bloccati e sono state varate leggi volte a criminalizzare la diffusione di “notizie false”. Per la maggior parte dei due anni in prigione, Mohammed ha condiviso una cella comune di 15 metri per 6 con altri 30 detenuti, tra islamisti, jihadisti e libertari, tutta gente, racconta al reporter di Associated Press, che si è trovata nel luogo sbagliato al momento sbagliato. Le organizzazioni che si battono per i diritti umani sostengono che gli abusi sui detenuti politici è molto diffuso in Egitto, ma Yassin dice di non aver subito stato abusi fisici, a parte l’essere stato qualche volta spintonato o schiaffeggiato dalle guardie. Il vero tormento è la monotonia delle giornate e la totale mancanza di privacy. La sua unica via di fuga era attraverso l’arte. È riuscito a dipingere rannicchiandosi in un angolo della sua cella dove le guardie non potevano vederlo nel timore che avrebbero distrutto i disegni se li avessero trovati. Un pezzo che lo ha messo nei guai era una caricatura di al-Sisi che gli agenti hanno sequestrato dopo un’ispezione a sorpresa nella sua cella. Le autorità carcerarie hanno deciso di non denunciarlo, ma lo hanno messo in isolamento, una punizione leggera e anzi quasi un sollievo in questo contesto di sovraffollamento per un uomo abituato a passare il tempo nel bagno della cella per avere un po di spazio vitale e di privacy. Nonostante la durezza della vita carceraria alcuni disegni mostrano rari momenti di normalità se non addirittura di bellezza. In uno che raffigura un bagno si vedono i secchi dell’immondizia usati dai detenuti per immagazzinare l’acqua a causa delle frequenti interruzioni. Sul muro del bagno un classico “Per favore, lascia il bagno come vorresti vederlo!” e sopra un variopinto mazzo di fiori regalo della moglie di uno dei detenuti per l’anniversario di matrimonio. In un altro disegno, scatole di cartone trasformate in fioriere penzolano dalle sbarre di ferro lungo un corridoio. Yassin racconta come i prigionieri recuperano le scatole di cartone che le famiglie usano per portare loro il cibo e raccolgono la terra lasciata dai sacchi di patate che arrivano dalla cucina del carcere. “Piante e fiori sono come la vita in mezzo alla morte” dice Yassin il quale nel periodo in cui era recluso ha avuto periodicamente il possesso di un telefono cellulare che gli ha permesso di comunicare con una stretta cerchia di amici sui social media. Nei post che chiedeva ai suoi amici di non condividere per paura di ripercussioni ha descritto la sua routine quotidiana e la claustrofobia della vita in carcere. Da quando è uscito, il 20 settembre scorso, Yassin ha girato per il Cairo a raccogliere i disegni che aveva fatto uscire via via di nascosto e ora vorrebbe mettere su una mostra ma le poche gallerie d’arte rimaste aperte in città è difficile che vogliano esporre queste opere nel timore di ritorsioni da parte delle autorità. Il piano B è mostrarle nel suo appartamento nel centro del Cairo. “Non voglio tornare in prigione, non ci vuole molto per essere rispedito alla prigione”.