Un viaggio avventuroso di Marco Patarnello* questionegiustizia.it, 8 ottobre 2018 La decisione della Corte costituzionale di collocare nelle carceri il suo secondo fronte del viaggio nel Paese reale è un fatto senza precedenti. Un incontro ai massimi livelli (la più alta magistratura ed uno dei carceri più popolosi e delicati d’Italia) fra due realtà prive di contatti. Eppur funziona. Fra applausi scroscianti e qualche silenzio tattico, due mondi lontani, per tre ore, hanno comunicato guardandosi in viso, ricordando che il diritto alla dignità, come il valore della Carta costituzionale, non si arresta sulla soglia di un carcere Perché ora? Perché non prima? A questa domanda posta candidamente, ma con una certa ruvidezza, da Francesco, detenuto di lungo corso, il presidente della Corte costituzionale Giorgio Lattanzi è entrato in crisi e da uomo limpido qual è non ha fatto nulla per nasconderlo. Ed è entrato in crisi non perché non si fosse già interrogato egli stesso sulla stessa domanda, prima di avviare questa piccola rivoluzione, ma perché nonostante ciò non aveva una vera risposta. Perché non c’era. Varcare la soglia di un carcere, particolarmente di un carcere grande e “moderno”, cioè fatto pressoché interamente di cemento armato, come Rebibbia, è sempre un’emozione grande. Lo è per me, che l’ho fatto tante volte, immagino quanto debba esserlo stato per i componenti della Corte. E, a mio avviso, è questa la vera cifra di quello che a me sembra il grande successo di questa bella iniziativa: non suoni blasfemo, ma ciò che i giudici costituzionali hanno ricevuto da questa iniziativa è molto di più di ciò che hanno dato. E non perché abbiano dato poco. Si sono messi in gioco, dimostrando un grande coraggio, accettando una relazione diretta e paritaria cui certamente (e paradossalmente) erano meno abituati dei loro interlocutori. Hanno inverato la più avanzata idea di comunicazione, spiegandosi e spiegando la Costituzione ad un uditorio difficile, che peraltro si è rivelato per nulla ostile e molto interessato ad un’interlocuzione effettiva e limpida; e anche ai contenuti che questa interlocuzione offriva. Ovviamente non tutti hanno utilizzato fino in fondo l’occasione, spezzando con successo la barriera che può separare così profondamente due uomini pur collocati uno di fronte all’altro. Non per cattiva volontà o per presunzione, ma magari semplicemente perché non tutti hanno la stessa freschezza o la stessa capacità empatica o perché rompere le “sbarre” che abbiamo dentro di noi resta comunque una cosa difficile. Per tutti. Anche per questo “gli uomini della Corte” vanno ringraziati di essersi messi in gioco. Ovviamente non tutti si sono spinti fino in fondo sul terreno dei contenuti, raccogliendo tutte le potenzialità giuridiche e “politiche” che alcune domande sollecitavano. Quando Giorgiana ha chiesto senza infingimenti, in sostanza, se l’attualità del messaggio costituzionale, fondato su concetti culturali in continua evoluzione, può comportare solo un allargamento dei diritti o, al contrario, al mutare delle sensibilità esterne (e dunque del contenuto di quelle parole), può significare anche una regressione e, quindi, se l’ordinamento penitenziario attuale può essere “peggiorato” senza violare la Costituzione, nessuno ha potuto o voluto offrire una risposta chiara. Le è stato detto, giustamente, che l’ordinamento penitenziario del 1975 è stato un’attuazione della Costituzione, ma nessuno ha potuto tranquillizzarla che il percorso si può fare solo in una direzione. Del resto noi, noi giuristi, ce l’abbiamo tutti una risposta chiara a questa domanda? Forse noi che scriviamo su questa Rivista sì, abbiamo una nostra risposta. Ma escludo che molti altri intorno a noi l’abbiano. O magari non quella che ci aspettiamo. Del resto gli esempi di “restringimento” dei diritti ci sono stati e non sempre sono incorsi nella mannaia di una bocciatura costituzionale, o magari non ancora. Perché si tratta di questioni complesse. Dunque non mi sento certo di biasimare i giudici costituzionali che lì per lì una risposta non l’hanno trovata. O magari l’hanno trovata dentro di sé, ma non l’hanno restituita esplicitamente a chi pur ne aveva bisogno. Si tratta di una domanda difficile, anzi, si tratta, oggi, della Domanda. E, come in un giallo di tradizione, non se ne può anticipare la risposta. Ma l’iniziativa, nel suo complesso, ha annullato per tre ore quella barriera fra mondi non comunicanti e ha messo uomini e donne così diversi uno di fronte all’altro, sostanzialmente per quello che erano come uomini e donne. Entrambe le parti di questa relazione hanno trovato conferme a cose che si attendevano e hanno scoperto cose che non si aspettavano. Ed è così che Marta Cartabia ha risposto ad Annamaria Repichini “da donna a donna, da mamma a mamma e non ancora da nonna a nonna” che il tema dell’affettività in carcere aspetta di essere declinato diversamente innanzitutto a cura del Legislatore, ma, se posto nel modo corretto e nell’occasione giusta, anche la Corte costituzionale potrebbe trovarsi a dire una parola significativa, perché il diritto all’affettività è compreso nella Carta costituzionale. Ed è così che Giuliano Amato si è fatto sedurre dal suggerimento di Francesco Pagliuca, che invocava un ricorso diretto del cittadino alla Corte costituzionale “come fanno in Germania”, ed ha galoppato veloce fra gli istituti della democrazia tedesca, con la freschezza di uno studente e la competenza di un accademico tedesco, raccogliendo applausi scroscianti, che si sono anche raddoppiati quando, con un paio di pennellate, ha coniugato i valori in gioco intorno alla limitazione del diritto di voto per talune condanne. Certo, nessuno ha potuto togliere a Vincenzo la - paradossale - paura di ciò che lo aspetta “fuori”, dove, al di là delle belle parole, la risocializzazione passa attraverso un lavoro che per un ex detenuto semplicemente non c’è. Ma qualcuno, almeno, ha potuto dirgli, guardandolo negli occhi che il diritto alla speranza nessuno potrà mai toglierglielo. E non è poco. Se intorno al mondo della giustizia è possibile fare comunicazione - interrogativo intorno al quale questa Rivista a breve intende offrire una propria risposta, anzi, intende porre una propria domanda, come nel nostro stile - la Corte costituzionale con questa iniziativa mostra di voler dire proprio la sua. Ricordare in una sede come il carcere di Rebibbia, con la semplicità e la naturalezza con cui lo ha fatto il presidente Lattanzi, che “La Costituzione appartiene a tutti, anche ai detenuti, e la dignità umana è uno di quei valori che vanno salvaguardati pure in carcere” è un gesto semplice quanto potente e considerarlo banale o scontato sarebbe davvero ingenuo. E chi lo ha ascoltato non era un ingenuo. *Magistrato di sorveglianza, Tribunale sorveglianza di Roma Misure alternative solo ai minori detenuti che collaborano con la giustizia di Lorenza Morello Italia Oggi, 8 ottobre 2018 Lo prevede il Decreto sull’esecuzione penale approvato definitivamente dal Governo. Il decreto di riforma dell’Ordinamento penitenziario relativo all’esecuzione penale per i condannati minorenni, trasmesso alle Camere il 24 aprile scorso dal Governo Gentiloni, è stato approvato in via definitiva il 27 settembre scorso dal Governo Conte. Un decreto che però lo stesso esecutivo precedente aveva cambiato, modificando il testo originale dove si prevedeva, per i detenuti minorenni, l’esclusione di qualunque sbarramento all’accesso ai benefici. Si prevedeva che le misure alternative potessero essere concesse dal magistrato qualunque fosse il titolo di reato. Invece il Governo Gentiloni aveva inserito nuovamente il 4 bis anche nei confronti dei minori sebbene questa norma potesse essere facilmente letta come contraria alla delega. Detta legge, infatti, all’art. 85 prevede che i decreti sulle modifiche all’ordinamento penitenziario debbano essere adottati, per i singoli temi trattati, nel rispetto dei principi e dei criteri direttivi contenuti nella delega del governo. Il punto 5, lettera p) indica, in tema di esecuzione della pena nel processo minorile, come principio di riferimento, “l’ampliamento dei criteri per l’accesso alle misure alternative” con particolare riferimento ai requisiti per l’ammissione dei minori al l’affidamento in prova ai servizi sociali e alla semilibertà. A leggere il decreto al capitolo dedicato all’”Esecuzione esterna e alle misure penali di comunità” relativo alle misure alternative alla detenzione per i condannati minorenni e i giovani adulti, si legge, invece, che “Fermo quanto previsto all’articolo 1, comma 1, per i condannati per taluno dei delitti indicati dall’articolo 4-bis, comma 1, della legge 26 luglio 1975, n. 354, e successive modificazioni la concessione delle misure penali di comunità, dei permessi premio e l’assegnazione al lavoro esterno può essere disposta solo se ricorrono i presupposti previsti dai commi 1 e 1-bis dello stesso articolo 4-bis”, che fissa le condizioni per l’accesso ai benefici penitenziari per “certe tipologie criminali dalla spiccata pericolosità”. Pertanto, i benefici e le misure alternative sarebbero vincolati alla collaborazione con la giustizia, anche da parte dei minori, che siano stati condannati per reati di terrorismo o eversione dell’ordine democratico, associazione mafiosa, reati sessuali, favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, associazione per contrabbando e spaccio di stupefacenti. Per dare applicazione alle misure penali di comunità e permessi premio e per concedere l’accesso al lavoro all’esterno, la Commissione, come proposta di parere, si era espressa contrariamente alla previsione dell’art. 4-bis: osservava infatti che sui limiti e gli automatismi occorre riformulare la norma, in quanto così come prevista non poteva ritenersi compatibile con l’orientamento della Corte costituzionale, la quale si è già espressa sul contrasto con la funzione rieducativa della pena e il principio di individualizzazione del trattamento. Qualche piccola modifica anche per quanto riguarda il corpo centrale della riforma. Il Governo ha ricevuto dalla commissione giustizia anche il parere relativo allo schema principale - revisionato e riscritto dal Consiglio dei ministri - della riforma dell’ordinamento penitenziario. Di rilievo gli interventi che riguardano l’aspetto meramente organizzativo intra murario, ivi comprese la gestione degli incontri e delle telefonate. Resta lo sconcerto per l’assenza di considerazione del tema della salute mentale. Attenzione è data anche alla volontà del detenuto, nel caso l’istituto penitenziario lo voglia trasferire in struttura esterna per le cure mediche, così come all’urgenza delle cure che devono avvenire nel minor tempo possibile presso una struttura sanitaria esterna adeguata. Osservazioni sono dedicate anche alla spartizione dei compiti: se i detenuti con patologie croniche saranno in carico al Servizio sanitario, le regioni impongono che sia compito dell’amministrazione penitenziaria assicurare le cure di assistenza sanitaria senza limiti di orario, oltre che garantire lo svolgimento di misure di prevenzione, come ad esempio il diritto allo svolgimento di attività fisica. Il Governo ha modificato il decreto principale della riforma. Eliminato ogni riferimento alle norme europee, tolta la parte dedicata alla sorveglianza dinamica, la perquisizione corporale è stata mantenuta come da vecchio ordinamento, mentre la riforma originale l’aveva cambiato prendendo in considerazione diverse sentenze della cassazione che sottolineavano il rispetto dei diritti fondamentali dell’uomo e il ricorso a tale metodo “solo nel caso in cui sussistano specifiche e prevalenti esigenze di sicurezza interna o in ragione di una pericolosità del detenuto risultante da fatti concreti”. Così come è stata modificata la concessione dei benefici e, addirittura, quello sui colloqui coi familiari: il nuovo testo riscritto prevede di poter favorire i colloqui coi famigliari “ove possibile”, mentre nel testo della riforma originale al posto del potenziale verbo “potere” si leggeva che era un dovere. Anche l’assistenza sanitaria è stata modificata, prendendo in considerazione solo l’aspetto organizzativo: tolta l’equiparazione tra i detenuti infermi di mente con quelli fisici e cancellato anche l’articolo che prevede sezioni adeguate per i detenuti psichiatrici. Diritti dell’uomo, la Corte europea ferma 9 liti su 10 di Marina Castellaneta Il Sole 24 Ore, 8 ottobre 2018 Mancato esaurimento dei ricorsi interni, violazione dei limiti temporali e assenza della qualità di vittima sono le principali cause in base alle quali la Corte europea dei diritti dell’uomo nel 2017 ha respinto il 94% dei ricorsi riguardanti l’Italia, una percentuale sostanzialmente stabile negli anni. Il sistema previsto dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo (che ha appena celebrato il 65esimo anniversario della sua entrata in vigore) permette a ogni individuo leso in un diritto convenzionale di agire dinanzi a un organismo giurisdizionale internazionale, ossia la Corte europea dei diritti dell’uomo. Un sistema che ha permesso di raggiungere obiettivi importanti, ma che presenta sempre maggiori difficoltà di accesso. Almeno stando ai numeri: nel 2017 ben 70.356 ricorsi sono stati dichiarati inammissibili o radiati dal ruolo rispetto ai 36.579 dell’anno precedente, con un incremento del 92%. Un dato, quello relativo alle decisioni di irricevibilità, che coinvolge con forza anche l’Italia: su 2.106 i ricorsi riguardanti Roma presentati nel 2017, ben 1.973 sono stati dichiarati inammissibili o cancellati dal ruolo. Il filtro più severo - L’altissima percentuale di ricorsi irricevibili se da una parte è un segnale evidente della scarsa conoscenza delle procedure, di una certa superficialità nella presentazione senza una preliminare e adeguata considerazione circa l’effettiva sussistenza della violazione di un diritto convenzionale, è anche, però, il risultato delle difficoltà di accesso provocate da regole troppo rigide. Che lo diventano sempre di più perché la Corte, vittima del suo successo, prova ad arginare il flusso innumerevole di ricorsi che provengono da persone fisiche e giuridiche in misura crescente. In questa direzione, le modifiche apportate all’articolo 47 del regolamento della Corte nel 2014 hanno reso più in salita la strada per Strasburgo: i ricorrenti, infatti, sono obbligati a compilare il formulario di ricorso semplificato in modo integrale, allegando sin dall’inizio tutta la documentazione necessaria per l’esame del caso. Le ragioni dello stop - Tra i motivi più frequenti che portano la Corte a dichiarare i ricorsi inammissibili, il mancato previo esaurimento dei ricorsi interni e la non corretta interpretazione della nozione di effettività dei ricorsi secondo la giurisprudenza di Strasburgo. Numerosi i casi in cui non è rispettata la condizione temporale: i ricorsi, infatti, vanno presentati entro il termine di 6 mesi dalla decisione definitiva che, con l’entrata in vigore del Protocollo n. 15, bloccata dalla mancata ratifica dell’Italia, della Grecia e della Bosnia, scenderà a 4 mesi. Anche per il rispetto dei termini, la Corte europea è intervenuta: non basta più presentare una lettera indicando la presunta violazione da parte dello Stato in causa, ma è necessario depositare sin dall’inizio, per interrompere i termini di prescrizione, il ricorso completo. Al tempo stesso, i casi che prima facie sono dichiarati irricevibili dal giudice unico, prima comunicati con una lettera senza motivazione e che forse hanno accelerato il lavoro della Corte a discapito dei ricorrenti, oggi sono trasmessi con una lettera nella loro lingua nazionale e con l’indicazione dei motivi specifici che hanno spinto il giudice a dichiarare il ricorso irricevibile, salvo nei casi in cui nel ricorso siano presenti numerosi motivi di irricevibilità. Così, non superano il filtro di ricevibilità i ricorsi manifestamente infondati o quelli in cui il ricorrente non abbia subito un pregiudizio importante. Poi ci sono i casi di irricevibilità basati sul merito. Troppo spesso i ricorrenti, dimenticando il principio di sussidiarietà proprio del sistema di garanzia, scambiano la Corte europea come un giudice di quarta istanza e chiedono una revisione della sentenza adottata dai tribunali interni, con sicura dichiarazione di irricevibilità da parte di Strasburgo. L’utilità del dialogo - Certo, una maggiore integrazione della Convenzione europea sul piano interno migliorerebbe la situazione. Per rafforzare l’applicazione corretta della Convenzione europea e favorire il dialogo tra corti, nel 2013 è stato adottato il Protocollo n. 16, che ha introdotto un meccanismo grazie al quale le più alte giurisdizioni nazionali potranno rivolgersi alla Grande Camera della Corte europea per un parere su questioni di principio relative all’interpretazione o all’applicazione della Convenzione e dei suoi protocolli. In vigore dal 1° agosto 2018 per 10 Stati membri (l’Italia manca ancora all’appello), il nuovo sistema permetterà di rafforzare la corretta applicazione della Convenzione. Il parere fornito dalla Grande Camera, però, non sarà vincolante anche se è difficile che un giudice nazionale si distacchi dalle conclusioni raggiunte dalla Grande Camera. Confische: Cassazione più severa della Cedu di Marina Castellaneta Il Sole 24 Ore, 8 ottobre 2018 Corte europea dei diritti dell’uomo, Tuheiava c. France. Dialogo tra corti sì, ma talvolta anche botta e risposta serrato tra Corte europea e giudici interni, con una comunicazione che non sempre fila senza ostacoli. È il caso della disciplina sulla confisca urbanistica prevista dal Dpr 380/ 2001 (Testo unico edilizia) che da anni tiene banco e dà vita a un acceso confronto tra Corte europea dei diritti dell’uomo da un lato e Corte costituzionale e Cassazione dall’altro. Il confronto/scontro con Strasburgo sulla confisca ha al centro due aspetti: la natura della misura; la possibilità di disporre la confisca urbanistica dei beni oggetto di lottizzazione abusiva pur in assenza di una sentenza di condanna. La natura penale - Sul primo punto, in particolare con la pronuncia Varvara contro Italia e prima ancora con le sentenze su Punta Perotti, la Corte europea ha stabilito che la confisca urbanistica, in presenza di alcune caratteristiche applicative, ha natura penale, respingendo quindi la tesi della confisca come sanzione di natura amministrativa obbligatoria, indipendente dalla condanna penale, affermata dalla Cassazione sin dal 1990. Scardinato questo principio, il confronto tra Corti si è incentrato sulla necessità di una pronuncia di accertamento della colpevolezza per l’applicazione della confisca. La sentenza Varvara aveva innescato il dibattito tra chi sosteneva che la Corte europea avesse affermato l’impossibilità di applicare la confisca urbanistica senza una preliminare o congiunta decisione di condanna e chi riteneva applicabile la confisca in presenza di un accertamento senza, però, una sentenza di condanna formale per lottizzazione abusiva. La Corte di cassazione aveva sollevato una questione di costituzionalità e la Consulta con la sentenza 49/2015, dichiarata l’inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell’articolo 44, comma 2 del Dpr 380/2001 in materia di confisca edilizia e dei presupposti per l’applicazione in ipotesi di prescrizione del reato, ha affermato che per i giudici internazionali la confisca urbanistica può essere disposta anche senza una sentenza formale di condanna essendo sufficiente un accertamento della responsabilità nella sostanza. Così, per la Consulta il proscioglimento per prescrizione poteva dare vita alla confisca del bene lottizzato. La decisione attesa - Un punto di svolta potrebbe arrivare dalla pronuncia Giem e altri contro Italia, depositata dalla Grande Camera, il massimo organo giurisdizionale della Corte europea dei diritti dell’uomo, il 28 giugno scorso. Sulla necessità di una sentenza di condanna penale la sentenza Giem dovrebbe porre fine alle divergenze con le corti italiane. Da un lato, infatti, la Corte europea ha accertato la contrarietà alla Convenzione dei provvedimenti di confisca malgrado la dichiarazione di estinzione del reato di lottizzazione abusiva, dall’altro lato, però, ha precisato che per applicare la confisca non è necessaria una sentenza di condanna, aprendo la strada all’applicazione anche in caso di proscioglimento dell’imputato dovuto a prescrizione del reato. La pronuncia potrebbe però anche innescare nuovi ricorsi a Strasburgo per la valutazione del requisito di proporzionalità. Anche perché la Grande Camera ha chiarito che tutte le sentenze della Corte europea sono ugualmente vincolanti. Un messaggio alla Consulta che, con la sentenza 49/2015 aveva invece delimitato l’incidenza delle sentenze della Corte europea sull’ordinamento interno alle pronunce pilota o a quelle che affermano un principio consolidato. Droga: connivenza non punibile o concorso nel reato, dipende dal tipo di comportamento di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 8 ottobre 2018 Cassazione - Sezione VI penale - Sentenza 11 settembre 2018 n. 40343. In tema di detenzione di sostanze stupefacenti, la distinzione tra connivenza non punibile e concorso nel reato commesso da altro soggetto va individuata nel fatto che, mentre la prima postula che l’agente mantenga un comportamento meramente passivo, privo cioè di qualsivoglia efficacia causale, il secondo richiede, invece, un contributo partecipativo positivo - morale o materiale - all’altrui condotta criminosa, anche in forme che agevolino la detenzione, l’occultamento e il controllo della droga, assicurando all’altro concorrente, anche implicitamente, una collaborazione sulla quale questi può contare. Lo spiega la Cassazione penale con la sentenza 11 settembre 2018 n. 40343. Fattispecie infatti nella quale è stato rigettato il ricorso avverso la condanna motivata evidenziando che l’imputato, nel manifestarsi disponibile a custodire la droga in casa consegnatagli dall’ignoto detentore originario che doveva allontanarsi, con il proprio comportamento aveva assicurato una oggettiva collaborazione, fornito un evidente sostegno psicologico alla protrazione della condotta illecita altrui, e comunque contribuito con la propria condotta positiva alla materiale detenzione della droga, agevolando l’occultamento e il controllo della stessa. Costituisce principio pacifico quello secondo cui, in tema di detenzione illecita di sostanze stupefacenti, la distinzione tra connivenza non punibile e concorso di persone nel reato va individuata nel fatto che, mentre la prima postula che l’agente mantenga un comportamento meramente passivo, inidoneo a apportare alcun contributo alla realizzazione del reato, nel concorso di persona punibile è richiesto, invece, un contributo partecipativo - morale o materiale - alla condotta criminosa altrui, caratterizzato, sotto il profilo psicologico, dalla coscienza e volontà di arrecare un contributo concorsuale alla realizzazione dell’evento illecito (di recente, sezione IV, 7 giugno 2018, Albanese). Per l’effetto, deve ritenersi la connivenza non punibile in presenza di un comportamento “meramente passivo”, privo di qualsivoglia efficacia causale in ordine alla realizzazione della condotta detentiva altrui, ovverosia in presenza della semplice consapevolezza della condotta criminosa altrui, non caratterizzata da alcun contributo, morale o materiale, volto a favorirla. Mentre il concorso di persone nella detenzione illecita di sostanze stupefacenti, secondo i principi generali, è da ritenere solo in presenza di un contributo partecipativo, morale o materiale, alla condotta criminosa altrui, caratterizzato, sotto il profilo psicologico, dall’elemento psichico del reato che si commette (qui, la coscienza e volontà di detenere la droga) e dalla coscienza e volontà di arrecare un contributo concorsuale alla realizzazione dell’illecito. Tale contributo partecipativo può essere di qualsiasi genere: è certamente ravvisabile, quindi, finanche, nella semplice presenza, purché non meramente casuale, sul luogo dell’esecuzione del reato, quando essa sia servita a fornire all’autore del fatto stimolo all’azione o un maggior senso di sicurezza nella propria condotta (cfr. ancora sezione IV, 24 giugno 2014, Oudi e altro, secondo cui, nella specie correttamente era stato ravvisato il concorso di persone, attraverso una puntuale disamina del ruolo collaborativo - quello di “palo” - svolto dall’imputato). Prestazioni assistenziali, le sanzioni per chi mente di Selene Pascasi Il Sole 24 Ore, 8 ottobre 2018 Dichiarare il falso è reato, si sa. Ma cosa si rischia, esattamente, quando si “bara” sulle proprie condizioni, personali o di reddito, per ottenere benefici assistenziali quali l’indennità di disoccupazione, il reddito di inclusione o, con un occhio al futuro, il reddito di cittadinanza? Intanto, una condanna per truffa - prevista per chi con “artifizi o raggiri” induca qualcuno in errore procurando a sé o ad altri “un ingiusto profitto con altrui danno” (articolo 640 del Codice penale) - e la reclusione da 6 mesi a 3 anni, con multa in una forbice compresa tra i 51 e i 1.032 euro. Pena che lievita da 1 a 5 anni di carcere e multa variabile dai 309 ai 1.549 euro, se il fatto è commesso a danno dello Stato o di un altro ente pubblico (articolo 640, comma 2, n.1). Mentire, quindi, può costare caro ma i crimini, specie quelli legati ai finti licenziamenti e alle assunzioni fantasma, continuano a moltiplicarsi nonostante la stretta sanzionatoria. Probabilmente, il fenomeno è connesso all’accattivante ventaglio di strumenti dedicati al sostegno delle fasce economicamente deboli. Basti pensare ai permessi per la cura dei disabili o alle altre agevolazioni assistenziali per la cui erogazione, è il caso di dirlo, si fanno carte false. Le valutazioni dei giudici - Ma in aula i giudici si fanno guidare dalle circostanze del caso, quali la fedina penale del truffatore o la prognosi sulla recidiva. Così, di recente, a Nocera Inferiore il Tribunale (con pronunce “sorelle” 820, 963, 965, 1065, 1111 e 1115, emesse tutte nel 2018) ha inferto pene oscillanti sui 4 mesi di reclusione e 40 euro di multa ai vari imputati, tra cui un agricoltore, un’addetta alle pulizie ed altri soggetti, colpevoli di aver fatto risultare all’Inps cessazione di rapporti di lavoro, in realtà fittizi, per farsi pagare le indennità di disoccupazione. Tutte ipotesi i cui, vista la natura assistenziale del beneficio, ha escluso l’applicazione delle sanzioni più pesanti (carcere fino a 7 anni) previste dall’articolo 640bis per le truffe finalizzate ad ottenere contributi pubblici a sostegno dell’economia e delle attività produttive. False certificazioni mediche - Ancora, il Tribunale penale di Trento ha comminato, con sentenza 397/2017, 8 mesi di reclusione e 400 euro di multa nei confronti di un uomo, responsabile di aver redatto false certificazioni mediche a giustificazione delle assenze dal servizio per visite e/o prestazioni ambulatoriali - cui non si era mai sottoposto - così procurandosi l’ingiusto profitto costituito dall’indebita retribuzione delle giornate nelle quali si assentava dal lavoro in maniera del tutto arbitraria. Il falso malato - Ma a scontare una condanna per truffa, è anche l’insegnante di educazione fisica che, simulando patologie inesistenti, abbia indotto in errore i medici della commissione Asl tanto da farsi riconoscere invalido in modo assoluto e permanente e, perciò, inidoneo a svolgere la specifica attività di docente di scienze motorie e sportive per assicurarsi la pensione privilegiata Inps (Cassazione, sentenza 16081/2018). Truffa commessa, inoltre, dal dipendente che durante il periodo in cui usufruisce dei permessi retribuiti previsti dalla legge 104/1992 per occuparsi di un familiare affetto da handicap si dedichi ad altro (shopping, viaggi) utilizzando quelle giornate come fossero ferie ordinarie (Cassazione, sentenza 54712/2016) o da chi attesti finte assunzioni per godere dei relativi benefici. Le indennità fantasma - Sfuggirà, invece, al processo per truffa di falsamente indicati con quelli dovuti all’ente (Tribunale di Campobasso, sentenza - trattandosi di condotta punita da apposita sanzione - il datore che falsifichi i registri attestando di aver corrisposto al lavoratore somme a titolo di indennità (di malattia, maternità o assegni familiari) come anticipi effettuati per conto Inps per intascare il conguaglio dei sa 19/2018). Niente truffa, infine, per chi si limiti a tacere un particolare rilevante per non perdere l’assegno sociale qualora non si sia dato da fare, imbrogliando, per rendere credibile la persistenza del diritto al contributo (Cassazione, sentenza 47064/2017). Ad integrare la truffa, dunque, come ben chiarito dai giudici, saranno soltanto gli artifici o raggiri, senza i quali il reato non sussiste. Rifiuto atti d’ufficio, scatta verso il medico se è provato il dolo del reato di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 8 ottobre 2018 Cassazione - Sezione VI penale - Sentenza 13 settembre 2018 n. 40799. Il rifiuto di atti professionali dovuti per ragioni sanitarie, di cui all’articolo 328, comma 1, del codice penale, deve essere verificato avendo riguardo alla sua natura di delitto doloso, senza tracimare in valutazioni sulla colpa professionale sanitaria, che esula dalla struttura psicologica del reato. Lo ha stabilito la Corte di cassazione, con la sentenza 40799 del 2018, e in questa ottica valutativa, peraltro, per individuare il carattere indebito del rifiuto, è nei poteri del giudice di merito controllare l’esercizio della discrezionalità tecnica da parte del sanitario, con la possibilità di concludere che essa abbia trasmodato nell’arbitrio quando tale esercizio non sia stato sorretto da un minimo di ragionevolezza (ciò che nella specie è stato ritenuto a carico di un medico in servizio quale operatore della centrale del 118, cui il rifiuto è stato addebitato perché, nel corso di ben tre successive telefonate avute con i parenti di un paziente, aveva violato le linee - guida relative all’intervista”“ da farsi per stabilire le condizioni di gravità del richiedente, così eludendo l’obbligo di intervento imposto dalla obiettiva gravità delle condizioni del paziente e limitandosi a suggerire l’opportunità di far intervenire la guardia medica). Al di là della soluzione della vicenda sub iudice, la decisione del giudice di legittimità offre l’occasione per puntualizzare i presupposti per la ravvisabilità del reato di rifiuto di atti d’ufficio a carico del medico in servizio presso la Centrale operativa del 118 e, più in generale, a carico di un qualsiasi medico di pronta reperibilità richiesto di un intervento urgente. In proposito, occorre trovare una soluzione equilibrata, che sappia coniugare in maniera satisfattiva i principi sanzionatori penali con l’ambito della discrezionale valutazione tecnica (sul se, quando e come intervenire) riservata al sanitario. Infatti, con la punizione ex articolo 328, comma 1, del Cpdel rifiuto opposto dal sanitario a svolgere la propria prestazione sanitaria non si vuole, né si può, censurare l’ambito di discrezionalità tecnica riservato al medico (sull’an, il quando e il quomodo dell’approccio terapeutico). Tuttavia, il comportamento elusivo e di sostanziale rifiuto può rilevare penalmente ove si dimostri il dolo del reato, ossia la consapevolezza in capo al sanitario della doverosità dell’intervento rifiutato. È ovvio che, ai fini della ricostruzione dell’elemento soggettivo del reato, che presuppone la cognizione di una situazione di urgenza impositiva dell’intervento e il deliberato mancato compimento di tale intervento con la consapevolezza di violare i propri doveri, costituisce “apprezzamento di fatto” la valutazione della sussistenza in concreto della oggettiva rappresentazione, al medico, di una situazione di urgenza sanitaria e della reale percezione, da parte sua, di una rappresentazione di tale tipo. Lombardia: detenuti, prove di lavoro. Tra livelle e cazzuole nascono muratori di Marzia Paolucci Italia Oggi, 8 ottobre 2018 L’obiettivo di Programma 2021, progetto a più mani. Detenuti alle prese con utensili da muratura come livelle, scanalatori, distanziometri e cazzuole per favorirne l’inclusione socio-lavorativa nell’edilizia e in iniziative di sviluppo immobiliare puntando sulla sinergia tra pubblico e privato. È l’obiettivo del Programma 2021, progetto triennale promosso in Lombardia dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria del Ministero della giustizia e dal Tribunale di sorveglianza di Milano. Un progetto a più mani: dal suo capofila, il Provveditorato dell’amministrazione penitenziaria a quello dei privati Lendlease, multinazionale di sviluppo immobiliare che nel Regno Unito ha già realizzato progetti di inserimento lavorativo nello stesso ambito e Milano Santa Giulia SpA in partnership con la precedente. Coinvolti nel progetto anche la Regione Lombardia, Arexpo SpA, società a prevalente capitale pubblico, l’Agenzia nazionale politiche attive del lavoro, Città metropolitana di Milano, la società di ricerca e consulenza Plus Advisory ltd e le fondazioni per l’Innovazione del terzo settore e Triulza. Il programma è rivolto essenzialmente ai detenuti degli istituti di pena del territorio milanese ammessi al lavoro esterno, alla semilibertà, all’affidamento in prova al servizio sociale, ai domiciliari e a chi tra liberi vigilati, liberi controllati e semidetenuti, sia soggetto a misure restrittive della libertà personali limitanti la possibilità di ricerca autonoma del lavoro. L’iniziativa è aperta alle imprese che nei tre anni a seguire, dal 1° luglio 2018 al 30 giugno 20121, vorranno aderirvi garantendo una formazione individuale qualificata e opportunità di assunzione nelle attività immobiliari ed edilizie. Due le fasi previste: una sperimentale di sei mesi e la messa a regime nei due anni successivi, con lo scopo di verificare il modello proposto e garantire la sua replicabilità a livello locale e nazionale. Nella fase pilota, il progetto coinvolgerà dieci detenuti degli istituti milanesi selezionati fra quelli ammessi a lavoro esterno, semilibertà, affidamento in prova al servizio sociale, detenzione domiciliare o in esecuzione penale presso il domicilio. Gli stessi saranno avviati a percorsi di reintegrazione sociale e lavorativa nell’ambito della realizzazione dei progetti di Milano Santa Giulia, Lotti sud e di Arexpo e poi diventeranno una trentina durante la fase di messa a regime. “Il criterio da utilizzarsi è quello di collocare presso ogni azienda aderente al programma almeno un detenuto, ogni 40 posti di lavoro nell’azienda stessa”, riferisce il Protocollo d’intesa del progetto sottoscritto il 26 settembre scorso dal ministro della giustizia Alfonso Bonafede con il presidente della Regione Lombardia Attilio Fontana e il sindaco di Milano Giuseppe Sala riuniti nella Sala Polivalente della Casa Circondariale Francesco Di Cataldo di Milano San Vittore. Il guardasigilli lo definisce “un progetto molto importante, uno dei più virtuosi, in cui il Ministero, assieme a Regione, Comune e società private, porta avanti un piano che riconosce nel lavoro l’unico percorso rieducativo serio ed efficace. Stiamo portando avanti analoghe iniziative in diverse realtà territoriali e continueremo su questa strada perché la rieducazione è fondamentale”. Il riferimento va all’iniziativa romana avviata nel mese di agosto con la stipula del protocollo tra Ministero, Dap e comune di Roma “Mi riscatto per Roma” che vede impegnati nella capitale in lavori di pubblica utilità, una ventina di detenuti della casa circondariale di Rebibbia. In questo caso si è trattato di lavori di potatura del verde nella villa Doria Pamphilj. “Quando si offre ai detenuti la possibilità di assaporare il gusto del lavoro onesto, i dati ci dicono che sanno cogliere l’occasione”, riporta Bonafede, “cercando poi di spenderla all’esterno quando tornano nella società. E questo comporta anche una maggiore sensibilizzazione dei cittadini che normalmente sono abituati a pensare ai detenuti solo in termini di privazione della libertà: vedendoli per strada impegnati in un lavoro, imparano a concepire la possibilità di dar loro una seconda chance. Vorrei affrontare il problema del sovraffollamento delle carceri in modo strutturale attraverso la creazione di un percorso al termine del quale il detenuto che esce non rientra. Questo è interesse di tutti: della comunità, della polizia penitenziaria, della società e quindi delle istituzioni”. Terni: “Viaggio nelle carceri”, la Corte costituzionale arriva a Sabbione ternitoday.it, 8 ottobre 2018 Le carceri tornano al centro dell’agenda politica ed istituzionale del Paese. Centralità che viene confermata dall’iniziativa promossa dalla Corte costituzionale che, dopo il viaggio nelle scuole, propone il viaggio nelle carceri con le prime sei tappe, una delle quali (29 ottobre) toccherà la casa circondariale di vocabolo Sabbione a Terni. “Come per le scuole, anche il ‘Viaggio nelle carceri’ è un fatto senza precedenti nella storia della Corte costituzionale - spiega Donatella Stasio, responsabile della comunicazione della Corte costituzionale - E in continuità con il Viaggio nelle scuole, risponde anzitutto all’esigenza di aprire sempre di più l’istituzione alla società e di incontrarla fisicamente per far conoscere la Costituzione e la Corte costituzionale (la cui esistenza è ignorata dall’85% degli italiani), contribuendo così a radicare, anche attraverso il confronto con gli interlocutori, una solida cultura costituzionale, presupposto indispensabile del nostro stare insieme e di qualunque progetto per un futuro di equità e giustizia. Nella consapevolezza che la legalità costituzionale è, per chiunque, una straordinaria garanzia e al tempo stesso un ineludibile limite. Inoltre, attraversando fisicamente i simboli della separazione, dell’esclusione, della marginalità, i giudici della Corte vogliono anche testimoniare che la Costituzione appartiene a tutti, in particolare alle persone più vulnerabili”. Prima tappa del viaggio sarà Rebibbia, di fronte a circa 250 detenuti, con la lezione del presidente Giorgio Lattanzi, seguita dalle domande dei reclusi a tutti i giudici presenti, in un faccia a faccia sui temi della legalità costituzionale e, più in generale, sulla legalità. Le altre tappe saranno: 15 ottobre, Milano San Vittore, relatore sarà il vicepresidente Marta Cartabia; 19 ottobre, Nisida, istituto penale per minorenni, giudice Giuliano Amato; 29 ottobre, casa circondariale di Terni, giudice Giancarlo Coraggio; 9 novembre, casa circondariale di Marassi a Genova, giudice Francesco Viganò; 16 novembre, casa circondariale di Lecce, sezione femminile, giudice Daria De Pretis. La lezione di ciascun giudice si sviluppa a partire da un frammento di Costituzione e ciascun frammento ruota attorno al valore del libero sviluppo della personalità, valorizzato dalla Corte costituzionale nella sentenza 349 del 1993, dove si afferma che il detenuto, pur privato della maggior parte della sua libertà, ne conserva sempre un residuo, tanto più prezioso in quanto costituisce l’ultimo ambito nel quale può espandersi la sua personalità individuale. Milano: il progetto Officine del caffè contribuisce al reinserimento dei detenuti comunicaffe.it, 8 ottobre 2018 Mario Toniutti, vice presidente di Gruppo Illiria, azienda italiana di riferimento per la distribuzione automatica, ha raccontato al Salone della Csr e dell’innovazione sociale il progetto Officine del caffè avviato nel Carcere di Bollate dal Consorzio Coven. Il Consorzio riunisce 14 aziende del mondo del vending per un fatturato complessivo di oltre 205 milioni di euro. E un totale di circa 1600 dipendenti. Il progetto impiega i detenuti del Carcere di Bollate nella riparazione e manutenzione della macchine Ocs (office coffee system) del Consorzio. Il percorso seguito ha contemplato una fase di formazione in cui i tecnici di Coven, insieme a Lavazza, hanno illustrato le caratteristiche delle macchine da riparare, le varie fasi della manutenzione e le modalità di riparazione/sostituzione dei pezzi. Partiti con 200 macchine del sistema Firma, sono seguite altre 200 macchine di altri sistemi. La fase della formazione è stata fondamentale ai fini del raggiungimento degli standard qualitativi da garantire. Essa ha altresì permesso ai detenuti di acquisire delle capacità lavorative spendibili sul mercato, una volta terminata la reclusione. Un’iniziativa da estendere altri carceri - L’obiettivo di Coven è di estendere ora l’iniziativa anche ad altri carceri in Italia, permettendo a più soci di far parte di questo progetto. È infatti assodato che lavorando in carcere i detenuti acquisiscono delle competenze che li rendono più sicuri e capaci di affrontare il mondo esterno all’uscita di prigione. Un fattore, questo, che riduce notevolmente la probabilità di essere recidivi. L’esperienza di Officine del caffè dimostra l’importanza di una collaborazione costante fra mondo esterno e interno al carcere nell’ottica del reinserimento dei detenuti nella società. Reinserimento che offre oltretutto al detenuto la possibilità di ripagare la società stessa del danno arrecato. Il Carcere di Bollate è sicuramente un’eccellenza per quanto riguarda l’organizzazione del lavoro penitenziario e gli esiti positivi che ne derivano. Questa struttura è nota inoltre per lavorare moltissimo sulla formazione professionale e culturale dei detenuti. Il Salone della Csr (Corporate Social Responsability) e dell’innovazione sociale è il più importante evento in Italia dedicato alla sostenibilità. Esso costituisce un’occasione di visibilità, confronto e networking per le organizzazioni che hanno fatto di questi temi un driver strategico per la crescita e lo sviluppo. Milano: ronde, gli squadristi non sono benvenuti di Pierluigi Battista Corriere della Sera, 8 ottobre 2018 Penso che sia fuori luogo e fuori tempo, spesso retorico e di maniera l’allarmismo democratico su un sicuro ritorno al fascismo, il rincorrersi disinvolto di analogie infondate, il vizio di leggere fenomeni inediti con le categorie collaudate del passato, ma proprio per questo, quando i fascisti reali danno il peggio del loro essere fascisti, vorrei che venisse rintuzzato ogni gesto di prepotenza acclarata, rivendicata, vidimata dagli stessi protagonisti. La squadraccia che si è formata su un treno pendolari tra Bergamo e Milano, per esempio: che orribile parata. Indossano un’uniforme per inscenare una squadra che si ribattezza pomposamente “ronda”, salgono su un treno (hanno pagato il biglietto? Qualcuno ha controllato che non fossero lì sopra abusivamente? Si sono avvicinati al gruppo per controllare il corretto pagamento della tariffa?) per fare servizio d’ordine, passano con stile militare da un vagone all’altro per farsi presunti paladini della sicurezza di passeggeri riluttanti e impauriti. Impauriti, stavolta, non da possibili aggressori e ladri impuniti, ma da chi finge di rappresentare i giustizieri sul binario. Ecco, questo squadrismo è una pagliacciata che contiene potenzialità pericolose. Una pagliacciata pericolosa, che quest’estate è apparsa anche ridicola come testimoniano video eloquentissimi, la “ronda” messa su da un gruppo fascista che su una spiaggia pugliese avrebbe dovuto proteggere i bagnanti dalla torva, rischiosissima, intollerabile presenza dei venditori ambulanti di colore, ma che invece è stata estromessa dall’arenile dagli stessi bagnanti inferociti con i prepotenti sudati a livelli comici. Per dire, poi, che dovrebbero smetterla con questo spettacolo delle “ronde”, che gli squadristi non sono i benvenuti, che nessuno li ha chiamati, che il tema della sicurezza dei treni esige un’adeguata risposta dello Stato. Che il surrogato squadrista non compensa nessuna assenza, ma aggiunge arroganza a prepotenza, pericolo a pericolo. Questo è il fascismo vero, reale, agitato come bandiera dagli stessi squadristi, che una società democratica non dovrebbe tollerare. Questo è il pericolo di una deriva che lo Stato farebbe bene a controllare, per liberare i pendolari dal cappio soffocante di un aiuto non richiesto. Perché le squadracce, anche quando si chiamano “ronde”, sono orribili. Larino (Cb): a 21 anni insegna ai detenuti l’arte della pizza primonumero.it, 8 ottobre 2018 Un mese intenso, dedicato all’arte bianca e in particolare alla pizza. Il ciclo di lezioni e di esercitazioni laboratoriali ha avuto come interlocutori 25 studenti detenuti della sede carceraria dell’Ipseoa “Federico di Svevia” all’interno del penitenziario frentano. Il corso, frutto di un progetto Pon Fse, si è concluso la scorsa settimana con un bilancio più che positivo. Gli allievi sono stati guidati dall’esperto Armando Scalella, 21 anni, giovane termolese: “È stata una bella esperienza, ho avuto l’opportunità di insegnare in modo professionale a persone adulte, con un’età superiore alla mia, un mestiere che ha catturato il loro interesse - commenta Armando, ex alunno dell’Istituto Alberghiero di Termoli - Una chance molto importante per me e per il mio futuro lavorativo. È stato stimolante interagire con il gruppo e averlo reso partecipe di tutto”. Dagli ingredienti per l’impasto alle tecniche di preparazione della pizza, dalla panificazione alla pasticceria, tanti i temi affrontati per una formazione completa che un domani può aprire prospettive lavorative per gli allievi, anche loro entusiasti dell’iniziativa. Pesaro: Extra - Rugby oltre le sbarre, lettera dal carcere di Villa Fastiggi di Giuseppantonio De Rosa* viverepesaro.it, 8 ottobre 2018 Extra - Rugby oltre le sbarre: lettera dal carcere di Villa Fastiggi 08/10/2018 - “Extra - Rugby oltre le sbarre” è il nome del progetto che, settimanalmente dal febbraio 2016, propone attività motoria e conoscenza della “palla ovale” ai detenuti della Casa Circondariale Pesaro - Villa Fastiggi; è realizzato con il patrocinio della Federazione Italiana Rugby e il supporto logistico dell’Asd Pesaro Rugby. A volte crollo sul letto e, quasi privo di sensi, mi addormento provando ancora una lunga sensazione dolorosamente “piacevole”. Il ritorno alla realtà è terribile, non riesci a sopportarlo, quindi ti ripieghi nuovamente in te stesso e cerchi di dormire, di sognare. È strano come a volte, quando la mente si allea con il buio, i brutti ricordi si trasformino in incubi; quanto porto dentro da anni è archiviato in una parte del mio cervello e durante il sonno, se arriva, non ti lascia scampo. Resto inchiodato, prigioniero di quello che la mente rimanda... sono persino arrivato a nominare il sonno come “veleno”; l’oscurità della camera mi regala vuoto e tristezza, accompagnati da silenzio, solitudine e una nuova dose di “veleno”. Il “veleno”, però, ti dà anche la possibilità di riguardare tutta la tua vita passata, ripassando tutto fino alle più piccole minuzie; ti giudichi inesorabilmente e quella solitudine che tanto temevo fuori, mi ha dato la possibilità di arrivare a questo sereno giudizio su me stesso. Interrogarmi sullo scopo della vita, sembrava esagerato e fuori contesto, ma quale fosse il fine del mio giocare a Rugby, era obbligatorio e, apparentemente, più semplice: avanzare per fare meta! Ognuno di noi vuole vincere perché, dicendoci la verità, a nessuno basta partecipare, non più... è nella stessa natura dell’uomo; ciascuno vive per migliorare il proprio “io”, per avere successo, una vita piena di emozioni e tanto altro. A dire il vero io ero uno di quegli uomini, io volevo fare meta... in tutto! Non importava né come, né quante persone avessi scavalcato o quanti amici, compagni di squadra in altri sport, dovessero proteggermi per riuscire nell’intento. Nella mia mente era impressa soltanto la meta, il come lo lasciavo ad altri: io volevo quel punto tutto per me, per la mia gloria personale; ma ora non più. Nella vita fai scelte sbagliate, perdendo gli affetti e ritrovandoti steso a terra come giocando a Rugby; però, se hai forza devi lottare, lo devi a te stesso, ai compagni che ti sostengono e, soprattutto, a coloro che ami. Lo scopri a tue spese e grazie a qualcosa di “Extra”... che più che un corso sportivo in carcere è una condotta di vita. Dura, ma efficace. *Allenatore F.I.R. Coordinatore corso rugby “Extra” “La strada dei Samouni”. Documentario, animazione e 3D per raccontare la guerra a Gaza di Paolo Mereghetti Corriere della Sera, 8 ottobre 2018 Il flim di Stefano Savona, premiato a Cannes, su una famiglia palestinese uccisa dagli israeliani. “Una fiaba nera, cruenta e ingiusta come quasi tutte le fiabe”. Così Stefano Savona definisce “La strada dei Samouni” in un testo pubblicato sulla rivista “Gli Asini” (n. 52, giugno 2018), film premiato a Cannes con l’Oeil d’or per il miglior documentario e adesso distribuito in Italia dalla Cineteca di Bologna: è una fiaba perché “rammenda con un filo fragile e spesso di un altro colore il tessuto della trasmissione della memoria, la trama del tempo quando questa si lacera o semplicemente si consuma nell’uso quotidiano” ed è “nera, cruenta e ingiusta” perché ricostruisce uno degli episodi più tragici dell’operazione “Piombo fuso” nella striscia di Gaza - l’uccisione di 29 membri della famiglia Samouni, nel gennaio 2009 - quello che porterà l’Onu ad accusare di crimini di guerra Israele (con il “Rapporto Goldstone”) e spingerà lo stesso esercito israeliano ad aprire un’inchiesta per accertare le responsabilità di quanto accaduto. Savona era stato uno dei pochissimi stranieri presenti a Gaza durante l’operazione militare israeliana, e aveva realizzato con la sua telecamera un diario quotidiano in rete dell’ultima settimana di guerra (poi confluiti nel suo documentario Piombo fuso). Aveva conosciuto allora i sopravvissuti della famiglia Samouni e iniziato una frequentazione cresciuta negli anni insieme alla convinzione che “quelle storie avrei certo dovuto raccontarle, ma in una maniera e con una temporalità completamente diversa da quella delle testimonianze di guerra”. Perché il problema era questo: come si ricostruisce un fatto di cronaca? Ed è qui che la forza emotiva del film prende forma grazie alla riflessione sui modi con cui la si può esprimere senza tradire la verità, senza edulcorarla o stravolgerla, per cercare di scoprire come il cinema può raccontare la Storia e insieme “rammendare la trama smagliata del tempo”. Per farlo Stefano Savona ricorre a tre generi diversi - l’inchiesta documentaria, il disegno animato e la ricostruzione in 3D -, mescolando tre stili esteticamente lontanissimi l’uno dall’altro e però perfetti per restituire la complessità di quanto accaduto. Il film inizia a colori con le immagini del quartiere Zeitoun di Gaza oggi, ancora segnato dalle ferite dei combattimenti, mentre la piccola Amal cerca nella memoria i ricordi di quello che era accaduto. Con lei parlano altri sopravvissuti - il fratello Faraj e la sua promessa sposa, lo zio Abu Salah, la cugina Muna - e le loro dichiarazioni colpiscono per la concretezza e la durezza di come raccontano la difficoltà della sopravvivenza, la fatica quotidiana, la fine dei sogni e delle illusioni su cui avevano progettato il loro futuro. Nessuna ideologia, nessuna rivendicazione o recriminazione politica: solo fatti. Ma come raccontare quello che era successo nel 2009 dal punto di vista dei Samouni, quando la guerra era entrata con tanta violenza nelle loro vite? Una semplice ricostruzione attraverso le tradizionali forme della fiction sarebbe stata inadeguata: “rifare” il passato avrebbe finito per stridere con la forza delle parole dei sopravvissuti. E così è nata l’idea di affidare il resoconto di quello che avevamo subito le vittime a Simone Massi e alla sua scuola di animazione, che sembra far nascere le immagini scavando nella trama nera dei pastelli. Dichiarando subito la distanza dalle immagini documentarie dell’inizio, per ritrovare la durezza di quelle tragiche giornate attraverso la forza del disegno. A questo punto mancava solo la ricostruzione delle azioni dell’esercito israeliano che Savona ha ricostruito in 3D, nel grigiore delle immagini video, così come erano state viste dall’occhio dei droni, accompagnate da una voce off che ripete i dialoghi registrati (e quindi reali) che mettevano in collegamento i soldati con i superiori. Ecco, La strada dei Samouni è tutto questo: un documentario, una ricostruzione testimoniale e una invenzione poetica, ma il risultato è un’opera emozionante e sconvolgente, bellissima e dolorosa, che usa la forza del cinema e delle sue diverse facce per riannodare le trame smagliate della memoria. Sei bimbi su 10 sono a rischio di violenze in famiglia. “Bisogna intervenire per tempo” di Maria Rosa Tomasello La Stampa, 8 ottobre 2018 In crescita i maltrattamenti nei nuclei dove i genitori vivono in conflitto. Cavallo (giudice minorile): “Serve protezione ai primi segni di contrasto”. L’orrore, troppo spesso, si annida nel quotidiano. Nei luoghi che dovrebbero proteggere e invece nascondono, tra le braccia di chi dovrebbe prendersi cura e invece uccide. Accade il 14 settembre, a Sant’Agata, poco lontano da Scarperia, in provincia di Firenze, dove un uomo di 34 anni, al culmine di una lite con la compagna, accoltella a morte il figlioletto di un anno in braccio alla convivente, e non riesce a colpire la figlia di 7 anni perché la donna le fa scudo con il suo corpo. Accade ancora il 18 settembre, a Roma, in un luogo che non è una casa, ma che dovrebbe essere sicuro e sorvegliato: il carcere di Rebibbia, dove una detenuta tedesca di 33 anni si accanisce contro i due figli, una neonata e un bimbo di due anni, lanciandoli dalla scala della sezione nido. Muoiono entrambi. Ma la cronaca delle violenze sui minori, maltrattati nelle case dai familiari, nelle scuole e nei luoghi dello sport da insegnanti infedeli e allenatori a cui sono affidati, o adescati da pedofili in strada non risparmia nessuna data del calendario. Secondo il rapporto “Liberi Tutti”, primo indice regionale sul maltrattamento dell’infanzia in Italia, nel nostro Paese i bambini subiscono abusi fisici o psicologici soprattutto nell’ambiente familiare: è una percentuale altissima, che conta tra il 60 e il 70% dei minori di età compresa fra 2 e 14 anni. Avviene in famiglia il 90% dei casi di abuso sessuale, di cui sono vittime prevalentemente le bambine. I fattori di rischio evidenziati dal report sono l’elevato tasso di povertà, il basso livello di istruzione dei genitori, consumo di alcol e droga, disoccupazione, con la Campania ultima in Italia (sia per contesto che per i servizi) nella cura e nella prevenzione, seguita da Calabria, Sicilia, Puglia, Basilicata e Molise. A scorrere i dati del Comando Interforze della Polizia di Stato raccolti nel dossier “Indifesa” di Terre des Hommes 2017 (l’edizione 2018 sarà presentata nei prossimi giorni) emerge che i minori coinvolti in casi di violenza nel 2016 sono stati 5.383: ogni giorno in Italia più di due bambini sono stati vittime di violenza sessuale, un numero in aumento tra il 2015 e il 2016 del 6%. Omicidi in crescita Tre casi su dieci tra quelli segnalati alle forze dell’ordine riguardano vittime di maltrattamenti in famiglia, con una crescita del 12% tra il 2015 e il 2016. Allarmante anche l’aumento degli omicidi: erano stati 13 nel 2015, sono saliti a 21 nel 2016. Statistiche drammatiche. Spiega Melita Cavallo, una vita in magistratura come giudice minorile e fino al 2015 presidente del tribunale per i minorenni di Roma: “Nella separazione e nell’interruzione di convivenza gioca un ruolo rilevante il senso di possesso del genitore dichiarato decaduto dalla responsabilità genitoriale, la cui logica è: se i figli non sono più miei, non saranno più nemmeno tuoi. Questa logica perversa - sottolinea - nasce e si alimenta in una cultura di violenza, che può portare al delitto”. Per evitare che i figli restino stritolati in questo meccanismo, afferma, è necessario “intervenire in tempo utile, all’inizio del conflitto familiare, prima che il rapporto si deteriori irrimediabilmente, con strategie di mediazione”. Le leggi a tutela dei minori, sottolinea, esistono e sono efficienti, ma vanno fatte rispettare. “Non servono nuove leggi” “La normativa - insiste - offre una gamma articolata di protezioni in favore del genitore vittima, come il non avvicinamento ai luoghi frequentati dalla donna e dai figli, fino all’accoglienza della donna e dei figli in una casa-famiglia. Non ritengo necessarie ulteriori norme, occorre viceversa assicurare l’implementazione rigorosa delle norme esistenti”. Quella di Taranto, concorda Maddalena Cialdella, psicologa, psicoterapeuta e consulente di tribunale, “è l’ennesimo caso dove i figli vengono utilizzati come strumento, in un gesto estremo di distruzione, per annientare l’altro. Si tratta di uomini che non sono in grado di tollerare la frustrazione e il dolore di una perdita che necessariamente la separazione comporta”. Se l’Europa è travolta dalle liti tra gli Stati di Marco Gervasoni Il Mattino, 8 ottobre 2018 L’immagine dei charter di immigrati in procinto di atterrare dalla Germania sugli aeroporti italiani ci conferma come, ormai, dietro la parola “Unione” prima di “europea”, si celi in realtà il suo opposto. Non una comunità, né tanto meno una “famiglia” ma una compagnia rissosa di Stati in cui, coperti da codicilli da interpretare o peggio dal silenzio, nella speranza che nessuno se ne accorga, ogni governo cerca di imporsi sull’altro, utilizzando la furbizia nel migliore dei casi e i rapporti di forza bruti nel peggiore. In questo caso Berlino starebbe attuando (il condizionale è d’obbligo, visto che il governo tedesco ha pure smentito) i respingimenti secondari, rimandandoci gli immigrati entrati nella Ue dall’Italia, in base a un accordo che il governo tedesco giura essere stato firmato nell’ultimo incontro di Vienna. Mentre il ministero degli interni italiano nega, visto che Berlino non avrebbe ottemperato la condizione prima del patto: che ci appoggiasse nel superamento della operazione Sophia. Da qui la dura presa di posizione di Salvini e la minaccia di chiudere gli aeroporti, cioè di non fare atterrare i charter dalla Germania. Bisogna chiarire che, in base agli sciagurati accordi di Dublino, firmati dall’allora governo Berlusconi, che ne aveva sottostimato gli effetti, già da tempo Germania e anche Francia ci stanno per cosi dire “restituendo” gli immigrati: ma in dosi e quantità modeste. Ora invece la Germania sarebbe passata (o avrebbe intenzione di farlo) ai charter: cioè a espulsioni più massicce e frequenti. Frutto della decisione di tutto il governo Merkel (che comprende anche i socialisti, come noto) e in perfetto tempismo rispetto alle elezioni in Baviera, feudo del ministro degli Interni Seehofer, dove i sondaggi prevedono i suoi cristiano sociali in caduta libera. Se la situazione fosse questa, è evidente che i charter non dovranno e non potranno atterrare sul nostro territorio. La Germania non può comportarsi come se il criterio della distribuzione degli immigrati fosse operativo; perché non lo è. D’altro canto, c’è una contraddizione nella posizione del Viminale: Seehofer sta infatti applicando in Germania lo stesso metodo Salvini, cioè via i clandestini dal territorio nazionale. Solo che, mentre noi dovremmo riportarli in Libia o in Tunisia, i tedeschi li rimandano da noi. Si tratta di un problema, e non piccolo. Anche se poi sorgono altre domande: quando c’erano esecutivi, diciamo così, “non chiusi”, forse il comportamento era diverso? Non avevano sigillato il francese Hollande e l’austriaco Kern le frontiere rispettivamente di Ventimiglia e del Brennero anche se a Roma governava il Pd, appartenente al loro stesso “partito europeo”, quello socialista? E allora perché il mezzo sovranista Seehofer dovrebbe restituire favori al sovranista doc Salvini, se già gli europeisti non se li scambiavano tra di loro? La realtà è che, ancora una volta, attraverso il prisma dell’immigrazione, scorgiamo le aporie della costruzione europea, come è stata architettata. La maggioranza degli elettori, oggi, non vuole immigrati clandestini: non li vogliono i tedeschi, né i francesi né gli italiani, non li desiderano gli elettori di destra ma neppure molti di quelli di sinistra. In Baviera si vota tra poco, e il governo e la Csu per non perdere ulteriormente devono mostrare il pugno di ferro: a sua volta, per non cedere consensi, Salvini ha da mostrare il suo, di pugno. E siccome a votare la Csu sono i tedeschi, mentre a eleggere i leghisti sono gli italiani, tutto si svolge all’interno del perimetro dello Stato nazione, con i suoi confini ben precisi. E con il suo principio di legittimazione: Merkel e Seehofer sono legittimati dal voto dei tedeschi a prendere decisioni sui tedeschi, ma non sugli italiani; e viceversa, Salvini e di Maio sono legittimati dal voto degli italiani a prendere decisioni sugli italiani, ma non sui tedeschi. La contraddizione è tutta qui, è facilmente comprensibile ma probabilmente insuperabile. Se qualcuno ama edulcorare il quadro con oppiacei verbali del tipo il “sogno europeo” o la “famiglia comune”, o peggio pensa di risolvere tutto inveendo contro i populisti, la realtà saprà ben presto risvegliarlo. Migranti. Il governo non spera in nuovi accordi: tutto bloccato fino alle Europee di Marco Galluzzo Corriere della Sera, 8 ottobre 2018 L’idea di ridiscutere il dossier con diversi equilibri. L’intesa con il governo di Merkel era stata trattata per più di un mese, poi era sfumata. “Non succederà nulla sino alle elezioni europee, del resto la Merkel ha deciso di non darci una mano né sui ricollocamenti dei migranti, né sui movimenti secondari. Con l’aria che tira tutto resterà così come è oggi, altro che riforma di Dublino o accordo bilaterale con Berlino”. Nel governo italiano, chi segue da vicino il dossier dei migranti, non si meraviglia affatto del botta e risposta fra il nostro vicepremier e ministro dell’Interno e le autorità tedesche. “In sostanza i tedeschi stanno tentando di applicare un trattato che tutti sanno è ormai lettera morta”, dicono a Palazzo Chigi. Ci sono anche diverse versioni sull’accordo sfumato qualche settimana fa a Vienna, quando il ministro degli Interni tedesco non si presentò, mandando un sottosegretario e Matteo Salvini, all’ultimo istante, non firmò un’intesa che sembrava raggiunta e allo stesso tempo una piccola svolta. Ma che a quanto pare aveva un saldo negativo per il nostro Paese: noi ci saremmo ripresi coloro che vorrebbero fare richiesta di asilo in Germania ma che sono passati prima dall’Italia, e hanno attraversato i confini illegalmente, e in cambio i tedeschi avrebbero teso una mano nel caso di nuovi arrivi sulle coste italiane. Dunque senza quel passo avanti sul ricollocamento di tutti i migranti che l’Italia chiede senza successo. Le istituzioni dei due Paesi trattarono l’intesa per più di un mese, ma alla fine la politica decise, con sfumature diverse, da ambo i lati, che non conveniva a nessuno. Del resto in pochi al momento si fanno illusioni, nemmeno per il prossimo Consiglio europeo: anche il tema dei migranti sarà in agenda, ma non esistono le condizioni per dei risultati. La Merkel è indebolita e non vuole o non può raggiungerli. Parigi si è legata al dito le dispute con Roma sulla materia, che fra l’altro per ora coinvolgono anche la Libia e l’organizzazione a Palermo di una conferenza internazionale sotto l’egida dell’Onu, a novembre. Insomma almeno per un altro anno l’Unione Europea si avvia a gestire il fenomeno delle migrazioni, almeno nel rapporto fra Stati, in ordine sparso. L’unica materia oggetto di regole è Dublino, i richiedenti asilo, ma è di fatto congelato nella sua applicazione pratica, di sicuro per quanto riguarda i movimenti da e per il nostro Paese. Lo stesso presidente del Consiglio lo ha detto più volte e il tentativo di una riforma del Regolamento resterà vano sino a quando non si capiranno i nuovi equilibri politici dell’Unione, dopo le elezioni. Dietro la scaramuccia politica e diplomatica di un charter che dovrebbe riportare in Italia alcuni rifugiati che hanno passato il confine italiano e si sono trasferiti in Germania fa capolino anche la situazione attuale del nostro Paese: Di Maio scommette che l’attuale establishment europeo verrà spazzato via dopo le elezioni Europee, con un voto ampiamente sovranista. Macron, la Merkel, il Ppe e il Pse stanno facendo la scommessa contraria e hanno tutti i motivi per cercare di mettere in crisi il nostro esecutivo, se non il nostro Paese. Lo stesso prossimo Consiglio, che avrà in agenda anche la riforma dei meccanismi di bilancio dell’Unione, con la partecipazione anche di Mario Draghi, rischia che l’agenda comunitaria venga in qualche modo oscurata dallo scontro fra Roma e Bruxelles. Le norme della legge di Bilancio italiana arriveranno infatti nella capitale belga, se Palazzo Chigi vorrà essere tempestivo (anche in assenza di sanzioni per il caso contrario), il 15 ottobre, proprio alla vigilia del Consiglio. Se poi dovessero tardare a maggior ragione il bilancio italiano diventerà oggetto di ulteriore attenzione internazionale. Profughi, quell’aereo fermato mette a rischio la trattativa sui rimpatri a Tunisi Corriere della Sera, 8 ottobre 2018 Ma Roma non può evitare gli arrivi con i voli di linea degli stranieri fuggiti in Germania. C’è un’intesa non scritta che mirava a consentire il rientro in Italia dei profughi fuggiti in Germania, senza alcun attrito tra i due Stati. Finora per trasferire gli stranieri vengono sempre utilizzati gli aerei di linea e al momento dell’arrivo a Fiumicino è la polizia italiana a prelevarli per portarli nei centri di accoglienza. Giungono a piccoli gruppi, massimo cinque o sei. Ma nelle ultime settimane, per cercare di razionalizzare l’uso delle scorte e organizzare al meglio il trasporto nei centri di accoglienza, era stato ipotizzato di usare i charter per il trasferimento di 25 stranieri per volta. E infatti il volo concordato per giovedì 11 ottobre con arrivo nello scalo romano, prevedeva esattamente questa cifra e questa modalità. La procedura in quattro mesi - Se la notizia non fosse filtrata tutto sarebbe filato liscio. Invece quando si è saputo che c’era un aereo “dedicato” che tra pochi giorni sarebbe atterrato, il ministro dell’Interno Matteo Salvini ha deciso di sfruttare l’occasione. E ha seguito lo stesso schema già sperimentato in occasione degli sbarchi: chiusura totale. Una linea dura che però rischia di mettere in mora l’Italia. Il trattato di Dublino obbliga infatti lo Stato di primo ingresso a gestire il richiedente asilo fino al termine della procedura per l’eventuale riconoscimento dello status di rifugiato. E dunque se lo straniero viene rintracciato in un Paese diverso da quello che l’ha registrato per primo, deve essere riportato da dove è andato via. Finora tra Roma e Berlino c’è sempre stata collaborazione, anche per quanto riguarda le scadenze da rispettare. Quando il migrante viene fermato in Germania, ci sono due mesi di tempo per controllare l’identità e scoprire - attraverso la banca dati europea - da dove proviene e dunque formalizzare la richiesta di trasferimento. A quel punto lo Stato di provenienza (nel caso specifico l’Italia) ha altri due mesi per effettuare i controlli e rispondere all’istanza. Se non lo fa, scatta una sorta di silenzio assenso e viene attivata la procedura per il trasporto. Gli arrivi con i charter - Si tratta di persone che hanno chiesto asilo e dunque non possono essere tenute in stato di detenzione. E infatti nei mesi scorsi è capitato spesso che molti di loro, alla vigilia del trasferimento in Italia, siano andati via dai centri di accoglienza tedeschi e siano diventati “irreperibili”. Anche per questo - nel corso dell’ultimo vertice europeo - le delegazioni tecniche di Roma e Berlino avevano valutato la possibilità di utilizzare i charter con un massimo di 25 persone a bordo. In questo modo, si fa notare adesso, sarebbe stato più agevole organizzare sia la registrazione alla frontiera, sia il successivo trasporto nelle strutture di accoglienza. Luoghi dove i profughi rimangono sempre in stato di libertà e dai quali spesso si allontanano proprio perché ritengono l’Italia un Paese di transito, una tappa obbligatoria prima di raggiungere i familiari che si trovano nel nord Europa. Dopo le tensioni delle ultime ore, sembra davvero difficile che si riesca a raggiungere un’intesa per cooperare con Berlino. Anche se questo rischia di ritorcersi contro l’Italia che sta provando a trattare con gli Stati africani - Tunisia in testa - l’aumento dei voli charter per riportare in patria i migranti irregolari. Dopo aver deciso di seguire la linea dell’intransigenza in Italia, sarà infatti arduo ottenere che altri collaborino accettando i voli “dedicati” per rimpatriare gli espulsi. Polonia. La resistenza dei giudici polacchi di Bartosz T. Wielinski* La Repubblica, 8 ottobre 2018 La lista dei nemici di Diritto e Giustizia (PiS), il partito nazional-conservatore che ha vinto le elezioni nel 2015, è lunga. Ci sono politici di opposizione e giornalisti, attivisti, persone del mondo della scienza, della cultura e della finanza. Per sapere chi si trova sulla lista basta dare un’occhiata ai media di destra favorevoli al governo, tra cui il principale programma di informazione della tv pubblica. Dove i nemici vengono descritti come disonesti a cui il governo ha tolto dei privilegi. Il leader del PiS, Jaroslaw Kaczynski, inventa sempre nuove ingiurie contro i suoi nemici, dai “polacchi di qualità inferiore” ai “collaboratori della Gestapo”. Kaczynski segue la regola per cui con il nemico non si discute, ma lo si spoglia della dignità, lo si esclude dalla comunità. La settimana scorsa ha usato il termine “oicofobia” riferendosi ai giudici polacchi. Secondo lui, è una delle malattie di cui essi soffrono e che porta numerose disgrazie. In pratica, Kaczynski ha accusato i giudici di essere dei traditori, intendendo per “oicofobia” l’odio verso la propria patria. Che il leader del partito al governo abbia mosso tale accusa proprio a chi emette sentenze “nel nome della Repubblica” è un fatto senza precedenti. In uno Stato di diritto democratico i giudici sono tutelati in modo particolare. Si possono discutere le loro sentenze, ma non li si può offendere. E perché, dunque, Kaczynski l’ha fatto? Perché i giudici hanno opposto una resistenza inattesa contro i cambiamenti introdotti dal suo partito nel sistema giudiziario, al fine di sottometterlo al governo. C’era da immaginare che il PiS avrebbe preso il controllo della Corte suprema così come ha sottomesso la Corte costituzionale o i media pubblici. Con la nuova legge, entreranno a farne parte uomini, appositamente selezionati, che si assicureranno che l’applicazione della legge in Polonia venga realizzata secondo la presunta “volontà del popolo”. In base alle modifiche approvate e messe in dubbio da Commissione europea e organizzazioni internazionali, oltre un terzo dei giudici avrebbe dovuto usufruire del pensionamento anticipato, inclusa la prima presidente Malgorzata Gersdorf, nonostante la Costituzione polacca garantisca l’inamovibilità dei giudici e stabilisca che il mandato della prima presidente duri sei anni. Tuttavia, non è stato possibile introdurre questi cambiamenti in maniera immediata. Quando i giudici della Corte suprema hanno ricevuto le notifiche di prepensionamento, hanno inviato domande di rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia Ue per sapere se tale procedura sia conforme al diritto europeo. E fino alla decisione definitiva, cioè per almeno sei mesi, la legge approvata dal PiS è sospesa. Il governo ha reagito in modo furioso. Ha accusato i giudici di fare politica, di aver infranto la legge, e minaccia di punirli. Le modifiche del sistema giudiziario prevedono, tra l’altro, la creazione di una speciale Sezione disciplinare, una sorta di frusta per giudici dissidenti. La situazione è grave. Il governo potrebbe prendere con la forza il controllo della Corte suprema. Questo, però, complicherebbe ancora di più le relazioni tra la Polonia e l’Ue. Si è, allora, deciso di colpire i giudici con la propaganda. Del resto, il governo ha ormai grande esperienza nell’insultarli. Dal 2016 i media pubblici cercano di dimostrare che i giudici sono tutti corrotti e rivoltano come un calzino la loro vita privata (oltre a quella dei loro parenti). Che cosa pensare dello stato della democrazia di un Paese in cui il governo agisce in questo modo? *Traduzione di Marco Valenti Svizzera. Orecchie elettroniche in carcere rsi.ch, 8 ottobre 2018 Il Governo prevede di installare apparecchi per rilevare i cellulari alla Stampa e un impianto per captare le conversazioni alla Farera. La sicurezza, anche nelle carceri ticinesi, passa sempre più dall’elettronica. Il Consiglio di Stato prevede di dotare il penitenziario della Stampa di un nuovo sistema di rilevazione in grado di scovare i telefoni cellulari che potrebbero aver superato le maglie dei controlli fisici e la Farera di un impianto per captare eventuali conversazioni fra chi si trova in detenzione preventiva. Le strutture carcerarie, spiega alla RSI il direttore Stefano Laffranchini-Deltorchio, ritengono entrambe le misure necessari ed urgenti per garantire la sicurezza, soprattutto in questo periodo di transizione mentre si ristruttura il carcere cantonale a Lugano-Cadro. Prossimamente sulla questione dovrà esprimersi il Gran Consiglio, chiamato a concedere un credito aggiuntivo di 10 milioni di franchi per manutenzione e risanamento degli edifici di proprietà della Stato. Per le carceri sono stati chiesti complessivamente 840’000 franchi. Una cifra che, oltre ai nuovi sistemi di sorveglianza, comprende anche l’ampliamento della zona colloqui e della palestra per gli agenti.